L'Irrequieto - Numero 36 - Settembre 2017

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36 Settembre 2017 Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris



L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris

© Giacomo Braccialarghe

Settembre 2017 www.irrequieto.eu redazione@irrequieto.eu

In copertina

“L’artista artigiano #1” di Antonio Cribari.

Progetto a cura di Emiliano Cribari


Direzione Alessandro Xenos, Donatello Cirone

Concezione grafica Antonella Restagno

Realizzazione grafica Donatello Cirone

Logo Giacomo Braccialarghe

Informazioni e collaborazione redazione@irrequieto.eu


In questo

numero

di Eva Luna Mascolino

Il racconto degli omini stilizzati “Lucid dream #3”

di Sarianaria Crastolla

di Giampaolo Giudice

Graceless “dentro ai miei vuoti #1”

di Germana Stella

Onestà intellettuale

di Ferdinando Morabito

di Nicola Lonzi “Ninna nanna”

di Fabio Cardetta di Bartolomeo Pampaloni

di Elena Ramella di Iaria Cerutti

di Donatello Cirone di Emiliano Cribari

Il francese inesistente “In the swamps #2”

Dire addio

“Inner life”

Verso le nuvole blu

“L’artista artigiano #1”

di Fiorella Malchiodi L’incontro Albedi di Francesca Ligios “Perdersi”


Il racconto degli omini stilizzati di Eva Luna Mascolino Tu immagina due omini, di quelli stilizzati, che si incontrano su uno sfondo bianco e si trovano simpatici. Capiscono che stanno camminando nella stessa direzione, non lo sanno, ma lo intuiscono, due omini stilizzati qualsiasi, con sole due gambe e due braccia ed un corpicino tutto nero. Uno è più alto (sarà il maschio), l’altro ha una massa di capelli incredibile, sarà la femmina. Dopo un po’ che passeggiano, così, quasi a caso, l’omino più alto propone a quello con tanti capelli di proseguire assieme lungo la direzione di entrambi: in due si sta meglio, lo sanno tutti. Entrambi stanno portando un secchio, fino a quel mo-

“Lucid dream #3” di Siriana Crastolla

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mento il secchio è vuoto, perché gli omini non sanno come riempirlo. Poi, l’omino più alto propone di riempirli entrambi di fiori, portare ciascuno il proprio e tenersi per mano, con quella delle due rimasta libera. L’altro omino accetta, perché già da parecchi minuti aveva in mente un’idea simile (chissà che l’omino più alto non l’avesse capito?), così si mettono in viaggio. Passa qualche ora, l’omino con più capelli è felicissimo e continua a raccogliere fiori, l’altro non è poi così sicuro della situazione in cui si è cacciato e, quasi senza volerlo, ad un certo punto, passando vicino ad una pozzanghera, riempie il secchio di acqua gelida e lo versa addosso all’omino che teneva per mano. Quello resta come paralizzato, poi inizia a gridare, l’omino più alto scappa via. Devono passare parecchie ore prima che l’omino con tanti capelli riesca a riprendersi, ad asciugarsi, a superare lo shock: l’acqua fredda addosso è tremenda, soprattutto se non te l’aspetti, soprattutto se stai raccogliendo fiori e tenendo per mano qualcuno. Nel frattempo, l’omino più alto si guarda indietro e lo vede. L’altro omino, intendo. Lo vede per la prima volta, anche se l’aveva guardato sempre. Lo vede e vuole tornare indietro, di corsa, perché in effetti si è pentito di quel che ha fatto, la mano stilizzata dell’omino pieno di capelli inizia a mancargli. “Ehi, sono io, mi riconosci?”, dice l’omino più alto al suo vecchio compagno di viaggio, quando riesce a raggiungerlo, dopo essere rimasto per un po’ in silenzio. E’ pieno di cicatrici, addosso. “Guarda cos’ho fatto per te, lo vedi? Sono pieno di graffi, ho corso per raggiungerti, adesso però sono tornato per re7


stare, noi andiamo nella stessa direzione, io voglio camminare con te, ti prego! (l’altro resta in silenzio, incerto sul da farsi) Ecco, guarda, ho anche portato un secchio più grande, ti piace? E’ enorme, possiamo riempirlo di fiori, tutti quelli che vuoi, lo porterò io, tu non dovrai fare nulla, solo tenermi per mano, ti va ancora?” L’omino con tanti capelli ha il cuore tenero, e la mano stilizzata del suo unico compagno era meravigliosa, e lei si era ormai affezionata a lui tanto da potergli perdonare qualsiasi cosa. Accetta, con il cuore in mano (anche questo stilizzato, un punticino nero sul corpo, a metà strada fra gambe e braccia), e si affida all’altro omino. Nei primi minuti va tutto bene, i due canticchiano, sono allegri, si tengono per mano. Dopo un po’, però, per quanto affiati i due continuino ad essere, all’omino pieno di capelli inizia a sorgere qualche domanda. Il secchio portato dall’altro si trova lontano dai suoi occhi, i fiori continuano ad essere raccolti sempre, la maggior parte delle volte li raccoglie perfino l’omino più alto, ma quello che regge in mano resta pur sempre un secchio, di cui il contenuto non è visibile, e che una volta conteneva acqua gelida. Questo timore, un po’ irrazionale, è alimentato dal fatto che lui, l’omino più basso, non sta portando nessun secchio e sta lasciando che il carico sia tutto nelle mani dell’altro. Qualche volta, quindi, quando devono lasciarsi la mano perché l’omino più alto deve telefonare a qualcuno e gli serve un arto, o scrivere lunghe lettere (è un omino tanto impegnato, all’omino con la massa di capelli lui sta simpatico anche per questo), l’omino più basso torna ad avere paura. Non è un sentimento che riesce 8


a controllare: è trattato benissimo, si sente felice, al posto giusto nel momento giusto, con l’omino giusto, eppure… Capitano momenti di terrore, inspiegabili apparentemente, e capitano sempre più spesso. L’omino più basso non vorrebbe parlarne con l’altro, si vergogna delle proprie debolezze e crede di poter riuscire a superarle da solo, ma, ad un certo punto, l’immagine mentale del secchio d’acqua gelida è tanto nitida da provocargli i brividi. All’omino scappa di esclamare: “brrr, che freddo!”. “Perché hai freddo?”, gli chiede l’altro. E l’omino non sa bene cosa dire, ormai ha manifestato un sintomo di malessere, che è stato liberatorio, certo, ma che adesso lo mette in una posizione scomoda. L’omino è nel panico, non sa cosa rispondere, tenta di mantenere la calma, di essere lucido, di dare una spiegazione il più possibile veritiera. “Ti sei preso il mio coprispalle e mi è venuto freddo”. L’altro omino resta basito. “Ah, è colpa mia? Ma se tu stesso mi hai detto di sentire caldo, poco fa? Non me lo sarei preso se non me l’avessi detto tu, non trovi? Ecco, tieniti pure il coprispalle, ma non lamentarti più”. L’omino con tanti capelli si rende conto di aver ferito l’altro, pur senza volerlo: in effetti, il freddo può essere provocato da tanti fattori, il mancato coprispalle avrebbe potuto essere uno di quelli, ma forse non lo era e, in quel modo, l’omino più alto si era solo sentito ingiustamente accusato. Non aveva tutti i torti, dopotutto. L’omino capelluto si ripromette di non cadere più nello stesso errore, ma il secchio d’acqua continua ad imperversare nei suoi pen9


sieri come una spada di Damocle, tanto più che lui e l’altro omino devono lasciarsi la mano per minuti sempre più lunghi, non perché lo vogliano, ma perché non possono proprio farne a meno. Allora, non appena ne ha la possibilità, l’omino capelluto stringe la mano dell’altro in maniera esagerata. Qualche volta gli si butta perfino addosso senza preavviso. Si rende conto che l’altro potrebbe stancarsi da un momento all’altro di quel pesante secchio e pensare non valga la pena di portarlo per lei (per l’omino femmina) fino in fondo, di restare con lei fino alla fine, così realizza di non avergli ancora fatto capire del tutto quanto tenga a lui: non vorrebbe si facesse troppo tardi, non vorrebbe sprecare altre occasioni, vive ogni istante come fosse l’ultimo, stringe forte la mano e lo abbraccia di continuo, rallentando il cammino di entrambi. L’omino più alto resta talvolta perplesso da questo atteggiamento: lui è tranquillo, prosegue con il giusto ritmo, più il secchio si fa pesante più lui è soddisfatto di portarlo, per lei e con lei, ma lei continua a credere possa tramutarsi in acqua gelida, qualche volta arriva perfino a sognarlo, ed una notte le tremano le gambe per la paura. L’altro omino se ne accorge. “Perché tremi?”, le chiede. E l’omino non sa bene cosa dire, ormai ha manifestato un sintomo di malessere, che è stato liberatorio, certo, ma che adesso lo mette in una posizione scomoda. L’omino è nel panico, non sa cosa rispondere, tenta di mantenere la calma, di essere lucido, di dare una spiegazione il più possibile veritiera. “Stiamo andando troppo veloci e non pensiamo più l’uno all’altro, tu qualche volta non mi guardi nemmeno e continui a percorrere i tuoi passi, come se io non ci fossi”. Questa volta ha esagerato. Non si è proprio saputo spiegare, l’omino pieno di capelli. “Io sto 10


portando questo secchio, lo vedi? Questo secchio sempre più pesante, zeppo di fiori per te, lo sto portando io e non me ne lamento, eppure non rallento troppo il passo per non annoiarti! Prima o poi dovrò pur stare attento a dove cammino, no? Come puoi rimproverarmi perché non sempre ti guardo quanto vorresti, o perché non ti tengo la mano mentre ricambio un saluto da lontano?” L’omino con tanti capelli si rende conto di aver di nuovo ferito l’altro, pur senza volerlo, e questa volta in modo ancora maggiore: in effetti, il tremolio alle gambe può essere provocato da più fattori, il troppo camminare avrebbe potuto essere uno di quelli, ma forse non lo era (anzi, non lo era davvero) e, in quel modo, l’omino più alto si era solo sentito ingiustamente accusato. Aveva del tutto ragione, dopotutto. La situazione rischia di diventare insostenibile: l’omino con tanti capelli non controlla cosa ci sia nel secchio da un po’ di tempo, non che l’altro non ci faccia caso, ma talvolta davvero quel secchio finisce per essere dato per scontato e non diventa oggetto dei loro discorsi, nonostante tanti fiori bellissimi vengano ancora raccolti, rendendo entrambi gli omini felici. Divorato dai sensi di colpa ed incapace di liberarsi, però, della propria paura, l’omino più basso si sfoga una terza volta. Vuole parlare apertamente, una volta per tutte. Dopo tanti giri di parole, riesce a dire la verità all’omino più alto. Ho paura che tu metta acqua gelida nel secchio, gli dice. Perché ho paura i fiori ti pesino troppo, ho paura che tu possa restarci male, se io non porto nessun secchio e mi ostino a restarti vicino. A me piace la tua mano, mi piace camminare 11


con te, ma ho paura che a te dopo un po’ tutto questo stanchi, mi aiuterebbe se tu mi aiutassi a ricordare quanti fiori ci sono là dentro, di tanto in tanto. L’altro omino non capisce: non fa già abbastanza, per lei? Non ha già dato sufficienti dimostrazioni di quanto sia bello quel cammino insieme, nonostante le volte in cui lei gli stringe la mano troppo forte, o lo abbraccia senza motivo fin quasi a soffocarlo? Che altro pretende? Ancora più fiori? O che non si parli d’altro, lungo il cammino? L’omino pieno di capelli non sa bene come spiegarsi, poi, grazie al cielo, con un po’ di ritardo, trova le parole. “Io non voglio che tu raccolga più fiori, o che ne colga di diversi da questi. Non voglio che tu li getti via, non voglio che tu rovesci il secchio, o lo rivernici, o lo avvicini ai miei occhi. Mi sta benissimo quello che fai, io adoro quello che fai, perché tu sei un omino stilizzato meraviglioso per come sei, non vorrei mai cambiare niente di te, neanche nel modo in cui mi dimostri il tuo affetto. E’ che io non riesco a fare a meno di pensare a quel secchio d’acqua, di tanto tempo fa. E so che tu sei tornato pur di camminare con me, ho visto le cicatrici, vedo il peso che tu porti per entrambi fino ad oggi e la mano che mi tieni con dolcezza, ma talvolta non mi basta, continuo ad amarti come se tu dovessi scappare da un momento all’altro, ti amo all’ultimo secondo, e perdo il conto degli attimi fino ad esserne ossessionata, anche quando tu mi raccogli fiori bellissimi, per me potrebbero essere gli ultimi, o potrei dimenticarli perché la nuvoletta sulla mia testa con dentro il pensiero dell’acqua gelida mi fa dimenticare tutto. Io non voglio vivere preda della paura e non voglio chiederti di cambiare secchio, o quantità e qualità dei fiori. Voglio che tu resti quel che 12


sei, ma, ti supplico, aiutami ad amarti come se non dovessi andare mai via da me. Insegna alla mia mente che l’acqua gelida s’è asciugata e non mi bagnerà di nuovo, io da sola talvolta non ci riesco”. L’omino più alto, adesso, afferra il senso della questione. “Ma cosa dovrei fare, insomma? Sei così sicura che io ne sia capace?”. “Vorrei solo”, risponde l’altro, “che, se dovessero regalarti una fotocamera nuova e tu, in mezzo a questo sfondo bianco della nostra vignetta, non sapessi cosa fotografare per inaugurarla, immortalassi magari quel secchio pieno di fiori e me ne dessi la fotografia. Se capita, dico. Se a te va e viene in mente di farlo. Vorrei solo”, prosegue, “che, se dovessimo fermarci un attimo perché io devo rispondere ad una telefonata, ed a te viene in mente, potresti scrivere col tuo piede stilizzato la parola ‘fiori’ davanti a noi, sul terreno. Vorrei solo che, nei momenti in cui hai un minuto in più del tuo tempo, o un pizzico di voglia in più nella tua mano nella mia, non ti trattenga, ma anzi, mi parli del calore del sole, per farmi passare di mente il gelo dell’acqua sulla pelle. Solo qualche piccolo espediente, quello che preferirai. Non ti chiedo di fermarci, se andiamo veloci. Non ti chiedo di tenermi più a lungo la mano quando devi scrivere, e scusami se talvolta ho esagerato. Non ti chiedo di cambiare. Ti chiedo di rinfrescarmi la memoria, di coccolarmi le paure, quando ti sembra possa essere per me un momento critico. Non vorrei mai che tu lasciassi la mia mano. Ricordami che non lo farai, insegnami ad amarti come tu fai con me: come se davvero dovessimo arrivare fino alla fine insieme, con tutto il tempo del mondo a disposizione e nient’altro in questa vignetta, se non i nostri due corpicini stilizzati, il tuo più alto, il mio pieno di capelli. Perché io ti amo”, concluse. 13


In maniera un po’ teatrale, si dirà, ma certamente sincera. Di nuovo con il cuore in mano – anche questo stilizzato. Un punticino nero sul corpo, a metà strada fra gambe e braccia.

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Graceless di Giampaolo Giudice “You can’t imagine how I hate this.” Quante stelle ho dimenticato in questi anni? Almeno tante quante le volte che ho voltato lo sguardo lontano dal cielo. È parecchio che non mi fermo a guardare il cielo; c’è sempre qualcosa da fare, qualcuno a cui dedicare le mie attenzioni od il mio tempo. Nulla che possa, o che voglia, aspettare. E che avrebbe dovuto, invece. “I’m trying, but I’m graceless.” Per aspettare devi stare bene, altrimenti è una tortura. Devi stare bene con te stesso per aspettare. Perché in quei momenti sei lì, da solo con le tue aspettative, con il tuo immondo ed atroce fondo che fingi non esista il resto del tempo e da cui fuggi quando dormi. “I am not my rosy self.” Mettere in attesa la vita di dentro, quella reale, a favore di quella recitata di fuori. Per quanto cerchiamo di convincere e convincerci non sia così, ci troveremo sempre a dover fare i conti con il nostro intimo modo di essere occultato, secondo noi, agli occhi altrui. E questo ci fa sentire tanto bravi, tanto adatti e riusciti da fare finta che non esista nessun mostro nascosto sotto il nostro letto. Impariamo a mentire da bambini. Uno dei primi meccanismi di adattamento. Fare come ci dicono, mentire a noi stessi e poi agli altri. Se padroneggi il mentire a te stesso puoi 15


estenderlo e sembrare convincente anche con chi non è te, a chi sta fuori. Fuori hai sempre un personaggio da recitare. E funziona, più o meno, la maggior parte delle volte. Strategie fallimentari adottate quando il cuore è ancora ingenuo. Roba che vai raffinando con l’età. “There’s a science to walking through windows.” Ce n’è un bel dire che non è vero, che non è così. Ma la realtà è che devi essere un po’ quello che vogliono gli altri per poterti muovere in una vita fatta di socialità. Per essere accettato, per far scolorire un poco il senso di colpa di aver ferito o portato dolore a qualcuno a cui hai detto di voler bene o amare. Sei foderato di chiodi e vetri rotti, e ti chiedono solo abbracci. Chiodi e vetri rotti piantati nel burro. Senza stadi intermedi. “Now I know what dying means.” Distogliendo lo sguardo da quello che ho visto e non dimenticato. Sotto un cielo di marmo abitato da nuvole sterili; niente azzurro, niente grigio. Non un vero cielo. Calderone senza colore in cui vanno a finire i pensieri evaporati fra sonno umido e pigrizie di stagione. A chi pensi quando siamo distanti? Chi vedi se chiudi gli occhi mentre suona De Gregori? Quale indirizzo conosci a memoria? Domande che vanno bene per un primo appuntamento come per una lettera di addio. Lati diversi di medaglie uguali. Pezzi di relazioni passate. Fantasmi storpi nei corridoi. Mani tese verso mani voltate ad altre mani ancora. La danza del rifiuto pacato di un amato non amante. 16


“Grace” Gli occhi sbagliati sugli altri. Sapendo di loro solamente quanto decidono di lasciar intravedere. Sappiamo di loro solo quello che sono per noi. Chi sono gli altri, i nostri altri, per altri ancora? L’aspetto nascosto. Quello di cui ti si parla con trasporto, con una luce diversa mai immaginata prima. Qual è il tuo? Quell’aspetto di cui gli altri parlano ad altri di te.

“Dentro ai miei vuoti” di Germana Stella

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“Ninna nanna (particolare)� di Nicola Lonzi

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Onestà intellettuale - Terza parte di Ferdinando Morabito Era sempre sembrato bizzarro a Eduard affrontare discorsi sull’onestà intellettuale con un parcheggiatore. Poi però pensava che Ermir era una persona, con le proprie idee, i propri progetti e la propria visione del mondo. Era stata l’unica persona con cui sapeva di avere in comune il culto dell’onestà intellettuale. “Non ci rimane che quello: è la vera forza degli esseri umani. È in questo concetto che si può davvero capire il porgi l’altra guancia, la poetica di Tolstoj e il mito della non violenza. È in questo, nell’incapacità di tradire se stessi, nel rifiuto di ogni meschinità, anche a costo della vita, nel non concedersi a chi vuole annullarci come persone che sono racchiusi, tutti insieme, Gesù Cristo, Tolstoj e Gandhi!”, aveva affermato, visibilmente brillo, Eduard alla fine di quella cena che lo aveva eletto braccio destro dello zio. In quell’occasione, si era accorto che un vivo senso di commozione aveva scosso Ermir. In quell’istante, si sentirono come fratelli. “Basta, facciamola finita!” esclamò George rientrando in stanza e puntando la pistola contro Eduard. “No, aspetta! Sei impazzito?”, disse con rabbia Ermir, mettendo la propria mano sul braccio di George e accorgendosi che questi stava tremando. “Il pazzo sei tu! Cosa dovremmo fare? È finita, siamo due stupidi, non avremmo dovuto accettare… ma ormai è fatta! Se non lo ammazziamo ci denuncia, e lo sai che faranno fuori noi entro un 19


paio di giorni! Lo sai questo, vero?”, rispose George, che teneva la pistola puntata contro Eduard. “Sì… sì, d’accordo. Ma non puoi essere sicuro che ci denuncerà, io credo che…” balbettò senza convinzione Ermir. “Non ci credi neanche tu, saresti un pazzo a crederlo!”, disse George, che aggiunse: “Levati, non devi farlo tu. Vattene, non abbiamo scelta!”. Con la mano sinistra afferrò la mano di Ermir poggiata sul suo braccio e si preparò mentalmente a fare fuoco. Il cuore gli batteva a mille. “Aspetta!”, disse Ermir. Afferrò per le spalle l’altro sequestratore e lo trascinò nella stanza accanto. “Diamogli una possibilità! Andiamo da lei… abbiamo scelto apposta questo rifugio…”. “Smettila, è fuori discussione! Ho pensato di andare da lei per chiederle se ce l’avremmo fatta o no!”, rispose con enorme imbarazzo George. “Già, ma hai avuto paura. e sai perché? Perché se ti avesse detto che sarebbe stato un fallimento le avresti creduto, è inevitabile che sia così! Non sbaglia mai quella maledetta strega!”, disse con enfasi Ermir, che ormai aveva capito di esser riuscito a convincere il suo complice. “Ok, ma cosa chiederemmo, esattamente? Sei fuori di testa!”, disse George, col tipico nervosismo di chi ha appena deposto le armi in una disputa dialettica.

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“Beh, è semplice: le chiederemo se Eduard ci denuncerebbe o meno qualora lo lasciassimo libero. Non ci serve sapere altro. Se dice di no, lo lasciamo andare, sennò…”, ma non ebbe il coraggio di finire la frase. “Sennò gli spariamo in testa! Io non mi faccio ammazzare per salvarlo!”, disse George, contraendo la mascella come un cane rabbioso. Fu George, visibilmente angosciato, a bussare all’antro della donna. Eduard era stato messo al corrente di ciò che stava accadendo e tutto gli sembrava paradossale, come se si trovasse dentro un sogno, slegato dalla realtà. Un uomo imponente aprì la vecchia porta di legno, il cui cigolio sinistro inquietava sempre i visitatori e li introduceva nel regno della misteriosa creatura capace di leggere il futuro. Ermir sentiva sopra le proprie spalle il peso di una enorme responsabilità, ma al contempo gli era chiaro il fatto che ormai avesse le mani legate. In quella partita fatale lui si era già giocato tutte le carte a sua disposizione e barare non era possibile. Una forza sovrumana assoggettava ogni essere vivente, senza scrupolo alcuno; il destino faceva il suo corso, incurante di ogni cosa, persino delle questioni di vita o di morte.

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“In the swamps #2” di Bartolomeo Pampaloni

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Feuilleton Il francese inesistente

Parte quinta

di Fabio Cardetta Niente. C’erano quei piedini magici che fluttuavano nell’aria come farfalle. Erano lunghi e affusolati, i piedini, prensili, con le unghia curate e smaltate di scarlatto. E fluttuavano, ciondolando lo stiletto, che si staccava e si ricongiungeva alla morbida pianta e al soffice tallone, accarezzandoli come una piuma. Poi le lunghe gambe e infine le cosce, accavallate, premute e adagiate. Era lì che terminava l’abito bianco attillato che si attanagliava al corpo di Simona; con la scollatura stagliata all’altezza delle scapole, le spalle ossute, il collo allungato, a sostenere quel volto con due diamanti nelle orbite. Svetlan era lì, a rimirarla, non credendo che una tale bellezza potesse essere passata dalle sue parti, un giorno di cui non ricordava più nulla, forse tanto estasiato che manco se n’era accorto che c’era passata. “Quindi, a che punto siamo?” – fece l’angelo. Svetlan si risvegliò e cercò di riprendere un tono adeguato. Ma la ripresa delle operazioni andava per le lunghe. “Il mio investigatore… Cioè, il mio collaboratore, è sulle tracce di questi tizi. Credo che in un paio di giorni riusciremo a risolvere tutto.” Simona sfoggiò un largo sorriso a creare quelle fossette che tanto facevano impazzire i suoi spasimanti. “Ma non avevi detto che il tuo investigatore una volta era uno degli scagnozzi di Bito?” Svetlan si fece serio: 23


“Non è proprio così… Comunque non ti preoccupare, puoi dire a Vladimir di stare tranquillo. Tub si è buttato a capofitto nella faccenda e credo che già oggi mi porterà elementi validi. Anche se pure io dubitavo della cosa…” “Perché dubitavi?” “Perché i due indagati ormai scagionati di cui mi ha parlato Vladimir (e di cui Tub non sa nulla) sono suoi ex colleghi. O meglio, hanno lavorato nello stesso locale in cui Tub lavorava come buttafuori. Ed entrambi sono connessi ad alcuni individui con cui collabora, gente di Bito, merde… Quindi, se gli avessi messo in mezzo questi nomi, lui avrebbe fatto le indagini a cazzo di cane, si sarebbe rifiutato di fare alcune cose e non ne avrebbe cavato niente. Ora, invece, so che si sta dando da fare… Si spezzerà il collo per risolvere il caso, vedrai. Anche perché alla fine anch’io io gli ho dato una giusta motivazione!” “Ovvero?” “Semplice… Ho minacciato di licenziarlo.” Tub era giusto passato da Svetlan quella mattina, per aggiornarlo sugli elementi presi da Timothy e sulla testimonianza del ragazzino. Svetlan, anche quella volta, non aveva fatto una piega e si era dimostrato ancor più merda del solito: aveva ammonito il suo sottoposto di muoversi e di non battere la fiacca. Gli aveva rimproverato incuria nelle indagini, come se avesse voluto proteggere qualcuno dell’apparato di Bito. Inoltre, lo aveva portato a conoscenza di alcuni dati. Uno in particolare, l’arma del delitto: la 38 special. Svetlan era convinto che qualcuno degli scagnozzi di Bito avesse agito indipendentemente e senza l’assenso del capo, per qualche 24


anomalo traffico interno. Probabilmente una resa dei conti personale con quel francese. Dunque, aveva un urgente bisogno di sapere chi, degli scagnozzi di Bito, possedesse una 38 special. Tub aveva replicato che nessuno degli indizi portava al clan di Bito. L’identikit segnalato dal ragazzino poteva portare a un nazionalista: rasato, giubbotto di pelle, tipo massiccio. Ma Svetlan non aveva voluto sapere ragioni e, per non saper né leggere né scrivere, lo aveva richiamato all’ordine: “Ora te ne vai da quelli di Bito, e mi trovi la 38 special!” Tub aveva sbottato e, avviandosi verso l’uscita, aveva borbottato insulti incomprensibili. Svetlan era scattato in piedi: “Ehi!” L’omone si era girato, e aveva visto quello sguardo vuoto: Svetlan era cadaverico, pallido. Dal suo oltretomba aveva esclamato: “Tub, se non fai quello che ti ho detto… Già domani puoi rassegnare le tue dimissioni.” Non se l’aspettava. Aveva mai pensato a quell’eventualità? Tub non era uno che la prendeva sul personale. Lo potevi far incazzare e lui ti avrebbe pestato a sangue. Giusto una ramanzina, nel suo codice personale. Probabilmente ti avrebbe ucciso, se messo nelle condizioni di farlo. Ma quelle ultime parole di Svetlan, pronunciate in quello stile che sapeva essere definitivo e irrevocabile, assumevano un significato particolare. Tub era venuto dal nulla, e aveva fatto fortuna con Svetlan. Era pagato bene e, grazie a lui, s’era potuto permettere tutto quello che aveva sempre sognato: un’auto nuova, una casa, una moglie. Tutto era dovuto ai soldi di Svetlan. Per Tub quei soldi erano tutto. Se avesse perso quel lavoro sarebbe tornato nella fogna da dove era 25


venuto. Non sarebbe potuto nemmeno tornare a fare il buttafuori, dato che presso la criminalità che gestiva la maggior parte dei locali era ormai visto come un infame di cui non ci si poteva fidare. Tub amava la sua macchina, la sua casa, sua moglie. Ma sapeva benissimo che doveva impegnarsi per tenerseli. La sua compagna non s’era certo innamorata di lui per il suo bell’aspetto o per il suo carattere adorabile. La sua compagna, Elena, amava i soldi come li amava lui. Senza quei soldi, lei non ci sarebbe stata. E Tub lo sapeva. Senza i soldi non ci sarebbe stata la casa, non ci sarebbe stata la macchina, non ci sarebbe stata più Elena. Fu pensando a quello che comprese che Zdenko, Goran, Gabor o gli altri amici che conosceva da una vita e che facevano parte del clan, alla fin dei conti, per lui, non rappresentavano davvero un cazzo. Cosa avevano fatto per lui? Una partita a biliardo? Una birra? Qualche soffiata? Sì, certo. Ma sempre in cambio di qualcosa: un favore, una regalia, denaro. Non l’avevano mica fatto per lealtà o amicizia. Di sicuro in un’altra situazione l’avrebbero venduto per due soldi al miglior offerente. Magari l’avrebbero fatto ammazzare come un cane, se ne avessero avuto la possibilità. Durante le indagini non aveva mai pensato che in qualche modo stesse usando un occhio di riguardo per loro. Ma lì, in quel momento, capì che forse era davvero così. Forse avrebbe dovuto osare di più e considerare quei suoi amici alla stregua di gente qualunque. O meglio, avrebbe dovuto considerarli semplicemente per quello che erano in realtà. Feccia. Feccia della peggior specie. Canaglie. Vermi che non servivano a niente se non a rimpolpare le squallide schiere di criminali esistenti. 26


Lui era così una volta, ne era cosciente. Ma adesso non più. Ora lui – era l’ investigatore privato Ivan Podolski. Uno dei più richiesti e rinomati in città. Una persona rispettata, un professionista. Una persona di Serie A. Fu lì che Ivan Podolski capì che Svetlan era davvero il suo unico amico. Perché lo pagava. E lo aveva reso quello che era oggi. Svetlan lo pagava bene, e questo era il massimo dell’amicizia che uno come Tub poteva ricevere. E ora doveva difenderla quell’amicizia. A qualsiasi costo. Fu così che Ivan Podolski – l’uomo e l’investigatore Ivan Podolski – si ritrovò nel chiosco delle armi di Ludovit, per porre fine a quella orribile vicenda di francesi, rivoltelle e mafiosi da due soldi. Entrò nel chiosco. Si guardò per un attimo attorno, rimirando le pistole appese, i fucili, i caricatori, le munizioni, le cartucce, le corde, le fodere. Era di legno il chiosco, sembrava quasi una gabbia per canarini. E quasi li sentì cinguettare quei canarini, prima di vedere il padrone dietro il banco. Poi avanzò. “Ciao Ludko, vorrei una 38 special” – aveva esordito, senza nemmeno salutare. “Non ne abbiamo” – fece l’armaiolo, passando un fazzoletto su una canna. “Io so che a qualcuno l’hai data” 27


“Non è possibile, è almeno un anno che non ne vedo una.” “E un anno fa, l’hai venduta a qualcuno?” “Non ricordo, è stato tanto tempo fa.” Il tempo si fermò. Poi schizzò sul muro. Il cranio di Ludko fu schiantato nella teca. Tub l’aveva preso per la nuca e gli aveva scaraventato la testa dentro l’espositore, facendo esplodere il vetro in mille pezzi. Uno sciabordio di sangue e lembi di pelle colavano ora dalla faccia dell’armaiolo. Gli occhi semichiusi piangevano e si guardava le mani, quando avrebbe dovuto guardarsi tutti il resto. Tub lo teneva per i capelli, dal di là del bancone, proteso in avanti con un braccio che sembrava un gancio d’acciaio. Lo riportò in superficie, scandendo rauco: “Figlio di troia, chi degli uomini di Bito ha una 38 special??” “Non lo so!… Perché cazzo dovrei saperne qualcosa?” “Figlio di puttana, tutte le armi che hai sono di Bito!… La tua vita non è altro che armi e quella zoccola di tua moglie!… Se vedi un’arma, tu sai a chi appartiene!… E se sono arrivate delle special, tu lo sai… E sai anche quando sono arrivate e a chi appartengono!… Non dirmi stronzate, se non vuoi che ti riduca a un mollusco!” La faccia di Ludko ormai era una purea che emanava suoni. “Lo vuoi capire che-che non gestisco io gli ordini??… Io prendo solo il dettaglio!… Sì, sicuramente… qualcuno di loro ha una 38!… Due anni fa arrivò un carico … E-e se le spartirono tra loro!” 28


“Perché se le spartirono, quante erano?” “Non-non so quante erano!… Ma loro hanno le automatiche!… Che se ne fanno di una rivoltella?… Erano a-arrivate una decina di rivoltelle a cazzo!… E io so che a… a una festa Bito le ha regalate a qualcuno di loro!” “E tu sai chi sono questi tizi?” “Non lo so, cazzo!… Prova a chiederlo a loro!” Un altro schianto, un’altra corsa. Ludko fu scaraventato nella teca, come un pompelmo spappolato. “E allora dimmi, simpaticone… Me lo vuoi dire come faccio a trovare questa special?” La testa di Ludko continuava a scorrere sulle pistole, come i cingoli di un carrarmato, mentre Tub affondava sempre più il braccio e, incurante, cominciava a tagliarsi anche lui fra i cocci di vetro infranto. “Ti pre-prego… Basta!” “Se non mi aiuti, Dio non ti aiuta. Dimmi dove trovare il figlio di puttana che ha quell’arma!” “Prova ad andare al poligono di Kulajka!” Tub si fermò, di colpo, come se gli fosse tornato a mente qualcosa. “Intendi il poligono abusivo?” “Sì, quello!… Se-se qualcuno di loro ha una 38 special… Gli altri di sicuro lo sanno!” La montagna umana si issò. Staccò la presa dall’armaiolo, che oramai era un morto vivente, e lo lasciò lì a macerare nel sangue, con la testa ancora incastrata nella teca. 29


Si rassettò un attimo, poi sputò sulla vittima e si portò via una pistola. Una Beretta automatica, calibro 34. Mentre l’omone stava per varcare la soglia della porta, tirandosi giù le maniche e estraendosi un vetro dal braccio, si sentì una voce implorare: “Ehi!” Era Ludko. “Che c’è?” – si girò Tub, francamente sorpreso. La nuca di Ludko intonò: “Na-naturalmente… Io non ti ho dette niente!” Tub sorrise. Era contento. “Bravo, figlio mio… Tu non mi hai detto niente.”

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Dire addio di Elena Ramella “Ho sempre pensato che gli uccelli migratori avessero delle bussole incorporate. Lasciano il nido, ma torneranno sempre.” Camminavano avanti e indietro sul Pont Alexandre III, 160 metri, passo dopo passo, con la luce dei lampioni che si rifletteva nell’acqua torbida della Senna e gli ultimi bateaux mouches che si allontanavano dalla riva carichi di turisti con gli occhi luminosi e le macchine fotografiche in mano. Avanti e indietro. “Ti aiuto a traslocare, se vuoi.”

“Inner life” di Ilaria Cerutti

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“Grazie, avrei davvero bisogno di una mano.” “Bene.” Silenzio. “Vorrei essere un acquerello e semplicemente dissolvermi.” “Non serve. Non voglio. Non importa. Abbiamo abbattuto le barriere perché siamo due. Ci siamo denudati fino all’osso. Mi sembra impossibile tutto questo ora. Che possa finire in questo modo.” Camminavano, lentamente, lei con le braccia intrecciate contro il petto, lui con una mano nella tasca della giacca e l’altra libera per portare nervosamente la sigaretta alle labbra. La gente li guardava, appuntava lo sguardo su di loro, in quel secondo in cui si incrociavano in direzioni opposte, per poi andare oltre. Guardavano il loro silenzio e i loro occhi bassi, nella penombra. I fasci di luce dei fari delle auto proiettavano ombre lunghissime dietro i loro passi, e quel ponte, di notte, illuminato, era un capolavoro di oro e di linee inafferrabili. “Ti vorrei ancora implorare, ti vorrei ancora chiedere un tempo nostro, ancora un tempo nostro in cui tu potrai mettere radici in questa città, in me, e le tue mani ostinate, e il tuo cuore violento, potrebbero conoscere un’altra felicità.” La sua voce era ormai ridotta ad un sussurro soffocato. Era privo di forze, impotente, all’ultimo spasmo, all’ultima mossa, l’ultimo scatto di chi si sta lentamente addormentando, quando tutte le parti del corpo sono già abbandonate al sonno, l’ultimo movimento di chi sta sognando di cadere e si sveglia di soprassalto, per la paura. Chi li vedeva arrivare al fondo del ponte e poi girarsi, e ripercorrere i loro passi, rimaneva per un attimo stranito. Ma quella era la terra 32


di nessuno, un territorio neutro. C’erano confini immaginari che non andavano sorpassati, le strisce pedonali erano l’ultimo segno tracciato col gesso bianco che indicava che bisognava ricominciare da capo, mentre si faceva sempre più buio. Improvvisamente, a metà del ponte, lei si fermò, in mezzo al marciapiede, con lo sguardo perso. “Cosa c’è?” “Sto salutando. Sto guardando queste luci che si confondono e che mimano se stesse. Sto guardando queste auto e sto esponendo il mio cuore a loro, a quelle che vanno ad est, e a quelle che vanno ad ovest. È notte, è nero, i contorni sono sfocati. È il momento migliore per dire addio.” Poi riprese a camminare. Gli passò una mano sotto al braccio e si aggrappò a lui con tutto il peso del suo corpo sottile. “Tutti i miei giorni con te, qui, sono stati come una calda, avvolgente, nebbia.”

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Verso le nuvole blu Dire addio di Donatello Cirone

A Lucia e alla sua anima libera che sorride nel vento

Ciottoli, siamo ciottoli in corrente, sbattuti, scheggiati dalle lacrime. Straziati dalla discesa. Ciottoli dal cuore di burro, lesionati dal dolore, irrimediabilmente compromessi. Dove sono, adesso, le tue mani che accarezzavano il mondo? Dove sei? Ci siamo persi, tutti, nel blu dei tuoi occhi, nel blu del tuo cielo, per correre insieme sulle nuvole libere. Siamo in corrente, sbattuti. Straziati. In apnea. In cerca di te. Ciottoli, siamo ciottoli, 34


smussati dallo scorrere della vita, che deve correre, che non si può fermare nelle stazioni del dolore. Corre il tempo come questo treno rumoroso, e urla la mia anima uno strazio conosciuto. Dov’è il tuo silenzio? La cenere delle mie parole? Tra le carrozze ho incontrato il tuo viso. Io SONO e siamo tutti desolati, in un mare di atomi, nell’abbraccio del nulla. Vuoti come la Firenze annegata del ’66, vuoti come il nostro sorriso e non posso fare a meno che piangere, disperatamente, e scriverti il nulla in queste righe sospese nel ricordo, cristallino, del tuo viso innamorato della vita. Ritorneremo, un giorno, all’acqua cheta, dentro i tuoi occhi che vedevano altro e scusaci se non sappiamo sorridere come facevi tu, e scusaci se non sappiamo ascoltare nel latrare di un cane l’assolo di un sax.

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“L’artista artigiano #1” di Antonio Cribari, progetto a cura di Emiliano Cribari

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L’incontro di Fiorella Malchiodi Albedi Eravamo alla fermata ormai da dieci minuti e Silvia cominciava a mostrare segni di impazienza. Decidere di muoversi con i mezzi, quel giorno, non era stata un’idea felice, ma lei aveva insistito, tante sue compagne di classe prendevano l’autobus tutti i giorni, per andare a scuola, almeno quella mattina, in cui non avevamo orari da rispettare, potevamo farlo anche noi? Avevo accettato, ma ora, al ritorno dal museo, eravamo entrambi stanchi e cominciavo a pentirmi della scelta. Così, con gli occhi fissi sull’angolo da cui aspettavo con ansia che sbucasse il nostro autobus, non ho riconosciuto Elena finché non mi si è piantata di fronte, a un metro dal mio naso. Anche se poi, ripensandoci, forse avevo colto qualcosa di familiare nell’andatura un po’ sbilenca della persona che si stava avvicinando. “Cammini in diagonale come a volte fanno i cani” le avevo detto una volta, e lei, che li adorava, ne era stata felice. – Beh, sono così cambiata? – mi ha apostrofato sorridendo. – Allora, che si dice? – Tutto bene, e tu? Lei ha cominciato a raccontare, con naturalezza, come se fossero passati pochi giorni dall’ultima volta che ci eravamo visti. Quanti anni erano, invece? Almeno cinque, se non sei. La disinvoltura, e la leggerezza, erano sì quelle di sempre, ma 37


come un po’ offuscate. “E’ la patina del tempo” pensai. – Lo sapevi che ho vissuto due anni a Cagliari? – Sì, l’ho saputo. – Ah, la Sardegna, che posto fantastico, ci ho lasciato il cuore. E lì a parlare dei luoghi, del lavoro, degli amori, perché ovviamente c’erano stati anche quelli. Silvia la guardava con curiosità. Chi era quella donna che lei non aveva mai visto e che parlava con tanta confidenza con suo padre, come se lo conoscesse da sempre? Intanto l’autobus era arrivato e ripartito, senza di noi. Io l’ascoltavo, e la guardavo. La trovavo cambiata, ma era difficile dire in cosa, era come se i suoi tratti si fossero un po’ sgranati e le linee avessero perso di definizione. Lei continuava a blaterare, inesauribile, mettendo in una specie di macedonia narrativa amici comuni, film, libri, politica, ricordi e speranze per il futuro, senza aspettare risposte o commenti. Per la prima volta, trovavo eccessiva la sua straripante comunicativa. Era cambiata lei o ero io, a essere meno tollerante? Erano ormai quindici anni che ci eravamo lasciati. Era stata una storia tormentata, fatta di continue rotture e riappacificazioni. Poi, all’improvviso, era arrivata la fine, insolita e certo inaspettata, per un legame così passionale. Ad un tratto, senza cause apparenti, avevamo cominciato a incontrarci di meno, e poi ancora di meno, e nessuno dei due aveva chiesto conto all’altro della scarsa assiduità, finché alla fine avevamo smesso di cercarci del tutto. Sette anni di sofferenze che finiscono quasi senza che ce ne accorgessimo, in maniera impalpabile. Ma forse era un epilogo 38


prevedibile. Nel corso di quegli anni avevamo dato fondo a tutto il nostro repertorio di drammaticità, con abbandoni dilanianti e riavvicinamenti faticosi; alla fine le energie ci erano mancate e la storia aveva finito per spegnersi da sola, come per morte naturale. Non aveva fatto nessun accenno alla sua situazione sentimentale presente, notai. – Ho saputo che ti sei sposata, – le ho detto interrompendo il suo sproloquio. Per un attimo ha taciuto. Poi ha detto, per una volta seria: – Una storia finita, ora sono sola. E subito ha cambiato di nuovo registro e ha ricominciato a parlare della sua ultima passione, la fotografia. A un certo punto quel monologo ha cominciato davvero a infastidirmi; erano almeno venti minuti che parlava di sé, possibile che non avesse la minima curiosità per la mia vita? Aveva totalmente ignorato Silvia, che abituata alle moine degli amici dei genitori, la guardava sempre più perplessa e ogni tanto mi tirava la mano, anche se non aveva il coraggio di chiedermi di andarcene. E forse un po’ mi bruciava pensare a quanto mi fossi perso dietro a quella donna, che adesso trovavo così egocentrica e in fin dei conti noiosa. Così, quando ho visto di nuovo il nostro autobus profilarsi all’orizzonte, ne ho approfittato. – Beh, Elena, è stato un vero piacere, ma dobbiamo proprio andare. 39


– No, aspetta, ti prego, devo chiederti una cosa. Il suo tono mi ha colpito. Di nuovo si era fatta seria. Questi cambi repentini mi lasciavano perplesso, era qualcosa che non ricordavo di lei. L’ho guardata interrogativamente. – Ti prego! – ha chiesto fissandomi intensamente. L’autobus ha richiuso le porte e si è allontanato. Silvia mi ha guardato indispettita. Ha lasciato la mia mano e si è andata a sedere su un muretto, tirando fuori dal suo zaino il giornalino che le avevo comprato, ormai rassegnata. Ho guardato Elena. – Allora, dimmi. – È che ho fatto un sogno. Ed è già una cosa insolita, lo sai che io non sogno mai. – Non è che non sogni, è che non ti ricordi… – Ma sì, sì, lo so. Sempre il solito pedante. É che preferisco credere che non faccia sogni, non che li dimentichi. Mi secca pensare che c’è una parte della mia vita di cui perdo regolarmente traccia, come una storia parallela che io vivo ma che mi resta sconosciuta; tutte quelle immagini che so che si sono formate nella mia testa durante la notte, appena apro gli occhi, puff, scompaiono, come se non fossero mai esistite. Mi sento sempre un po’ 40


defraudata. Questa volta, invece, forse perché mi sono svegliata di soprassalto per un rumore forte nella strada, quando ho aperto gli occhi ricordavo il sogno con grande precisione, e c’eri tu che mi dicevi: “Hai poi trovata la glassa?” Io ti chiedevo: “Ma che glassa?” Tu non mi rispondevi e continuavi a ripetere “La glassa, la glassa, l’hai poi trovata?”. É andata avanti per un po’, ed è stato allora che il rumore mi ha svegliato, e il diavoletto spazza sogni non ha fatto in tempo a cancellarlo. Ma come nel sogno, così da sveglia, non so niente di glasse. Ti viene in mente qualcosa? L’ho guardata in silenzio, mentre sorrideva in attesa della mia risposta. Mi stava prendendo in giro o davvero non ricordava la storia della glassa? Alla fine mi sono risolto a parlare. – Certo che mi viene in mente. Era il giorno che arrivasti tardi alla festa per il mio compleanno, il primo che festeggiavamo insieme. Quella sera, dopo che gli amici se ne furono andati, mi arrabbiai con te per il ritardo. Litigammo, uno dei nostri litigi epici, e alla fine mi confessasti che eri arrivata tardi perché avevi incontrato Nicola, e che mi tradivi con lui ormai da un mese. É stata la prima volta che ci siamo lasciati. Quel pomeriggio eri uscita dicendo che andavi a cercare la glassa per la mia torta. Avevo parlato di quell’episodio che era stato così doloroso, mi rendevo conto con stupore, come se commentassi un fatto qualunque della mia vita, privo di implicazioni emotive. O, meglio, il fatto della vita di un’altra persona. E poi mi stupii del mio stupore: era naturale che avessi ormai elaborato quel lutto, perché lo tro41


vavo strano? O fino a quel momento ero stato convinto, senza rendermene conto, che non sarei mai potuto uscire davvero da quella storia, che mi aveva irrimediabilmente segnato? Lo sguardo di Elena era indefinibile. Alla fine ha detto: – Ti ricordi ancora tutto. – Non ho dimenticato niente, né il bene, né il male. Elena guardava fissamente un punto dietro la mia testa. – Soprattutto il male, suppongo. Non ho risposto, e invece ho chiesto: – E quando avresti fatto questo sogno? Il mio tono era ostentatamente dubbioso. Ha fatto per protestare, poi ha rinunciato. – La scorsa settimana. – E subito dopo il sogno, dopo sei anni che non ci vediamo, ci incontriamo per caso? Quel pensiero molesto mi era venuto in mente all’improv42


viso, ma più ci pensavo più mi sembrava che la casualità dell’abbinamento incontro sogno fosse davvero improbabile. Mi ha guardato con aria di sfida. – Pensi che abbia orchestrato tutto? O che mi sia inventata la storia del sogno? E per quale motivo? – Non lo so, dimmelo tu. Certo che è una ben strana coincidenza, non trovi? Elena ha abbassato lo sguardo, abbandonando l’aria sfrontata. – Già, sono d’accordo con te, è difficile credere nelle coincidenze. Adesso aveva un’aria rattristata, e mi dispiacque di essere stato brusco. Volevo dirle qualcosa, ma non mi venne in mente niente. Finché lei ha rialzato la testa. – Eppure fai male, è come non confidare nel destino, non avere fiducia che il corso delle cose possa prendere una svolta improvvisa, che ti salva la vita. Quel tono, così intenso, che lei a volte prendeva, e che ti arrivava dritto al cuore, l’avevo dimenticato. E anche quello sguardo, profondo, con cui sembrava offrirsi senza schermi, ora sì che lo riconoscevo. Una nostalgia calda mi ha invaso. Ricordai quanto mi sentivo orgoglioso, quando quello sguardo si posava sui miei 43


occhi, e privilegiato, che decidesse di elargire proprio a me quel dono che mi sembrava così prezioso. Gli anni trascorsi si sono polverizzati e per un attimo mi sono sentito perduto, di nuovo in balia di quella donna, ma felice di lasciarmi scivolare nel gorgo. Ho continuato a guardarla, incapace di replicare, e lei a un tratto si è girata e ha visto che dall’angolo stava spuntando l’autobus che io e Silvia aspettavamo. – Salvata dall’ATAC! – ha esclamato, cambiando di nuovo tono, quasi sollevata – Su, su, coraggio, sbrigatevi, non vorrete perdere anche questo! Ha aiutato Silvia a rimettere il giornalino nello zaino e ha preso a spingerci verso le porte. Io non ho saputo che dire, e mi sono lasciato condurre, come sempre succube della sua forza di volontà. – Ciao, Silvia, è stato un vero piacere conoscerti. Siamo saliti e abbiamo trovato un posto a sedere in fondo. Mi sono girato e ho visto che continuava a guardare l’autobus allontanarsi, la mano sulla fronte a ripararsi dal sole.

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“Perdersi” di Francesca Ligios

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L’Irrequieto Rivista Letteraria

Associazione Culturale L’Irrequieto Firenze - Paris 46


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