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Empatia e mascherine
Lodovico Berra 1
Lo stato di emergenza da COVID 19 si è sviluppato nella fase iniziale in modo silenzioso, per poi esplodere in modo violento ed inaspettato. Ha colto tutti alla sprovvista, presi dal flusso della vita quotidiana, fatta di impegni, appuntamenti, orari. In un momento è come se tutto si fosse arrestato e fossimo stati travolti da malattia, dolore e morte. Improvvisamente ci si è resi conto che malattia e morte incombono costantemente sulla nostra vita. Ho visto in questo periodo reazioni molto diverse: chi, dopo una prima fase di resistenza, è crollato; chi ha ristabilito un nuovo equilibrio; chi ha scoperto risorse e nuove consapevolezze.
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Come medico mi sono sentito da subito coinvolto direttamente, senza neppure pensare un attimo di tirarmi indietro. Ho dovuto scegliere di dedicarmi al mio campo, ai miei pazienti, per non abbandonarli in un momento drammatico di crisi globale. Immaginate cosa può succedere ad un ipocondriaco nel sentirsi minacciato da un virus invisibile ad alta contagiosità; ad un fobico-ossessivo che vede contaminazioni ovunque; ad un depresso che si trova improvvisamente isolato dal mondo; ad uno schizofrenico che sente la sua fragile realtà sconvolta.
Vi è una emergenza esistenziale nuova e diversa, di una entità equivalente a quella sanitaria ed economica, e che probabilmente si protrarrà ancora per molto tempo.
In questo periodo ho continuato così a rimanere in contatto con i miei pazienti, vedendoli di persona, sentendoli per telefono, per e-mail, su Skype, su Whattsapp, su Facetime.
Si è però selezionato però un piccolo gruppo di pazienti che ha voluto continuare a vedermi di persona, senza che io esprimessi alcuna posizione di rifiuto o richiesta. Li ho lasciati liberi di scegliere se venire o meno alle visite e
Medico specialista in psichiatria e psicoterapia, direttore dell’Istituto Superiore di Filosofia, 1 Psicologia (ISFiPP), Psichiatria e della Scuola Superiore di Counseling Filosofico (SSCF), docente universitario IUSTO 10
sedute, cercando di non influenzarli, e mantenendomi disponibile. Considerate che, in questa situazione di emergenza, la visita medica è sempre stata considerata possibile, come necessità prioritaria. Ho continuato così a vedere i miei pazienti di persona e solo in casi eccezionali ho visto nuovi pazienti. Si è però inserito un nuovo elemento, prima mai considerato, la mascherina di protezione.
I miei pazienti arrivavano gradualmente sempre più protetti con mascherine di ogni tipo, artigianali, da giardiniere, da decoratore, di tela o di carta. I pazienti mascherati arrivavano, mi salutavano (rigorosamente senza dare la mano, sebbene a qualcuno sia scappato prendendomi alla sprovvista), e soggiornavano qualche minuto nella saletta d’attesa. Dopo essersi seduti di fronte alla scrivania o sul divano, poco per volta abbassavano le difese. Toglievano la mascherina oppure la spostavano sul mento, rendendola assolutamente inutile. Naturalmente anch’io, avendo predisposto la misura di sicurezza della distanza, di almeno 180 cm., abbassavo e toglievo la mia. Ci trovavamo così l’uno di fronte all’altro, col viso scoperto, indifesi di fronte al virus, quando all’esterno vi erano persone terrorizzate che guidano da sole in auto con mascherina, che la utilizzano in casa con parenti negativi, che la mettono per portare a spasso il cane. Poteva essere incoscienza, imprudenza, superficialità? Oppure questo rappresentava qualcosa?
Considerate che non ho mai avuto nessuna voglia di prendermi il virus ed ho utilizzato sempre ogni possibile altra misura di sicurezza. Oltre alla distanza di sicurezza, non do la mano (anche se nella tradizione psicoanalitica questo sarebbe un gesto da evitare sempre), disinfetto continuamente mobili e soprammobili con alcol (arrivando a rovinare orologi, portapenne e oggetti in pelle), ogni giorno, più volte al giorno.
Parlarsi oggi senza mascherina sembra un fatto eccezionale, soprattutto se non avviene con i propri familiari, con cui si vive quotidianamente.
La mascherina copre gran parte del nostro volto e con esso rimangono nascoste tutte le espressioni con cui siamo abituati ad interagire e che rappresentano una importante via di comunicazione. Solo gli occhi rimangono scoperti ed abbiamo sempre pensato che essi siano una via importante per le relazioni. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, sono una porta di comunicazione fondamentale, attraverso essi riusciamo ad entrare in contatto emotivo profondo con le persone. Ci si guarda negli occhi per capirsi meglio. Basti pensare a quello che accade in una delle più gravi patologie della relazione, l’autismo. Chi ne è affetto con riesce più a guardare negli occhi le persone, le sente come semplici oggetti tra gli altri, è disconnesso dal mondo delle relazioni, isolato nel proprio mondo interiore.
Se parlate ad una persona con la mascherina vi accorgete che viene a mancare qualcosa di fondamentale, e scoprite quanto può essere importante il resto del volto. La bocca, il naso, il mento, le guance e le espressioni di almeno 2/3 del volto scompaiono e rendono la comunicazione monca e alterata. Si perde qualcosa nel rapporto, come se ci fosse una barriera che mette distanza, che crea diffidenza e sospetto. La mascherina indebolisce l’empatia e allontana dall’Altro. È una difesa legittima e obbligatoria ma, nel momento in cui studiamo la relazione, diventa un elemento compromettente, che altera il rapporto. Nell’empatia si crea una comunicazione speciale e particolare, che va oltre il linguaggio e la razionalità. È un qualcosa di emotivo, istintivo, irrazionale, inconscio. È un flusso di energia che si genera se non ci sono resistenze. Se il processo empatico è indebolito la possibilità d’aiuto è in parte compromessa. L’empatia agisce oltre le parole o i comportamenti, è un rapporto che diventa unico ed esclusivo e ogni più piccola interferenza lo compromette. La mascherina è una barriera nel rapporto tra le persone. Oggi non ne possiamo fare a meno, è necessaria.
La necessità della mascherina nei rapporti interpersonali mi ha richiamato alla mente un episodio, avvenuto molti anni fa, quando facevo le consulenze psichiatriche all’Ospedale Molinette di Torino. Stupisce anche me stesso come riesca a ricordarmi la maggior parte dei pazienti, che abbia visto almeno 3 o 4 volte. Forse perché con ognuno di essi mi sono aperto all’empatia, e così essi sono entrati in me, consentendomi una identificazione che è rimasta in modo indelebile nella mia memoria.
Ero stato chiamato nel reparto di cardiochirurgia per un paziente, di circa 45 anni, reduce da un intervento di trapianto cardiaco, uno dei primi che veniva effettuato in quel periodo in quell’ospedale.
Il signor Giovanni era ricoverato in una camera singola sterile, con una anticamera di decontaminazione, dove ci si doveva vestire con indumenti monouso, camice, scarpe, cappellino e naturalmente mascherina.
Le finestre della stanza davano verso il parco del Valentino, con un meraviglioso panorama verso il Po e la collina torinese. Vi era un contrasto inquietante tra la tristezza di Giovanni e la luce primaverile che entrava dalla finestra. Impostai la terapia farmacologica antidepressiva e iniziai a vederlo regolarmente, almeno 2 o 3 volte alla settimana. Lo incontravo sempre indossando la mascherina, lui seduto sul letto, in pigiama, rialzato sul dorso e col suo viso scoperto, magro e pallido. Vi era una sorta di asimmetria tra noi, non solo determinata dal diverso ruolo, io medico - lui paziente, ma anche dal fatto che io ero mascherato e lui no. Inoltre in quel periodo avrò avuto poco più di trent’anni, lui quasi 15 di più. Si instaurò comunque tra noi una buona empatia, una buona
confidenza, una buona relazione, anche se sempre percepivo da parte sua una certa diffidenza. Giunto il giorno delle sue dimissioni dovevamo salutarci e con una certa timidezza mi disse:
«Vorrei chiederle una cosa». «Cosa, mi dica pure» risposi un po’ sorpreso «Vorrei si togliesse per un momento la mascherina»
«Perché?» dissi io, ancora inconsapevole del significato che aveva avuto fino ad allora la copertura
«Perché vorrei vedere il suo volto»
Rimasi un momento incerto sulla richiesta. Non sapevo se potessi permettermi un rischio del genere e eludere le regole del reparto. Avrei potuto contaminarlo e compromettere la sua salute? Poi capii, compresi quella semplice e fondamentale richiesta, come potevo non averci pensato prima? Dopo settimane che lui mi vedeva mascherato come poteva avermi vissuto fino ad allora? Probabilmente avrei svelato la mia giovane età, avrei indebolito la sua fiducia? Forse si era domandato per tutto quel tempo che faccia avessi o quanti anni potessi avere, senza aver mai potuto vedere i miei capelli e il mio volto.
Mi tolsi la mascherina e lui mi guardò per qualche secondo. Intravidi un leggero sorriso, ma non riuscii veramente a capire la sua vera emozione.
Non mi ero reso conto e neppure avevo mai pensato a come poteva vedermi lui. Ci parlavamo a lungo, mi confidava un sacco di cose ma evidentemente mancava il mio volto al nostro rapporto.
Ho molto pensato a quell’episodio in questi ultimi tempi e questo mi ha fatto riflettere su quanto possa essere importante in un rapporto una semplice mascherina.