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Ritorno a se stessi come opportunità
Rebecca Impellizzieri 1
La situazione in cui ci ha catapultati, in modo abbastanza improvviso, l’insorgere della pandemia legata al Covid-19, ci ha posto di fronte a problematiche esistenziali piuttosto inedite.
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Per quanto mi riguarda, inizialmente si è trattato di un cambiamento vissuto per alcuni aspetti in modo positivo: non avevo il problema dell’isolamento, essendo a casa con la mia famiglia, non ho avuto quello più pratico e potenzialmente molto impattante della perdita o riduzione del lavoro. Al contrario, la possibilità di usufruire dello smart working mi ha inizialmente regalato una nuova condizione di autonomia nella gestione del mio tempo. In questa prima fase mi sono ritrovata a riflettere su qualcosa su cui già mi ero interrogata recentemente: quanto ancora la vita che ormai 10 anni fa ho scelto per me stessa mi corrisponde? Ho avuto la conferma che dedicarmi a un lavoro a tempo pieno fuori casa, all’interno di un’azienda, perseguire con ambizione un ruolo di sempre maggiore responsabilità all’interno dell’azienda stessa, coltivare quotidianamente le relazioni con i colleghi, non sono più i miei obiettivi prioritari, anzi. Lavorare da casa mi ha permesso di trascorrere più tempo con mio figlio, vivere in modo più autentico le relazioni, avere una maggiore libertà di scegliere come coltivare il mio tempo, dedicando a ciò che davvero mi interessa leggere, ascoltare, su cui ho voglia di riflettere, le ore in cui sono fresca e riposata e non i ritagli della giornata carichi di stanchezza. Credo che per molti questa pandemia abbia portato alla caduta di “veli di Maja”, aprendo nuove riflessioni esistenziali: tra questi chi, come me, ha avuto la conferma o magari per la prima volta l’intuizione del fatto che qualcosa nella propria vita debba essere ripensato, perché in questo tempo “bloccato” si è sentito più se stesso di quanto non lo fosse in una precedente routine fatta di mille gesti quotidiani privi di un significato profondo. In una lettera pubblicata il 21/03 da «Repubblica», lo scrittore israeliano David Grossman riflette proprio sull’impatto rivoluzionario che questa forzata “pausa di riflessione” potrebbe avere sulle relazioni
e l’esistenza delle persone: «Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui». E ancora: «Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza».
Per questi uomini e queste donne, l’epidemia e il conseguente ritorno a se stessi, alla propria sfera di relazioni più autentiche, rappresenterà sicuramente un’occasione di ripensare la propria vita o di consolidare la strada già intrapresa in questo senso.
C’è però un’altra faccia dell’epidemia, che nel mio caso si è manifestata solo in un secondo momento e con il procedere dei giorni; nella mia mente hanno iniziato a insinuarsi dei pensieri molti negativi, accompagnati da sensazioni di disagio e straniamento che ho identificato principalmente come: senso di prigionia e assenza di libertà.
L’assenza di libertà si è fatta sentire in modo molto intenso il giorno in cui, in seguito a un litigio avvenuto in casa, ho realizzato a un livello più emotivo e profondo il fatto che, se anche avessi fortemente voluto uscire e andarmene, non avrei potuto. Fino ad allora mi ero come negata questa realtà, immersa com’ero nel mio tempo ritrovato. Ma in quel momento le sbarre si sono fatte sentire all’improvviso, molto forti. In quella vita stavo bene, ma non avrei potuto sceglierne una diversa, neanche per un’ora o per un giorno. Concentrarmi sull’assenza di una reale possibilità di scelta mi provocava una sensazione quasi fisica di panico. Ho cercato allora aiuto nella filosofia e ho riscoperto e sentito molto affine il pensiero del filosofo stoico Epitteto. Come Epitteto, anche io mi trovavo in una situazione in qualche modo di “schiavitù”: non poter uscire, non poter vedere altre persone, essere imprigionata in casa erano, rispetto alle mie abitudini precedenti, una forma molto forte di riduzione delle libertà. Cosa potevo controllare rispetto a questa situazione? Solo una cosa, ossia la mia mente. Più forte era la mancanza di controllo su quello che accadeva esternamente e sul mio corpo, ossia sulla libertà del mio corpo di spostarsi/essere altrove, tanto maggiore poteva diventare il controllo della mia mente. La mente è il luogo di libertà che nessuno mai e in nessun tempo potrà sottrarci. La lettura di Epitteto è stata una sorta di biblioterapia. Innanzitutto nel Manuale il filosofo ci esorta a operare una
distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che, invece, non dipende da noi. Nel nostro caso appunto, ciò che non dipende da noi è la possibilità di uscire, mentre dipende da noi il come sentirci dentro le mura di casa: dobbiamo per forza viverle come una gabbia, come una costrizione? Non necessariamente. Non dipende da noi la situazione attuale, ed è dunque una strada vana e dolorosa il cercare di controllarla; in questo caso mi sembrava una riflessione che ben si applicava a un contesto di calamità e di contingenza inevitabile. Devo precisare infatti che in questa situazione personalmente non mi sentivo vittima delle scelte arbitrarie di uno Stato autoritario, ma protetta da misure che lo Stato non poteva non intraprendere e applicare per tutelare la salute dei suoi cittadini. La privazione delle libertà personali di tutti in questo specifico contesto si configurava, dal mio punto di vista, come l’unico modo per garantire diritti fondamentali quali quello alla sopravvivenza o a essere curati in ospedali non collassati per le troppe terapie intensive.
Ecco, a fronte di una situazione di privazione delle libertà come “male necessario” poco si poteva fare per cambiare la situazione, e anzi non era neppure consigliato. Se però non sempre è controllabile ciò che accade, lo è sempre il modo in cui viverlo. Lì c’è tutto il potere dell’essere umano. Questo passaggio del Manuale [5] mi è parso in quest’ottica particolarmente illuminante: «Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose. Per esempio, la morte non ha nulla di temibile, altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate. Ma è il giudizio che noi formuliamo sula morte, cioè che essa è temibile, ad essere temibile nella morte. Pertanto quando incontriamo delle difficoltà e siamo turbati o tristi, non attribuiamo la responsabilità ad altri, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi: è proprio di chi non è ancora stato educato attribuire agli altri la responsabilità dei suoi mali; è proprio di chi è all’inizio della propria educazione attribuirne la responsabilità a sé stesso; è proprio di chi ha completato la propria educazione non attribuirne la responsabilità né ad altri né a se stesso».
Questo nel nostro caso non vuol dire naturalmente ignorare la realtà o catapultarsi in un mondo parallelo estraneandosene, attraverso uno sforzo della mente che non sarebbe né sano né accettabile. Significa piuttosto accettare la realtà, concentrandosi su ciò che in essa si può fare: dentro le mura di casa, siamo liberi; con la mente, possiamo evadere; la pandemia è in atto, ma stiamo bene. Ho provato a sostituire al pensiero negativo e ricorrente dell’impossibilità di uscire quello presente della realtà intorno a me: la mia casa, i miei famigliari in salute. Questo voleva dire anche concentrarsi sul presente invece che su un futuro minaccioso o sospeso.
Credo che, in un periodo come questo, chi ha pratica di meditazione si sia trovato enormemente avvantaggiato: ho rimpianto di non aver mai trovato il tempo di dedicarmi a questa pratica, cosa che sicuramente farò una volta uscita dalla quarantena. La tendenza generale a riempirsi la giornata di attività mi è sembrata al contrario un modo per anestetizzarsi, un rifiuto di “cambiare passo”, di rallentare, in un momento in cui si era chiamati a farlo. Per quanto mi riguarda, la semplice consapevolezza di poter controllare la mia mente, il concentrarmi sul mio mondo interiore piuttosto che su quello esterno, accettando le emozioni che provavo ma evitando che producessero e alimentassero immagini negative e catastrofiche, mi ha aiutato a ritrovare equilibrio interiore in una fase in cui mi sentivo in balìa degli eventi, o per meglio dire “in trappola”.
Ad oggi vivo bene la quarantena dal punto di vista mentale e cerco di convivere con l’incertezza che ci riserva il futuro, anche limitando i pensieri in questo senso. Mi è servito anche scegliere di dedicare solo un’ora al giorno all’informazione sulla situazione, per essere preparata e allineata, ma non continuamente bersagliata da notizie ansiogene: anche questa era una cosa che potevo controllare, l’effetto delle informazioni su di me, e ho cercato di farlo.