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È tempo di crisi per la nostra visione del mondo (?

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Allimprovviso?

Allimprovviso?

Annarita Dibenedetto 1

Premetto: io adoro stare a casa e amo stare da sola. In questi giorni di quarantena, tuttavia, la prima è diventata un’imposizione e la seconda un’impresa ostica. L’impossibilità di scegliere pende greve sulle teste di ciascuno di noi, obbligandoci a una rimodulazione identitaria: io, ad esempio, entro le mura domestiche sono abituata ad essere moglie, madre, ma ora devo chiedere asilo anche per poter essere il “resto”: lavoratrice, amica e figlia che non abbandona i propri cari. Sono necessitata a ricalibrare i miei spazi mentali. Nei primi giorni, faticavo a tenere tutto assieme entro queste pareti; poi ho compreso che non sono le nostre abitazioni i confini e i limiti della nostra identità, bensì le crepe che – sotto i colpi di questa inusuale situazione storica – si sono create all’interno della mia visione del mondo. Consapevole di ciò, mi sono adattata, cercando di attivare le risorse interne atte a fronteggiare la crisi. Paura, angoscia – dettata dall’invisibilità di ciò che ci minaccia ‒ e preoccupazione per il futuro hanno inferto un duro colpo a quello slancio vitale che connota i nostri giorni, spesso inconsapevolmente. A volte ho come l’impressione che, sino ad ora, la mia vita sia stato un’accurata opera di mandala, e che ora il vento – e non il mio soffio o la mia mano – l’abbia vanificato. Insomma, la sensazione è quella della perdita di controllo della propria esistenza. Ma noi sappiamo che l’esistenza è autentica non perché la controlliamo, bensì perché scegliamo di accettare anche il limite e l’angoscia che possono contribuire a definirla. Viviamo una situazione limite, che ci pone al cospetto del nostro essere-per-la-morte. Ma possiamo cogliere la sfida e sfruttare l’angoscia esistenziale che ne deriva?

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Emozioni e determinati sentimenti si mettono di mezzo, non lo nego. Diamo loro un nome: nervosismo e frustrazione; il primo perché ci sono troppe cose da

Counselor Filosofico Professionista ISFiPP, Docente del Laboratorio di lettura testi, Tutor del 1 Master di specializzazione in Counseling Filosofico SSCF & ISFiPP, collabora con la casa editrice Loescher in qualità di redattrice autoriale ed editoriale. 176

tenere assieme, appunto (i compiti a distanza per i figli, faccende domestiche, mancanza di spazio e tempo in solitudine per elaborare e decomprimere i pensieri), la seconda perché, preda del primo, si rischia di perdere qualcosa (non riuscire a seguire come si deve i figli perché bisogna telelavorare, telefonate con i genitori anziani mancate, cura della casa, etc.). Paura, ansia e terrore, foriere di domande e pensieri trasudanti angoscia: “e se mi ammalassi?”, “cosa accadrebbe se dovessi morire? che ne sarà di mia figlia?”, “che morte terribile sarebbe? non potrei salutare nessuno: morirei in solitudine”, “devo proteggere mia madre, che è anziana… ma, se non la vedo, si sentirà sola”, etc. Insomma è crisi. E, almeno all’inizio, ho dovuto lottare per non cadere nella ruminazione mentale, in questi mantra negativi fatti di pensieri ossessivi che rischiavano di rendere ancora più ostica l’accettazione del momento attuale, rovinando proprio ciò che, invece, è nelle mie mani: il presente.

Pian piano si è fatta strada la forza, la voglia di non perdere il Senso di questi giorni. Sembrerà banale, ma non ho fatto che accettare i limiti in cui mi imbattevo: non potevo essere tutte quelle “Annarita” contemporaneamente, bensì potevo semplicemente consentire a ciascuna di esse di vivere l’attimo per cui era chiamata: madre, quando mia figlia deve fare i compiti e necessita della mia presenza per giocare o stare semplicemente in compagnia; moglie quando si tratta di ascoltare un marito che, ogni giorno, esce esponendosi al contatto con l’altro; figlia e lavoratrice … Insomma, anche se non agivo tutti i miei ruoli in ogni singolo giorno, mi permettevo così di vivere quelli prioritari rispetto al momento, perdonandomi per aver dovuto mettere da parte gli altri. Le priorità.

Questo a livello pratico e per quanto riguarda la mia vita di singolo individuo. Ma poiché so di essere quello che sono anche in virtù del rapporto con gli altri, non posso indulgere nell’autoreferenzialità. Perché mai, in altre circostanze (storiche), mi sarei permessa di parlare di me. Invece ora me lo concedo in quanto so e vedo che i vissuti individuali parlano a gran voce in tale momento situazionale: la pandemia, che ci accomuna tutti in una situazione di “gettatezza”, ci ricorda che “gettati” siamo ab origine e, paradossalmente, ci fa uscire dall’uniformità gregaria apparente per lasciar parlare ognuno con se stesso. Per questo io credo che, ciascuno di noi e a seconda delle proprie caratteristiche, stia avendo la possibilità di dialogare autenticamente con la propria interiorità. Siamo obbligati, difatti, al silenzio, lontani dai divertisment cui siamo abituati, impossibilitati a stordirci per non sentire. È un appello ad ascoltarci, a confrontarci con ciò che siamo e che con l’esistenza che conduciamo. Un’opportunità di bilancio sull’autenticità o inautenticità delle nostre esistenze.

Questo dialogo interiore, volto alla chiarificazione di una visione del mondo messa alla prova, ci fa aprire per la prima volta a un incontro nuovo con l’altro, più significativo. Siamo immersi nel mondo e ne abbiamo consapevolezza. Grazie ad essa, entriamo in relazione con un atteggiamento rinnovato, ancora più empatico. Possiamo conoscere l’altro, condividere le paure o le speranze legate alla situazione che ci accomuna; siamo quasi immersi in una sorta di cosmico dialogo di counseling filosofico: tutti pari, accomunati dal “problema”. Si scoprono nuove opportunità ed emergono gli sforzi per tenerci assieme, anche in mancanza della presenza corporea: i mezzi informatici sono, finalmente, riapprezzati nella loro utilità originaria (metterci in comunicazione/relazione), si pensano soluzioni fruttuose per portare avanti i nostri progetti esistenziali (lavorare, studiare, reperire risorse di prima necessità). Il superfluo è, poi, bandito, e l’essenziale emerge dallo sfondo in cui è stato celato (un esempio banale è l’andare a fare la spesa: non tutti i giorni, e – quando la fai – compri il necessario). Insomma, dobbiamo far ricorso a tutte le nostre risorse interiori per spuntarla sull’Angoscia, che – se non colta come opportunità – ci farebbe soccombere passivamente al momento. Lottiamo per continuare a realizzare i nostri progetti esistenziali.

Counselor Filosofici e professionisti della relazione di aiuto, avvertono l’appello alla coerenza: non possiamo non essere filosofi ora, dobbiamo incarnare quello in cui crediamo e viverlo. È un’ulteriore occasione per lavorare su noi stessi, per procedere nel cammino della consapevolezza, cosa che ci permetterà di svolgere in maniera ancora più fondata il lavoro in cui abbiamo fede e che, soprattutto, abbiamo scelto.

Stiamo affrontando un momento che ci rammenta la nostra finitezza, di cui dovremmo essere consapevoli, ma che tendiamo – nel quotidiano – a rimuovere; non possiamo sapere cosa sarà e ci sentiamo impotenti al cospetto di questa spada di Damocle che pende sulle nostre vite. Di recente, per il corso di Lettura Testi, ci siamo confrontati con l’Elogio della Filosofia , di Maurice Merleau-Ponty. 2 Questo testo, come evinto dalla discussione in merito, è ricco di spunti di riflessione attuali rispetto al nostro tempo. Dalla Post-fazione, di Carlo Sini, traggo la seguente citazione, per concludere questo excursus personale sulla mia personale visione del mondo messa alla prova dal confronto con la dimensione di finitezza ricordataci dal Covid 19: «Nell’Elogio della Filosofia, Merleau-Ponty avvia una riflessione su quale sia l’essenza e la funzione del pensiero filosofico sia nell’ambito del sapere e della cultura, sia più in generale nella vita. Il sapere filosofico ha la sua origine nella condizione costitutivamente umana del nonsapere […]. In questo senso la Filosofia non può mai venir ridotta a scienza, così

come il non-sapere umano non può mai venir “risolto” in un sapere certo e definitivo. Questi due aspetti, tuttavia, non costituiscono per Merleau-Ponty un limite e una negatività assoluta […]. Il rapporto dell’uomo con la verità, con il suo modo di avere il mondo, l’espressione profonda della sua libertà vivono e sussistono solo nello scarto e sul fondamento della finitezza di ogni esperienza, nel suo carattere mai risolutivo e mai decisivo. […] La Filosofia si colloca, come la vita di ogni uomo, fra la trascendenza assoluta del valore e l’immanenza universale della storicità. Fra questi due assoluti, che peraltro si richiamano e si compenetrano reciprocamente, la vita dell’uomo, al di là di astratte ideologiche contrapposizioni ed esclusioni, di fatto si apre sempre di nuovo un varco che è il principio stesso di ogni concreta esperienza e di ogni linguaggio creativo […]. Merleau-Ponty rivendica il senso della Filosofia ritornando […] alla figura di Socrate. Proprio l’esempio di Socrate induce a rammentare che la Filosofia non è un libro, una disciplina, una mera scrittura, ma è un carattere di vita e un’esperienza. Nel suo “senso”, cioè, la Filosofia non è mai una dottrina, ma uno stile interpretativo in atto, un atteggiamento descrittivo rivolto al mondo e a noi stessi, e da questo punto di vita la Filosofia è sempre fenomenologica». 3

Questo brano ci ricorda le coordinate cui far affidamento per non smarrire la via: Socrate, Filosofia come stile di vita e atteggiamento filosofico.

Bibliografia

Bergson, H., L’energia spirituale, Raffaello Cortina editore, 2008 Heidegger, M., Essere e tempo, Longanesi, 2005 Jaspers, K., Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio Ubaldini editore, 1983 Merleau-Ponty, M., Elogio della Filosofia, editore Se – Piccola Enciclopedia, 2008

Torre, M., Esistenza e progetto. Fondamenti per una psicodinamica, Edizioni Medico-Scientifiche, 2015.

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