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Il Counseling Filosofico come apertura di varchi possibili
Giovanna Lo Giacco 1
La pandemia mondiale ci ha colto impreparati, ma impreparati non è forse il termine più appropriato. La pandemia mondiale ci ha colto, mentre stavamo facendo tutt’altro e lasciandoci in un territorio non conosciuto.
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Lo stavamo facendo di corsa, in affanno, rincorrendo ciascuno un proprio obiettivo o programma costruito o capitato. Ci ha rallentato. Lo hanno chiamato lockdown, la chiusura che è partita dalla prima zona rossa per arrivare a far diventare rossa l’intera Italia e tutti gli altri paesi dopo. In un certo senso ha mostrato quanto siamo connessi e dipendenti e quanto sia imprevedibile la vita, che può cambiare improvvisamente da un giorno all’altro. Può fermarsi tutto. La vita, l’amore, e quello che chiamano normalità.
In questo territorio ha cominciato a farsi spazio una novità senza connotazioni definite e senza una fine circoscritta. Nessuno sa quando e come finirà la pandemia, né quale sarà l’esito. In questa incertezza e indeterminatezza risulta difficile anche l’esercizio della speranza, quella risorsa e competenza che ci supporta nella capacità di reagire con fiducia al mistero dell’esistenza. I media hanno usato le parole della guerra, del nemico. E’ tornato il patriottismo dai terrazzi, in alcune finestre sventola il tricolore, qualcuno se la prende con chi corre, alcune aziende si sono riconvertite alla produzione di mascherine, i medici e il personale sanitario sono diventati eroi.
Eppure non è una metafora che ci ha consolato. I morti civili sono morti senza armi, gli eroi che stanno combattendo sul fronte avrebbero preferito avere dpi adeguati e scelte sulla sanità in passato più oculate. A chi chiederemo una rivincita?
E soprattutto cosa si vince? Chi ha perso lo ha fatto senza possibilità di combattere, senza sapere prima di morire come c’era finito in questa guerra. E
dovrebbe pure sentirsi un perdente? Il paradigma agonistico e belligerante ci lascia senza soddisfazione. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che siamo in guerra, ma che esista una cura.
Ed è questa incertezza e indeterminatezza a far scaturire nei più un bisogno di Verità. La si ricerca soprattutto dalla scienza, dal Comitato Tecnico Scientifico più e più volte nominato dal Presidente del Consiglio, la si ricerca da chi è al governo affinché in maniera eteronoma, ci fornisca le griglie di comportamento da mantenere per agire nella misura più opportuna. La si ricerca in un accomodante bisogno di delega, per sopportare la paura. Delega che si riscontra nell’indossare una mascherina, nel fare la fila ad un metro di distanza, nell’amuchina prima di entrare in un negozio. Eppure come diceva Wittgenstein “noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati”
La paura si è nutrita di immagini che non erano nel nostro immaginario di prossimità. Camion in fila trasportando bare di morti senza commiato né funerali, il gazzettino dei decessi alle 18.00, l’incombente Signora Morte, che si aggira senza preavviso camminando sulla curva epidemiologica. La paura di un virus non conosciuto, contagioso, mortale, che non fa eccezioni e che è invisibile. La paura dell’invisibile, che può essere in ogni luogo, in ogni momento, in qualunque cosa facciamo. La paura del pericolo. La paura dell’altro, come altro da me.
La paura dell’altro combattuta con il distanziamento sociale, termine fuorviante, perché di distanza imposta c’è solo quella dei corpi non della relazione. La paura dell’altro che evitiamo sul marciapiede, perché è sicuramente lui contagiato o asintomatico, non certo io. La paura della possibilità.
È cambiato il nostro modo di lavorare; è diventato smart e agile che in ultima istanza vuol dire che è concesso lavorare in pigiama. Sono cambiate le nostre geografie urbane. Siamo tornati a vivere i quartieri ma ci siamo nutriti di immagini delle nostre città adesso silenziose, deserte e senza volti. Sono cambiate le nostre geografie affettive, filtrate da uno schermo, alimentate da videochiamate, separate dai confini di un comune o dal non rientrare nei motivi di un’autocertificazione. È mutato l’esercizio della libertà e di tutti quei diritti da sempre dati per scontati che ci siamo sentiti di problematizzare e a cui stiamo ridando voce. E’ cambiata la nostra routine e il senso che diamo alla parola futuro. Alla parola progetto.
Sono cambiate le nostre conversazioni e i temi di queste. Il lessico quotidiano si è improvvisamente adattato: Hai preso la mascherina prima di uscire? Ti sei lavato le mani? Hai stampato l’autocertificazione? Vado a trovare un congiunto! Ma io e te, siamo affetti stabili? Sono mutate le parole da dire ai bambini che dopo i primi arcobaleni dell’andrà tutto bene hanno cominciato a chiedersi perché. Sono 61
cambiate le nostre geografie domestiche e all’interno delle nostre case abbiamo dovuto ritrovare un nostro spazio, convivendo anche coattamente insieme per tempo prolungato in ristrettezze e disagio. Il tanto tempo a disposizione ha portato la paura di occupare l’horror vacui. Siamo passati da avere poco tempo ad averne troppo. #Iorestoacasa non è stato lo stesso motto per tutti. Le sofferenze e insofferenze si sono accentuate e la pandemia ha aperto il vaso di pandora degli squilibri economici e sociali.
Il filosofo escluso da ogni task force ufficiale, non può esimersi da osservare. Non ha la fretta del dire, né l’obbligo di farlo in maniera definitiva in un momento in cui ciascun settore vorrebbe sovrastare l’altro con la fiaccola della verità e il so tutto io, senza poterlo sapere. Il filosofo sta nella corrente e accompagna i naviganti. Sta alle vele e governa l’armamentario con perizia, prudenza e calma. Senza la fretta di doversi sbilanciare. Passo per passo. Dove si va? È importante adesso?
Osserva però anche tutte quelle forme di resistenza di bellezza che hanno mostrato la capacità adattiva umana al cambiamento:
Gruppi di persone che si uniscono per fare la spesa agli anziani, associazioni di volontariato sociale che in pochissimo tempo si attivano per raggiungere il maggior numero di persone, la vita dei terrazzi e dalle finestre, chi canta, chi regala una melodia al pianoforte, chi dice: voglio fare qualcosa per gli altri. I musei che si aprono online e gratuitamente per tour virtuali di bellezza, i cinema che mettono a disposizione una programmazione di film, gli informatici che si attivano con app per migliorare la qualità della vita con la distribuzione di farmaci o con il monitoraggio della fila dei supermercati, gli attori di teatro che regalano performance, gli artisti che organizzano aste per raccogliere fondi per l’acquisto di respiratori e tutti quelli che hanno supportato donando, i gruppi social territoriali e nazionali per scambiare informazioni utili a tutti, le biblioteche che scannerizzano libri per garantire la consultazione, gli sportelli gratuiti di supporto psicologico e di counseling. E tanti altri accomunati da una forza artistica, intendendo con arte tutto ciò che riesce a tracciare nuovi sentieri di resistenza.
I social media diventano veramente sociali, intessuti di senso di vicinanza e di comunità e l’umorismo e l’ironia che contraddistinguono la cultura italiana si estendono alla gestione della pandemia e diventano un’ancora di salvataggio. Un video ironico è la risata alla fine di una giornata.
Ma la filosofia non è per vocazione esercizio della meraviglia? Quale meraviglia poter donare in pandemia?
Non sappiamo dove andremo, la bussola è impazzita. In questo momento siamo naufraghi e se qualcuno non ha il coraggio di dirlo il filosofo deve. Tuttavia come Ulisse siamo in una peregrinazione di scoperta. Non navighiamo nella certezza, ma per scandagliare il possibile. Abbiamo lasciato Itaca alle spalle e non sapremo nemmeno se vi faremo ritorno. Sicuramente saremo diversi, ciascuno avrà la sua Itaca dentro. Quel che è certo è che abbiamo un’opportunità e il filosofo deve avere il coraggio di dire che va vissuta e va giocata. Sarà di riscoprire lo sguardo e gli occhi con il viso coperto da una mascherina? Sarà di aver letto quel libro durante la quarantena? Riscoperto gli affetti che sono essenziali e di cui non possiamo fare a meno? Avere letto una poesia? Ritrovato in un armadio un ricordo? Giocato con un figlio a nascondino? Aver capito cosa ci rende felici? Che vogliamo gettare tutto all’aria? Che ci siamo innamorati di un altro? Avere voglia di gonfiare le ruote della bicicletta?
La verità a volte è un’epifania. Qui sta la meraviglia.
Può fermarci la paura della morte? Andrebbe affrontata come suggeriva Montaigne “Voglio che la morte mi colga mentre pianto i miei cavoli, per niente preoccupato per lei e meno ancora del mio orto imperfetto”
E allora per giocare lascio le parole che avete trovato sparse nel testo in grassetto, da mescolare come stiamo facendo con le nostre nuove forme di esserci, di essere qui, ora e nella corrente: Perché il possibile è opportunità, la relazione è cura, l’altro è futuro, la vita va giocata.