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Serve la Filosofia durante il CoVid-19?

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Parole silenziose

Parole silenziose

Marco Calvelli 1

L’isolamento, come diceva Walter Bonatti, acutizza la sensibilità ed amplifica le emozioni, ma lo sappiamo accettare? O da animali iper-sociali e globalizzati quali siamo lo consideriamo solo una pericolosa minaccia?

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La quarantena di questo periodo ci è stata descritta prevalentemente come un periodo di inattività e noia…

Personalmente già a inizio marzo ho dovuto incrementare notevolmente l’orario lavorativo, peraltro non retribuito, soltanto per studiare la miriade di Decreti e Ordinanze che si susseguivano (spesso senza una reale valenza giuridica) a colpi di dirette Facebook per lo più notturne!?

Quindi oltre a continuare, per quanto possibile, a lavorare si è aggiunta la necessità di informarsi sulla evoluzione delle Normative che interessavano praticamente ogni tipologia di attività e di “gestire filosoficamente” i propri interlocutori quotidiani, fossero loro collaboratori, clienti, fornitori, conoscenti o familiari tra i quali si potevano manifestare reazioni eccessive in un senso o in quello opposto, passando dalla clausura estrema all’indifferenza totale.

Il tutto senza sottovalutare il rischio epidemiologico e conformandosi ai comportamenti raccomandati.

L’impegno professionale non è diminuito neanche durante la chiusura completa in cui sono stato preso dall’analisi delle conseguenze di questo periodo sia a livello lavorativo che personale senza trascurare gli aspetti sociali e collettivi che sono stati e saranno probabilmente modificati drasticamente.

Quindi le riflessioni, inevitabili e necessarie, si sono concentrate sul senso della vita mio e di chi dopo qualche giorno a casa propria iniziava ad andare in escandescenza perché “voleva uscire!”

Amm.re CMW Engineering, docente scuole professionali, facilitatore LSP, ex Ufficiale A.M, Master 1 in Innovation Management, Emotional Intelligence, Counselor Filosofico in formazione (III Anno) SSCF & ISFiPP, kung fu e sax 64

E ciò mi ha indotto, senza dare giudizio sugli altri, a mettere in discussione il mio modo di vivere questo periodo ed a confrontarmi, per quanto possibile, con le mie relazioni consolidate.

Dovrei essere più agitato? Perché non mi annoio se tanti dicono di farlo? Sbaglio atteggiamento se non sono terrorizzato e non cerco su internet fantomatici rimedi al coronavirus?

Queste le domande che mi sono posto e che ho analizzato riuscendo a trovare un senso anche nel modo di agire altrui visto il vero e proprio bombardamento mediatico unidirezionale che abusava costantemente di metafore e terminologie di guerra (nemico, trincea, eroi, guerrieri, prima linea, bazooka, ecc).

Ma siamo davvero in guerra? Cosa dobbiamo sconfiggere? Chi è il nemico?

Il virus è sicuramente la risposta più ovvia ma nella realtà è uno dei tantissimi con cui abbiamo e avremo a che fare e che, per di più, nell’80% dei casi è addirittura asintomatico. La miglior difesa è lavarsi le mani, cosa a cui il virus è molto sensibile, stare a distanza di sicurezza e portare una mascherina se siamo a meno di 1 – 1,8 - 2 metri (a seconda delle interpretazioni!?). Quindi in sostanza quando sono a casa mia il nemico non c’è ma è la causa più o meno indiretta che mi costringe a starci impedendomi liberamente di uscire se non per determinate ragioni. E questo, è il caso di dire, ci toglie l’aria!

Anche il virus ci impedisce di respirare correttamente ma ne siamo capaci e consapevoli anche senza venirne infettati? Abbiamo la tranquillità e serenità di respirare la nostra vita? Di respirare il nostro tempo sia individualmente che collettivamente?

Cosa ci manca veramente a casa? Siamo capaci di rimanere soli con noi stessi senza avere paura? Senza vederci magari come un avversario da sconfiggere?

E nella metafora della guerra cos’è che fa più paura: uscire ed affrontare, forse, il Virus o restare in casa ed affrontare noi stessi?

Lo stato di emergenza era stato ufficializzato in Italia sulla Gazzetta ufficiale a fine gennaio, cosa a cui non si è dato troppo peso forse perché siamo troppo abituati alle emergenze, vere o fittizie, che nella fresia del quotidiano ci annebbiano la scala dei valori. Ma ci si può abituare al sovraccarico di urgenze o emergenze?

La maggioranza delle procedure di emergenza sono accumunate dalla prima regola:

Mantenere la calma.

E come si fa a farlo? Basta spegnere l’interruttore dell’agitazione? Sarebbe semplice se fossimo dei meccanismi governati solo dalla regola azione-reazione e se ci pensiamo come banale organismo tecnico/razionale magari è plausibile. Certo l’illusione riduzionista che basti la volontà, la tecnica per gestire le nostre emozioni soprattutto nelle emergenze può essere rassicurante ma dura veramente poco, e lo abbiamo visto.

Un’azione da compiere in completa autonomia; stare calmi!

Perciò anche l’isolamento in una situazione del genere dovrebbe essere facilmente gestibile se bastasse scegliere, decidere di rimanere calmi. Ma se non ne fossimo capaci?

Vero è che la solitudine ci mette di fronte a una dimensione divenuta ormai rara, quasi sconosciuta all’uomo moderno. Infatti oggi più che mai l’uomo ha paura di affrontarsi nella solitudine, teme quasi di doversi riconoscere, di doversi riconquistare.

Ma tanto basta “mantenere la calma”, c’è scritto nella procedura d’emergenza!

Una solitudine imposta non è sicuramente paragonabile a quella volontaria degli eremiti o dei saggi orientali ma ad ogni modo potrebbe rappresentare un’occasione di crescita se ne ammettessimo almeno la possibilità.

Quali relazioni possiamo costruire e coltivare se non siamo capaci di relazionarci con noi stessi?

E’ l’unica relazione da cui non potremmo mai sottrarci eppure siamo convinti di poterlo fare come se fossimo un oggetto esterno a noi stessi e questa facoltà ci fosse concessa come quando decidiamo di incontrare o meno un altro.

In questo momento ho visto emergere con violenza rifiuti relazionali, rifiuti comunicativi, rifiuti di ascolto anche tra persone che avevano rapporti decennali e che, in un momento di emergenza, non hanno mantenuto la calma.

Responsabilità loro? Paura dell’incontro con se stessi che sfoghiamo sugli altri? Frustrazioni casalinghe che esplodono senza controllo? Oppure liberazione da emozioni latenti che ci logoravano nel profondo?

Non lo so, ma resta il fatto che ci sono state persone che seppur desiderando di incontrarsi, di relazionarsi, di comunicare non ne hanno avuto la possibilità perché è stato loro impedito con la forza.

“Chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane!”

Mi riferisco soprattutto a quei malati che sono stati tenuti in isolamento forzato e costante anche quando si avvicinavano alla propria ora, come non avevo mai visto neanche nei reparti infettivi che mi è capitato, purtroppo, di frequentare.

Per carità dobbiamo mantenere le distanze, proteggerci, evitare il propagare del contagio, ma l’impedire a chi sta morendo di vedere un’ultima volta i propri affetti ed a questi addirittura di vedere il congiunto neanche quando fosse ormai nella bara mi pare una barbarie inaudita non giustificabile con un decreto notturno non meglio specificato.

Se succedesse a me di esser chiamato ad assistere un morente lasciato solo non esiterei un istante!

E non solo nella malaugurata ipotesi che fosse un mio conoscente ma anche per qualsiasi altro essere umano che considero indegno abbandonare disinteressatamente in nome di una protezione collettiva che non si è peraltro neanche rivelata efficiente.

Mi proteggerei con indumenti idonei e quello che prevede il famigerato protocollo, non sono certo un eroe ma solo un essere umano che ritiene doveroso accompagnare durante l’ultimo fatal passaggio chi ne abbia necessità o desiderio a prescindere da chi sia e cosa abbia fatto in vita.

E’ giusto che chi non sa naufragare dolcemente nel frastuono del silenzio abbia qualcuno accanto che glielo renda lieve.

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