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Vivere ( o sopravvivere) ai tempi del corona virus. Impressioni si una counselor in formazione
Vivere (o sopravvivere) ai tempi del corona virus. Impressioni di una counselor in formazione
Letizia Zoffoli 1
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Mi chiamo Letizia Zoffoli, abito a Savignano sul Rubicone un paesino in provincia di Forlì-Cesena e sono una counselor in formazioni presso la SSCF. Nella vita di tutti i giorni faccio l’impiegata in uno di quei settori definiti “essenziali”, va da sé che in questo momento sto lavorando e non “resto a casa”.
Credo sia molto difficile affrontare questo periodo per chi è chiamato a restare a casa e può uscire a prender aria solo per fare la spesa, ma io posso raccontare solo la vita di chi a lavorare ci deve andare comunque.
La mia routine non è cambiata molto: casa e lavoro, ma come si lavora?
L’azienda in cui sono impiegata si occupa di riciclo e smaltimento rifiuti e disgraziatamente io sono al front office. Per ragioni di sicurezza è stata chiusa a chiave la porta dell’ufficio: così non solo tutti i documenti, ma anche tutte le richieste ed i colloqui passano tramite me e non più smistati tra i vari colleghi che normalmente se ne occupano. Metà dell’ufficio è in ferie forzate o lavora da casa e l’altra metà fa i turni così che spesso mi trovo completamente sola.
Io comincio a lavorare alle 12:30 e appena arrivo la prassi prevede che io sterilizzi tutta la postazione di lavoro perché prima ci ha lavorato la collega. Allora prendo i guanti lo spray igenizzante e la carta assorbente e comincio a pulire. Da prima il piano di lavoro poi tutte le attrezzature come telefono, citofono del campanello, tastiera del computer, mouse, penne puntatrice, timbri, sedia, qualsiasi cosa la mia collega possa aver usato e poi infilo la mascherina e comincio a lavorare o almeno ci provo.
Laurea in filosofia, laurea magistrale in filosofia della conoscenza, della morale della 1 comunicazione presso l’università “Carlo Bo” di Urbino, Counselor Filosofico in formazione ( II anno) SSCF & ISFiPP 114
I vari autisti mi passano i documenti da una piccola finestrella che da su di una struttura di vetro esterna. Una volta quella finestra era sempre aperta ora invece è inesorabilmente chiusa: loro appoggiano i documenti su di un tavolo messo apposta, escono dalla porta ed attendono che io li prenda o glieli riconsegni solo dopo aver richiuso la finestra. Stessa procedura se occorre loro qualcosa: devono attendere fuori fino a quando quella minuscola finestra non si richiude.
Per parlasi si urla tramite un vetro chiuso e comprendersi la maggior parte delle volte è difficile se non impossibile. Peggio ancora se ad aver bisogno è qualcuno che viene a caricare da fuori e non conosce la procedura e non rispetta le norme di sicurezza.
Così lavoro: mascherina, guanti, gel igenizante e un vetro chiuso che rende la comunicazione quasi impossibile.
Lavorare così è quasi impossibile.
Questo mi ha dato modo di riflettere sull’alterità che in questo momento più che un motivo di arricchimento sembra essere diventata il nemico da cui difendersi.
Cos’è l’uomo se non da sempre un “animale sociale”? Siamo fatti per stare con gli altri per vivere di relazione.
Di questi tempi se abbiamo un contatto con qualcuno è severamente regolato (la mascherina, un metro di distanza) perché l’altro è potenzialmente il nemico, il portatore del virus, la causa di un possibile contagio. L’altro ci fa paura. Non riconosciamo più in lui la sua umanità che è uguale alla nostra umanità.
Siamo sempre più soli e abbiamo paura.
La paura del virus si è trasformata nella paura dell’altro del “non-io” e pensiamo: chissà dove è stato? chissà cosa ha fatto? sarà infetto?
Confesso che questi giorni sono estenuanti per me. Vivo questa paura sulla mia pelle e poi mi volto e mi guardo alle spalle: un ufficio deserto per paura del contagio e io lì in prima linea e sola, senza nemmeno qualcuno con cui scambiare due chiacchiere per passare il tempo e alleviare il pensiero che potrei ammalarmi. Vedo tutti tutelati tranne me, perché l’azienda deve andare avanti in un modo o nell’altro.
Mi trovo a vivere in un bipolarismo che mi porta alla schizofrenia: da una parte l’alterità pericolosa e minacciosa e dall’altra la solitudine più totale.
Come piccolo antidoto accendo la musica (tanto non do fastidio a nessuno).
L’unica cosa che mi consola e mi da pace è la filosofia: al mattino studio, come non ho mai studiato prima e mentre sono immersa nei libri, nonostante la fatica, 115
trovo pace e non vorrei mai uscire per andare al lavoro. Vorrei restare lì con i miei libri, i miei autori e i loro concetti che mi danno l’ossigeno che mi serve per continuare a respirare.
Questo virus ha toccato un altro aspetto della mia vita la socialità. Venivo da un brutto periodo e stavo cominciando a riaprirmi al mondo a ricominciare a vedere e stare con gli altri, con gli amici e invece…
L’unico contatto che possiamo avere con gli altri sono un messaggio o una chiamata, ma non bastano, non possono prendere il posto dei veri rapporti del vero stare insieme, del condividere.
Mi è stato detto da un amico che per rimanere in contatto basta whatsapp, ma questo come tanti altri mezzi tecnologici, sono solo mezzi, strumenti, non possono prendere il posto di un abbraccio o di una pacca sulla spalla quando ti servono.
Non avrei mai creduto di dirlo, ma fortunatamente vivo con la mia famiglia e questo mi aiuta tanto a non sentirmi sola. I primi giorni ho pensato che non saremmo sopravvissuti tutti e cinque in casa invece siamo di conforto l’uno per l’altro. Non so come riesca a sopravvivere chi vive solo e non può trovare conforto in nessuna persona fisica. Questo riavvicinamento familiare è l’unica nota positiva che rilevo da questa situazione che è sempre più assurda e paradossale.
Alle prime notizie del contagio, proprio perché mi sto formando con Counselor Filosofico, mi sono chiesta quanto ci avrebbero portato via e la risposta è stata: tutto! In primis libertà di movimento e diritto di lavorare, ma soprattutto la socialità.
Mi sono posta l’antica domanda filosofica: a cosa siamo disposti a rinunciare in nome di un bene superiore? Quanta libertà siamo disposti a cedere?
In situazioni normali nessuno di noi si lascerebbe dire dove può andare, quanto si può allontanare, in che perimetro deve restare, ci parrebbe assurdo e ci ribelleremmo con tutte le nostre forze. Eppure oggi lo facciamo in nome della salute comune (un bene superiore appunto, o presunto tale).
La stessa cosa vale per il lavoro: quale esercente o imprenditore accetterebbe orari imposti o addirittura la chiusura forzata della propria attività? Eppure oggi ubbidiamo.
Ma il bene più grande di cui siamo stati privati è la socialità: la possibilità di stare con l’altro, di condividere, di gioire e di soffrire con l’altro. Sì perché anche nella sofferenza siamo soli: soli nelle nostre case, soli i malati in quarantena, soli i malati nei letti di ospedale, con infermerei e medici giustamente tutti bardati che possono limitarsi a sorridere solo con gli occhi per tentare di far loro forza dietro 116
alle loro mascherine chirurgiche. Soli sono anche i defunti a cui viene negato anche l’estremo saluto da parte dei cari e degli amici senza la possibilità per loro di celebrare i funerali. Anche nella morte siamo soli. Non siamo mai stati così lontani e tutta la tecnologia del mondo non può rimediare a questa assenza incolmabile.
Questa situazione ci spinge a guardarci dentro a riesaminarci. Il mondo è fuori e noi siamo soli con noi stessi, ma se quello che vedessimo dentro noi stessi non ci piacesse o addirittura ci terrorizzasse e atterrisse? “E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te.” diceva Nietzsche. Se questo vuoto, questo nulla fosse la cosa peggiore che potesse capitare all’uomo? Cosa mi dice su di me e per me questo abisso che mi scruta dentro?
Io non ho risposte a tutte queste domande e credo nessuno le abbia. So solo che fa paura.
Noi Counselor e futuri Counselor Filosofici dovremo fronteggiare questa sfida: la sfida di dare risposta a questo vuoto esistenziale che qualcuno, forse, affronta per la prima volta nella sua vita, a tutto il non-senso ed al dolore che la malattia lascerà dietro di sé. Questi strascichi saranno lunghi e queste ferite difficili da rimarginare. Mai come ora mi sono sentita impreparata e ho trovato fondamentale il mio percorso di formazione presso SSCF.
Non so se, come molti dicono ne usciremo più forti e migliori, credo piuttosto che ne usciremo a pezzi e che questi pezzi saranno un complicatissimo puzzle da ricomporre.
Occorre poter tornare a guardarsi negli occhi e riconoscere un amico, potergli stringere la mano, poterlo abbracciare, poter andare a cena, a prendere un gelato, a fare una passeggiata con lui. Occorre ritrovare l’altro non più dietro ad uno schermo e non più come nemico per poter anche solo pensare di cominciare a ricostruire qualcosa. Se poi sarà migliore o peggiore di prima “Ai posteri l’ardua sentenza”.