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La mia vita quotidiana al tempo del coronavirus

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Parole silenziose

Parole silenziose

Federico Bottigliengo 1

Èmolto difficile per me scrivere su carta riflessioni intorno a fatti personali, alla mia vita privata. Non sono per nulla abituato a farlo: per carattere sono riservato e ho la tendenza, sebbene non come un tempo, a tenere dentro di me i miei pensieri e le mie considerazioni; inoltre, benché mi piaccia scrivere, tale esercizio lo pratico esclusivamente per testi di lavoro, quale esito di studi e ricerche. Ho tergiversato in queste settimane, ho rimandato per giorni lo scritto e, ancora adesso, mentre batto i tasti del mio computer, percepisco una certa resistenza e non nego di essere scivolato più volte in distrazioni quotidiane. Insomma, mi sono somministrato un vero e proprio auto-sabotaggio.

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Donde iniziare? Certamente dal trauma che ha cambiato drasticamente la mia vita attuale. «Cari tutti, in via precauzionale il Museo Egizio domani, lunedì 24, e martedì 25 rimarrà chiuso al pubblico. Tutte le attività didattiche sono sospese».

Da quel comunicato interno di febbraio fino a oggi, e ancora, verosimilmente, fino al 18 maggio, il museo rimane a tutti inaccessibile. Beffa del destino: il trimestre primaverile marzo-aprile-maggio è quello durante il quale l’istituzione è presa letteralmente “d’assalto” dalle scolaresche con un tripudio di visite guidate, laboratori didattici, lezioni di egittologia per varie fasce d’età. È il periodo in cui riceve la maggior parte degli introiti, che permettono la copertura delle spese dello staff interno, di manutenzione dello stabile e della conservazione dei reperti per tutto l’anno. Un guadagno che si aggira a poco meno di trentacinquemila euro al giorno, a fronte di spese mensili di circa mezzo milione. È il nostro momento – mio e dei miei colleghi liberi professionisti della didattica museale, a vari gradi di

Egittologo, laureato in Lettere classiche a Torino, dottorato di ricerca in Egittologia all'Università 1 “La Sapienza” di Roma. Dal 2001 è operatore didattico museale al Museo Egizio di Torino. Filologo, è specializzato nei testi funerari, particolarmente nelle stele funebri tarde e nei papiri dell’aldilà, Counselor Filosofico in formazione (I anno) SSCF & ISFiPP 118

specializzazione –, il lasso di tempo in cui, vivendo pressoché “murati” tra quelle antiche sale, prosciughiamo le nostre energie psicofisiche, per accumulare quasi la metà del fatturato annuale, che ci permette di pagare tasse e contributi Inps, inesorabili a fine luglio e a fine novembre, e soprattutto a superare indenni i mesi estivi, letteralmente “morti” dal punto di vista lavorativo.

Chiusura del museo. Chiusura delle scuole. Sospensione delle attività didattiche. Dramma.

La prima reazione è stata la paura: una morsa alla bocca dello stomaco e sudore freddo alla fronte, con conseguente mal di testa. Un classico per me. Da molto tempo mi rendo conto che la paura è l’emozione primaria a emergere prepotentemente, allorché accade un evento inaspettato o dagli esiti ignoti.

Posso solo ringraziare gli ultimi anni di lavoro interiore, di meditazione, di analisi bioenergetica e di confronto, che mi hanno permesso di gestirla in un tempo relativamente breve. Non ho pianto: purtroppo non sono riuscito a farlo. La tristezza è l’emozione sulla quale esercito ancora un eccessivo controllo: l’ultima volta che ho pianto, spontaneamente, singhiozzando libero, è stato il 18 febbraio del 2019. Ho addirittura segnato la data, perché è stata la prima volta in cui ho versato delle lacrime dal 2014; ci sono, però, riuscito solo dopo due anni di terapia bioenergetica. Prima del 2014, i miei pianti non si contano neppure sulle dita di una sola mano, a esclusione delle lacrime di bambino o ragazzino. Ad ogni modo, l’impatto è stato molto forte e la mia prima settimana si è alternata tra nervosismo, ansia e almeno uno sbotto di rabbia. Il mio pensiero fisso era, ovviamente, il lavoro o, meglio, la sua mancanza.

La meditazione ha certamente giovato e progressivamente ha portato i suoi frutti: è stato confortante percepire il suo effetto benefico su di me e, mentalmente, ho più volte ringraziato Ron Young, il maestro americano che me l’ha insegnata durante quell’ormai lontano corso di guarigione spirituale, che ho seguito nel 2015 a Trento.

La lettura e il confronto con amici e colleghi hanno fatto poi il resto: con la calma è giunta la progressiva accettazione della situazione e la volontà di trasformare la forzata inattività lavorativa nell’opportunità di portare avanti alcuni progetti “in cantiere”, che ancora non avevo avuto il tempo di concretizzare.

Desidero tuttavia essere chiaro su una cosa, e cioè il fatto di aver usato specificamente il termine “accettazione”: accetto ma non approvo per nulla la decisione governativa di porre in arresti domiciliari la popolazione, causando il 119

collasso dell’economia del paese, con metodo improvvisato e raffazzonato. E il dilagare della paura, sciaguratamente alimentata dai media, ufficiali e non, e dal proliferare delle cosiddette “fake news”, è cosa deplorevole e controproducente. Sono certo del fatto che uccida di più la paura che il virus.

In questi due mesi ho avuto solo un piccolo cedimento, verso l’inizio della quarta settimana di “quarantena” – uso il virgolettato, poiché il vocabolo implica l’isolamento (e l’osservazione) di coloro che sono ritenuti portatori di un qualche agente infettivo, non di un’intera popolazione, con sani e malati egualmente reclusi; senza dubbio, è più opportuno parlare di “arresti domiciliari” –, a causa della prolungata mancanza di contatto umano.

Vivo solo e la mia famiglia si trova in un altro comune, e i vicini di casa e gli amici nella mia stessa città li vedo molto poco e a debita distanza. Mi sono ritrovato a sperimentare addirittura un momento di cruccio, per il fatto di non avere un animale domestico – un gatto, naturalmente –, che certamente avrebbe attenuato il senso di solitudine. Il dispiacere è stato poi aggravato dalla mancata partecipazione in prima persona alle lezioni del master: durante il secondo incontro noi compagni di classe abbiamo avuto modo di “sciogliere il ghiaccio”, andando a mangiare insieme e a stringere rapporti di simpatia e amicizia, che avremmo desiderato coltivare e rafforzare durante i successivi incontri; e così pure l’interruzione del rapporto diretto con i docenti, sebbene inevitabilmente più formale, è stata fonte di grande rammarico. Non nego che sia stato per me una situazione molto triste il fatto di limitarmi a scambiare messaggi via chat o a seguire lezioni online.

È stato, pertanto, sorprendente scoprire quanto mi mancasse – e manchi tuttora – il contatto umano. Quando ero molto piccolo, in effetti, ero un bambino molto fisico, affettuoso, estroverso e, devo ammettere, alquanto vivace, ma col passare del tempo e, soprattutto, da quando ho imparato a leggere, mi sono sempre più distaccato dal mondo circostante, per immergermi in quelli, meravigliosi, che i libri dischiudevano dinanzi a me. Ricordo perfettamente i due aggettivi che la mia maestra delle elementari usò, per descrivermi sulla pagella di fine ciclo: schivo e riservato.

La situazione, poi, è peggiorata tre anni dopo, a seguito della morte di mio padre: da quel momento mi sono totalmente chiuso, metaforicamente “ibernato” in un blocco di ghiaccio, del quale ho fatto molta fatica a liberarmi, e solo negli ultimi anni. Ho riscoperto la gioia del calore umano, dello stare insieme, dell’abbracciarsi, del dirsi “Ti voglio bene” vis-à-vis; insomma, un progressivo ritorno al bimbo del passato. Certo, non sono ancora morbido, fluido e accogliente come vorrei, e so di avere ancora alcune “psico-rigidità”, e tuttavia lo

scambio diretto, fisico, con le persone è diventato per me molto rilevante e arricchente. E, soprattutto, la lettura, che un tempo era stata tutto il mio mondo, ora non basta più. È stata una scoperta dolceamara.

Videochat, videoriunioni, videoconferenze sono state, e lo sono ancora, soluzioni a tampone a malapena sufficienti, per quanto fondamentali alla mia tenuta emotiva. Addirittura, la produzione onirica è giunta in mio soccorso: ho incontrato nei miei sogni più persone in queste ultime settimane, che nei mesi passati, e le emozioni che mi hanno trasmesso tali incontri sono comunque riverberate positivamente nelle ore successive al risveglio.

Un altro punto di riflessione che ho colto chiaramente è stato quanto fosse imponente la presenza del lavoro nella mia vita. Troppo, oserei dire: il museo, del resto, è aperto anche durante il finesettimana, e dunque trascorro molti sabati e domenica tra mummie e papiri. Normalmente, non ho molto tempo da dedicare a me stesso, dall’attività fisica alla cucina – non sono mai stato uno sportivo e ho sempre preferito coltivare l’intelletto a discapito dei muscoli, mostrandomi manchevole nei confronti della saggia indicazione romana “mens sana in corpore sano”. E così mi sono ritrovato, spronato da amici molto zelanti, a fare ginnastica pressoché tutti i giorni e a sperimentare ricette che, verosimilmente banali ai più, fino ad allora ritenevo inaccessibili, come la pizza, gli gnocchi o le frittelle di mele.

E dunque, a parte la nota malevola dell’assenza di lavoro, che di sottofondo inquina lo scorrere tranquillo delle mie giornate, posso ritenermi cautamente soddisfatto per la totale riappropriazione del mio tempo, dell’autonoma gestione degli orari in cui compiere le attività giornaliere e di tutti i momenti di pausa che desidero concedermi.

Ecco, sono giunto alla parola chiave. Pausa. Il momento più puro di ascolto di sé, quell’istante in cui ti rendi conto dell’assordante presente, l’attimo che ti permette di dare il via, costruttivamente, alla mossa successiva per la tua evoluzione. Che mi sono preso, tutto quanto, per prepararmi all’inevitabile incontro con il mio prossimo futuro.

Non desidero aggiungere altro, né scivolare in riflessioni di ordine politicosociale. Del resto, la lettura, mia fedele compagna, mi sta chiamando e da buon “nerd” so già che trascorrerò la mia serata in qualche mondo fantastico, in compagnia di draghi e stregoni, dove il coronavirus non arriverà mai.

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