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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”
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FAMA E PUBLICA VOX NEL MEDIOEVO
Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno
(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009)
a cura di
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ISA LORI SANFILIPPO e ANTONIO RIGON
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2011
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III serie diretta da Antonio Rigon
Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno
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Comune di Ascoli Piceno
Fondazione Cassa di Risparmio Ascoli Piceno
Istituto storico italiano per il medio evo
© Copyright 2011 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO Redazione: SILVIA GIULIANO ISBN 978-88-89190-86-9 Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2011
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Sono trascorsi oltre vent’anni da quando l’allora sindaco Gianni Forlini pensò di promuovere Ascoli, la sua storia, le sue bellezze monumentali, con un premio di spessore internazionale che servisse a promuovere le cento torri nel panorama culturale internazionale. Nasceva così il Premio Internazionale Ascoli, con la presenza di autorevoli studiosi di rilevanza internazionale: Jacques Le Goff, Elémire Zolla, Franco Cardini. In questi anni il Premio ha costantemente proposto momenti di assoluto valore, mantenendo sempre ad altissimo livello l’impostazione originaria, diventando un appuntamento d’obbligo per la medievistica. Oggi aggiungiamo un ulteriore, prestigioso, tassello a questo impegno culturale dando alle stampe, gli atti relativi alla XXI edizione del Premio che tratta di un tema affascinante quale “Fama e publica vox nel Medioevo”. Un nuovo volume della collana “Atti del Premio Internazionale Ascoli Piceno” aperta presso il prestigioso Istituto Storico Italiano per il Medioevo di Roma e che consente una affascinante lettura utile alla comprensione delle dinamiche che oggi chiameremmo “comunicazione”. Il tema trattato risponde a degli interrogativi molto interessanti. Come si diventava famosi nel Basso Medioevo? Come si rovinava una reputazione? Quali i meccanismi che regolavano la circolazione delle notizie e le loro fughe? Ma, consentitemi, siamo in presenza di un ulteriore, importante, veicolo promozionale per la nostra città, che con il suo impianto urbanistico davvero unico ha stabilito un mix affascinante con il Premio internazionale Ascoli Piceno che tanto lustro ha dato e dà alla nostra Ascoli Piceno, perché il Medio Evo, come scrisse Jacques Le Goff, è “un periodo vitale,
di grande progresso, un periodo tutt’altro che buio, anzi meravigliosamente colorato. Un mondo molto concreto ma anche straordinariamente capace di sognare�.
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il Sindaco GUIDO CASTELLI
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Introduzione ai lavori
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«Quid est fama?» Che cos’è la fama? Chiunque abbia consuetudine con i documenti medievali e precisamente con quelle straordinarie fonti che sono i testimoniali dei processi sa che questa domanda viene posta dai giudici a quei testimoni che a proposito di un personaggio o di un fatto si appellano non ad una conoscenza diretta, ma a ciò che si dice e che hanno sentito dire: alla fama, alla voce pubblica, alla buona reputazione che circonda un individuo o alla conoscenza collettiva di un fatto. Le risposte sono varie, approssimative, talvolta anche divertenti. Interrogato nel settembre 1275 a proposito della vertenza tra un mercante veneziano e una nobildonna padovana su cosa fossero la pubblica voce e la fama un notaio rispondeva: «id quod per homines dicitur» (ciò che è detto dagli uomini). E richiesto di specificare dove fosse diffusa quella fama («ubi est illa fama?»), riguardante fatti e figure del processo, non aveva dubbi: a Venezia e a Padova; erano stati gli homines di quelle città a crearla. Ma quanti uomini occorrevano per darle vita? Dai dieci in su – precisava. E come si costruiva? Attraverso la voce1. Risposte inevitabilmente soggettive ma concrete rispetto a domande che rinviavano ad alcuni dei canoni scolastici utilizzati dai giuristi per analizzare la fama: che voce sia, da dove provenga, quanti contribuiscano a formarla. La fama non è di per sé un termine giuridico, eppure – come spiegava in un fondamentale volume del 1985, un maestro di questi studi come Francesco Migliorino – assieme al suo contrario, l’infamia, suscitò un grandissimo interesse tra i giuristi medievali. E lo suscitò perché si trattava di 1
Archivio di Stato di Padova, Diplomatico, part. 4133 A.
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«problemi centrali della società medievale»2. La buona fama è richiesta per testimoniare nei tribunali; è consustanziale all’esercizio di alcune professioni; determina l’inclusione o l’esclusione dalla compagine sociale; è al cuore di meccanismi vitali della politica, dell’economia, delle istituzioni; è una componente essenziale della vita morale e culturale. Determina il credito, la finanza, la cittadinanza, l’istituto matrimoniale, le parentele; caratterizza l’istituzione universitaria; opera potentemente nell’universo religioso, nell’arte, nella letteratura. «Un individuo è giudicato dai suoi simili – e qui cito ancora Migliorino – per l’insieme dei comportamenti, per il blasone, per la potenza economica, per il ruolo che occupa, per lo stile di vita che conduce, per le compagnie che frequenta; la fama, così, finisce per essere un mezzo di pressione verso la conformità, mentre l’infamia diventa la sanzione sociale della trasgressione e la stigma della diversità e dell’emarginazione»3. Molti studi – da quelli del Le Goff a quelli del Geremek, per citare due storici notissimi –, ci hanno da tempo illustrato il quadro articolato dei mestieri leciti ed illeciti nel mondo medievale, la riprovazione morale e la messa ai margini di categorie e ceti sociali bollati dal marchio di indegnità morale ed infamia. D’altro canto la tutela della propria fama era condicio sine qua non per mercanti che fondavano le proprie fortune economiche sulla stima e la fiducia del prossimo; per uomini di governo consapevoli delle proprie responsabilità; per quanti si assumevano compiti di guida spirituale nella Chiesa. Il prelato e il reggitore di una città, scrive in un suo sermone quell’Agostino da Ascoli, frate agostiniano, docente a fine ‘200 nel convento degli Eremitani di Padova, studiato da Arianna Bonato nella tesi di laurea premiata quest’anno con la targa “Vito Fumagalli”, devono vivere ordinate, perché sono sotto gli occhi dei sudditi, come un bersaglio sta di fronte ad una freccia. Se non si comportano così trascinano nella fossa (dell’infamia, aggiungiamo noi) i sudditi4. E al predicatore, scrive sempre nel XIII secolo un altro frate, il francescano Giovanni de la Rochelle, maestro reggente in teologia nella “magna domus” parigina dei frati Minori, sono assolutamente necessarie per la propria credibilità la
2 F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, pp. 9-20 (a p. 9 la citazione). 3 Ibid., p. 46. 4 «Prelatus et rector ponitur sicut signum ad sagittam ante oculos subditorum, debet vivere ordinate, alias secum subditos in faveam trahit» (A. Bonato, Religione e città: i “Sermones dominicales et quadragesimales” di Agostino da Ascoli, Tesi di laurea specialistica, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2008/2009, relatore A. Rigon, p. 98; e per notizie su Agostino da Ascoli vedi ibid., pp. 25-31).
INTRODUZIONE AI LAVORI
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buona fama e l’irreprensibilità di vita («necessaria est fama bona sive irreprehensibilitas5 vite»). Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito perché enorme è il peso della fama e dell’infamia nella vita individuale e associata dell’uomo medievale. Consapevoli di questo, i giuristi di quell’epoca manifestarono un grandissimo interesse per il tema, introducendo distinzioni sottili, innovative e feconde come quella di infamia iuris e infamia facti6. I letterati a loro volta resero la fama oggetto di trattati e materia di racconti; gli artisti ne inventarono la figura, innalzarono monumenti a personaggi famosi, riprodussero schiere di uomini illustri. La fama di santi e di reliquie taumaturgiche mobilitò folle di fedeli, la reputazione di magistri e di centri universitari richiamò studenti, la risonanza di predicatori riempì chiese e piazze. Chiacchiere e dicerie alimentarono d’altro canto innamoramenti per fama, mentre parole ed immagini sguaiate marchiarono di infamia nemici ed avversari (si pensi alla pittura infamante sulla quale scrisse un ottimo libro Gherardo Ortalli)7. La “presenza della voce” nella cultura medievale, evocata da Paul Zumthor in un noto saggio del 19848, di quella voce che, come affermava il testimone del processo citato all’inizio, costituisce il vettore della fama, è «una delle scoperte più appassionanti di questi ultimi decenni» (lo ha scritto in un limpido contributo sui professionisti della parola, recentemente ristampato, Carlo Delcorno)9. La storiografia italiana, salvo lodevoli eccezioni (e il richiamo ai lavori di Migliorino è d’obbligo), ha dedicato poca attenzione al tema della fama e della publica vox. Di certo è mancata una riflessione generale. Da qui la proposta di questo convegno tematicamente innovativo, come altri che lo hanno preceduto in questa sede ascolana. La struttura generale segue le linee di approfondimento sin qui indicate: il diritto, la religione, l’economia, la società, l’università, la letteratura, la musica, le vie della conservazione epigrafica della fama. Questi gli ambiti nei quali il ruolo e il peso della fama e della mala fama saranno esaminati. Ed è appena il caso di ricordare che non sono né pochi né irrilevanti gli elementi di continuità 5
Cfr. Balduinus ab Amsterdam o.f.m. cap., Tres sermones inediti Joannis de Rupella in honorem s. Antonii Patavini, «Collectanea franciscana», 28 (1958), sermo III, p. 53. 6 Migliorino, Fama e infamia, pp. 85-138, 171-197. 7 G. Ortalli, “… pingatur in Palatio”. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979. 8 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna 1984. 9 C. Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, cur. G. Baffetti - G. Forni - S. Serventi - O. Visani, Firenze 2009, p. 21.
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con il tema della damnatio memoriae affrontato nel convegno dello scorso anno ad Ascoli. Che cos’è infatti la damnatio memoriae se non una proclamazione di infamia che si estende oltre la morte, decretata dall’opinione pubblica e da chi la guida?
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I convegni ascolani sono manifestazione di una progettualità delineata sin dall’inizio dall’attuale comitato scientifico che ha colto nella dimensione culturale e politica la linea guida e l’ambito in cui operare, innovando nei temi e nei metodi e aprendosi alla più ampia collaborazione internazionale. I primi risultati del nostro lavoro, consegnati negli Atti dei convegni puntualmente pubblicati dall’Istituto Storico italiano per il Medio Evo, hanno sinora riscosso il consenso e il plauso della comunità scientifica, ma anche di un pubblico più vasto. Tutto questo è stato possibile perché abbiamo ricevuto l’appoggio convinto dell’Amministrazione comunale, della Fondazione Cassa di Risparmio, della Provincia e della Camera di Commercio di Ascoli Piceno. Sin dall’inizio i nuovi amministratori hanno manifestato interesse per le attività e le iniziative da noi svolte che, del resto, hanno ormai una lunga tradizione e sono poste al servizio della cultura e della città. Un grazie particolare va al Presidente dell’Istituto superiore di Studi medievali “Cecco d’Ascoli” Luigi Morganti e ai suoi collaboratori infaticabili nel promuovere, organizzare, lanciare i convegni e dare lustro al Premio internazionale Ascoli Piceno che, come mostra anche l’adesione offerta quest’anno dal Presidente della Repubblica, è una solida realtà del nostro paese.
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PRIMA GIORNATA
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“La Grande Hache de l’histoire” Semantica della fama e dell’infamia
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Fama e infamia hanno una lunga storia. Proveremo a leggerla alla luce dell’instancabile traffico tra i valori e i significati di una cultura (e di una società) e quei sistemi di veridizione che si pongono da sempre come traduzione di senso. Attivissimi a scongiurare i poteri e i pericoli che si annidano nella produzione del discorso1. Inesauribili nella loro ostinata inclinazione a classificare, significare, identificare. Uno spazio metaforico in cui si costituisce la Verità. Anzi, un infallibile congegno grazie al quale l’inimicizia tra il vero e il falso scandisce i suoi tempi, dietro lo specchio dell’immagine sociale del sé2. Fama e infamia hanno un che di portentoso. Si annidano negli scantinati più oscuri dell’anima dopo aver lasciato spie, emblemi e tracce nella parte visibile dei corpi. Un fiume carsico che accompagna le epoche storiche: oltre le rivoluzioni, anzi nonostante le rivoluzioni. L’affermazione, la rimozione o il mascheramento di fama e infamia si intrecciano seguendo una rotta che va ben oltre i tempi di un’esperienza giuridica data, per mostrare – anche ai nostri giorni – i segni di un’inquietante continuità3. C’è sempre un misterioso e impenetrabile scarto tra la sicurezza con cui teologi e giuristi descrivono le varie cause d’infamia e la porosità di un’area semantica che è portata quasi naturalmente a lasciar tracimare le più rassicuranti distinzioni, fino al punto da ospitare con amorevole cura un numero sempre maggiore di uomini infami4. Sullo sfondo e all’orizzonte, il più 1 Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, trad. it., Torino 1972. 2 Pierre Legendre si serve della metafora lacaniana dello specchio per mostrare come sia stato “fabbricato” il soggetto dell’ordine giuridico occidentale: cfr., soprattutto, Dieu au miroir. Étude sur l’institution des images, Paris 1994. 3 Cfr. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, pp. 21 ss. 4 Cfr. in proposito le dense pagine di P. von Moos, Das Öffentliche und das Private im
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radicale dei partages: da una parte la natura spirituale dell’uomo che sente spirare il soffio della salvezza, dall’altra la misera postura del corpo che rimane prigioniero della sua ferina carnalità. A restare impigliati sono tutti gli uomini, non solo quelli «visibilmente crudeli»5. Con le stesse parole di Georges Perec, potremmo dire anche noi che «L’Histoire avec sa grande hache»6 si abbatte sugli uomini con la ferocia della sua pesante scure (grande Hache). Ne annichilisce, altresì, le singole insignificanti storie brandendo la sua pretenziosa maiuscola (grande Ache). L’infamia è uno di quei nomi che da sempre espone e dilapida i suoi mezzi, una metafora baroca che si spinge al punto da raccontare l’intera vita di un uomo in due o tre scene, lasciando — sotto il clamore di un titolo — una superficie d’immagini, un brusio di voci in cui resta ammutolita una folla di patiboli e di pirati, di mascheramenti e d’imposture. Come nella História universal de la infamia di Borges7, anche nella Vie des hommes infames di Foucault è indicibile la distanza tra la magniloquenza del termine e la disarmante ovvietà dei suoi abitatori. «Vite di qualche riga o di qualche pagina», riunite in un pugno di parole da esperti botanici che le hanno volute per sé dentro i recinti dell’ignominia. C’è da restare sgomenti per l’accanimento e l’ostinazione alla vita di un congegno che ha abbandonato per secoli solo brandelli di esistenze oscure, un pallido riflesso di quella spaventevole grandezza con cui quelle vite maledette — nel breve bagliore d’un lampo — si sono mostrate a chi le attorniava, per sparire subito dopo «senza mai essere state dette»8. Verrebbe da dire, con Nietzsche, che indicibilmente più importanti sono i nomi dati alle cose di quel che esse sono9. Con lo stesso nome si
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Mittelalter. Für einen kontrollierten Anachronismus, in Das Öffentliche und Private in der Vormoderne, cur. G. Melville - P. von Moos, Köln-Weimar-Wien 1998, p. 39. 5 Il recente libro di Giacomo Todeschini propone un avvincente scandaglio dei discorsi dell’esclusione nell’età medievale: Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007. 6 G. Perec, W ou le souvenir d’enfance, Paris 1975, p. 13. L’espressione «L’Histoire avec sa grande hache» ricorre anche come titolo di un’intervista a Robert Bober curata da Christian Delage e Vincent Guigueno, apparsa in Le Cinéma face à l’Histoire, «Vertigo», 16 (1997). 7 J.L. Borges, Storia universale dell’infamia, trad. it., Milano 1997. 8 M. Foucault, La vita degli uomini infami, trad. it., in Archivio Foucault, II, Poteri, saperi, strategie, cur. A. Dal Lago, Milano 1994, pp. 245-262. 9 F. Nietzsche, La Gaia Scienza, trad. it., in Opere filosofiche, cur. S. Giametta, I, Torino 2002, p. 156: «Questo mi è costato la più grande fatica e ancora continua a costarmi la più grande fatica: vedere che è indicibilmente più importante come le cose si chiamino che non che cosa siano. La reputazione, il nome e l’apparenza, la considerazione, l’usuale misura e peso di una cosa […] sono, a forza di crederci, e di crederci sempre più di generazione in generazione, per così dire concresciuti gradualmente con e dentro la cosa e ne sono diven-
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sono costituiti tipi umani volta a volta diversi, sotto lo stesso nome si sono radunate sempre nuove valutazioni e nuove verosimiglianze. Nel caso della fama e dell’infamia non milita la consueta dialettica tra significante e significato, s’instaura piuttosto la mirabile performatività di parole che si alimentano senza sosta delle situazioni reali che esse stesse hanno contribuito a creare: un ordine sempre uguale a se stesso per gli infiniti discorsi che le hanno chiamato e continuano a chiamarle alla vita10. Una tela di ragno in cui l’uomo si scopre «impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto»11: è fabbricata con gli attrezzi del linguaggio, si fa forte dello scudo della norma, fa vanto delle sue categorie universali, si muove all’unisono con i pensieri che le istituzioni pensano, giorno dopo giorno battezza, denomina e rinomina i comportamenti umani12. Uno scenario in cui fama e infamia funzionano come una sorta di metadenominatore per pensare come intrinsecamente simili i tipi umani che esse radunano all’interno della medesima classe, racchiusi da quei confini che sono socialmente controllati e culturalmente costruiti13. Fama. Non è un termine giuridico, eppure essa suscita l’interesse dei Maestri del diritto che vi intravedono, grazie ai suoi generosi slittamenti semantici, rilevanti possibilità di mediazione sociale14. Il diritto, infatti, è fortemente interessato a strutturare e standardizzare le norme sociali con alto contenuto etico, in modo tale che esse funzionino come indicatori dei comportamenti sentiti come giusti dai membri della comunità15. È per sua
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tati il corpo stesso. Fin dall’inizio, l’apparenza si è trasformata alla fine quasi sempre in sostanza e funziona come sostanza […] non dimentichiamo neanche questo: basta creare nuovi nomi e giudizi di valore e verosimiglianza per creare col tempo “cose” nuove». 10 Cfr. F. Migliorino, Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino 2008, pp. 62 ss. 11 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it., Bologna 1987, p. 41. 12 Cfr. Migliorino, Il corpo come testo cit., p. 9. 13 Ibid., p. 65. Per un’euristica dell’antropologia culturale nella ricerca storica, cfr. i bei lavori di C. Wickham, Gossip and Resistance among the Medieval Peasantry, «Past and Present», 160 (1998), pp. 407-580 e di T. Kuehn, Fama as legal status in Renaissance Florence, in Fama. The politics of talk and reputation in medieval Europe, cur. T. Fenster D. Lord Smail, Ithaca-London 2003, pp. 27-46. 14 Per un quadro completo della varietà dei significati cfr. A. Walde - J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg 1938, pp. 450 s.; Thesaurus Linguae Latinae, VI/1, Lipsiae 1925, coll. 206 ss. 15 Nell’immaginario collettivo la fama è, a volte, simbolo ed esempio, serve a rappresentare il genio di un individuo eccezionale. Sul nesso tra il concetto di gloria e lo sviluppo dell’idea di individuo alle soglie dell’età moderna, cfr. A.F. Müller, Gloria Bona Fama Bonorum. Studien zur sittlichen Bedeutung des Ruhmes in der frühchristliche und mittelalterliche Welt, Husum 1977, pp. 7 ss.; con riferimento soprattuto all’onore, F. Zunkel, Ehre, Reputation, in Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, II, Stuttgart, 1975, pp. 1-63.
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natura pervasivo, invade ogni sfera del sociale, ha un tipico potere di rispecchiamento di fenomeni altrimenti asintomatici16. Allo stesso modo della mentalità, il diritto è una struttura «che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo»17. Ordinare e strutturare è connaturato con il fenomeno giuridico, costituisce, anzi, il fondamento stesso della prassi umana, serve oggi allo scienziato sociale per definire «il modo umano di essere-al-mondo»18. I giuristi del diritto comune furono in ciò maestri impareggiabili. Avviene così che gli interpreti assumano progressivamente il concetto di fama all’interno del loro vocabolario per rappresentare sia la reputazione di cui ciascuno gode nell’opinione degli altri, sia una conoscenza incerta e non garantita dei fatti: da una parte dunque la fama hominis, dall’altra la fama alterius rei inter homines existentis19. Entrambi i significati sottintendono i concetti più ampi di opinio e di publicum e si fondano sui processi di comunicazione attraverso la pubblica opinione: una pubblica opinione, però, che non può intendersi per quei secoli come attività razionale capace di giudizio critico, bensì come raffigurazione della realtà nelle opinioni di una moltitudine che si limita ad esprimere un tacito consenso attraverso abitudini di vita conformi alle norme20. Siamo in un’età in cui prevale una sorta di cosmologia comunicazionista «che si esprimeva variamente nella teologia, nell’alchimia, nell’astrologia e nella “magia naturale”»21. Il simbolismo medievale, intriso di idee neoplatoniche, faceva dell’universo una mirabile Teofania e contribuiva a rappresentare le cose del Creato come un fedele signaculum di un Dio comunicativo che era insieme principio regolatore e cibernetico22. Una grandiosa e nobile raffigurazione del mondo, una cattedrale d’idee, la più ricca espressione ritmica e polifonica di tutto il pensabile. Quella società diffondeva e scambiava una pluralità di messaggi sia
16 M. Sbriccoli, Storia del diritto e storia della società. Questioni di metodo e problemi di ricerca, in Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti d’indagine e ipotesi di lavoro, Milano 1986 (Per la storia del pensiero giuridico moderno, 22), pp. 127-148: 141 ss. 17 F. Braudel, Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in La storia e le altre scienze sociali, Roma-Bari 1974, p. 162. 18 Z. Bauman, Cultura come prassi, trad. it., Bologna 1976, p. 91. 19 Cfr. Alberto Gandino, Tractatus de maleficiis, ed. H. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scolastik, II, Die Lehre, Berlin-Leipzig 1926, pp. 51-75, 99-105. 20 Cfr. soprattutto J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it., RomaBari 1971. 21 Cfr. A. Wilden, Comunicazione, in Enciclopedia Einaudi, III, Torino 1978, p. 621. 22 Cfr. U. Eco, Il segno, Milano 1973, pp. 94 ss.
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impliciti sia espliciti . Come avviene oggi, il pensiero e i processi cognitivi avevano il loro fondamento e la loro ragion d’essere nella sfera sociale. Per usare una bella immagine di Mary Douglas, «la reciproca colonizzazione delle nostre menti è il prezzo che paghiamo per pensare»24. È stato acutamente osservato che, nell’età medievale «finché ognuno teneva volentieri il suo proprio posto, nessuno si sentiva particolarmente colpito dalla singolarità degli altri». Quando, invece, la singolarità assumeva le forme inquietanti della malattia mentale, la diversità era vissuta e rappresentata come estraneità dal corpo sociale: il demente diventava der Fremde, “l’esterno che sta dentro”, scompaginava col suo comportamento l’ordine del discorso, insinuava nel prossimo il timore per una dimensione sconosciuta dell’esistenza25. I signa furoris si sostanziavano in gesti e azioni che sono descritti con cura dalla criminalistica tardo medievale. Il folle, fra l’altro, era riconoscibile perché tirava sassi per la strada, rideva senza motivo, si comportava in modo sconcio, dilapidava il patrimonio come fanno i prodighi, pronunciava parole sconnesse, non ricordava il suo stesso nome26. Ma, quel che più interessa, era folle chi come tale era rappresentato per famam nella pubblica opinione27. La fama contribuisce dunque alla stabilità e alla coesione sociale: da una parte, essa è uno dei modi in cui si realizza la comunicazione, dall’altro è un efficace sistema di etichettamento. L’appartenenza ad un gruppo, ad un ceto, ma anche ad una compagnia di malfattori doveva essere riconoscibile a tutti. In un tempo in cui i motivi conflittuali e dinamici della società mettono in crisi continuamente gli assetti sociali e istituzionali, con l’emersione di nuove figure professionali ed il consolidamento di repentine fortune patrimoniali, la rappresentazione nella coscienza collettiva dello stile di vita, dell’onorabilità, della potenza economica di un individuo serve a definire i contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza28. Ciò vale soprat23
Per una società cetuale attenta ai simboli il vestiario è un campo semiologico privilegiato e non può ridursi ad una funzione di protezione e di ornamento: Identità cittadina tra medioevo ed età moderna, cur. P. Prodi - M.G. Muzzarelli - S. Simonetta, Bologna 2007, soprattutto pp. 105 ss. 24 Cfr. P.P. Giglioli, Introduzione a M. Douglas, Come pensano le istituzioni, trad. it., Bologna 1990, p. 11. 25 Bauman, Cultura come prassi cit., p. 204. 26 D’altronde, de-lirare evoca l’idea di uscire dal seminato (l’attraversamento della lira), con tutte le sue connotazioni di sterilità e di eccesso: R. Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari 2000, p. 30. 27 Cfr. M. Boari, Qui venit contra iura. Il furiosus nella criminalistica dei secoli XV e XVI, Milano 1983, pp. 60-74. 28 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 11 ss.
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tutto per i ceti emergenti che basano la loro ascesa sociale e la conquista di uno status più elevato sulle capacità tecniche e imprenditoriali, sul monopolio della conoscenza delle leggi, su una affidabilità riconosciuta da tutti. Il fenomeno riguarda, però, anche i vecchi gruppi dirigenti che, «pur distinti da funzioni disparate e da diverse ideologie», tendono a ricollocarsi, nella gerarchia sociale, all’interno dell’unico genus della nobilitas29. La nobiltà di un personaggio si sostanziava nel suo mostrarsi nobile ed era provata dalla «fama di una floridezza e di una connessa condizione di vita»30: per Bartolo, poteva dirsi nobile «qui nobilis appellatur vel reputatur»31. Alla mente medievale era estranea l’idea del “Perturbante” (Unheimlich). Chi non godeva di una buona reputazione era assimilato allo sradicato e al vagabondo32. Ordine e armonia, dunque, gerarchie e status. L’ordine in quanto struttura «evoca la costanza, la fissità, l’immodificabilità, la regolarità». Il mutamento, all’opposto, mette in discussione l’assetto, è un’intollerabile «sfida nei confronti delle forme, delle strutture consolidate ed ordinanti»33. Per l’uomo medievale non si dà unità se non come connessione gerarchica di parti diseguali. «L’ordine sociale è un momento di un ordine universale e ripete in se stesso la logica gerarchica della totalità». In questa visione, però, le singole parti sono anche momenti di un’indissolubile unità; parti di un corpo che vive della disuguaglianza, ma anche della solidarietà dei suoi componenti34. La comunità era mantenuta in vita grazie alla capacità di rendere l’altro familiare, di «trasformarlo in una persona compiutamente definita». Una trasparenza «che i moderni scrittori di utopie avrebbero sognato come un indice di società ideale», ma che a quel tempo «era una realtà quotidiana, un effetto naturale della continua e totale apertura della vita di ogni singolo membro della comunità allo sguardo di tutti gli altri»35. Si può ben capire, allora, perché le spregiudicate attività finanziarie e commerciali di banchieri e mercanti ricevessero le critiche preoccupate di
29 Cfr. E. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ toscani e ai caratteri di un ceto medievale, in Scritti in memoria di Domenico Barillaro, Milano 1982, p. 23. 30 Cfr. G. Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e Firenze tra XII e XIII secolo, «Studi Medievali», ser. III, 17 (1976), p. 48. 31 Cfr. C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII), Roma-Bari 1988, p. 6. 32 Cfr. S. Cerutti, Giustizia sommaria. Pratica e ideali di giustizia in una società di Ancien Régime (Torino XVIII secolo), Milano 2003, p. 63. 33 Cfr. P. Costa, Ordine, mutamento, secolarizzazione: un’ipotesi interpretativa, in La dislocazione della religione lungo l’epoca moderna, Catania 2003, p. 11. 34 Ibid., p. 14. 35 Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, trad. it., Torino 2007, p. 53.
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zelanti e ascoltati predicatori. Gli infamissimi mercatores che a causa del loro dissesto, fuggivano dalla città portandosi appresso beni e contanti, davano a vedere l’insanabile aporia tra la sollicitudo per il rischio che è insito nell’attività commerciale e l’idea stessa di equilibrio. Nelle fasi espansive e in quelle recessive, mercanti e banchieri sono stati le componenti meno docili ad un disegno di stabilità e di ordine. Da parte degli altri corpi sociali è come si sentisse che il ceto dei mercanti era il solo da cui poteva temersi un’insidia alla gerarchia elaborata36. La communicazione fra gli uomini che stava tanto a cuore ai mercanti diventa ora uno strumento di regolazione sociale. I falliti vengono effigiati, infatti, con toni pesanti ed esasperati di scherno in luoghi pubblici dotati di una forte carica simbolica: il postribolo, la piazza principale, più spesso il palazzo del podestà37. Ciò dà la misura del potere comunicativo che per lungo tempo i segni iconici hanno avuto sugli uomini: un potere inquietante che oggi facciamo fatica a comprendere, abituati come siamo a padroneggiare le immagini, a metterle a distanza, a valutarle nella loro dimensione più propriamente estetica38. Come sempre, però, l’infamia milita associata alla fama. Per l’Anonimo Trecentista, autore di un trattatelo de mercatura, il commerciante non ha amico «sì grande né sì carissimo» quanto la «chiara fama»; questa « spesse volte aiuta e difende a luogho e a tenppo che l’uomo nulla ne stimerebbe», fino al punto che «tutte le cose che sono disotto il cielo e disopra la terra stano e sono per lui»39. Se – come afferma Benedetto Cotrugli40 – il mercante deve essere integro «non solo in pensamento, et saldo d’animo et indubitato lo nome», va da sé che «i falliti mai più dovrebbero havere fede né credito, maxime quelli che per captività hanno fallito»: questi, anzi, «si debbono havere come persone infame et adulteratori della mercatura»41. 36 Cfr. F. Migliorino, Mysteria concursus. Itinerari premoderni del diritto commerciale, Milano 1999, pp. 65 s. 37 Cfr. G. Ortalli, «… pingatur in Palatio…». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, 1979, p. 25; S.Y. Edgerton Jr., Pictures and punishment. Art and criminal prosecution during the florentine renaissance, Ithaca 1985, p. 64; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino 1992, pp. 69 ss. 38 Cfr. V. Valeri, Rito, in Enciclopedia Einaudi, XII, Torino 1981 pp. 210-243. 39 Ed. G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio Storico Italiano», 110 (1952), p. 118. 40 Singolare figura di mercante attivo negli affari e nella politica, incline alla riflessione giuridica e alle meditazioni letterarie, Benedetto Cotrugli Raguseo scrive un manuale (1458) che è un esempio mirabile di pedagogia sociale e di etica mercantile. Si deve a Ugo Tucci l’edizione critica dell’opera con una ricca e densa introduzione: Benedetto Cotrugli Raguseo, Il Libro dell’Arte di Mercatura, cur. U. Tucci, Venezia 1990. 41 Ibid., p. 216.
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Per questa via, la buona fama diventa un attributo non solo del singolo, ma di tutta la corporazione. Serve a definire i contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza42. Entra come strumento probatorio nel processo mercantile rendendo affidabili, pro se, le scritture del mercator bonae conditionis et famae. Serve, soprattutto, a determinare lo stato d’imminente decozione che tanto affaticava i giuristi in tema di azione revocatoria43. Si resta ammirati dalla duttilità e dalla capacità di adattamento alla prassi di una nomenclatura che, viceversa, manteneva una buona dose di rigidità nelle opere dei giuristi medievali44. Un vero e proprio scarto che risulta tanto più significativo nel mondo degli affari, da sempre ostile al formalismo del diritto stretto e più propenso ad assecondare un dinamismo sostenibile, governato dai principi della sicurezza e della rapidità45. Nel campo della dottrina di diritto comune, la fama alterius rei inter homines existentis diventa un rilevante istituto di diritto processuale: come strumento probatorio concorre con altre prove alla formazione della sentenza, a condizione, però, che sia confermata da testi di provata fede e dirittura morale46.
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42 Negli statuti fiorentini si dispone che il creditore debba indicare nell’istanza di fallimento l’arte di appartenenza del decotto: C. Pecorella - U. Gualazzini, Fallimento (storia), in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano 1967, p. 222. La riprovazione sociale colpisce l’intera corporazione quando il mercante subisce l’onta della pittura infamante o di una condanna per spergiuro: A. Sapori, La mercatura medievale, Firenze 1972, p. 23. Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 11 ss. Fra i requisiti richiesti per l’iscrizione nella matricola della corporazione gli statuti prevedono anche la buona fama: V. Piergiovanni, Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale, Torino 19894, pp. 9 s. 43 Cfr. C. Pecorella, Fides pro se (1978), ora in Studi e ricerche di storia del diritto, Torino 1995, pp. 427 ss.; M. Fortunati, Scrittura e prova. I libri di commercio nel diritto medievale e moderno, Roma 1996; Migliorino, Mysteria concursus cit., pp. 118 s. 44 Si pensi solo alle figurazioni labirintiche che la fama evoca in letteratura: sulla «Casa della Fama», vedi le belle e dense pagine di P. Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Bologna 2007, pp. 175 ss. 45 Cfr. Migliorino, Mysteria concursus cit., pp. 117 ss. 46 Cfr. almeno J.Ph. Lévy, Le problème de la preuve dans les droits savants du Moyen Âge, in Recueils de la Société Jean Bodin pour l’histoire comparative des institutions, XVII/2, Bruxelles 1965, pp. 137-167; A. Giuliani, Il concetto di prova, Milano 1961; R.C. Van Caenegem, La preuve au Moyen Âge occidental, in Recueils cit., XVII/2, pp. 691-753; G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra Evo medio e moderno, Napoli 1979; R. Fraher, Conviction according to conscience. The medieval Jurists’ debate concerning judicial discretion and the law of proof, «Law and History Review», 7 (1989), pp. 23-88; I. Rosoni, ‘Quae singula non prosunt collecta iuvant’. La teoria della prova indiziaria nell’età medievale e moderna, Milano 1995; M. MacNair, Vicinage and the antecedents of the jury, «Law and History Review», 17 (1999), pp. 537-590.
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Ci sono avvenimenti che non sono oggetto di esperienza diretta, eppure sono conosciuti da tutti, senza che se ne sappia indicare un’origine precisa. A volte non superano la soglia della diceria e del pettegolezzo o restano confinati nell’ambito del solo vicinato, altre volte si propagano rapidamente e raccolgono il consenso della pubblica fama: la scomparsa di un tale che si è messo in viaggio da troppo tempo induce a presumere una morte violenta; le notizie di scontri armati tra fazioni avverse corrono di bocca in bocca fino a diventare memoria vivente dell’intera città47. Ciò avviene quando la comunicazione sociale si avvale di una fitta rete di relazioni intersoggettive: lo scenario è quello della città, i giochi dello scambio riguardano non solo le merci ma anche le notizie e la conoscenza. Si diffida, però, della naturale propensione della fama a colonizzare il linguaggio, sfuggendo al controllo dei suoi vigili (e interessati) censori. I giuristi, perciò, preferiscono definirne limiti e contenuti, assegnandola ad un livello prestabilito nella gerarchia delle prove e distinguendola dai concetti simili di notorio, manifesto e pubblico. Nelle loro opere essi depurano il termine del suo significato di diceria e conoscenza fallace, per attribuirgli una connotazione tecnica: la fama è analizzata in rapporto alla sua origine e diffusione, alla natura e alla rilevanza dei fatti che contribuisce a diffondere e, assunta nel processo come prova semiplena, è sottoposta a regole rigorose prima di poter produrre i suoi non secondari effetti giuridici48. Gli effetti della fama probata sono considerevoli. In campo civile essa opera validamente come mezzo di prova dello status personarum: la sentenza emessa in giudizio in cui compare un filius familias senza il consenso paterno resta valida se questo è ritenuto pater familias per pubblica fama; analogamente è valido un testamento rogato davanti a sette testi, di cui uno era servo ma reputato libero da tutti49. Ma è nel campo criminale che la fama facti può finalmente dispiegare liberamente le sue più autentiche incli47 Cfr. in proposito il Tractatus de fama del giurista bolognese Tommaso di Piperata, in Tractatus criminales, ed. Giovan Battista Ziletti, Venetiis 1563, ff. 1r-14r; Tractatus Universi Iuris, XI/1, Venetiis 1584, ff. 8r-10r. 48 Nella prima metà del secolo XII prende corpo una teoria della notorietà che avrà come esito più rilevante la rigorosa definizione dei concetti che si richiamano alla categoria dell’evidenza e della pubblicità. In tale processo di elaborazione dottrinaria la fama, nel confronto col notorio ed il manifesto, appare spesso come conoscenza non garantita dei fatti (multum fallax et facilis) e finisce per essere assegnata ai livelli più bassi della gerarchia delle prove. Per i contributi più significativi di legisti e canonisti cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 49 ss. e letteratura citata. 49 Thomas de Piperata, De fama cit., ff. 7r-v. Per il collegamento, per famam, dell’immagine sociale con quella giuridica di ceto, cfr. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ cit., p. 33 s.
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nazioni. Soprattutto, a partire dal Lateranense IV essa diventa il presupposto per l’inquisitio ex officio e finisce per soppiantare l’istituto altomedievale della testimonianza collettiva giurata50. Da una parte dà un formidabile contributo all’assemblaggio dei materiali per la costruzione del nemico interno, dall’altra muove e dirige il fervore di inquisitori e scomunicanti. Nel suo significato di buona reputazione, la fama è associata di buon’ora al termine di existimatio per connotare l’inviolata capacità giuridica di una persona. Ancor meno preciso di existimatio, il termine fama ha il merito di esprimere una forte carica di suggestione emotiva: la riprovazione sociale, l’isolamento dalla comunità per una scarsa considerazione, colpiscono prima e spesso più duramente delle sanzioni approntate dal potere legale. La fama mantiene anche nel Corpus iuris civilis tale suo carattere indeterminato, sicché è sempre ricondotta all’infamia e alle pene di stima, senza rivestire mai una chiara, definita connotazione positiva. Gli interpreti medievali rilevano la somiglianza dei due termini (existimatio/fama), usati spesso nelle fonti come sinonimi. Essi, però, si sentono attratti maggiormente dalla porosità e, forse, dai richiami simbolici di fama: la preferiscono ad existimatio, perché ha uno spettro più ampio di applicazione e riesce, più di quella, a collegare l’infamia legale del Corpus all’infamia di fatto regolata dalle norme sociali. Nella scuola di Irnerio la fama è associata, con evidenti echi agostiniani, a quella dignitas che fa dell’uomo la più mirabile delle creature51. Uno status dignitatis che - come chiarisce bene Azzone - «non ponitur in diffinitione pro honore publico ut alias sed pro potentia cuilibet homini a natura tributa quia homo est»52. Per questa via, grazie all’accostamento ad un ben noto frammento di Callistrato sulle cognitiones extraordinariae (Dig. 50.13.5.1), la fama è definita in rapporto alla capacità giuridica e alla dignitas nella sua più nobile raffigurazione: «fama est illesae dignitatis status moribus et legibus comprobatus, cum sit idem quod opinio et quod existimatio»53. Dietro l’immagine riflessa della fama, però, è sempre in agguato il suo 50
Per un quadro d’insieme del fenomeno, cfr. G. Alessi, Processo penale (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano 1987, pp. 360-401; Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari 2001, pp. 23 ss.; J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XIVe siècle), in La Preuve en justice: de l’Antiquité à nos jours, sous la direction de B. Lemesle, Rennes 2003, pp. 119-147. 51 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 74 s. 52 Ibid., p. 78. Sulla definizione di Alberto Gandino, che accoglie una tradizione ormai consolidata, cfr. M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005, p. 97. 53 Ibid., p. 76.
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doppio. Verrebbe da dire, con Freud, il perturbante, con tutto il suo fardello di sciagure. L’infamia, ossia la mala fama, rende pubblica, visibile a tutti la trasgressione, esige una sanzione sociale che non esclude quella prevista dall’autorità, ma che ha efficacia e contenuti proprî. Se vi è stata offesa grave e scandalo per la comunità, il sistema di controllo sociale comporta per l’infame la pubblica riprovazione, l’isolamento, l’emarginazione, mentre il potere legale appronta una serie di esclusioni e di incapacità giuridiche ed etichetta le turpes personae con marchi e segni esteriori riconoscibili alla vista di tutti54. L’infamia legale, infatti, è una pena accessoria che rende più gravosa la condizione del condannato, ma può anche diventare uno stigma che si aggiunge al disprezzo per una condotta di vita turpe e indegna. Sull’infame ricade una serie rilevante di incapacità: perde dignità e uffici e non può rivestire incarichi onorifici; non può postulare in favore di altri; non può promuovere un giudizio in veste di accusatore, né prestare una valida testimonianza; perde il diritto di fare testamento; se è nominato erede, contro di lui spetta ai fratelli e alle sorelle del defunto una querela inofficiosi testamenti55. Proviamo ad immaginare quali effetti spaventosi produca l’infamia nel caso di individui che conducono la loro esistenza nel pieno godimento dei diritti civili e politici, che poggiano la loro fortuna economica sulla rispettabilità, che occupano nella gerarchia sociale un ruolo di comando: ciò vale nella realtà cittadina dove si afferma una nuova visione dei rapporti tra i privati, ma anche nel mondo feudale, dove la tutela della propria fama è un imperativo di vita per il signore e l’infamia è causa d’estinzione della nobiltà56. Si può ben capire la preoccupazione di quel Raniero miles di Vico che, per avere schernito con parole irridenti un tale che faceva bella mostra della sua stravagante pettinatura, scoprì che alla modesta pena pecuniaria cui era stato condannato si sarebbe accompagnata l’infamia derivante dall’actio famosa esperita dal suo avversario. Il beneficio della restituito in integrum concesso da papa Innocenzo III serviva appunto a salvarlo da una imprevista limitazione della sua capacità giuridica. Soprattutto, serviva a metterlo al riparo da una sciagurata degradazione sociale. In fondo, la decisione papale — ispirata a criteri di equità — faceva salvi, insieme con lo status di Raniero, anche la coesione sociale di un piccolo borgo feudale del Basso Lazio57. 54 55 56 57
Cfr. U. Robert, I segni d’infamia nel Medioevo, trad. it., Soveria Mannelli 2000. Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 139 ss. Cfr. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ cit., p. 33. Cfr. F. Migliorino, In terris Ecclesiae. Frammenti di ‘ius proprium’ nel ‘Liber Extra’ di Gregorio IX, Roma 1992, pp. 177 ss.
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L’infamia è per i ceti abbienti l’equivalente della pena di morte per gli esclusi e i diseredati. L’eventualità di perdere la fama è per un individuo capace di diritti l’equivalente di un imminente e funesto pericolo di morte; a sottolinearlo è Accursio in una glossa ad un frammento di Marciano in cui l’intervento del servo a difesa del dominus «periculo vitae infamiaeve» diventa una giusta causa di manumissione. L’infamia, però, non appare così dannosa per chi ha poco o nulla da perdere; il giudice comminerà la pena dell’esilio a vita, quando il condannato è così miserabile da non temere il «damnum famae»58. Anche l’infamia, dunque, svolge la funzione di regolatore dei rapporti di status. Per le persone di bassa condizione, per le meretrici, i lenoni o gli usurai la marginalità sancita dalla pubblica opinione trova una conferma nell’intervento del potere legale; per gli appartenenti ai ceti dominanti, l’infamia diventa una sanzione vera e propria con conseguenze disastrose, perché li priva dei più rilevanti diritti civili. Dalle prime elementari glosse grammaticali, gli interpreti vanno costruendo una fitta ragnatela di classificazioni. Tentano di mettere in sistema i luoghi più diversi (e contrastanti) del Corpus. Generazione dopo generazione. Il risultato? L’infamia è ipso iure, per sententiam o ex genere poenae. C’è chi è notato immediatamente, prima ancora di una pronuncia giudiziale; chi sconta la pena accessoria dell’infamia per la condanna subita in una actio famosa; chi ancora perché subisce l’onta di una pena disonorevole59. Si sa, i giuristi medievali dissimulano una disinvolta infedeltà al testo romano. Nonostante lo maneggino come una “scrittura sacra”, essi guardano più volentieri alla realtà del loro tempo, sono i costruttori di un nuovo diritto e di un nuovo ordine60. A partire da quei venerandi testi e da quei dispersi materiali. Si può ben capire, allora, come la più innovativa e fortunata delle loro invenzioni sia stata la dottrina dell’infamia facti. Ben oltre il testo giustinianeo. A fondamento di questa geniale innovazione, la comune (e visibile) condizione di svantaggio degli infami e dei turpi. L’infamia facti resta sempre una specificazione dell’infamia legale, ma mantiene una significativa affinità con l’ignominia sociale. Occorre, però, 58 59 60
Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., p. 140. Sulle distinzioni dei glossatori, cfr. ibid., pp. 85 ss. Furono soprattutto «l’entusiasmo per la ricerca di rationes, e la sempre più sfacciata infedeltà al dettato normativo» a produrre un tipo di interpretazione estremamente ‘creativa’. L’intelletto del giurista, a partire dal Duecento, «cambiò traguardo: anziché applicarsi a ‘comprendere’ le fonti antiche si mosse a ‘costruire’ su di esse»: E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995, p. 392.
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distinguere: questa opera liberamente nella sfera metagiuridica, mentre l’infamia di fatto riceve una disciplina dogmatica ed attrae a sé ipotesi che altrimenti resterebbero soggette alla mutevole e incerta valutazione della pubblica opinione61. I risultati sono rilevanti. Si delimita il campo di applicazione dell’infamia di diritto, rendendone più sicura l’efficacia e, al contempo, si raccolgono – sotto la categoria dell’infamia – ipotesi, come la condictio furtiva e l’interdictum unde vi, che per definizione sono azioni non infamanti62. Mirabile manovra della gaia scienza del diritto: da una parte essa pone limiti, alza barriere, proclama interdetti, predica il Vero e il Falso. Parla a uomini lasciati bambini. Ma non basta: rende leggibile a pochi, non a tutti, il suo ordine del discorso. Per questa via, l’infamia resta in buone mani. Diventa un formidabile strumento di controllo sociale e di pressione verso la conformità63. Nel suo significato più ampio, l’infamia di fatto non è una pena vendicativa, né è necessariamente collegata con la colpa. Nella canonistica classica spesso coincide con la decoloratio famae e nelle sue fasi formative è presupposto processuale per la purgazione canonica. Eppure, i suoi effetti sono rilevanti nella promozione agli ordini sacri, nell’esercizio degli atti legittimi, nella facoltà di muovere un’accusa o di prestare una testimonianza. Nonostante Graziano non mostri di conoscere la distinzione tra infamia iuris e infamia facti, nelle opere dei decretisti l’infamia di fatto assume un ruolo crescente ed è riferita ai luoghi (moltissimi) in cui le fonti antiche della Chiesa riferiscono di una non bona conversatio di persone che, a causa del loro scadimento morale, sono giustamente tenute fuori dai riti liturgici e da quelli mondani64. Le due regole apostoliche per la promozione al reggimento della diocesi e per l’ordinazione sacerdotale erano lette con limpida consapevolezza dagli eredi della riforma gregoriana. «Oportet enim episcopum sine cri61
Per l’importante contributo dato dalla canonistica cfr. P. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs von Gratian bis zur Glossa ordinaria, Köln-Graz 1966, pp. 17 ss.; G. May, Die Infamie im Decretum Gratiani, «Archiv für katholisches Kirchenrecht», 129 (1960), pp. 390 s., che rileva giustamente come sull’uso non tecnico di popularis infamia e di sinister rumor si fondò il procedimento straordinario per inquisizione. 62 La condictio furtiva è un’azione intentata per il risarcimento della cosa quando non può aver luogo la rei vindicatio. L’interdictum unde vi è un’azione tendente a far rientrare in possesso di un bene mobile chi ne è stato spogliato con la forza. Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 190 s. 63 Cfr. anche E. Peters, Wounded Names. The medieval doctrine of infamy, in Law in Medieval Life and Thought, cur. E.B. King - S.J. Ridyard, Sewanee, Tenn. 1990, pp. 43-89. 64 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 177 ss.
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mine esse» e «oportet autem illum et testimonium habere bonum» diventavano il fondamento della distinzione tra l’irregularitas ex culpa e quella ex defectu famae. Nel primo caso l’impedimento derivava dalla criminalis infamia, concetto che serve da spartiacque tra il crimine e il peccato; nella seconda ipotesi, lo scadimento della fama presso la comunità dei fedeli impediva al pretendente di essere ordinato sacerdote65. La maggiore attenzione prestata dai canonisti all’infamia di fatto ha indotto a credere che questa fosse estranea alla ideazione teorica dei maestri civilisti. Il termine, invece, è già usato dalle prime generazioni di glossatori, forse dallo stesso Irnerio, ma con un’attenzione ed un significato diversi, perché diverse erano le fonti oggetto dell’esegesi di quegli antichi giuristi. Gli interpreti dei testi giustinianei considerano come cause dell’infamia di fatto quelle ipotesi, non previste nell’Editto del Pretore, in cui si fa riferimento a una indeterminata indegnità morale che, di solito, è definita coi termini di turpitudo o di levis macula. Andiamo alle fonti. Può accadere che un tale è chiamato in tribunale non per rispondere di un reato, ma perché col suo comportamento ha dato occasione a numerose lagnanze. Non viene pronunciata una sentenza, perché non c’è stato un processo. Il giudice, tuttavia, rimprovera duramente l’uomo e lo esorta a cambiar vita. Il biasimo lascia il segno e, secondo i legisti, non resta senza effetti. Certo non equivale alla nota d’infamia, ma assomiglia molto al biasimo e alla maledizione del padre per il figlio diseredato. E ancora. Un avvocato parla in difesa del cliente senza fermarsi un solo attimo. Non prende fiato. Vomita una appresso all’altra tutte le sue parole. Impedisce al patrono dell’altra parte di addurre prove contrarie. Peggio. Ha l’ardire di chiedere al giudice di non dare la parola all’avversario. Il giudice, paziente oltre ogni limite, alla fine lo zittisce in malo modo e gli dà pubblicamente del sycophanta. Le severe parole del magistrato trapassano, con lo stesso acume di una punta affilata, la rispettabilità dello sconsiderato. Tanto più, perché la censura è pronunciata in pubblico e nel tempio mondano della giustizia66. Un paio di casi, tra tanti, per scoprire come i civilisti riescano — per argumenta — a interdire gli infami di fatto dalle cariche onorifiche e per svantaggiarli, non di poco, nelle loro capacità processuali. Se, però, dietro le teorie cerchiamo di intravedere gli uomini in carne e ossa, troviamo 65 Cfr. F. Gillmann, Zur Geschichte des Gebrauchs der Ausdrücke “irregularis” und “irregularitas”, «Archiv für katholisches Kirchenrecht», 91 (1911), pp. 56 ss.; B. Löbmann, Der kanonische Infamiebegriff in seiner geschichtlichen Entiwicklung, Leipzig 1956, pp. 9 ss. 66 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 187 ss.
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quelle stesse masse umane che portano già i segni dell’esclusione nella loro banale esistenza. In un tempo in cui gli intellettuali contribuiscono con le loro dottrine a legittimare un sistema di gerarchie e di privilegi legali, l’infamia facti è destinata a diventare il riconoscimento giuridico di una marginalità che appare naturale e necessaria all’equilibrio sociale. Infami di fatto, dunque, e infami di diritto. Classificazioni che funzionano al modo della galleria di anormali raccolti e ritratti negli album di Lombroso. Rassicurano le persone rispettabili che non si riconoscono in quei nasi deviati e in quelle fronti sfuggenti. La società bipartita fra infami e persone dabbene conferisce un’identità a tutti, forse più a questi che ai primi. Se non altro, perché gli uomini infami sanno bene di esserlo. Tutti gli altri temono fortemente di diventarlo. Siamo in presenza di una tecnologia del riconoscimento, che identifica controllando e controlla identificando. Una macchina astratta67 che, incurante della fatica e dell’usura, s’industria senza sosta a classificare e raccogliere gli individui che concretamente sono utili al suo funzionamento. Un portentoso congegno che delimita, incide, segna, marca, definisce quello spazio che in tanto è disposto ad accogliere alcuni in quanto esclude tutti gli altri68. A questo scopo, teologi e giuristi hanno prodotto – nell’età medievale – uno straordinario investimento di sapere, per assegnare nomi, per denominare e rinominare classi di atti. Sono stati i veri maestri dell’ordine dogmatico, gli interpreti autentici del rapporto tra la parola e le istituzioni, i gelosi custodi del discorso. Siamo giunti ad un intrico di questioni cruciali. Come si concilia il potere di certificare la fama e l’infamia – rimesso ad una cerchia ristretta di intellettuali – con un regime della verità che non può non fondarsi sul consenso universale? Com’è pensabile la coesistenza di un’opinione pubblica, sostenuta da valori positivi, e di un’opinione privata divergente e, per di più, scandalosa? Con quali procedure si costituisce il criterio della consensualità e dell’universalità? Il tema del consensus omnium viene discusso da filosofi e giuristi attingendo ad una categoria della logica aristotelica, mediante cioè la definizione di Endoxon. L’Endoxon, ossia il riconosciuto, è nella Topica e nella Retorica ciò che sembra giusto a tutti, alla maggior parte, oppure 67
Per il concetto marxiano di astrazione reale, cfr. R. Finelli, Astrazione e dialettica dal Romanticismo al capitalismo: saggio su Marx, Roma 1987; Finelli, Un parricidio mancato: Hegel e il giovane Marx, Torino 2004. 68 Sul punto basta solo accennare alle pagine di E. Goffman, Asylums: le istituzioni totali, trad. it., Torino 1961, e di Douglas, Come pensano le istituzioni cit.
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ai sapienti . Ed è appunto nella sfera del probabile, nell’ambito cioè degli atti umani, che funziona il criterio della certezza sufficiente: per dirla con Boezio, «quae videntur omnibus aut pluribus aut sapientibus»70. L’opinione di un ceto guadagna in questo modo la dignità universale attraverso coloro che la rappresentano, per la fama e l’onore che essi hanno di potere dire ciò che vogliono dire71. Da qui, l’insistito richiamo delle fonti giuridiche all’immagine di un’opinio dehonestata apud bonos et graves, per stigmatizzare quel defectum famae che è il risultato di una vita reprensibile e che non sempre è collegata a una condotta delittuosa72. Al modo dei testes synodales, anche i boni et graves homines rinviano agli onesti e probabiles endoxoi della logica aristotelica. Ma se i giuristi, con le loro categorie, elaborano una critica dell’infamia, altrove è in piena attività un’analitica dell’infamia. Ingranaggi diversi della medesima macchina: modelli discorsivi da una parte, congegni istituzionali dall’altra. Insieme, una mirabile rappresentazione bipartita della condizione umana. Lo ius commune definisce che cos’è l’infamia, da quali cause nasce, qual è il suo rapporto con il reato, con la sentenza, con la pena. Detta i tempi della sua durata e fissa le condizioni per la sua remissione. Nel momento stesso, però, in cui essi delimitano con scrupolo le deroghe ai precetti del diritto comune, s’industriano a lasciare incerti e sfumati i contorni dell’infamia facti, fanno di questa una sorta di grande contenitore a cui attingere, con abili manovre ermeneutiche, nuovi tipi e nuove classificazioni. Dalla critica all’analitica: gli iura propria si preoccupano non della definizione dell’infamia, ma del suo effettivo funzionamento. Come nella colonia penale di Kafka, una quotidiana e incisiva scrittura, che ha di mira
69 Cfr. von Moos, Das Öffentliche und das Private im Mittelalter cit., p. 33 e letteratura citata. 70 Boezio, De differentiis topicis I, in Patrologia latina, LXIV, Turnholti 1979, col. 1180C-D. 71 Cfr. J.A. Swanson, The Public and the Private in Aristotele’s Political Theory, Ithaca 1992. 72 Cfr. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs cit., p. 11 ss. L’opinio dehonestata apud bonos et graves, equivalente ad un defectus famae, si ritrova nelle Assise di Ruggero II, tit. 35, de mordisonibus, l. Comperit (ed. G.M. Monti, Lo Stato normanno-svevo. Lineamenti e ricerche, Trani 1945, p. 158): «… Si vero tanti reatus non levis suspitio de eo fuerit, vel preferite vite sue probrosus cursus extiterit, opinionemque eius apud bonos et graves dehonestaverit, de calumpnia prius actore iurante, non ut actenus set ceteris super hoc legibus sopiti set moribus, igniti ferri subeat iudicium…»: Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 183 ss.
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soprattutto i corpi, la loro postura, la loro disposizione nello spazio, la loro trasparenza che mette a nudo un’anima corrotta e perversa. Questa è una procedura in cui si distinguono, per zelo, gli ordinamenti cittadini e quelli regi, quando impongono ai condannati pene crudeli e infamanti: cavalcare un asino a ritroso stringendo la coda fra le mani; portare un sasso appeso al collo, tenere una mitra sul capo o una sella sul dorso; restare per lungo tempo alla berlina con la catena. E ancora: quando li marchiano a fuoco sulla fronte, sulla spalla o sul braccio, oppure quando impongono il sanbenito all’eretico o il copricapo con la campanella alla meretrice73. Questi riti crudeli sono una mirabile messa in scena della derisione e del disprezzo, sono una sorta di drammatizzazione della vergogna. La fama, d’altra parte, non è una virtù morale, è un bene prezioso da curare. Non riguarda tanto la propria coscienza, quanto la personale capacità di autodisciplina, quella costante vigilanza che ogni uomo deve esercitare per il bene di quanti fanno affidamento sulla sua buona reputazione. Una sorta di strategia di autodifesa per evitare la perdita della fama, ancor più che il peccato stesso. Si non caste tamen caute, ammoniscono i teologi quando richiamano la necessità metamorale di scongiurare il pericolo di uno scandalo: meglio con una condotta irreprensibile, se necessario però anche con una moderata dissimulazione74. I peccati occulti, allora, restano confinati nel temibile colloquio che il penitente instaura con la sua coscienza, al cospetto di un amorevole ed esperto medico dell’anima. Lontano dai tribunali, dove rischierebbero di procurare, attraverso la comunicazione sociale, un danno ancora maggiore nella coscienza dei più75. Va da sé, però, che la macchina mitologica è sempre al lavoro, nella sua ostinata pretesa di istituire alla vita gli uomini: tutti gli uomini, infami e no.
73 Cfr. A. Pertile, Storia del diritto italiano, V, Storia del diritto penale, Torino 1892, pp. 341 ss.; C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia. Dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, Milano 1906, pp. 424 ss. 74 Cfr. J.-P. Cavaillé, Dis/simulations. Religion, morale et politique au XVIIe siècle, Paris 2002, p. 380. 75 Cfr. von Moos, Das Öffentliche und das Private im Mittelalter cit., pp. 41 ss.
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Bisogna essere molto prudenti con le voci perchè fanno presto a trasformarsi in verità. Qualche considerazione su fama e publica vox nell’Italia comunale
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Processo a Pietro
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Una notte del mese di settembre dell’anno 1342 Paola, moglie di Salvi di Rustichino, calzolaio, fu violentata. Cinque mesi più tardi, era il 24 febbraio, il marito si presentò davanti al giudice dei malefici di Siena per denunciare della violenza Pietro di Meo, pizzicaiolo, e sua moglie e complice Buonafemmina: la quale, diabolicho spiritu instigata, con inganni e blandizie persuase la vittima, all’epoca dei fatti sua vicina, a trascorrere la notte con lei adducendo una (falsa) assenza del marito. Che invece rapidamente e a tradimento in casa, si gettò sul letto dove dormiva Paola e approfittò di lei. Del reato, che si era consumato nella casa dei due imputati, a Siena, nel Borgo Nuovo di Santa Maria, affermò Salvi calzolaio, era pubblica fama1. Appellandosi alla pubblica fama di ogni loro affermazione, i due si difesero negando ogni circostanza, proclamando la loro innocenza e rivendicando una buona ed integerrima reputazione: io sono innocente, disse Pietro di fronte al giudice dei malefici, la notte in cui il reato è avvenuto ero fuori Siena, non ho indotto mia moglie ad ingannare Paola, non 1
Archivio di Stato di Siena (da ora ASS), Podestà 32 (1341 feb 24- 1342 nov 19): il registro, di 46 carte, è mutilo in fine. L’accusa di Salvi strutturata in articula: «Volo et intendo probare (...) primo quod publica vox et fama est et fuit Senis in burgo et contrata Burgi Novi Sancte Marie quod dicti Pietrus et domina Bonafemmina eius uxor commiserunt et perpetraverunt proditorie omnia et singula in dicta accusa contenta, videlicet quod dicta domina Bonafemmina suasit et proditorie seduxit dictam dominam Paulam uxorem mei dicti Salvi quod veniret ad iacendum secum et dicendo quod dictus Petrus maritus ipsius domine Paule <sic> erat absentem a civitate Senarum [...] et facta suasione et proditorie ipsa domina Paula ivit ad iacendum cum dicta domina Bonafemmina. Et [publica vox et fama est] quod ipsa domina Paula iacente in lecto cum dicta domina Bonefemmina dictus Petrus immediate intravit lectum ipsius domine Bonefemmine in quo iacebat dicta domina Paula [...] et nefande et proditorie commisit carnaliter cognitionem cum dicta domina Paula [...].»: c. 2r.
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sono stato a letto con lei, non ho abusato di lei; l’accusa di Salvi è falsa, calunniosa e costruita contra veritatem; io sono uomo di buona fama e così sono reputato da tutti quelli che mi conoscono. Buonafemmina gli fece eco: io sono innocente, non ho dato alcun aiuto a Pietro, nè ho persuaso donna Paola a giacere nel mio letto; l’accusa è falsa, calunniosa e costruita contra veritatem; io sono una donna onesta e di buona reputazione e così sono reputata da tutti quelli che mi conoscono2. Fermiamo per un momento la proiezione di questa storia processuale che non diversamente da tanti casi giudiziari coevi rivela essere spia, tappa e arma di una controversia interpersonale, una delle tante che tessono la spessa trama di quella endemica conflittualità tra individui e gruppi che percorre trasversalmente il corpo sociale e che ora e qui coinvolge il pizzicaiolo e due suoi vicini, due fratelli, tintori, con i quali, dichiarerà lo stesso Pietro, egli tempo prima aveva avuto una rissa, se l’erano date di santa ragione, anche a colpi di spada, e da allora – nonostante la stipula di una pace – «ut inimici se gerebant»3. Un processo che dunque si configura (e che andrà letto ed interpretato) come un campo di gioco, in cui gli antagonisti si affrontano utilizzando specifiche armi dialettiche e modi di azione4. Dipanandosi lungo un filo logico e narrativo che parte dalla vox ed
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2 Ibid., cc. 11r-13r: La difesa di Pietro in articula: «dictus Petrus erat absens tempore et loco in accusa contentis [...] ac etiam est purus et innocens a quolibet persuasione quam asseritur feceisse dictum Petrum dicte domine Bonafemmine [...] ut duceret dictam dominam Paulam ad iacendum secum [...] et de hoc est et fuit publica vox et fama. Item quod publica vox et fama fuit et est quod dictus Petrus tempore et loco in accusatione contentis non accessit ad lectum [...] nec cognovit carnarliter eam nec persuasit dicte domine Bonafemmine [...]. Item quod dictam accusam facta per dictum Salvi de dicto Petro est falsa et chalupniosa et contra veritatem instituta et de hec est publica vox et fama. Item quod dictus Petrus est homo bone condictionis et fame et sic habitus et reputatus fuit toto tempore vite sue a cognoscentibus eum. Item quod de omnibus et singulis supradictis est et fuit publica vox et fama». La dichiarazione di Buonafemmina: «[...] publica vox et fama est et fuit maxime in contrata burgi Sancte Marie in qua dicta domina Bonafemmina habitat, quod ipsa domina Bonafemina est pura et innocens a qualibet persuasione et condutione quam diceret factam per dictam dominam Bonafeminam de dicta domina Paula ac etiam a quolibet auxilio, favore et consilio quod diceretur esse prestatum per dictam Bonafeminam Petro marito suo tempore et loco in accusatione contentis ut cognosceret carnaliter dictam dominam Paulam [...]. Item quod dicta accusatione facta per dictum Salvi de dicta domina Bonafemina est falsa et chalupniosa et contra veritatem instituta et de hoc est publica vox et fama. Item quod dicta domina Bonafemina est et fuit mulier bone et honeste vite et bone conditionis et fame et sic habita et reputata fuit toto tempore vite sue ab omnibus cognoscentibus eam. Item quod de omnibus et singulis supradictis est et fuit publica vox et fama». 3 Ibid., c. 36r. 4 Sul significato del processo, sul rapporto tra attività giudiziaria e forme della produzione documentaria si rivela utile l’esempio perugino studiato da Massimo Vallerani:
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arriva all’azione del giudice passando per un punto centrale costituito dalla fama, assunta qui nel suo doppio significato di ‘reputazione’ e ‘opinione comune’, il processo di Pietro al pari di altri tratti da documentazione giudiziaria toscana, cui farò brevemente riferimento nel corso di queste righe, ben si presta a discutere ed introdurre alcuni aspetti relativi al funzionamento della fama nelle città comunali del basso medioevo, il modo in cui era usata, il modo in cui instaurava e dava forma alle relazioni tra individui e al dialogo fra individui e istituzioni. Con una premessa necessaria al mio discorso che ne costituisce in parte anche le conclusioni: la fama/reputazione oggetto delle considerazioni che seguono ha radici giuridiche e normative; essa partecipa della cultura, del potere vigente e dominante; essa è – attraverso le sue raffigurazioni elaborate, promosse, veicolate dalle autorità, – emanazione diretta del ‘politico’. Parimenti, la fama/notorietà non ha nulla di spontaneo o volatile: è un dispositivo altamente formalizzato e regolato che obbedisce a precisi meccanismi di formazione e manifestazione5. A quest’altezza cronologica, sia il dispositivo che il modello sono entrati pienamente a far parte dell’armamentario con cui gli individui gestiscono la propria vita, le proprie relazioni, i propri conflitti, con cui osservano e classificano i comportamenti, con cui, consequentemente, elaborano e plasmano, in sede processuale, la propria autobiografia6. La fama costituisce la trama della strategia processuale di Salvi e di quella di Pietro. I due dimostrano di conoscere bene le sue modalità di funzionamento, entrambi tentano di manipolarla ingaggiando nel vicinato una battaglia per il suo controllo, ma con tutta probabilità, se il giudice avesse loro chiesto quid est? – la domanda con cui si apre la sequenza di domande attraverso le quali la dottrina impone di verificare se essa ha quegli attributi che ne garantiscano l’attendibilità e la rendano inconfondibile, a livello giuridico dalla vox – probabilmente neanche loro avrebbero potuto e saputo spingersi oltre la formula standardizzata e inamidata con cui tutti, o la quasi totalità, dei testimoni, risponde al giudice: «quod dicitur Conflitti e modelli procedurali nel sistema giudiziario comunale. I registri di processi di Perugia nella seconda metà del XIII secolo, «Società e Storia», 48 (1990), pp. 267-299; Vallerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia 1991. 5 F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico dei secoli XII-XIII, Catania 1985. 6 Si vedano a questo proposito le stimolanti considerazioni conclusive scaturite dall’analisi di alcuni processi celebrati dal tribunale parigino dello Châtelet, a fine Trecento, in M. Vallerani, La fama nel processo tra costruzioni giuridiche e modelli sociali nel tardo medioevo, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi, Bologna 2007, pp. 93-111.
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per maiorem partem vicinorum et illorum de burgo», «id quod dicitur per gentes», «dictum gentium», «id quod dicitur a gentibus», «id quod dicitur per maiorem partem gentium». I testimoniali, lo sappiamo, non sono documenti innocenti, molti sono i filtri (dall’orale allo scritto, dal volgare al latino), molte le interferenze, molti i condizionamenti e le censure 7. I racconti dei testimoni, stravolti, spezzati, ricomposti in stile indiretto (dicit, vidit, audivit), canalizzati entro il reticolo degli articula denuntiationis che impostano l’andamento dell’interrogatorio, appaiono ingessati entro modelli formali e ripetitivi, livellati secondo formulari che li assimilano e li codificano secondo schemi fissi. Un rullo compressore, l’interrogatorio e il suo riversamento nella scrittura, che modifica, stravolge, reinterpreta fatti e racconti. Di questo occorre essere consapevoli. Dietro ed oltre la rigidità del racconto testimoniale riusciamo tuttavia abbastanza chiaramente a scorgere l’attrito prodotto dallo scontro di codici e linguaggi divergenti: silenzi, reticenze, imbarazzi, «quot homines faciunt famam»? c’è chi non risponde, c’è chi dice di non sapere, c’è chi dice uno, due, sei, da dieci in su, da venti in su, trenta, c’è chi dice cento, c’è chi dice la maggior parte, c’è chi dice tutta la gente, c’è chi dice più sono gli uomini che parlano e meglio faciunt famam, c’è chi risolve la faccenda ammettendo che fama potest dici in magna quantitate et in parva, impossibile cogliere e restituire un senso a questa contabilità privata se non richiamando l’urto di universi concettuali inconciliabili; il giudice ha fatto una domanda, il teste – suo malgrado – darà una risposta: che cos’ è la fama? non lo so perchè fino ad oggi non ho mai letto roba di leggi8. Di fronte al giudice, il testimone deve chiarire luoghi, circostanze, tempi, modalità di nascita e diffusione della fama. «Quid est», «ubi est», «ubi subrexit», «quot homines faciunt famam», cos’ è la fama, dove è dif-
7 J.-C. Maire Vigueur, Giudici e testimoni a confronto, in La parola all’accusato, a cura di J.-C. Maire Vigueur - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1991, pp. 105-123: 118-119. Su altro versante, vedi le considerazioni e l’analisi esemplare sviluppata su fonti inquisitoriali da G. Grado Merlo, Streghe, Bologna 2006 (particolarmente p. 8) Sul livellamento formale e l’uniformità tipologica delle contese di cui rendono conto le carte giudiziarie dei secoli XIII-XIV, I. Lazzarini, Gli atti di giurisdizione: qualche nota attorno alle fonti giudiziarie nell’Italia del Medioevo (secoli XIII-XV), «Società e Storia», 58 (1992), pp. 825-845. 8 «Interrogatus quid sit publica fama dicit quod non legit adhuc leges quod ipse sciat»: la citazione, come altre nel testo, è tratta dalle carte processuali riguardanti una disputa fondiaria che si svolse negli anni Settanta del Duecento a Siena che ho esaminato in R. Mucciarelli, La terra contesa. I Piccolomini contro Santa Maria della Scala. 1277-1280, Firenze 2001, pp. 97, 100 (Iohanninus Ranuccii: «a centum hominibus supra faciunt famam”), 138 (Rossus Albonecti: «sicut plures sunt melius faciunt famam»), 141 (Fede notarius quondam Ranerii: «quod per famam potest dici in magna quantitate et in parva»).
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fusa, da dove nasce, quanti uomini la fanno? Per soppesarne ed ammetterne la capacità probatoria, la dottrina determinava quali dovevano essere i suoi caratteri. Intanto andavano chiarite le diverse accezioni di fama : «una est fama hominis, alia est fama inter homines. Fama hominis dicitur in bona parte, in mala parte dicitur infamia [...]. Fama inter homines est duplex: nam quedam est fama de uno homine in genere bonitatis, vel malitie. Nam fama est, quod est bonus, vel malus, quod est fur, vel latro [...] Quaedam est fama de aliquo facto particulari»: dunque, in questa seconda accezione, si dà una fama sulla persona e una fama che nasce su un fatto specifico9. Questa, che andava provata per testes, di specchiata buona fede e buona reputazione, si riteneva formata quando la maggior parte degli uomini della civitas, del castrum, della villa, della vicinia erano a conoscenza del fatto : «si queratur a teste, quomodo scis – argomenta nel corso del Duecento il bolognese Tommaso da Piperata – debet respondere quia ita sentit maior pars populi civitatis». Altro attributo necessario era il suo carattere manifesto, pubblico: disquisiva Bartolo da Sassoferrato: «quid est fama? Respondeo, est communis opinio voce manifestata. Qua re dico voce manifestata? Fama enim dicitur a fando, hoc est loquendo, unde nisi sit locutio non diceret fama», e commentando la definizione di Tommaso che interpretava e spiegava la fama come communis opinio («fama et communis opinio et communis estimatio sunt idem»)10 specificava, «est verum, quando communis opinio et communis estimatio voce manifestantur»11. Dunque la fama si affida alla voce, ha bisogno della voce che la costruisce. Bartolo mostrava di riprendere ed accettare il nesso etimologico che molti secoli prima, il padre dell’enciclopedismo medievale, Isidoro di Siviglia, aveva coniato: «fama autem dicta quia fando, id est loquendo, pervagatur per traduces linguarum et aurium serpens» 12. La fama che si diffonde attraverso i tralci delle lingue e delle orecchie, strisciando come un serpente, è stata così chiamata in quanto
9 Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), In secundam Digesti Novi partem (commentaria) ..., Venetiis 1580, lib. 48, De questionibus, lex X, De minore quattuordecim annis, par. Plurimum, nn 5-6. 10 «Dicitur fama quod homines alicuius civitatis, villae, vel castri, vel vici, vel contratae alicuius communiter opinantur et existimant, sive sentiunt, illud verbis sive loquella asserendo [...]», traggo la citazione da R. Fraher, Conviction According to Conscience: The Medievale Jurist’s Debate Concerning Judicial Discretion and the Law of Proof, “Law and History Review”, 7 (1989), pp. 23-88: 69 nota. 11 Bartolo da Sassoferrato, In secundam Digesti Novi partem cit. 12 Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, ed. A.V. Canale, libro V, XXVII, Delle pene stabilite nelle leggi [26], Torino 2004, pp. 422-423.
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fando...: fando, forma impersonale del verbo fari, cioè discorso che circola, racconto diffuso13. Quando Salvi e la moglie Paola cominciarono a mettere in giro la voce dello stupro qualche giorno dopo il fatto, nella contrada del borgo Nuovo di Santa Maria dove era avvenuto, dove essi vivevano, lo fecero avendo ben cura di farlo publice et palam, in modo manifesto, di fronte ad un pubblico di vicini e soprattutto vicine: che infatti durante l’interrogatorio, attestando la pubblica fama del reato, raccontarono di come il giorno della festa di Sant’Angelo, donna Paola avesse loro detto di quel che era successo, di come Buonafemmina l’avesse imbrogliata e di come fosse rimasta vittima della violenza di Pietro14. La fama non tollera i segreti che si perdono negli oscuri e tenebrosi meandri del non detto, dell’ indicibile, del ne-fando15. A Modena, nel 1299, durante il dibattimento del processo contro Palmieri di Montale, accusato dal proprietario del campo di aver rubato della saggina, l’unico testimone a sostegno dell’accusa spiegherà al giudice che la pubblica fama di quel reato risaliva al giorno prima, 20 novembre (l’accusa era stata mossa il 6), quando due uomini di Montale cominciarono a dire a tutti i convicini riuniti in pleno arengo che Palmieri era l’autore del furto16. E a Siena fu nel luogo pubblico per eccellenza, la piazza del Campo su cui si affaccia il palatium comunis, che secondo l’opinione dei testimoni si levò la voce dell’innocenza di Pietro quando, cinque mesi dopo il reato, Salvi si recò al banco del giudice dei malefici per la denuncia: Pietro certamente sapeva quello che stava per succedere. Il tempo trascorso tra la messa in giro della voce (a settembre) e l’accusa al podestà, suggeriscono che i suoi antagonisti, quelli che Pietro chiamava hodiosi et malivoli inimici, avevano cercato forse di esercitare su di lui una qualche pressione, ave-
13 Il legame della fama con il verbo “dire” (fari) era chiara fin dall’epoca di Varrone: ma l’atto del fari, presuppone nel mondo antico, una modalità del dire abbastanza specifica. Esso è usato per definire la parola degli indovini, è voce che rivela segreti nascosti, è voce profetica, è la prima parola dotata di senso del bambino: vedi i diversi contributi raccolti nel volume La potenza della parola, cur. S. Beta. Atti del Convegno di Studi (Siena 78 maggio 2002), Fiesole 2004. 14 «Dixit quod initium ipsius vocis et fame processit a dicta domina Paula quia ipsa domina Paula dixit predicta contenta in dicta accusa cum ipsa teste et cum pluribus aliis vicinis», «audivit dici a dicta domina Paula et a pluribus vicinis de dicta contrata Burgi novi» ASS, Podestà 32, cc. 5v, 7v (le testimonianze delle vicine alle cc. 5v-8v). 15 J. Chiffoleau, Dire l’indicibile. Osservazioni sulla categoria del «nefandum» dal XII al XV secolo, in La parola all’accusato cit., pp. 42-73. 16 Registrum comunis Mutine (1299). Politica e amministrazione corrente del Comune di Modena alla fine del XIII secolo, ed. P. Bonacini, Modena 2002, p. 220.
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vano tentato una negoziazione prima di ricorrere al giudice: tentativo fallito ma che aveva dato modo a Pietro di reagire: in palatio comunis, post istitutionem accusam predictam, la gente, che conosceva bene Pietro, cominciò a dire che Pietro era innocente e che si trattava di una truffa colossale ordita da certi suoi nemici, e voce su voce, anche questo fatto, ben presto, diventò di pubblica fama17. La battaglia per il suo controllo cominciava: dopo 9 mesi dall’inizio del primo processo, Pietro, controattaccando, sapeva di aver vinto e rivendicava che della sua innocenza nel borgo di Santa Maria era ed era sempre stata pubblica fama («sic a maiori parte vicinorum ... publice dicebatur et dictum fuit et dicitur absque aliquo contrario»). Il 13 novembre cominciò un secondo processo: nell’articolata accusa per falsa testimonianza e induzione di falsa testimonianza, il pizzicaiolo ricostruì i fatti e chiedendo che venisse fatta giustizia, individuava i responsabili della macchinazione nei due tintori e nella loro cerchia di amici e parenti18. L’economia della pubblicità
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Non sapremo mai esattamente come si formasse o come venisse influenzato il parere del vicinato riguardo ad un episodio. Tra il fatto (informazione del fatto) e l’opinione c’è tutta una mediazione rappresentata da elementi molto diversi assai difficile da cogliere per lo storico. Certo è che per la comunità i gesti e le parole affermate in pubblico avevano un peso: diciamo pure che avevano valore probatorio almeno fino a quando un gesto o una parola non li avesse pubblicamente contraddetti e contestati; per questo Pietro, lo abbiamo sentito, poteva rivendicare la pubblica fama della sua innocenza adducendo il motivo che della sua innocenza tutto il vicinato parlava absque aliquo contrario. Analisi sulle carte giudiziarie di area toscana ci dicono che le azioni violente, pubbliche ed esplicite, se non ottengono una risposta immediata (altra violenza, ricorso giudiziario) si configurano come rituali fondanti un diritto19. Di contro: le azioni segrete non hanno valore di prova. 17 «Ser Lippus tintor testis.. interrogatus unde habuit initium ista publica fama dixit quod in palatio comunis Senarum post istitutionem accusam predictam» (ASS, Podestà 32, c. 16r). 18 Ibid., c. 34r «et sic a maiori parte vicinorum dicti burgi.. publice dicebatur ... et dictum fuit et dicitur absque aliquo contrario». Il secondo processo, cc. 33r- 46v. 19 C. Wickham, Dispute ecclesiastiche e comunità laiche. Il caso di Figline Valdarno (XII secolo), Firenze 1998 (Fonti e studi di storia locale, 10), p. 72.
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Nelle dispute fondiarie questa dinamica appare evidentissima: quando nel 1277 un arrogante magnate senese volle contestare il diritto di proprietà di un pezzo di terra all’ospedale di Santa Maria della Scala lo fece attraverso una sequenza di azioni di guerra, presentandosi sul luogo a cavallo, in arredo visibilmente aggressivo e bellicoso («armatus cervelleria, spontone et cultello»), a capo di una banda di fideles e meçaiuoli armati di tutto punto, eseguendo precisi e ripetuti gesti: riempì le fosse, ruppe i vomeri, allontantò i lavoratori, picchiò i conversi dell’ospedale e di fronte al pubblico attento dei presenti pronunciò, forte e chiaro immagino, quelle parole che assieme ai gesti si sarebbero tanto ben impresse nella memoria dei testimoni – «ego nolo quod laboretis pro hospitale, laboretis pro me si vultis» – e di lì a poco nella rete dell’opinione pubblica della comunità come segni che volevano negare qualcosa (il diritto dell’ospedale) ed imporre qualcosa d’altro (il proprio diritto). E quella era una cosa che probabilmente tutti capivano. Era il linguaggio di una grammatica condivisa. Era, diciamo, “senso comune”20. Se non ponessimo mente a questa grammatica condivisa, non si comprenderebbe lo statuto privilegiato assegnato dalla legislazione popolare di pieno Duecento alla pubblica fama come uno dei criteri di riconoscimento dei magnati21: coloro che l’«opinio vulgo appellat et tenet vulgariter potentes nobiles vel magnates». La grandezza-grandigia ha un’immagine pubblica: essa vive grazie ad alcuni indicatori formali, un certo tipo di organizzazione delle strutture familiari, il ricorso a un sistema di segni riconoscibile (stemmi, blasoni), prestigiosi possessi immobiliari, privilegi signorili, dominio sugli uomini, cavalli, armi, uso della forza, prepotenza: insomma uno stile di vita che rinvigorisce ogni giorno la fama/reputazione del magnate e consequentemente la pubblica fama/notorietà della sua reputazione.
20 La citazione dai testimoniali pubblicati in Mucciarelli, La terra cit., pp. 101 e 105; sui rituali visibili come creatori di prove ampie esemplificazioni v. C. Wickham, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzioni delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000. 21 Così lo Statuto del Capitano del Popolo di Firenze (1289): «QUI DEBEANT APPELLARI ET INTELLIGANTUR POTENTES, NOBILES VEL MAGNATES. Item, ut de potentibus vel magnatibus de cetero dubietas non oriatur, illi intelligantur potentes, nobiles vel magnates, et pro potentibus nobilibus vel magnatibus habeantur, in quorum domibus vel casato milites est vel fuit a XX annis citra, vel quos opinio vulgo appellat et tenet vulgariter potentes nobiles vel magnates»: G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, cur. E. Sestan, Milano 1966 [ed. or. 1899], p. 161. Sul ruolo della fama per la definizione dei magnati, C. Klapisch-Zuber, Honneur de noble, renommée de puissant: la définition des magnats italiens (1280-1400), «Medievales» 24, (1993), pp. 81-100 (numero monografico dedicato a La Renommée). Per una visione d’insieme della normativa si rinvia al classico G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatiza nei comuni dell’alta e media Italia, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 12 (1939), pp. 86-133.
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Non diversamente, nell’impennarsi del conflitto che più o meno contemporaneamente vedeva fronteggiarsi nella penisola seguaci dell’Impero e seguaci della Chiesa, poiché come la condizione magnatizia anche la militanza attiva dentro una pars si lega a prepotenti segni di riconoscimento, fu ancora la fama ad essere chiamata in causa: cito a titolo d’esempio e per comodità il passaggio con cui a Siena, negli anni in cui sta per maturare l’avvento di un governo guelfo di stampo popolare, nei patti che prefiguravano il primo tentativo di ricomposizione del quadro politico istituzionale cittadino, lacerato da anni di lotte, si stabiliva che nessun famosus de parte – guelfo o ghibellino – potesse entrare a far parte dell’organizzazione di popolo22: la fama raccoglie qui, ancora una volta, sia la reputazione sia la notorietà di quella reputazione. Tangio di Guadagno, pratese, passato a parte guelfa, appena eletto all’ufficio dei Dodici per il bimestre luglio-agosto 1298, si difendeva con accanimento davanti alla curia del Capitano del popolo negando di essere ghibellino o persona sospetta di ghibellinismo come denunziava il suo accusatore23 e pertanto inabile ad accedere alle cariche del Comune. Adducendo come prova incontrovertibile della sua identità di parte, tutti i segni esteriori dell’appartenenza faziosa, tanto nel pubblico quanto nel privato, così ricomponeva il profilo della sua autobiografia, accertata e comprovata dalla pubblica fama: ho vissuto la mia vita negli ultimi dieci anni come vero, fedele e manifesto guelfo, «conversando, utendo et parentelas faciendo cum guelfis, loquendo pro parte guelfa et contra partem ghibellinam» e generalmente facendo tutto ciò che i guelfi veri e fedeli e manifesti fanno24. Una vita organizzata, rappresentata, raccontata attraverso una
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22 L’accordo tra Parte guelfa e Comune di Siena, datato 13 maggio 1267, fu pubblicato da U.G. Mondolfo, Il Populus a Siena nella vita della città e nel governo del comune fino alla riforma antimagnatizia del 1277, Genova 1911, pp. 71-81, recentemente commentato e riedito in A. Giorgi, Quando honore et cingulo militie se hornavit. Riflessioni sull’acquisizione della dignità cavalleresca a Siena nel Duecento, in Fedeltà ghibellina, affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, cur. G. Piccinni, 2 voll, Pisa 2008, I, pp. 133-207: 191-192; vedi anche P. Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al Caleffo Vecchio del Comune di Siena, Siena 1988, p. 73. 23 «[...] denuntiatur et accusatur quod Tangus quondam Guadagni de porta Travallii est persona suspecta et ghibellina et pro ghibellino habetur ab hominibus terre Prati et quod fuit confinatus ghibellinus, qui Tangus electus fuit ad officium de Duodecim consiliarii terre Prati et quod ipse Tangus dictum officium recepit et iuravit et acceptavit [...] petitur per nos dictum Tangum de predicta receptione et acceptatione officii puniri et condempnari secundum formam statuti Comunis»: Archivio di Stato di Prato (da ora ASPo), Comune, Atti giudiziari 476, quat. IV, cc. 67r-69r; 71r-78v; 85r-89r (1298, luglio 3). 24 All’accusa, Tangio aveva risposto negando: «Tangus Guadagni [...] negavit se esse vero publicus et manifestus guelfus terre Prati de parte guelforum popularium terre Prati.
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sapiente economia della pubblicità. E Tangio fu assolto: erano stati ascoltati molti testimoni, molti dei quali testimoniarono di essere certi che Tangio era ghibellino ed aveva avuto un passato ghibellino, ma molti altri testimoniarono di essere certi che lui fosse guelfo perché, con argomentazioni non prive di tautologia, dicevano che Tangio era stato console dell’Arte della Lana (i ghibellini non potevano rivestire cariche direttive nelle arti), aveva fatto parte dei consigli del comune, era stato accolto nella società di popolo dei Trecento Sacrati, era stato autorizzato a portare le armi (privilegio accordato ai popolari guelfi), dimenticando che proprio sulla liceità di quei ruoli e di quei privilegi si stava discutendo25. Tangio, forte di un passato ancorché abbastanza recente in parte guelfa, di un ruolo attivo nella corporazione e negli organi comunali, forte infine di relazioni d’amicizia e parentele con noti e tra i maggiori dei popolani guelfi, vide riconosciuta la sua integrazione politica. La fama del suo guelfismo bastava in quell’anno 1299 – cioè nel contesto di un comune popolare saldamente guelfo per il quale Montaperti era poco più di un ricordo sfuma-
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Item interrogatus si umquam fuit confinatus pro parte ghibellina dixit quod non. Item interrogatus si fuit electus ad officium XII pro duobus mensibus videlicet presentis mensis julii et augusti futuri et ipsum officium juravit et recepit dixit quod sic [...] et alia in dicta denuntia et accusa contempta negat»: ibid., c. 67v (8 luglio). Il 9 luglio presentò la sua difesa strutturata, come prassi, in articula: « In primis ipse Tangius est et publice habetur et tenetur in terra Prati per pratenses vere et fidus et manifestus guelfus; item quod ipse Tangius tractatur et approbatur est et fuit iam sunt X anni et ultra per pratenses ut guelfus et tamquam guelfus ponendo et permittendo ipsum esse ad consilia Comunis Prati et ad custodiam terre Prati pro parte guelfa et contra ghibellinos; item quod dictus Tangius gerit vitam suam et gessit iam sunt X anni et satis ultra ut guelfus verus et fidus et manifestus, conversando, utendo et parentelas faciendo cum guelfis et in parte guelfa loquendo pro parte guelfa et contra partem ghibellinam et generaliter ea faciendo que guelfi fidi et veri et manifesti faciunt. Item quod de predictis est publica vox et fama [...] »: ibidem, c. 77r. 25 Fra testimoni dell’accusa e della difesa, si presentarono alla curia del capitano del Popolo 64 testimoni: un buona parte di quelli presentati dall’accusa (25) affermarono, chi per aver visto, chi per pubblica fama, che Tangio era considerato ghibellino, proprio come il padre, e come persona «suspecta de parte ghibellina» era stato mandato a confino; qualcuno, invece, che aveva sentito dire che ora era guelfo («iuravit partem guelfam»), qualcun altro reputava che fosse più ghibellino che guelfo («ipsum magis esse ghibellinum quam guelfum») in pochi dichiareranno di non sapere nulla: ibid., cc. 67r-69r; 71r-78v; 85r-89r. Dello stesso tipo il processo a Finuccio di Cambio, ibid., 478, quat. III, c. 45r; quat. IV cc. 1r-11v. Per una ampia contestualizzazione degli eventi, ivi inclusi i processi in oggetto, rinvio a S. Raveggi, Protagonisti e antagonisti nel libero Comune, in Prato. Storia di una città. Ascesa e declino del centro medievale (dal Mille al 1494), cur. G. Cherubini, Firenze 1990, pp. 613-736: 676. Per la vicenda di una famiglia pratese accusata di ghibellinismo nel Trecento, V. Mazzoni, Ascesa e caduta di una famiglia di popolo nel Trecento: gli Zagoni di Prato, «Ricerche Storiche», 32/1 (2002), pp. 3-45.
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to nella nebbia e i ghibellini non costituivano certo la preoccupazione in cima all’agenda politica – per essere considerato pubblicamente guelfo26. Un tribunale giudicante
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Nei processi la fisionomia sociale dei protagonisti e la natura dei reati circoscrive il perimetro e lo spazio della fama: «in negotiis magnis requiritur fama totius civitatis, in negotiis parvis sufficit fama viciniae sue contratae», argomenta Bartolo27. Nel processo di Pietro il vicinato, lo abbiamo visto, ha un ruolo fondamentale nella diffusione e formazione della fama: («interrogatus unde habuit initium ista fama dixit quod a vicinis dicti Petri postea accusam istitutam a dicto Salvi»)28. Le relazioni di vicinato stabiliscono (spontaneamente, necessariamente) relazioni di sapere sull’altro: «interrogatus quomodo scit, dixit quod est suus convicinus». Ancora Bartolo argomentava: quando dico fama della città o della vicinia, intendo la fama che è «inter homines illius civitatis o viciniae [...] ad quos spectat hoc scire»29... La morfologia urbana, il modo di abitare costituisce un incitamento al sapere sull’altro. Non occorre descriverla ancora: strade tortuose e strette, case addossate le une alle altre che sporgono all’esterno con scale, ballatoi, balconi: la città medievale proietta incessamente la popolazione verso l’esterno e ciascuno verso l’altro; nessuna intimità, l’intimità non esiste, nessun segreto è possibile. Queste forme di rapporto obbligato immergono l’individuo in un tessuto urbano in cui l’occhio dell’altro – che si può compensare soltanto con lo sguardo
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26 Per un inquadramento F. Canaccini, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (1260-1289), Roma 2009; S. Raveggi, L’Italia dei guelfi e dei ghibellini, Milano 2009. 27 Bartolo da Sassoferrato, In secundam Digesti Novi cit., lib. 48, De questionibus, lex X, De minore quattuordecim annis, par. Plurimum, nn. [11-12-13]: «fama non requirat locum de necessitate [...] ibi non ponitur locus ut significet locum sed ut significet universitatem que moratur in loco. Unde cum dico, fama est in civitate ista, hoc est, inter homines huius civitatis: vel fama est in vicinia, hoc est inter homines illius viciniae [...] » 28 ASS, Podestà 32, c. 17v (Finuccius Baldi testis); e ancora: immagini delle conversazioni fra i vicini del borgo di Santa Maria: «interrogatus unde habuit originem ista fama dixit a gentibus dicti burgi qui dicebant quod non poterant credere contenta in dicta accusa» (c. 21v); «audivit dici ab hominibus de contrata burgi Sancte Marie quod dicta accusa erat instituta contra veritatem» (c. 29r); «interrogata quomodo scit, dixit auditu vicinorum» (c. 30r). 29 Bartolo da Sassoferrato, In secundam Digesti Novi cit., lib. 48, De questionibus, lex X, De minore quattuordecim annis, par. Plurimum, nn. [13-14].
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sull’altro – induce comportamenti specifici. Vita pubblica e vita privata si confondono, rafforzando solidarietà, quotidiana commensalità, forme di promiscuità30 e insieme esacerbando profondi rancori, ad ogni livello della scala sociale. Hodiosi, malivoli e suoi inimici sono, nelle parole di Pietro, i due fratelli tintori con i quali è venuto alle mani: abitano nella stessa contrada del Borgo Nuovo di Santa Maria, sono suoi vicini ; «per la conversazione della loro invidia (...) nacque il superbo isdegno tra Cerchi e Donati, che erano vicini in Firenze e in contado» racconta Giovanni Villani31. Il vicinato guarda, osserva, ascolta (vidit, audivit, cognovit), dirige il complesso gioco delle voci, crea le reputazioni: ne troviamo efficace restituzione letteraria nella vicenda di Bartalo Sonaglini, il furbo mercante fiorentino che, preoccupato dell’imminente prestito forzoso che il comune si accingeva ad imporre per pagare la guerra con Giangaleazzo Visconi, ebbe l’idea geniale di mettersi sull’uscio di casa e, giorno dopo giorno, lamentare la propria rovina economica coi vicini finchè non fu creduto povero e pieno di debiti32. Accertamento della ricchezza a fini fiscali o giudiziari (per con-
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30 Nei testimoniali i numerosi riferimenti ai rapporti di vicinato che mostrano persone che dividono i pasti e bevono e parlano insieme ci dicono molto sul concetto di comunità e sulle consuetudini che cementavano tali rapporti: «vidit eos conversari ad invicem tamquam amicos et benivolos»; «vidit eos ad invicem conversari amicabiliter»; «vidit eos ad invicem conversare, comedere et bibere in domibus unius alterius»; «vidit ipsos amicari simul et unus ire in domo alterius et uti tamquam vicini»: ASS, Podestà 32, cc. 38r, 39v, 40r, 41v. Del resto, l’accusa a Pietro era falsa, ma del tutto verosimile era il contesto: doveva essere un fatto abbastanza naturale dividere spazi privati, compresa la camera da letto; per questo era credibile che una vicina, Buonafemmina, chiedesse all’altra, Paola, di trascorrere la notte con lei. 31 Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, Firenze 1990-91, IX, XXXIX. 32« (...) Levandosi la mattina, scendeva all’uscio, e se passava alcuno, e quelli lo chiamava – e dicea: É sonata la campana della convocazione a consiglio? e tornava dentro. Dicea lo amico: Oh che vuol dire questo Bartolo? E quelli rispondea: Oimè, nel mio io son disfatto, perocché mandando mercanzia oltre mare, il mare me la tolse, e sonne rimaso disfatto; però ché per volere pur sostenere il mio onore, debbo dare a certi buona somma di moneta, [...] Dice colui: me n’encresce; e vassi con Dio. L’altra mattina qualunque passava, ed elli dicea, stando sull’uscio, un poco socchiuso, chiamando or l’uno or l’altro: o tale, è sonato a consiglio? e chi dicea siì, e chi dicea no. E tali diceano: oh .. che vuoi dire? Motteggi tu? E quelli rispondea: io non ho da motteggiare, e mi converrà delle due cose fare l’una a levarmi dal mondo o morire in prigione; e in questa maniera continuò più d’un mese, tantochè si ... cominciò a fare l’estimo.. Quando veniano alla partita di Bartolo, ciascuno dicea: egli è diserto, e guardasi per debito. E l’un dicea, É dice il vero, pure una di queste mattine non ardiva uscir di casa.. e l’altro dicea: e anco così disse a me; e l’altro dicea: egli è il vero come costoro dicono; una nave che andava a Torissi, secondochè mi ha detto, gli ha dato la mala ventura. Dice un altro. Egli è codesto, e anco sento, che uno gli ha dato la mala pasqua... E gli posono tanta prestanza quanta si porrebbe a uno miserabile o poco più»: Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, ed. D. Puccini, Torino 2004, nov. 148 (Bartolo Sonaglini con
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sentire esecuzioni di guasto o confisca dei beni): il vicinato funziona ed è riconosciuto dalle istituzioni come credibile interlocutore sovrapersonale33. Strapotente corte della publica opinio, organizza l’insieme delle complicità, delle solidarietà e delle controsolidarietà, vigila, denunzia, censura, secondo protocolli consolidati. Basti pensare al ruolo affidato alla vicinanza dagli statuti societari e comunali: a Bologna, alla metà del Duecento, l’ammissione di un nuovo membro alla societas dei Lombardi, una delle 24 societates armate cittadine, era condizionata, fra le altre cose, al risultato dell’inchiesta che i ministrali della società avrebbero dovuto condurre, per statuto, sul richiedente, interrogando almeno quattro dei suoi vicini, appartenenti alla societas34; a Modena, fine Duecento, i capitani delle cinquantine che formano i quartieri della città, sono tenuti a scegliere quattro vicini, «de melioribus», i quali debbano inquirere, se nella loro zona ci sono uomini «qui habeat famam vel suspictionem latronis vel fauctoris latronis vel receptatoris latronum vel qui vivat sine arte er redditu vel de quo sit suspitio vel presumptio latronis, vel qui vivat de rato» 35; a Lucca, nel 1308, è fra i vicini di ciascuna contrada, che si devono scegliere periodicamente quattro uomini bone fame, i cui nomi rimarranno segreti, che devono denunciare e registrare in scriptis tutte le persone, maggiori di 18 anni, male fame, ovvero malfattori, malviventi, giocatori36. A Perugia, in virtù della norma statutaria che determina per «homines vicinantie, vel contrate» obbligo di aiuto e soccorso per gli ufficiali comunali nel caso di malefici che si commettessero a Perugia o nel suo contado37, il Capitano del popolo può procedere contro tutta la vicinantia di tale Pietro di Giovanni Ildebrandini, vittima di un omicidio, dal momento che tutti i
una nuova e sottile astuzia fa sì che essendosi per porre molte gravezze, d’essere convenevolmente ricco è reputato poverissimo ed ègli posto una minima prestanza), pp. 402-404. 33 A Bologna è fra i vicini che il comune conduce indagini sui beni dei condannati per consentire al capitano del Popolo l’esecuzione dei provvedimenti di giustizia: Archivio di Stato di Bologna (da ora ASB), Comune, Capitano del Popolo, Giudici del Capitano del Popolo, 47 (anno 1283) passim; G. Fasoli, La legislazione antimagnatizia a Bologna fino al 1292, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 6 (1933), pp. 351-392: 387. 34 Statuti delle società del popolo di Bologna, ed. A. Gaudenzi, 3 voll, Roma 1889-1896, I, pp. 36-37 rubr. II, (anno 1291). 35 Il registrum comunis Mutine cit., pp. 211-217. 36 Statuto del comune di Lucca dell’anno MCCCVIII, edd. S. Bongi - L. Del Prete, Lucca 1867, rubr. CLI, p. 228. 37 La norma è in Statuto del comune di Perugia del 1279, ed. S. Caprioli, Perugia 1996, pp 310-11, cap 327: su questo vedi M. Sbriccoli, «Vidit communiter observari». L’emersione di un ordine penale pubblico nelle città italiane del secolo XIII, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 27 (1998), pp. 231-268: 265.
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vicini abitanti nelle venticinque case a destra e a sinistra della via, dove era stato commesso il reato, non aiutarono in alcun modo la vittima, nè catturarono il malfattore né lo denunziarono al podestà38. Delazione, inquisizione, denuncia, ausilio alla giustizia comunale: il vicinato è un soggetto attivo della politica del controllo: soggetto ma anche oggetto, lo esercita, lo subisce. É noto che, a partire dalla seconda metà del Duecento, l’offensiva dei regimi di Popolo, tesa ad ostacolare e reprimere i tentativi del ceto magnatizio di evadere la giurisdizione comunale, si unì ad una criminalizzazione di comportamenti devianti sanzionati da pene sempre più severe e da cogenti sistemi di controllo e di autodifesa39. La centralità della giustizia fu affermata a chiare note attraverso potenti vettori retorici e argomentativi che insistevano sulla necessità di liberare la città dai malfattori, di evitare tumulti e scandali, di far sì che i crimini non rimanessero impuniti. É in questo processo di rafforzamento della giustizia pubblica, nella crescente inclinazione di una «attitudine proattiva» degli apparati di giustizia che sempre più agiscono per garantire ordine pubblico, concordia civium e pax civitatis – come è stato ben messo in luce dalla storiografia – che deve collocarsi la funzione espansiva della fama40.
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Traggo la notizia da Vallerani, Il sistema giudiziario cit., p. 202. G. Milani, Il governo delle liste nel comune di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizione duecentesco, «Rivista Storica Italiana», 108 (1996), pp. 149-229; G. Milani, Dalla ritorsione al controllo. Elaborazione e applicazione del programma antighibellino a Bologna alla fine del Duecento, «Quaderni Storici», 94 (1997), pp. 43-74; Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003; Sbriccoli,«Vidit communiter observari» cit.; A. Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti antimagnatizi, in Ordinamenti di giustizia Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario. Atti dell'incontro di studio organizzato dall'Archivio di Stato di Firenze, Firenze, 14 dicembre 1993, cur. V. Arrighi, Firenze 1995, pp. 105-147; Zorzi, Controle sociale, ordre public et répression judiciaire à Florence à l’époque communale: éléments et problémes, «Annales E.S.C», 45 (1990), pp. 1169-1188; Zorzi, Negoziazione penale, legittimazione giuridica e poteri urbani nell’Italia comunale, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, cur. M. Bellabarba - G. Schwerhoff - A. Zorzi, Bologna 2001, pp. 13-34; Sintesi con taglio didattico: R. Mucciarelli, Magnati e popolani. Un conflitto nell’Italia dei Comuni (secoli XIII-XIV), Milano 2009; A. Poloni, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del Duecento, Milano 2010. 40 La declamazione della necessità della pena si coniuga con prassi punitive assai fluide e con un sistema-giustizia plastico che include una vasta gamma di soluzioni infragiudiziali: M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005, p. 55 e seguenti. Sull’attitudine proattiva della giustizia, Sbriccoli, «Vidit communiter observari» cit., p. 246 (da cui la citazione nel testo).
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Le opportunità che offre in sede giudiziaria sono molteplici: incorporandosi in uno zoccolo normativo che, almeno nei tribunali toscani del XII secolo, assegnava già, alla communis opinio un alto valore probatorio in mancanza di prove certe, e su particolari materie41, una delle novità più rilevanti maturata in questo torno tempo fu la sua adozione come dispositivo per avviare un processo. Sotto precisi condizionamenti, la fama, come implicita e corale accusatio42 mette in moto l’azione giudiziaria, sollecita podestà e capitano ad aprire un’inchiesta ex officio, procedura che come noto si era affermata nei tribunali cittadini come imitazione e rielaborazione di procedimenti ecclesiastici43. Nella battaglia – la più nota tra quelle che il popolo intraprese – contro lo strapotere e le vessazioni di nobili e magnati, l’inquisitio ex officio rispondeva perfettamente alla difficoltà di trovare accusatori contro personaggi potenti: «timore ipsius magnatis, – denunciava lo statuto di Vicenza del 1264 – ipse [potestas] non possit habere [...] testes qui dicant veritatem in servicio suo» contemplando l’obbligo per il magistrato suo officio inquirere veritatem, affinchè «ea inventa bene et alte puniatur ipsum magnatem»44. Inoltre, nel contesto del duro disciplinamento penale, perseguito attraverso procedimenti di natura straordinaria che sancirono una riduzione della capacità giuridica dei magnati, individuati nei testi statutari «per famam» si stabilì l’accettazione, come prova giudiziaria piena, della semplice testimonianza de fama, da sola, o in aggiunta alla parola dell’offe-
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A Pisa ad es. il ricorso ad essa fu regolato molto severamente dai constituta. Alla fine del XII secolo la publica fama poteva essere usata solo nei casi relativi a eredità, naufragio, o quando la controversia si riferisse a fatti avvenuti da più di venti anni e non vi fossero, al riguardo, documenti o testimoni. Nel 1233 erano stati ormai aggiunti i casi riguardanti le doti, i feudi, e in seguito, la pirateria (Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, ed. F. Bonaini, 3 voll, Firenze, 1854-1870, II, pp. 696-697: 866). A Siena, nel 1262, la prova della pubblica fama era ammessa nei processi criminali, mancando altre prove, purchè fatta per mezzo di dieci testimoni buoni e legali approvati dal giudice del comune (Il Constituto del Comune di Siena dell’anno 1262, ed. L. Zdekauer, Milano 1897, V, 14). Ampio quadro esemplificativo in Wickham, Legge, pratiche cit. 42 Sbriccoli,«Vidit communiter observari» cit., p. 246. 43 Sul ruolo fondamentale svolto da Innocenzo III nel promuovere il ruolo della fama denunciante vedi J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XIVe siècle), in La preuve en justice de l’antiquité à nos jours, cur. B. Lemesle, Rennes 2002, pp. 119-147. M. Vallerani, I fatti nella logica del processo medievale. Note introduttive, «Quaderni storici», 108 (2001), pp. 665-693: 679680; Vallerani, La giustizia pubblica cit., pp. 34 ss. 44 La citazione, tratta dagli Statuti del comune di Vicenza, è in Vallerani, La giustizia pubblica cit., pp. 72-73.
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so, in tutti i reati commessi dai magnati contro i popolari45: dovette essere un colpo durissimo per i grandi ai quali la norma doveva pesare particolarmente se a Firenze, nel luglio 1295, raccontano i cronisti, vedendosi così gravati dagli Ordini di Giustizia, «e massimamente di quell’ordine che [...] lla pruova della piuvica fama fosse per due testimoni», i grandi insorsero, costringendo il governo a rivedere la legge ed alzare la soglia46. La politica del controllo e del disciplinamento aveva un raggio d’azione ben più ampio dei confini tracciati dallo status magnatizio-nobiliare: perché se per un verso magnati, ribelli, ghibellini, gente sospetta di qualsiasi tipo, era sottoposta a un regime di speciale sorveglianza, dall’altro il sistema – che incardinava, sollecitava quando non inchiodava la popolazione ad un ruolo attivo, sia nella vigilanza, sia nella denuncia in alcuni casi sotto la sanzione di pene pecuniarie più spesso sotto la garanzia di una ricompensa grazie all’assegnazione di metà della pena47 – imponendo alla
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Ordinamenti di Giustizia: DE PENIS IMPOSITIS ET ORDINATIS CONTRA MAGNATES rub. V: «et sufficiat probatio in predictis omnibus et quolibet predictorum contra ipsos magnates facientes et fieri facentes, et quemlibet ipsorum, maleficia supradicta vel aliquod eorum per testes probantes de publica fama et per sacramentum offensi si viveret.. » (1293): Ordinamenti di Giustizia, edd. F. Cardini - P. Pastori, Firenze 1993, pp. 49-55: 51. Nella redazione posteriore (1292-1324), si legge: «e basti la pruova in tutte le predette cose e ciascuna de le predette [...] a la perfine di tre testimoni che provassono di piuvica fama e per lo saramento di colui che fosse offeso, se vivesse [...] con ciò sia cosa che non siano ammessi a provare la detta fama alcuni de la casa di colui che avesse sostenuto la ‘ngiuria nè nimici di colui lo quale si dicesse ch’avesse offeso»: il testo degli Ordinamenti di giustizia in volgare è in P. Emiliani-Giudici, Storia politica dei municipi italiani, Firenze 1851, III-IV, pp. 303-426, la rubrica citata è la numero IV, p. 325. A Parma lo statuto ordina al podestà di punire «si sola vox et fama fuerit contra talem magnatem nobilem vel potentem quod hoc fecerit» citato in Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia cit., p. 258. Anche a Lucca ogni maleficio commesso contro gli uomini delle societates si riteneva provato legittimamente (probatus legitime) da un teste de visu o due de fama «dicentes quod inde sit publica fama»: Statuto del comune di Lucca cit., rub. CLXII, pp. 234-237. 46 «A dì VI del mese di luglio, l’anno MCCLXXXXV, i grandi e possenti della città di Firenze veggendosi forte gravati di nuovi ordini de la giustizia fatti per lo popolo, e massimamente di quello ordine che dice l’uno consorto sia tenuto per l’altro, e che lla pruova della piuvica fama fosse per due testimoni; e avendo in sul priorato di loro amici, sì procacciarono di rompere gli ordini del popolo [...]. Il popolo avrebbe potuto vincere i grandi, ma per lo migliore e per non fare battaglia cittadinesca, avendo alcuno mezzo di frati di buona gente dall’una parte a l’altra, ciascuna parte si disarmò, e la cittade si racquetò sanza altra novità, rimagnendo il popolo in suo stato e signoria, salvo che, dove la pruova de la piuvica fama era per II testimoni, si mise fossono per III; e ciò feciono i priori contra volontà de’ popolani [...]»: Villani, Nuova Cronica cit., IX, XII, p. 29. 47 Ad esempio a Bologna la revisione a cui furono sottoposti gli Ordinamenti Sacrati nel 1284 riguardò proprio questo aspetto: l’esortazione alle accuse e i guadagni che si prospet-
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stessa popolazione un modello di comportamento irreprensibile che additava nel civis legalis et bone fame il cittadino ideale48, faceva dell’organismo civico, sotto la doppia pressione del modello e del controllo, un insieme di persone costantemente sotto ricatto, costantemente minacciate e sottoposte al giudizio di una società fatta di occhi, di lingue, di orecchie. Occhi, orecchie, bocche, che tutto vedono, tutto sentono, tutto dicono: chiunque scorra le escussioni di testimoni si renderà conto che non c’è aspetto della vita pubblica o privata di un individuo che non sia oggetto di osservazione: la povertà, la ricchezza, l’inimicizia, l’infedeltà, i rapporti di parentela, la salute e la malattia, l’appartenenza faziosa, le abitudini di vita, le infrazioni alle regole, le frequentazioni, le attività professionali: tutto è esposto e sottoposto allo sguardo del tribunale giudicante che è la collettività. Meglio perder la pecunia, che sottrarre alcuna cosa alla buona fama
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La fama/reputazione dell’individuo vive sul filo di un equilibrio molto instabile, molto precario; precarietà tanto più avvertita quanto più alta la coscienza del suo valore di scambio, quanto più volubile e mobile la congiuntura. La (buona) reputazione è una moneta che si spende in società, negli affari, in tribunale, nel matrimonio, una moneta che va custodita con cura: lo sanno bene le donne, per le quali costituisce l’unico vero ornamento che possono esibire in società, dote precipua in grado di modificare persino la destinazione sociale: Jacopo da Varazze, – e con lui molta ideologia matrimoniale del XIII secolo – giudica irreprensibile quella moglie che non ha nessuna macchia nella vita, nella fama, nella coscienza. Nel suo discorso fama e coscienza si incastrano in un abile e raffinato gioco di specchi che fa rimbalzare di continuo il problema dell’irreprensibilità della sposa dall’interno – la sua anima, la sua coscienza – all’esterno dell’imma-
tavano per l’accusatore stravolgevano lo strumento giudiziario. Così fu coinvolto il podestà che aveva ampio potere di decidere in merito a quelle accuse che per publicam famam fossero considerate false, di punire l’accusato: S. Menzinger, Giuristi e politica nei comuni di Popolo. Siena, Perugia e Bologna, tre governi a confronto, Roma 2006, pp. 246-247. 48 I requisiti richiesti per l’ammissione negli organismi di Popolo a metà del secolo XIII offrono già un chiaro identikit del popolano idealtipo: vedi ad esempio le norme contenute negli Statuti della Società dei Lombardi, in Statuti delle società del popolo di Bologna cit., I, rub. II, pp. 36-37. Sul tema: A. Poloni, Fisionomia sociale e identità politica dei gruppi dirigenti popolari nella seconda metà del Duecento. Spunti per una riflessione su un tema classico della storiografia comunalistica italiana, «Società e Storia», 110 (2005), pp. 799-821; A. Poloni, Disciplinare la società. Un esperimento di potere nei maggiori comuni di Popolo tra Due e Trecento, «Scienza&Politica», 37 (2007), pp. 33-62.
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gine pubblica, dove una vischiosa rete di concetti riguardanti l’onore, la reputazione e il loro associarsi alla sessualità esercitava un potere disciplinante di importanza cruciale49. Il mercante-cambiatore Oberto, uomo di «tanta lealtade», protagonista di una parabola del Liber scaccorum composto a fine Duecento dal domenicano Jacopo da Cessole, di fronte alla voce infamante che falsamente lo accusa, preferisce sacrificare il suo denaro piuttosto che subire gli effetti devastanti del discredito che, inevitabilmente, quella voce, avrebbe originato50: taci, taci, dice al suo detrattore, ben sapendo quello che sapeva un modesto contadino, abitante in una piccola comunità della Valdorcia senese: una volta partita, una volta messa in moto la vox, non c’è più verso di fermarla («quando homo incipit dicere aliquid et postea illud dicitur ab uno et ab alio»). Voci che si impongono, voci irresistibili: lunghe catene di trasmissione di un sapere indistinto ma attivo che compongono il tracciato potente, assertivo e tenace della fama : «quando homines dicunt aliis res ita est»51. Nel corso del Duecento buona parte del rinnovato interesse destato dal peccato della detractio (parola che sottrae, diminuisce, deforma, distrugge la fama del prossimo) può essere ricondotto proprio alla necessità di garantire una corretta ed ordinata gestione della parola dive49
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S. Vecchio, La buona moglie, in Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch- Zuber, Roma-Bari 1990, pp. 129-165. Per una analisi spostata cronologicamente: G. Ruggiero, «Più che la vita caro»: onore, matrimonio e reputazione femminile nel tardo Rinascimento, «Quaderni Storici», 66 (1987), pp. 753-776. 50 Jacopo da Cessole, nativo di Piccardia, compose a fine Duecento un Liber de moribus hominum et officiis nobilium super ludo scaccorum che ottenne un certo successo all’epoca e fu volgarizzato, probabilmente in ambiente toscano, nel corso del secolo successivo, da cui cito: Volgarizzamento del libro de’ costumi e degli offizii de’ nobili sopra il giuoco degli scacchi di frate Jacopo da Cessole, Milano 1829, pp. 89-90: «A Genova fue uno mercatante cambiatore, il quale ebbe nome Oberto, natìo d’Asti; questi fue uomo di tanta lealtade che affermando alcuno falsamente d’avere fatto uno deposito appo lui di CC fiorini d’oro, et egli non trovando di ciò scritta veruna in sul libro della ragione, sì come non dovea; né quello bugiardo inducendo sopra ciò testimonio alcuno, e’l mercatante lealissimo pur dicendo che quello deposito non avea ricevuto, vedendo il detto Oberto che quello rio uomo volle gridare, sì ‘l chiamoe incontanente e disse: taci, figliuolo, e prendi CC fiorini d’oro, che tu di’ che diponesti appo me; et incontanente gli annoverò la detta pecunia; sì che volle anzi perdere la pecunia ingiustamente, che sottrarre alcuna cosa alla sua buona fama». 51 Le definizioni tratte dalle testimonianze edite in Mucciarelli, La terra cit., p. 91 (Orlandinus Marchi) e p. 139 (Bectus Bonifatii). Per una analisi della morfologia sociale delle voci, vere o presunte, nei contesti di antico regime e contemporanei si veda il numero monografico di «Quaderni Storici», 121 (2006), dedicato a Voci, notizie, istituzioni, cur. B. Borello - D. Rizzo; la vox della collettività, come sapere collettivo: C. Wickham, Gossip and Resistance among the Medieval Peasantry, «Past and Present», 160 (1998), pp. 3-24.
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nuta in una società sempre più stratificata e complessa elemento costituivo e propulsore del vivere sociale52. La reputazione, la buona reputazione, non è data. «Qui bonis moribus se gubernat, bonam famam acquirit». La persona che si conduce bene nella sua comunità guadagna una buona fama, scrive un giudice-giurista del calibro di Alberto da Gandino (1260-1310), diventa cioè, dilectus civitatis53: non basta essere cives, occorre essere boni cives secondo una nozione in cui convergono e perfettamente si compenetrano stile di vita e fisionomia sociale. L’iscrizione alla corporazione, la partecipazione alla vita politica, la credibilità negli affari, la dirittura morale (non bestemmia, non è dedito al gioco d’azzardo, non commette furti, non alimenta zizzagna, divisioni e disordini) sono tutti robusti segni di un felice identikit del civis quale viene definito dall’infittirsi di norme e divieti, che negli statuti delineano chiaramente i comportamenti, ai quali deve tendere e attenersi l’individuo. La stigmatizzazione e la carica di violenza impiegata contro bestemmiatori, sodomiti, giocatori d’azzardo, ruffiani, prostitute, e in generale contro tutti gli homines male fame che popolano quel regno dell’abisso cui ha dedicato riflessioni di ampio spessore Giacomo Todeschini, tracciano un netta linea di demarcazione tra la cittadinanza e le sue proiezioni negative; esse hanno la funzione, attraverso il ricatto del rovescio, di sostenere e mantenere il modello positivo che proprio dall’incontro con il suo doppio, incarnato in figure prive di diritti, maschere senza volto – riceverà forza e concretezza54. Pietro, per tornare al processo con cui si apre questa comunicazione, come ogni individuo, è immerso in un campo politico, di cui ho schematicamente offerto alcune coordinate. I rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, lo investono. Quando Pietro si presentò davanti al giudice, prima come accusato e poi come accusatore, forse sapeva bene che il problema per il giudice non era tanto o non era affatto stabilire la verità del fatto: la meccanica giudiziaria – non solo qui, il dato appare comune a molte realtà europee – aveva ormai affidato un ruolo propulsore alla fama/reputazione degli individui che era riuscita ad imporsi sulla
52 C. Casagrande - S. Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma 1987. 53 Per Gandino si rinvia naturalmente all’analisi svolta da Vallerani, Giustizia pubblica cit., p. 97 (da cui traggo la citazione). 54 G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007; vedi anche Vallerani, La fama nel processo cit., p. 105. Ampia rassegna delle norme statutarie che definiscono la marginalità giudiziaria degli infami: Vallerani, Giustizia pubblica cit., p. 50 e note pp. 70 ss.
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fama del fatto/reato . Siamo ancora lontani dal momento in cui i giudici si metteranno a giudicare qualcosa di diverso dai reati, ovvero “l’anima” dei criminali (XVIII - XIX secc), come scriveva Foucault analizzando il sistema penale definito dai grandi codici del secolo diciottesimo e diciannovesimo56, eppure anche qui, «per effetto di quelle tensioni tra verità e fama che creano continui campi di interferenza fra ciò che le persone hanno fatto e ciò che potevano fare secondo il loro carattere» – scrive Vallerani – possiamo misurare con chiarezza uno spostamento dell’asse logico del giudizio e dell’inchiesta dal terreno del reato, dunque dal fatto a quello della persona57 . Come molti altri protagonisti delle cause trattate dalle curie del podestà o del capitano nello stesso torno di tempo58 anche Pietro affronta il suo processo secondo una certa pratica e un certo discorso. La sua strategia fa leva sulla sua buona reputazione e soprattutto sulla giustapposizione tra questa e la reputazione del suo antagonista: Salvi, l’accusatore: «homo pauper, vilis et obiectus», che si accompagna ad uomini di mala fama e «inhonestis personis»59; Pietro, artefice e pizzicaiolo, «homo legalis et honeste 55 Vallerani, I fatti nella logica cit., pp. 683 ss; Vallerani, Giustizia pubblica cit., pp. 98 ss. 56 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della Sessualità, I, Milano 2009 (ed. orig.
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Paris 1976). 57 Vallerani, I fatti nella logica cit., p 680. 58 Una causa esaminata dal Capitano del Popolo di Prato nel 1298 prende le mosse dalla denuncia di Tale di Milanese che accusa di falsa testimonianza Dino del fu Giunta. L’accusato, non è chiaro dagli atti in quale circostanza, avrebbe reso una falsa testimonianza, lesiva degli interessi dell’accusatore e dei suoi fratelli. La difesa organizzata da Dino ruota tutta attorno ad una affermazione principale: «quod est homo bone fame et bone condictionis», lo è sempre stato, anche nel passato, da cui, se ha mentito, anzi, letteralmente, ‘se ha detto qualcosa di non vero’ , lo ha fatto in buona fede. L’accusato concepisce un’azione di difesa tesa non tanto a negare il fatto in sé quanto piuttosto ad inserire l’azione imputata – dotandola di un nuovo significato («illud dixit errore et ignorantia») – fra le pieghe di un modello di vita onesta e irreprensibile. Che tutti possono testimoniare. Dino è in grado di produrre e presentare 21 testimoni che evidentemente rappresentano il suo entourage, la sua nicchia di relazioni privilegiate: tutti rispondendo alle domande del giudice dichiarano di conoscerlo bene, perché sono loro amici, perché c’è una frequentazione quotidiana, perché hanno fatto mercadantiam con lui, cum scripta e sine scripta, ed in ogni occasione lo hanno trovato bonum et legalem; tutti testimoniano che a Prato è reputato per pubblica fama pro bono et legali homine et mercatore. Un teste incalzato dal giudice risponde che egli habet pro firmo che Dino non ha prodotto falsa testimonianza, e come fa ad esserne tanto certo?, perché, «est homo tam legalis et bonus […] quod non reddet falsam attestationem scienter»: ASPr, Comune, Atti giudiziari 476, quat.4, cc. 1r-13v e 34r-40v. 59 Afferma Pietro: «Predictus Salvi accusator est homo pauper, vilis et obiectus et homo cognellator et baratherius et qui cum baratheriis et cognellatoriis et hominibus male condictionis, conversationis et vite continue conversatur et solitus est conversari et sic communi et vulgari oppinione habentur, tenentur et solitus est conversari et sic communi et vul-
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conversationis et vite». Chi lo conosce da tempo, chi ha fatto affari con lui, chi lo ha visto stare ad apotecam tutti i giorni, chi lo ha visto facere bene sua facta, tutti testimoniano della sua buona reputazione e lo stesso sua moglie, donna onestissima e perfettissima, che va a messa, che frequenta solo donne oneste e di limpida reputazione, tutti i vicini lo sanno, tutti i vicini la conoscono, tutti i vicini possono testimoniarlo e lo testimonieranno, i due sono conosciuti da anni60. La rappresentazione della sua vita e della sua reputazione è in armonia con l’insieme delle rappresentazioni che la politica ha elaborato del buono e cattivo cittadino. É in armonia con il modo in cui i suoi vicini (e testimoni) avvertono la propria e l’altrui collocazione all’interno della città. Si tratta di una codificazione sociale empirica che univa lavoro, stile di vita, frequentazioni, inquadramento sociale e familiare in un unico sistema di riconoscimento immediatamente percepibile e con un valore giuridico esplicito. Pietro fu assolto. Non conosciamo le motivazioni della sentenza di assoluzione, che, come al solito, non vennero esplicitate, non possiamo stabilire su quali criteri venne emessa, quali argomentazioni convinsero il giudice: immaginiamo che egli avrà valutato che Pietro era un uomo di buona fama, vale a dire accettato dalla sua comunità, ben integrato, e dunque degno di garanzie processuali. Quel che sappiamo è che nei tribunali presunzioni d’innocenza e garanzie erano calibrate su questi segni di appartenenza positiva alla cittadinanza. Di contro, chi ha deviato una volta devierà ogni volta, devierà sempre61.
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gari oppinione habentur, tenentur et reputatum a cognoscentibus eum et de predictis fuit et est publica vox et fama»; i testimoni confermeranno la sua versione: per es. «semper vidit istum uti cum inhonestis et malis personis» (Magister Bene Vannis), «est pauper et utitur cum baratheriis et inhonestis personis et est male conversationis et ita reputatur a cognoscentibus eum» (Franciscus Baldi): ASS, Podestà 32, cc. 37r.; 40v; 42r. 60 Pietro così si autodefinisce e descrive la moglie: «est homo artifex et bottacharius et picçicarolus et homo legalis et ipsa domina Bonafemina eius uxor sunt et fuerunt persone bone et honeste conversationis et vite habiti et reputati fuerunt et habentur et tenentur et reputantur communi et vulgari oppinione ab omnibus cognoscentibus eos»; i testimoni confermeranno: «[Pietro] tenet apotecam et utitur cum bonis personis et eius uxor vadit ad ecclesiam et utitur cum bonis et honestis dominabus», «Petrus habet apotecam et exercet artem suam et eius uxor vadit ad ecclesiam et semper ipsi utuntur cum bonis personis honestis et numquam vidit contrarium» ; «est bottegarius et apotecarius, utitur cum bonis personis, est homo legalis bone et honeste conversationis et vite»: ibidem, cc. 37r; 38v; 39r. 61 «Semel malus, semper malus»: chi ha commesso un reato una volta, lo commetterà ancora, il suo destino è segnato. Si veda l’efficace novella costruita su questa massima da Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Milano 1985, 2 voll., X, nov. 8, pp. 103-107.
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Per concludere
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La fama nella doppia veste della fama/reputazione e di fama/notorietà era nella società a cavallo fra Due e Trecento uno strumento squisitamente politico: essa spingeva l’individuo e il gruppo verso atteggiamenti conformi a un modello codificato; grazie alla sua plastica adattabilità, costituiva uno strumento di mediazione e legittimazione della discrezionalità politica, quel decernimentum con cui i governanti, di volta in volta, secondo i casi e i momenti, catalogavano i cives e riportavano nemici e sospetti sotto il loro controllo; una risorsa preziosissima, e tanto più preziosa nelle fasi più aspre dello scontro politico dal momento che consentiva di calibrare il sistema delle protezioni e delle pene alla qualità delle persone: alla loro fisionomia, ai loro comportamenti, in definitiva alla loro fama: magnati, ghibellini, popolari che fossero. Dunque, una fama/reputazione assolutamente negoziabile. Al prezzo di un adeguamento, di una messa in conformità dei propri atteggiamenti – pubblici – ai rigidi quadri espressi dal potere/cultura vigente e dominante. Rigidi e al tempo stesso instabili, volubili. Perchè dipendenti dalla congiuntura. L’uso di questa risorsa appare diffuso: come la trama delle relazioni di potere in cui si inscrive, la fama attraversa apparati, istituzioni, stratificazioni sociali e individui: tra gli insulti preferiti dei pratesi a fine secolo uno dei più ricorrenti, ladro piuvicho, famosus ladroncello, ci appare la punta manifesta di un processo di trasmissione di moduli e linguaggi: dimostrazione forse spicciola del livello cui era giunto il processo di assimilazione di categorie giuridiche e di quanto strutture fondamentali dell’agire sociale (quale il linguaggio) ne fossero state modificate e condizionate. Dall’analisi della documentazione giudiziaria emerge che gli individui hanno imparato a manipolare la fama: vi ricorrono per cercare di colpire un avversario (attraverso la distruzione della sua reputazione), vi ricorrono per difendersi quando siano stati accusati: dimostrando di essere perfettamente in grado di organizzare un discorso legalmente e socialmente efficace (come Pietro o il ghibellino Tangio). Questa capacità di manipolazione fu il precipitato di una certa meccanica del sistema, il frutto di un necessario adattamento. Da questo livello di osservazione si può dire che sia per gli uomini che per le strutture la fama ci si presenta come un dispositivo funzionale, di conservazione, per il cui tramite ciò che ne esce conservato e mantenuto è il potere; o meglio sono i rapporti di forza in cui ogni volta, ad ogni livello, il potere si realizza e prende corpo: essa è lì per vigilare e mantenere le gerarchie.
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Die politische Geschichte wie die Kirchen- und Sozialgeschichte des Mittelalters kennzeichnet bislang ein unsicherer und weitgehend unreflektierter Umgang mit den Phänomenen “publica vox” und “fama”. Insbesondere negative Nachrichten aus dem Mund des Volkes, die im Deutschen mit dem Wort „Gerücht” bezeichnet werden, wurden in der wissenschaftlichen Forschung wegen der mit fama verbundenen Unsicherheit oft völlig verdrängt. Dies entspricht der modernen Denkgewohnheit, nur seriöse Quellen für die Herstellung von aufgeklärten Geschichtsbildern verwenden zu wollen. Dass diese Beschränkung auf die vermeintlich unzweifelhaften Fakten eine kaum zulässige Einschränkung der Überlieferung darstellt, muss in diesem Band, in dem die gesellschaftliche Relevanz der fama immer wieder zur Sprache kommt, nicht eigens betont werden1. Die Erarbeitung von Methoden beim wissenschaftlichen Umgang mit der fama muss sich der Pathologisierung und Ignoranz gegenüber den Gerüchten entgegenstellen, die seit Beginn der Neuzeit aus unterschiedlichen Motiven heraus zu verzeichnen ist2. Dem Verständnis von fama in der mittelalterlichen Gesellschaft wird eine solche Negativsicht nicht gerecht, denn Gerüchte hatten ihre anerkannte Funktion innerhalb der Christenheit3. Sie stellen deshalb einen zu Unrecht kaum genutzten Strang der Tradition dar, der für das Gesamtbild vom
1 Vgl. insbesondere den Sammelband von T. Fenster und D. Lord Smail, Fama. The Politics of Talk and Reputation in Medieval Europe, Ithaca 2003. 2 J. Brokoff - J. Fohrmann - H. Pompe - B. Weingart, Die Kommunikation der Gerüchte, Göttingen 2008, widmet den III. Teil diesem Aspekt, vgl. insbesondere die Beiträge von Weingart und Briese. 3 Dazu jetzt H. J. Mierau, Fama als Mittel zur Herstellung von Öffentlichkeit und Gemeinwohl in der Zeit des Konziliarismus Gerüchte, in Politische Öffentlichkeit im Spätmittelalter’, hg. M. Kintzinger - B. Schneidmüller, Ostfildern 2011 (Vorträge und Forschungen 75), S. 237-286.
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Mittelalter nutzbar gemacht werden kann und für die Auswertung erschlossen werden muss. Dazu ist zumeist erst einmal eine Sichtung der Quellen notwendig, denn die Verdrängung war so konsequent, dass in Registern und Übersichten fast nie Hinweise auf die fama erscheinen, obwohl die Texte selbst reiches Material bieten. Der folgende Beitrag wendet sich der Zeit des Konstanzer Konzils am Beginn des 15. Jahrhunderts zu, als publica vox und fama insbesondere bei der Absetzung Johannes’ XXIII. einen festen Stellenwert innehatten. Die ältere Forschung hatte sich zwar dem Faktum der Deposition angenommen, aber die Gerüchte, die dazu führten und in den Quellen vielfältig thematisiert sind, aus den Erwägungen und Konstruktionen des Vergangenheitsbildes ausgeschlossen. Dem stelle ich mich seit einiger Zeit entgegen. In einem bereits publizierten Artikel habe ich an diesem Fallbeispiel untersucht, wie die Situation der Verschriftlichung, also der Transfer von der Mündlichkeit in die Schriftlichkeit, auf unser Wissen von als kursierend dargestellten Gerüchten Einfluss genommen hat4. In einem zweiten Aufsatz habe ich an diesem Beispiel über die Rolle der Gerüchte zur Herstellung von Öffentlichkeit gehandelt5. In diesem Beitrag stelle ich unter Ausweitung der Quellengrundlage die Frage in den Vordergrund, wer eigentlich in welcher Form über die Gerüchte gesprochen bzw. geschrieben hat, die allgemein als kursierend gekennzeichnet wurden. Zunächst sei die Situation während des Konstanzer Konzils in den Jahren 1414-1418 erneut knapp skizziert. Die Vertreter der Christenheit versammelten sich in Konstanz auf Einladung von Papst Johannes XXIII. und dem römisch-deutschen König Sigismund6. Sigismund legitimierte nicht zuletzt das Beispiel des von Konstantin dem Großen einberufenen Konzils von Nicäa dazu, sich für die Wiederherstellung des Kirchenfriedens auf einem Konzil stark zu machen. Die gesellschaftliche Erregtheit über die Unordnung an der Spitze der Weltkirche war nach 4 H.J. Mierau, Über Gerüchte schreiben: Mittelalterliche Quellen zur Gerüchteforschung
vom Konstanzer Konzil (1414-1418), in J. Brokoff u. a., Die Kommunikation der Gerüchte zit., S. 44-67. 5 Mierau, Fama als Mittel zit. 6 Vgl. Mierau, Über Gerüchte schreiben zit., S. 45 mit weiterer Literatur. Vgl. insbesondere W. Brandmüller, Das Konzil von Konstanz, 1, Paderborn u. a. 1991, 19993, 2, ebd. 1997 (Konziliengeschichte, Reihe A) und J. Miethke, Die großen Konzilien des 15. Jahrhunderts als Medienereignis: Kommunikation und intellektueller Fortschritt auf den Großtagungen, in University, Council, City. Intellectual Culture on the Rhine (1300-1500), Turnhout 2007 (Rencontres de Philosophie Médiévale 13), S. 291-322 und H. Müller - J. Helmrath, Die Konzilien von Pisa (1409), Konstanz (1414-1418) und Basel (1431-1449), Ostfildern 2007 (Vorträge und Forschungen 67).
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dem Konzil von Pisa 1409 gewachsen, das im Versuch, die Christen zu einigen, das Schisma weiter verschlimmert hatte. Zu den zwei widerstreitenden Päpsten Gregor XII. und Benedikt XIII. war der Konzilspapst Alexander V. getreten, dem nach seinem Tod im Jahre 1410 sofort Johannes XXIII. gefolgt war. Die Lager, die sich um diese Spitzen der kirchlichen Hierarchie bildeten, haben sich dabei immer weiter voneinander entfernt. Anschuldigungen und Gerüchte wurden von den Anhängern der um Anerkennung streitenden Päpste gegen die Konkurrenten verbreitet. Als das Konzil dann 1414 eröffnet war, wurde die offizielle Mündlichkeit in den Sitzungen durch regen inoffiziellen Austausch unter den Anwesenden in einer fremden Stadt begleitet. Die heute erhaltene Überlieferung dokumentiert davon nur einen sehr geringen Teil. Schnell zeichnete sich ab, dass die Stimme des Herrschers allein nicht für eine Entscheidung sorgen konnte, der einen solchen Alleingang aus Gründen der Reverenz vor dem geistlichen Bereich und der Verfassung der res publica christiana vermutlich nicht einmal wollte. Sigismund war zu dieser Zeit noch kein Kaiser und beanspruchte mit Blick auf die reale Machtentwicklung des römischen König- und Kaisertums seit der Spätantike zwar den Vorrang der Ehre und der Einberufung des Konzils, nicht aber die Entscheidung über eine Neubesetzung der Kathedra Petri7. Diese sollten die Kirchenvertreter im synodalen Konsens treffen, der im Reden erzielt werden musste. Die offiziellen Verhandlungen über mögliche Auswege waren nur ein Teil der Konsensfindung. Man musste sich der mündlich kursierenden Anschuldigungen und Gerüchte annehmen, wenn die Einheit wiederhergestellt werden sollte. Denn Papst Johannes XXIII., der zusammen mit der weltlichen Spitze zum Konzil geladen hatte, wurde trotz dieser Würde nicht aus den Diskursen ausgenommen. Gerade weil die beiden anderen im Schisma agierenden Päpste und ihre Anhänger über eine Bevorzugung argwöhnen mochten, geriet Papst Johannes XXIII. ins Visier der öffentlich geäußerten Meinung. In Konstanz kursierten jedenfalls zahlreiche Gerüchte zu Lasten des unliebsam gewordenen Papstes. Von manchen war der Nachfolger Alexanders V. von Anfang an kritisch beurteilt worden8, andere fühlten sich wegen der in ihn gesetzten Hoffnungen auf die Einheit enttäuscht. 7 Vgl. Sigismundus rex et imperator. Kunst und Kultur zur Zeit Sigismunds von Luxemburg 1387-1437, Ausstellungskatalog, hg. von I. Takács, Luxemburg 2006 und Sigismund von Luxemburg. Ein Kaiser in Europa. Tagungsband des internationalen historischen und kunsthistorischen Kongresses in Luxemburg 2005, hg. M. Pauly - F. Reinert, Mainz 2006. 8 W. Brandmüller, “Infeliciter electus fuit in Papam”. Zur Wahl Johannes’ XXIII., in
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Die Situation begünstigte das Reden nicht nur durch die Anwesenheit einer großen Zahl von Kirchenvertretern und politischen Abgesandten, sondern erforderte den lebhaften mündlichen Austausch, um das gesetzte Ziel der Kircheneinheit überhaupt erreichen zu können. Die Schrift, der wir unser Wissen verdanken, wurde dabei nur als Hilfsmittel zur Kommunikation nach Außen verwendet oder fungierte als Bezugseinheit des theologischen Dogmendiskurses sowie zur Dokumentation des mündlich Ausgehandelten für die Herstellung von Rechtssicherheit und zur Information für die Nicht-Anwesenden. Am lückenlosesten war die Verschriftlichung in der Gerichtsbarkeit, weil ihre Regeln zur Schrift zwangen, so dass die Dokumentation aus Gerichtsakten das Reden der Fama am besten erfassen lässt. Aber selbst dort ist zu verzeichnen, dass nicht selten durch Zufälle bewahrt wurde, was die Stimmungslage der Konziliaristen charakterisiert9. Unser Wissen über Konzilien im Allgemeinen und auch über das Konstanzer Konzil bleibt also beschränkt, weil vieles im Mündlichen verharrte. Obwohl Konstanz als Zentrum der Schriftkommunikation bewertet wurde10, und entgegen früheren Konzilien auch erstaunlich viele Schriftdokumente produziert und tradiert wurden, sind wir fern von einer lückenlosen Protokollierung der Diskurse, weil immer nur Einzelstimmen in Tinte verfestigt wurden, nicht die gesamte Kommunikation aller Teilnehmer. Um über das Gerede der fama reflektieren zu können, sind die Schriftzeugnisse zu bewerten, in denen über Gerüchte und das Reden des Volkes als vox populi berichtet wird. Denn nur so lässt sich erfassen, wer berichtete, wer bemäntelte und welchen Eigeninteressen die fama mala über den Papst jeweils diente. Von den verschiedenen Quellengattungen, die über die fama-gelenkten Kommunikationsakte Aufschluss geben, seien zunächst die Briefe betrachtet11. Briefe wurden auf dem Konstanzer Konzil vielfach gesandt. Die Berichte von engagierten Legaten und Ecclesia et regnum. Beiträge zur Geschichte von Kirche, Recht und Staat im Mittelalter, Festschrift für Franz-Josef Schmale, hg. D. Berg - H.-W. Goetz, Bochum 1989, S. 309-322 wieder abgedruckt in ders., Papst und Konzil im großen Schisma (1378-1431). Studien und Quellen, Paderborn 1990, S. 71-84. 9 Siehe unten Anm. 31. 10 T. Rathmann, Geschehen und Geschichten des Konstanzer Konzils. Chroniken, Briefe, Lieder und Sprüche als Konstituenten eines Ereignisses, München 2000 (Forschungen zur Geschichte der älteren deutschen Literatur 20) und Rathmann, Beobachtung ohne Beobachter? Der schwierige Umgang mit dem historischen Ereignis am Beispiel des Konstanzer Konzils, in Müller - Helmrath, Die Konzilien zit., S. 95-106. 11 Vgl. insbesondere Acta Concilii Constanciensis (= ACC), hg. H. Finke - J. Hollnsteiner, 1-4, Münster 1896-1926, 3, S. 210-305.
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Spionen, befreundeten Mittelsmännern oder entlohnten Zuträgern enthielten Hinweise auf das umlaufende Gerede, um den Machthabern, die nicht selbst angereist waren, die Stimmung vor Ort charakterisieren zu können. Kirchenmänner informierten die Institutionen, die sie entsandt hatten oder einfach nur Freunde, bei denen sie ein hohes Interesse am Geschehen erwarten durften12. Depeschen oder schlichte Briefe sollten prinzipiell die Informationslage in der Christenheit verbessern, damit Einfluss auf das Geschehen am Konzilsort genommen werden konnte13. Die Seriosität der Angaben nach bestem Wissen und Gewissen der Referenten garantiert allerdings nicht, dass ein Gesamtbild der Lage vermittelt wird. Die Anpassung an die Wünsche der Empfänger konnte die Berichte ebenso färben wie die gesellschaftlichen Grenzen, in denen sich die Berichterstatter bewegten14. Ein Gesamtbild der Bedeutung von publica vox et fama im Einigungsprozess über die Schisma-Frage lässt sich auf der Grundlage der Briefüberlieferung trotz mancher interessanten Einzelbeobachtung nicht erzielen. Gerade wegen der enormen Schnelligkeit der fama blieben Gerüchte in Briefen hinter den Ereignissen zurück, die nur im direkten Miteinander miterlebt und an die sich verändernde Situation angepasst beurteilt werden konnten. Dies provozierte Richtigstellungen und chronologisch fortlaufende Berichte. Die Briefschreiber wussten um diese Problematik und lassen deshalb im Umgang mit Gerüchten eine gewisse Sorgfalt erkennen. Die Verschriftlichung über das Reden war zwar prinzipiell immer möglich. Gerüchte gehörten zu den wichtigen Agenten der Meinungsbildung und 12
Vgl., z. B., ACC 2, S. 764-765: Ulrich Maiger an Straßburg, Bericht vom 9. Nov.
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13 Dazu wurden auch Dokumente kopiert und den Briefen beigefügt, vgl. ACC 3, Nr. 110, S. 244-246: 245. Damit verbunden war die explizite Aufforderung der weiteren Verbreitung. 14 ACC 3, Nr. 104, S. 228, Gesandtenbrief an die Stadt Straßburg vom 22. März über die Flucht Johannes XXIII. Das Wissen stammte zunächst von einem Knecht in der Herberge und wurde dann durch den als Gast der Herberge hinzutretenden Ulrich von Pfirt bestätigt. Daraufhin wurde Ulrich Maiger zum Ammanmeister geschickt, der aber noch nichts gehört hatte, jedoch die Seriosität Ulrichs von Pfirt bestätigte. Sicherheit brachte dann eine Benachrichtigung durch König Sigismund vom 1. April. Sigismund fürchtete, dass Johannes nach Straßburg fliehen wollte. Erhart Slick d. J. informierte die Stadt Eger erst am 6. April, als das Wissen schon allgemein verbreitet war. Ausführlich berichtet ein Frankfurter Gesandter auf Latein, er kann Details der Flucht schildern. Es wird Bezug auf Augenzeugen und das Gerede genommen (dicunt, qui viderunt S. 230, 6; ut fertur S. 231, 7). Auch hier gilt ein Brief des Königs als Zeichen für beste Informiertheit. In einem Bericht nach Böhmen wurde die direkte mündliche Information durch den König angeführt (ACC 3, Nr. 108, S. 240-243, 241).
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wurden deshalb von sorgsamen Berichterstattern an ihre Briefpartner weitergegeben. Die Kennzeichnung mit einem ut dicitur/fama est war notwendig, um die Realität der Fakten von Eventualitäten zu trennen, deren Sicherheit nicht garantiert werden konnte. Oft wurde aber auf das Gerede nur verwiesen, um die Falschheit der Gerüchte zu apostrophieren15. Dies geschah nicht nur in der Form des öffentlichen Dementis, sondern immer wieder auch in Briefen. Hinzu trat die Kennzeichnung der Gerüchte als falsch, um sich gegen Vorwürfe abzusichern, man verbreite selbst Gerüchte. Die Schrift konnte noch nicht einmal im kodierten oder sonstwie gesicherten Brief einhundertprozentige Vertraulichkeit gewährleisten. Boten mit mündlichen Zusatzinformationen werden auch aus diesem Grund in den Depeschen mit gewisser Regelmäßigkeit genannt. Die offene, unkritische Weitergabe dessen, was er als Gerücht gehört hatte, konnte also für den Kommunikator selbst gefährlich werden, nicht aber die Abgrenzung von vermeintlichen Gerüchtediskursen, die vom Empfänger selbständig interpretiert werden konnten. Als zweite Quellengattung sei auf die historiographischen Schriften verwiesen. Es ist hier nicht möglich, alle Chroniken zum Konstanzer Konzil systematisch auszuwerten. Vielmehr sei das Augenmerk auf Tagebücher gelenkt, welche einzelne Konzilsteilnehmer zur Dokumentation des Tagesgeschehens anlegten. Sie stehen im gleichen Spannungsfeld von Kommunikationsbedingungen und Manipulationsabsicht der Schreiber wie die Briefe. Anders als bei den Briefen mussten aber die Interessen der Leser nicht vorrangig berücksichtigt werden. Die Gesta concilii Constantiensis von Guillaume Fillastre16 bieten sich als Quelle für Untersuchungen besonders an, denn der Verfasser war ein profunder Kenner der Konzilsproblematik und erweist sich schon deshalb als ein guter Informant auch über die im Umfeld des Konzils verbreiteten Gerüchte17. Über die Unregelmäßigkeiten
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Vgl. ACC 3, Nr. 107, S. 238, wo mit einem ut dicitur über die Zession Gregors XII. bereichtet wird, aber ausdrücklich betont wird, dass der Berichterstatter das Mandat noch nicht gesehen hat («sed ego nondum vidi mandatum superinde»). Der Bericht schließt mit Gerüchten, Johannes wolle nach Frankreich fliehen («dicitur comuniter», S. 240). Vgl. auch Nr. 122, S. 272-274: 274 mit der Wertung des Gehörten als mendatium, wobei der Berichterstatter allerdings irrte. Interessant ist auch das aus Heidelberg stammende Dementi, man habe Johannes XXIII. zu schlechte Haftbedingungen gewährt, vgl. ACC 3, Nr. 139, S. 297-298: «famam audivi et utinam nugiferam, utinam veritate carentem, utinam falsidicam […]», (S. 297) sowie im weiteren S. 298. 16 Zu Guillaume Fillastre vgl. Rathmann, Geschehen und Geschichten zit., S. 155-207. Er gehörte zu den am 6. 6. 1411 von Johannes XXIII. ernannten Kardinälen. 17 ACC 2, S. 13-170.
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bei der Wahl Johannes’ XXIII. wurde laut Verfasser in Form von Gerüchten gesprochen18. Die geringe Besucherzahl des vorausgegangenen Konzils von Rom wurde, so der Zeitchronist, von vielen den Hinderungen zugesprochen, die Johannes XXIII. selbst verschuldet habe19. Im Kontext der Frage, nach welchem Verfahren in Konstanz abgestimmt werden sollte, berichtet er, gerüchteweise sei verbreitet gewesen, Johannes XXIII. habe eine Vielzahl von Prälaten durch Versprechungen und Zusagen bestochen oder mit Drohungen eingeschüchtert20. Die Wertung der Stimmen sei deshalb abzulehnen. Das Gerücht fließt hier in der Sicht des Zeitchronisten als Argument für die Entscheidung ein. Die Gerüchte dienten im Kreis der Konziliaristen in dieser Zeit offenbar zur Stimmungsmache gegen den Papst. Fillastre arbeitet selbst mit dem Mittel der Verunglimpfung mit Gerüchten, wie auch an anderen Stellen seines Tagebuches nachgewiesen werden kann21. Für den Tagebuch schreibenden Franzosen war das Gerücht von großem Interesse, Johannes wolle nach Frankreich22. Er kommt nach eigener Prüfung der Angaben zu dem Urteil, dass daran kein wahrer Funke zu finden sei und lokalisiert die Erfindung nach Basel: «nichil enim erat in re»23. Als gelehrter Jurist lässt er sein Wissen über den eigentlichen Absetzungsprozess nur knapp in sein Tagebuch einfließen24. Fillastre unterscheidet bei seiner Darstellung das notorium als Gerede über sicheres Wissen von der publica fama.25 Diese sage Johannes nach, er habe Kirchengut veruntreut. Eine Krankheit hatte ihn zu lange vom Geschehen ferngehalten, um ausführlich über den Prozess zu berichten. Ob er für die Darstellung das gesamte Wissen ausschöpfte, das ihm als Mitglied der Kommission zugänglich war, muss offen bleiben. Wahrscheinlich hat er durch sein Schweigen eine gewisse Loyalität gegenüber Johannes XXIII. ausgedrückt26. Doch nicht nur über den Papst wurde geredet. Auch interne Auseinandersetzungen zwischen 18 19
Ebd., S. 14: «electionem fuisse vitiosam fama est […]». Ebd.: «Que impedimenta idem Johannes papa, ut dicebatur et creditur a multis, procurabat et fovebat, ne fieret concilium». 20 Ebd. S. 19, vgl. dazu auch Rathmann, Geschehen und Geschichten zit., S. 112 mit Anm. 37. 21 ACC 2, S. 93 und dazu Rathmann, Geschehen und Geschichten zit., S. 196 mit Anm. 94. 22 ACC 2, S. 31. 23 Ebd. 24 Zu den Gründen vgl. auch Brandmüller, Das Konzil von Konstanz zit., I, S. 285 und 287. 25 ACC 2, S. 38 im Bericht über die Aussagen vom 14. Mai. 26 Rathmann, Geschehen und Geschichten zit., S. 192 f. beobachtet eine Zwiespältigkeit der Haltung.
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den verschiedenen Nationen bezogen sich auf das mündlich Gesprochene, das in der Polemik zum bösen Gerücht werden konnte27. Geheimbeschlüsse gaben ebenso Anlass zu Gerede der fama wie vermeintliche Entscheidungen Sigismunds28. Manchmal blieben auch beim Bemühen um eine Urheberklärung Gerüchte die einzige Informationsquelle. Befürchtungen wurden in das Gewand der fama gehüllt. Gleichzeitig konnten Gerüchte Furcht erzeugen, etwa als verbreitet wurde, dass die Kardinäle gefangen genommen werden sollten, damit ein Papst gewählt werden könne, der dem König genehm sei29. Diese Quelle lässt klar erkennen, dass die fama in der Zeit des Konzils nicht nur gegen den unliebsam gewordenen Papst Johannes XXIII. agierte, sondern sich vielfältig ins Konzilsgeschehen einmischte. Ganz auf Johannes XXIII. konzentriert sind sachgemäß die Gerichtsakten des Absetzungsprozesses30. Wegen der Bedeutung des Prozesses für die neue Einheit der Kirche sind zahlreiche Gerichtspapiere erstellt worden, in denen die Gerüchte sehr unterschiedlich zur Sprache kommen. Eine Serie von Zeugenprotokollen, die sehr intensiv auf publica vox und fama eingehen, ist hingegen nur durch einen Zufall in einer einzigen Handschrift erhalten geblieben31. Selbst wenn nach Meinung der heutigen Forschung kein faires, ergebnisoffenes Verfahren geführt, sondern ein inszenierter, den Schein des Rechts mühsam wahrender Schauprozess dokumentiert wurde, dessen Urteil längst feststand32, konnte die Inszenierung nur Erfolg haben, wenn keine Verfahrensfehler unterliefen und wenn die Anklagen die als notwendig erachtete Strafe rechtfertigten. Falschaussagen waren nicht nur ein Gewissensproblem, sondern nach Kirchenrecht strafbar. Um eine einheitliche Auswertung vornehmen zu können, wurden die Befragungen ausführlich protokolliert. Das Reden der vorgeladenen Zeugen entsprach nicht immer den Erwartungen der Befragungskommissionen. Dennoch erwies sich das Gericht letztlich als Forum zur Verbreitung der eigenen Wahrheit.
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ACC 2, S. 88. Ebd. Ebd., S. 144. Gedruckt in J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Bde. 131, Florentiae-Venetiis, 1759-1798: Bd. 27 sowie in ACC 3 und 4. Vgl. ferner H. von der Hardt, Magnum Oecumenicum Constanciense Concilium, I-VI, Frankfurt/Leipzig 16961700. 31 ACC 4, S. 758-891 aus der Handschrift Erfurt, Amploniana Fol. 146, f. 354-450. Die Sammlung der Protokolle bildet das Ende einer Handschrift, die Dokumente aus der Zeit Johannes XXIII. bietet. Sie wurde 1469 an die Universität Erfurt geschenkt. 32 So Brandmüller, Das Konzil von Konstanz zit., I, S. 297.
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Betrachten wir also den konkreten Fall. Im Prozess gegen Johannes XXIII. erhob die fama als eine wichtige Anklägerin die Stimme. Die Dokumente des Absetzungsprozesses bieten einen interessanten Ausschnitt aus den fama-Diskursen, die von der verdeckten Kommunikation im Prozess zur gerichtsöffentlichen Anschuldigung und schließlich zum Grund für die Verurteilung wurden. Papst Johannes XXIII. holte in der Situation der Einheitssuche seine Vergangenheit ein. Als Argumente gegen ihn zählten nicht nur die Schwächen im Kampf um die Einheit, sondern auch Vergehen, die er sich laut Anklage der fama zuvor hatte zu Schulden kommen lassen, die aber bislang nicht von kirchlichen Gerichten untersucht und abgeurteilt worden waren. Selbst das Fehlverhalten des jungen Baldassare Cossa, wie Johannes XXIII. vor seiner Erhebung zum Papst hieß, wurde aus der Erinnerung in die Gegenwart eingepflanzt. Es führt die Reihe aller Anwürfe an, über die der Papst laut Anklage öffentlich bezichtigt wurde («manifeste ac palam, publice et notorie diffamatus») und über die im Sinne seiner Papstwürde eine Untersuchung vorgenommen wurde33. Über seine Legatentätigkeit in Bologna wurde verbreitet, dass er sich wie ein Tyrann verhalten und Abgaben neu eingeführt habe, wie Artikel 5 der Anklageschrift zu entnehmen ist34. Dies habe zur Verarmung der unterdrückten Bürgerschaft geführt, von der ein Großteil gestorben, geflohen oder verbannt worden sei. Johannes wurde angeklagt, weil «per totum mundum» der Verdacht durch öffentliches Gerede und Gerücht («publica vox et fama») verbreitet wurde, Johannes habe seinen Vorgänger vergiften lassen, um selbst zur Papstwürde aufsteigen zu können35. Unregelmäßigkeiten bei der Messfeier erregten die Gemüter, simonistische Amtseinsetzungen von kirchlichen Würdenträgern und erkaufte Indulgenzen wurden als Skandal empfunden36. Schon vor Beginn des Prozesses sei er allgemein (vulgariter) «diabolus incarnatus» genannt worden37. Gerüchte über Verstöße gegen das Keuschheitsgebot liefen um. Von Inzest und Sodomie war die Rede38. Diese Anwürfe mischten sich mit Gerüchten, Johannes XXIII. habe Pfründen jeweils den Meistbietenden überlassen39, Pfarreien an Laien ver33 34 35 36
ACC 3, S. 155, in der zweiten Version Mansi, Bd. 27, S. 684. ACC 3, S. 159, in der zweiten Version Mansi, Bd. 27, S. 685 als Art. 4. ACC 3, S. 160, in der zweiten Version Mansi, Bd. 27, S. 685 als Art. 5. ACC 3, S. 161-163. Die Parallelisierung mit der zweiten Version ergibt sich fortlaufend. 37 ACC 3, S. 163. 38 ACC 3, S. 164-166. 39 ACC 3, S. 166-168.
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kauft und den unehelichen Sohn des Königs von Zypern gegen Geld zu Lasten der Johanniter begünstigt40. Verstöße gegen eine gute Amtsführung soll er darüber hinaus verübt haben, indem er Sünden nicht ordnungsgemäß erlassen und Kirchenämter doppelt vergeben habe. Schon dadurch sei sowohl im Klerus als auch im Volk ein großer Skandal entstanden und eine noch größere Infamie gegen den Papst und die Kurie ausgelöst worden41. Noch größer war das Entsetzen, weil Subsidien in Brabant durch seinen Sekretär, einem Florentiner Kaufmann, eingezogen worden waren42. Die allgemeine Öffentlichkeit dieser verwerflichen Ökonomisierung des Heils und das Gerede darüber waren Teil der Anklage43. All dies kam ins Gerede, weil die mangelnde Beförderung der kirchlichen Einheit44 und die Flucht des Papstes aus Konstanz45 eine so große Wut der Konziliaristen auf den Papst ausgelöst hatten, dass am Ende sogar wilde Diffamierungen seiner Rechtgläubigkeit einflossen, die allein aus den Vorurteilen über seine Herkunft gespeist waren46. In welchem Ausmaß über diese Vorwürfe schon vor dem Konzil geredet wurde, ist bislang nicht untersucht und soll auch hier nicht im Zentrum des Interesses stehen, denn zuvor hatte das Reden keine Wirksamkeit im kirchenpolitischen Alltag. Das Murren verhallte im tagespolitischen Geschäft eines zwar nicht als Universalherrscher anerkannten, sondern nur innerhalb seiner Oboedienz geachteten Papstes. Erst als letzte Stufe im Abwärtstrend des sich verschlechternden Leumunds erhielten diese Kritikpunkte Gewicht. Publica vox hatte die Ansicht verfestigt, dass seine Papstwürde unter keinem guten Vorzeichen stand. Hinzu trat das Reden über das Beharren Johannes’ XXIII. im Amt, als sich die in Konstanz versammelten Repräsentanten der Christenheit bereits darauf verständigt hatten, dass ein Neuanfang mit einem neuen, von allen akzeptierten Papst versucht werden müsse. Hier ließ das Kirchenrecht Anwürfe zu und so erscheint das Reden darüber vor Gericht. Johannes XXIII. versuchte dem Sog der Ereignisse zu entkommen, doch seine Flucht aus Konstanz verbesserte die Lage nicht, sondern gab dem Reden über ihn endgültig einen negativen 40 41 42 43
ACC 3, S. 168 f. ACC 3, S. 176-178, Art. 26. ACC 3, S. 181 f., Art. 30, 31. ACC 3, S. 183, Art. 33: «diffamiam symoniacam et malam vitam malamque famam per totum et universum mundum divulgatas exposuerunt». 44 So in Artikel 66 und 70 sogar als Teil der Anklage, vgl. ACC 3, S. 205 und 208. 45 Vgl. ACC 3, S. 198 f., 201 und 203. Art. 59, 60, 62, 63 thematisieren dieses Fehlverhalten. 46 ACC 3, S. 207, Art. 69.
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Klang. Mancher Anhänger dürfte sich im Stich gelassen gefühlt haben, was die alten Loyalitäten zerbersten ließ. Das Tor war geöffnet für weiteres Gerede über die dunklen Seiten seiner Person. Obwohl der HäresieVorwurf im Kontext mit der Förderung des Schismas juristisch am schlagkräftigsten war, wurden auch alle anderen Anklagen sorgsam notiert. Gerüchte wurden mit Klatsch vermengt, die Aufhebung der Grenze zwischen Amt und Person im Reden schon vor der tatsächlichen Degradierung durch ein Gericht vollzogen. Hinsichtlich der Fama-Bezüge sind in den Prozessakten einige spezifische Stereotypen, etwa «respondit, quod est publica vox et fama, quod» oder «diffamatus est» verwendet worden47. Keineswegs immer bekräftigen die Zeugen, die von der Kommission vernommen und deren Aussagen verschriftlicht wurden, das Gerede, doch blieb der Eintrag «testis interrogatus respondet nichil audivisse» (der befragte Zeuge antwortete, er habe nichts gehört) gerade an den ersten Verhandlungstagen noch die Ausnahme48. Erst bei der Bezugnahme auf den festen Fragenkatalog, der mit gewisser Verzögerung nach Prozesseröffnung zur Verfügung stand, ist dies häufiger nachzuweisen49. Von Anfang an aber mussten die Prozessbeauftragten versuchen, dem Gerede auf die Spur zu kommen, die vermeintliche Ubiquität der fama zu verorten und die Anonymität der Sprechenden durch mit Eiden bekräftigte Aussagen aufzuheben. Gerüchte blieben aber selbst bei diesen Zeugenaussagen vor Gericht Statements im politischen Streit. So lohnt es, diejenigen vorzustellen, die als Zeugen aussagten. Die Gerichtsakten selbst helfen bei der Einordnung, denn die Dossiers schließen eine knappe Charakteristik mit ein. Am ersten Tag der Befragungen, also am 13. Mai, sagte zunächst Bertrand de Codoène, der Bischof von Saint-Flour aus50. Über die Simonie sei von «publica vox et fama» gesprochen worden. So notorisch sei dies gewesen, dass Bertand selbst mehr als drei Jahre lang Zeuge dafür gewesen sei. Gleiches gelte für die Verschleuderung von Kirchengut, woraus ein so großer Skandal entstanden sei, dass davon für den katholischen Glauben eine große Gefahr ausgegangen sei. Auch Gerüchte, Johannes sei der schlechteste Mensch der Welt, wurden von ihm bestätigt. Ihm folgte Johannes de Molino, ein Kanoniker von St. Paul in Leiden, dessen Alter mit 58 Jahren
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Vgl., z. B., S. 159, 161 f., 165 u.ö. Es wurde noch nicht nach dem Katalog der Fragen gearbeitet. Offenbar protokollierte man nur Antworten, die inhaltlich Substanz boten. 49 ACC 4, S. 771 zu Art. 11, 18 f., 21, 23-25, 28 f., 30 u.ö. 50 ACC 4, S. 762 f.
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angegeben wurde . Auch er bestätigte Simonie-Gerüchte in seiner Heimat und an der römischen Kurie. Man habe sogar öffentlich darüber geredet, dass Johannes diesbezüglich nicht belehrbar sei. Ermengaudus de Casser, Licentiatus in decretis und Prior von Capistrano (Capitestanno) in der Diözese Narbonne war hingegen erst 30 Jahre alt52. In Okzitanien seien Gerüchte über die Simonie ebenso verbreitet gewesen wie in Florenz und anderswo, wo sich der Zeuge aufgehalten hatte. Die heimliche Flucht sei skandalös und gefährlich gewesen, so dass er glaube, deshalb könnten alle getötet und das Konzil aufgelöst werden. Diese wilden Spekulationen hüllten sich nicht in das Gewand der fama. Die Befragung wurde mit der Aussage des 45-jährigen magister Nikolaus de Hubanco, einem scriptor apostolicarum litterarum et abbreviator, fortgesetzt53. Er war ein Mann aus dem direkten Umfeld des Papstes. Er berichtet von publica vox et fama in Rom und Florenz, die den Verkauf von Pfründen an unwürdige Personen zum Inhalt hatten. Publica vox et fama vermeldeten den Verkauf von Kirchengütern in Bologna, darunter Messbecher, Kreuze und Gold- und Silbergeschirr. Über die Unbelehrbarkeit des Papstes sprachen nicht nur publica vox et fama, sondern auch die Kardinäle, so Nikolaus. Der nächste Zeuge Guillelmus Chanalis, ein Kleriker, der mit ca. 40 Jahren in der Lebensmitte stand und als honorabilis vir bezeichnet wird, konnte ebenfalls über Gerüchte in Rom, Bologna, Mantua und Ferrara berichten54, die Simonie und Verkauf von Kirchengut bestätigten, fügte noch solche über die Unfähigkeit der Amtsführung hinzu, die er selbst mit eigenen Ohren gehört habe. Die Flucht des Papstes habe für große Beunruhigung gesorgt. Nur über die mangelnde Belehrbarkeit hatte er nichts gehört. Die Streuung der Zeugen vermehrte sich in den weiteren Befragungen. Am 16. Mai wurde Hermann Dwerg, der Protonotarius Apostolice sedis aus St. Lebuin in Deventer, der als reverendus pater bezeichnet wird, mehrfach befragt55. Seine Aussagen waren scharf und bestätigten gerade die schwerwiegenden Gerüchte. Von öffentlichen Diffamierungen über Inzest mit seiner Schwägerin Katharina ist hier die Rede. Weitere Frauengeschichten schließen sich in der Aussage an, die laut Dwerg nur mit Mühe vertuscht 51 52 53 54 55
ACC 4, S. 763. ACC 4, S. 763-764. ACC 4, S. 765 f. ACC 4, S. 764-766. ACC 4, S. 766-770. Zu seiner Stellung an der Kurie vgl. Christiane Schuchard, Die Deutschen an der päpstlichen Kurie im späten Mittelalter (1378-1447), Tübingen 1987 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 65), Reg. Er war Protonotar des Konzils, vgl. Brandmüller, Konzil von Konstanz zit., I, S. 163.
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werden konnten. Der Vorwurf der Sodomie trat hinzu. Ihn befragte man auch über die fama selbst, wobei er noch einmal bestätigte, dass alle Inhalte seiner Aussage in den verschiedensten Teilen der Welt und verschiedenen Königreichen Anlass für Gerede, publica vox et fama gewesen seien. Hass als Grund seiner Aussage schloss er definitiv aus, betonte vielmehr den Skandal, der aus der schlechten Amtsführung des Papstes erwuchs. Für die Vorwürfe gegen Veruntreuung wurde am gleichen Tag von einer anderen Kommission mit Philibertus de Anailsacio ein Mann aus dem Hospital St. Johann in Jerusalem befragt56. In seiner Befragung spielt der Anklagekatalog erstmals eine prägende Rolle. Für die ersten acht Punkte traf er den deutlichen Unterschied, dass sein Wissen per famam entstanden sei und er nichts de veritate wisse. Auch bei den folgenden Anklagen erscheint oft der Hinweis «nichil scit». Bei den Punkten 13 und 14 bestätigt er seine eigene Kenntnis der Sache, betont aber, nichts über allgemeines Gerede darüber zu wissen. Zur Riege der Zeugen aus dem Umfeld der Kurie zählten Johannes Basyer als Corrector apostolicarum litterarum57 und der auditor Friedrich Deys58, die noch am 16. Mai aussagten, während Angelottus de Roma59, ein clericus apostolice camere und canonicus Lateransensis ecclesie, Petrus Negrandi60, ein baccalarius in Decretis und scriptor litterarum apostolicarum, der zugleich Archidiakon der Kirche von Poitiers war, und der auditor Cunczo de Zewola61 erst am 17. Mai als Zeugen auftreten mussten. Sie alle waren zwischen 35 und 40 Jahre alt, kannten nicht nur den Papst, sondern auch die Rechtsgrundsätze, nach denen fama in Prozessen beurteilt wurde. Vorwürfe, Johannes hänge dem muslimischen Glauben an, wurden als Inhalt des Geredes in den Gerichtssaal getragen, doch konnten Nachfragen über die realen Sprecher, die darüber geredet haben sollen, nicht beantwortet werden62. Auch die Angaben über Gerüchte zur Ermordung Alexanders 56 57
ACC 4, S. 770-772. ACC 4, S. 793-797. Er war über 45 Jahre alt. Vgl. Schuchard, Die Deutschen zit., S. 107 Anm. 525. Bei Art. 8 der Anklage kann er nur auf Kenntnisse aus dem Mund einer unwürdigen Person verweisen («ab una levi persona»). 58 ACC 4, S. 833-837. Er war 50 Jahre alt. Vgl. Schuchard, Die Deutschen zit., S. 62 Anm. 190, S. 200 Anm. 115 u.ö. Er belegt sein Wissen zu Art. 7 mit Verweis auf den Cubicularius Theodoricus Reseler und das zu Art. 21 mit dem Hinweis den Bischof von Volterra. Die Verbreitung der fama «per mundum» wird in Art. 10 und 58 angeführt. 59 ACC 4, S. 772-778. Zur späteren Karriere vgl. Schuchard, Die Deutschen zit., S. 61 Anm. 187 und 82 Anm. 307. 60 ACC 4, S. 797-803. 61 ACC 4, S. 803-806. Vgl. Schuchard, Die Deutschen zit., S. 62 Anm. 190, S. 242 Anm. 353 und 289 (Teilnahme am Baseler Konzil). 62 In der Aussage des Angelottus de Roma, vgl. ACC 4, S. 772: «interrogatus, a quibus
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V. blieben vage . Was in der Anklage zunächst als Gerücht bzw. fama bezeichnet worden war, wurde in diesem Kreis mit unumstößlichen Fakten hinterlegt. Die aus dem direkten Umfeld vermittelten Eindrücke wurden ergänzt und bestätigt durch Vertreter der ecclesia universalis, etwa durch den noch sehr jugendlichen Bischof Alanus64, den Kantor und Kanzler der Kirche von Dole Guido Carpentarii65, dessen Aussage nicht losgelöst von der Tätigkeit des Kommissars Bischof Stefan von Dole gesehen werden darf66, sowie die Norddeutschen Volmarus Saack67, Licentiatus in decretis und Kanoniker in Hildesheim, und Heinrich Kuwt68, Procurator und Magdeburger Kanoniker. Am gleichen Tag wurden auch Erzbischof Bartholomäus von Mailand69, Petrus70, der Procurator des Deutschen Ordens, und Kardinal Antonius71 zu Johannes XXIII. und den über ihn verbreiteten Gerüchten befragt. Die Zeugen der nächsten Tage waren im Durchschnitt älter oder aufgrund ihrer Tätigkeit noch gewichtiger für die Urteilsfindung. Zu ihnen
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audivit, quod a notabilibus viris de partibus et a quodam prelato. Interrogatus de nominibus illorum aliquorum nomina tacet ex causa». 63 ACC 4, S. 882. 64 ACC 4, S. 779-781. 65 ACC 4, S. 837-842. Guido war Licenciatus in legibus und 38 Jahre alt. Nicht im Protokoll verzeichnet wird, dass es sich um den Sekretär Johannes’ XXIII. handelt. 66 Er war im Untersuchungsgremium am 16. , 17. und 20. Mai tätig, vgl. ACC 4, S. 770, 772 und 797. 67 ACC 4, S. 842-846. Er war 40 Jahre alt und kannte sich in Rom und unter den Kurialen gut aus (Art. 1 und 4), konnte sich hinsichtlich der Simonie auf Erfahrungen per experientiam stützen (Art. 2) und hatte Unwürdige durch Johannes ins Amt kommen sehen (Art. 10), interessant ist auch die Einlassung zu Art. 25 (Verkauf von Pfründen und sonstige Simonie) bezüglich der Versprechungen an diejenigen, die dem Konzil fernblieben. 68 ACC 4, S. 846-851. Vgl. Schuchard, Die Deutschen zit., S. 189 mit Anm. 55. Er beruft sich auf Aussagen des Kardinals Antonius (S. 847), die er gehört hatte, und hatte als Procurator von Jakobus Thebaldini fungiert, dessen Amt in der Schreibstube an einen anderen vergeben worden war, als sei es vakant, obwohl Jakobus nicht resigniert hatte. Art. 59 sei «verum de fama». 69 ACC 4, S. 851-857. Bartholomäus galt offenbar als so bekannt, dass eine weitere Charakterisierung seiner Persönlichkeit bei der Zeugenvorstellung unterblieb. Er bezieht sich auf öffentliches Gerede der Kurialen (S. 851 Art. 5). Der Erzbischof träg die fama oft im Mund (vgl. S. 852 am Ende von Art. 6, S. 853 Art. 10, S. 855 Art. 28 u.ö.). 70 ACC 4, S. 857-865. Die Informationen zur Jugend des Baltasare Cossa stammen von seinem Lehrer, vieles wird als Augenzeugenbericht weitergegeben. Beim Inzest mit der Schwägerin beruft er sich auf die fama (S. 859 Art. 9). Doppelbepfründungen sind ihm aus Polen bekannt, hier bedurfte es der fama nicht (S. 861 Art. 26). 71 ACC 4, S. 865-867. Antonio Panciera war am 6. 6. 1411 von Johannes XXIII. zum Kardinal ernannt worden, er war Patriarch von Aquileia. Zur Jugendzeit Johannes’ XXIII. ist ihm ein Kardinal aus Neapel Informationsgeber. Er bezeugt mehrere Anklagepunkte als «notorium et publicum», muss also nicht der fama vertrauen (S. 866).
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gehörte Leonhard Tarunda , der secretarius des Papstes. Mochte man die ersten Ergebnisse der Befragungen noch als Einzelaussagen oder sogar als mit Blick auf die jeweils eigene Karriere modifizierte Negativbewertung erachten, so wurde mit fortschreitendem Prozess die dignitas der Aussagenden immer gewichtiger. Der Rechtsgrundsatz, dass von unwürdigen Personen verbreitetes Gerede nicht zum Argument im Prozess werden durfte, wurde bei der Auswahl der Zeugen berücksichtigt. Am 20. Mai traten dann fast nur noch Kardinäle auf, etwa Kardinal Johannes73, der Bischof von Ostia war, Kardinal Jordanus74, Kardinal Francesco Zabarella75 und Kardinal Landolf Maramaldus76, denen am 21. Mai noch Kardinal Pierre d’Ailly folgte77. Feindschaft gegenüber dem Papst war diesen Repräsentanten der kirchlichen Ordnung kaum nachzuweisen. Vielmehr hatten sie gerade wegen ihrer Nähe zum Papst direkten Einblick in die Amtsgeschäfte. Die am 22. und 23. Mai Befragten konnten das Bild nur bestätigen78. Zur Aussage gezwungen nahmen die Würdenträger unterschiedliche Positionen ein. In der großen Mehrzahl überwogen die kritischen Stimmen, die nicht nur die Anklagen bestätigten, sondern sogar neue
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72 ACC 4, S. 824-829. Er stammte aus Verona. Bei Art. 9 verweist er auf widersprüchliche Angaben, die in seine Kenntnis gelangt seien. In der Aussage benutzt er sowohl die Sprachregelung der Diffamierung wie die der Gerüchte. 73 ACC 4, S. 783-793. Bei Art. 6 verweist er auf das Gerede in Konstanz, bei Art. 7 auf das Gerede an der Kurie. Zu Art. 25 heißt es, er wisse es nur «per famam publicam». Der Skandal für die Kirche (Art. 49) wird hingegen als notorium eingeordnet. 74 ACC 4, S. 787-793. Jordanus (Giordano) war Bischof von Alba und entstammte der Familie der Orsini. Er wurde am 12. 6. 1405 von Innozenz VII. zum Kardinal ernannt und stieg in weiteren Verlauf zum Erzbischof von Neapel auf. In seiner Aussage verweist er des Öfteren auf Unwissen. Eingeschoben ist eine Cedula mit Vorwürfen über Entfremdungen (S. 789-791), nur die letzten beiden Einträge entstammen dem Hörensagen. 75 ACC 4, S. 817-820. Francesco Zabarella, der im Protokoll einfach als cardinalis Florentinus bezeichnet wurde, war am 6. 6. 1411 von Johannes XXIII. zum Kardinal ernannt worden, er war Bischof von Florenz. Die Personen, von denen er etwas gehört hatte, benennt er freimütig. Auch Aussagen des Papstes fließen ein (S. 819 zu den Motiven der Flucht). 76 ACC 4, S. 867-870. Landolfo Maramaldo, der Erzbischof von Bari, war bereits am 21. 12. 1381 von Papst Urban VI. zum Kardinal ernannt worden. Er starb am 16. 10. 1415. Zur Papstwahl gibt er ein Gespräch zu Protokoll, das er mit Baltasare Cossa geführt haben will (S. 868 f.). Angeblich hatte ihm Baltasare Besserung versprochen. Auf die fama nimmt er nur summarisch Bezug: «de omnibus istis est publica vox et fama notoria», (S. 870). 77 ACC 4, S. 781-783. Er gehörte zu den von Johannes XXIII. am 6. 6. 1411 ernannten Kardinälen, war als Vertreter des französischen Königs in Konstanz aber in doppelter Loyalität. Ihn interessiert vor allem, dass Johannes das Rederecht der Kardinäle beschneiden wollte. 78 Vgl. ACC 4, S. 823, 867, 885 und 886.
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Anwürfe vorbrachten. Einzelne agierten im Rahmen der Möglichkeiten loyal dem Papst gegenüber. Nur ein Zeuge verurteilte aber die bekannten Gerüchte als Diffamierung79. Da er gleichzeitig zu Protokoll gab, dass er noch schlimmeres gehört habe, was er aber nicht preisgab, sondern nur als „horribile dictu” klassifizierte, vergrößerte er das Maß der Anschuldigungen. Die kirchlichen Vorschriften waren für alle bindend. Die schreibenden Vermittler des gegen Johannes XXIII. ins Feld geführten Geredes konzentrierten sich auf die Fragen der schlechten Amtsführung und der Bestechlichkeit bei Personalentscheidungen. Nur ein Notar gab den Aussagen zu Keuschheitsfragen im Protokoll einen herausragenden Platz80. Die Gerüchteverbreitung war auf die gesellschaftlichen Grundkonstellationen bezogen und an die rechtlichen Vorgaben gekoppelt. Gerüchte kehrten hervor, was die Kommunizierenden anging, und sie offenbarten, womit die Gerüchte-Kommunikatoren ihre Ziele erreichen konnten, die meist mit den Gerüchtethemen kaum etwas gemein hatten. Zumindest die im Prozess verschriftlichten Gerüchte waren Mittel zum Zweck. Es ging nur bedingt um die einzelnen Vergehen, sondern vorrangig darum, die Absetzung des Papstes zu legitimieren. War es sonst gerade im Bereich der Kirche üblich, Anklagen gegen Menschen, die Gerüchte verbreiten, zu erheben und sie als Verleumder zu bezichtigen81, so konnten Gerüchte in Konstanz frei zu Protokoll gegeben werden. Dabei sind Veränderungen des Status von Gerüchten beim Gang in die Öffentlichkeit aufzuspüren. Gerüchte wurden zur Erkenntnisstufe im Bereich zwischen Wissen und Nichtwissen. In der Gerichtsöffentlichkeit legten die Gerüchtekommunikatoren die Angst ab, als Verleumder zu gelten oder Diffamierungen zu verbreiten. Die Dokumentation der Spuren des Redens und des Geredes stellten keine Bedrohung für die Sprechenden mehr dar. Es gehörte nicht mehr zur Eigenheit der Gerüchte, dass man über sie nur mit engen Vertrauten spricht. Ob die verschiedenen Zeugen sich außerhalb der Befragungen über die Inhalte der Aussagen verständigt haben, ist kaum zu erurieren82, doch
79 ACC 4, S. 869. Es war Kardinal Landolf, der zu den Wählern gezählt hatte und der dienstälteste befragte Kardinal war. 80 ACC 3, S. 164-166 Art. 9 bringt den Vorwurf; zu den Antworten in den Befragungen siehe oben Anm. 55 und 70. 81 C. Casagrande, Fama e diffamazione nella letteratura teologica e pastorale nel sec. XIII, «Richerche storiche», 26 (1996), S. 2-24. 82 Das Reden der Konzilsteilnehmer in Konstanz wird in den Aussagen nur vereinzelnd angeführt, siehe oben Anm. 68 und 73. Darüber musste man offenbar keine Protokolle führen. Das Gerede in der ecclesia bedurfte der Nachweise.
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war dies mit der Vorlage eines normierten Fragenkatalogs leicht möglich. Das literarisch seit Vergils Zeiten apostrophierte “überall” der fama hatte seine Macht verloren83. Vielmehr wurden die GPS-Koordinaten der Sprechenden erfasst. Im schriftlichen Bericht über die Aussagen im Prozess zeigt sich die Tendenz, Informationen über das Wo und Wann des Geredes beizufügen. Auch die Produzenten von schriftlichen Berichten in den Briefen oder Tagebüchern bekennen sich vielfach selbst zum Entstehungskontext ihrer Ohrenzeugenschaft, der nicht nur zitiert werden konnte, sondern sie auch rechenschaftspflichtig machte. Gerüchte erhielten dadurch Urheber. Im Prozess gegen Johannes XXIII. blieb der eigentliche Kritikpunkt, der das Recherchieren über die fama ausgelöst hatte, nicht verdeckt, sondern wurde Teil der Anklage. Aber das eigentliche Motiv dafür, warum alle über das redeten, was in der Anklageschrift normiert als umlaufende fama bezeichnet wurde, trat in den Hintergrund und konnte auch ganz aus dem Bewusstsein verschwinden. Der Schuldspruch trug dann der juristischen Forderung Rechnung, dass Schuldbeweise, die nur auf Gerüchten beruhten, strenger zu führen waren als solche mit klarer Indizienlage. Wie in anderen kirchlichen Prozessen auch wurden die Antworten der Zeugen grundsätzlich nach ihrer Wertigkeit im Beweisverfahren behandelt. Beweise durch Fakten oder Schrift, die durch das Gericht selbst geprüft werden konnten, hatten den Vorzug gegenüber der Augenzeugenschaft Dritter, dem Wissen von namentlich bekannten Personen oder dem Wissen de fama. Das Ziel des Prozesses, die Rechtmäßigkeit der öffentlichen Anklage über das Fehlverhalten des Papstes zu belegen, wurde so erreicht. Auch möglichen Verteidigern, die nur Invektiven seiner Feinde erkennen wollten, war so der Wind aus den Segeln zu nehmen. Die am Ende der Befragungen für die öffentliche Verlesung vorbereitete Redaktion des Anklagekatalogs ist deshalb bereinigt und weist nur noch 54 Punkte auf84. Die Fama tritt zumindest formal und in ihrer rhetorischen Wirkung zurück. Auch dort wurden aber zwei Artikel eingeschoben, in denen allein die Fama-Verbreitung aller voranstehenden Anklagen thematisiert wurde. Das für die Urteilsbegründung erstellte summarische Protokoll verkürzte die Aussagen und ist nicht mehr an allen Facetten der Gerüchtekommunikation, sondern
83 Zum Topos vgl. zuletzt W. Wunderlich, “Der Wesen flüchtiges, die schnellste aller Plagen”. Fama in antiker und mittelalterlicher Sprache und Literatur: Stimme - Gerücht Ruhm, «Mittellateinisches Jahrbuch», 39 (2004), S. 329-370. 84 V. d. Hardt, Magnum zit., IV, S. 228-235 und Mansi zit., Bd. 27, S. 684-696.
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insbesondere an der Bewertung der Zeugenaussagen für die Beweisführung interessiert. Der Anklagekatalog bestimmte die Verhöre und die abschließende Schrifttradition. Bei den Befragungen hinzugetretene Anschuldigungen wurden aus den Protokollen nur selten extrahiert und knapp paraphrasiert. Die Zeugennamen stehen für die Seriosität und Glaubhaftigkeit dessen, was nur “per famam” belegt werden konnte. Die Art, wie die Zeugenaussagen bei einzelnen Punkten referiert wurden, deutet auf die Bedeutsamkeit der Details ihrer Sachinformationen und Bewertungen im Zuge der Urteilsfindung hin. Nur selten wurde die fama vor Gericht als Künderin des Falschen apostrophiert85, wie dies in der Quellengattung der Briefe gängig gewesen war. Diese Maßnahme zur Absicherung des Sprechers bzw. Schreibers war nicht mehr notwendig, ja nicht einmal mehr intendiert. Der Rekurs auf ein Gerücht hatte bei den politischen wie kirchlichen Korrespondenten, den mittelalterlichen Zeitchronisten, die sich der Konzilszeit annahmen, und den Gerichtsschreibern sehr unterschiedliche Gründe. Die Breite der Verwendungen in Briefen und Tagebüchern beginnt beim Stilmittel, mit dem die Unsicherheit einer Nachricht gekennzeichnet wird. Mit Gerüchten konnten Meinungslenker signalisieren, dass sie selbst wegen ungeklärter Faktenlage im Urteil nicht sicher sind. Es konnte sich darin eine Aufforderung zur Prüfung verbergen. Das Zitat mit Lücke, wie es im „man sagt” vorliegt86, war im Mittelalter sogar vielfach mit der Aufforderung verknüpft, die Sache weiterer Prüfung zu unterziehen. Als andere Verwendungsform, die durch den Prüfungsauftrag nur partiell eingeschränkt wurde, ist die Möglichkeit zu nennen, als Gerüchte gekennzeichnete Informationen dazu zu benutzen, um ungestraft manipulieren und akzentuieren zu können. Personen konnten so in ein schlechtes Licht gerückt werden, ohne dass sich dies zu offener Kritik verdichten musste. Wegen der Anonymität sicherte die fama Redende bis zu einem gewissen Grad davor, in der Folgezeit bei einem Stimmungswandel für eine Falschinformation gerügt zu werden. Fama gestattete die Darstellung von Stimmungen, Meinungen und Ansichten, die sich zu Bewertungen, Urteilen und Verurteilungen konkretisieren konnten, aber nicht mussten. Erst im Laufe der Kommunikation wurde darüber prozesshaft entschieden. Die letzte Stufe dieser Kommunikation war die förmliche Untersuchung vor einem kirchlichen Gericht. Dort wurde aber nicht mehr
85 86
ACC 3, S. 157-209 parallel zum Anklagekatalog. Vgl. dazu H.-J. Neubauer, Fama. Eine Geschichte des Gerüchts, Berlin 1998, 20092.
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über alles geredet, was die Konzilsteilnehmer umtrieb, sondern nur über das, was rechtliche Relevanz hatte. Die geringe Besucherzahl des Konzils von Rom etwa, die der Zeitchronist mit Hinweis auf die öffentliche Meinung notiert hatte, konnte nicht als Schuld abgeurteilt werden und erreichte deshalb nicht das Innere der Gerichtsverhandlungen. Das Reden über das schlimme Vorzeichen, das im Umkippen des päpstlichen Wagens beim Transfer über die Alpen gesehen wurde87, wurde nicht Teil der gerichtlichen Schriftdokumente, weil es keinerlei Rechtshandhabe bot, um den Papst abzusetzen. Wichtig schien die Kompetenz, Informationen der fama von echten Nachrichten zu unterscheiden. Dies erfolgte nicht nur vor Gericht, sondern war Bestandteil der politischen Kommunikation der Vormoderne. Boten, die zunehmend als Spione fungierten, mussten die Bewertung ebenso vornehmen wie die Befragungskommissionen. Wie das Urteil ausging, war wesentlich davon abhängig, wer zu welchem Zeitraum und in welcher Situation in den Kommunikationsprozess eingriff. Auf diesem Kommunikationsweg konnte die Verschriftlichung von Gerüchtediskursen als Gegengift gegen das gelenkte Gerede eingesetzt werden. Das Schreiben konnte wie das Reden dazu beitragen, dass Gerüchte ihre Macht verloren haben, aber es konnte auch die Wirkung steigern, wenn nicht das richtige Mittel angewendet wurde, wie beim Dementi als Form der Verschriftlichung erkennbar wird, die hier nicht im Zentrum der Ausführungen stand, obwohl Johannes XXIII. noch Jahre später selbst zu diesem Mittel der Traditionsbeeinflussung gegriffen hat88. Bei dieser Instrumentalisierung der fama blieben einzelne Stimmen zu hören, die eine Verbreitung der Gerüchte prinzipiell beklagten. Es war nicht nur der Papst, der sich auf diese Weise gegen das Reden über ihn wehren wollte, sondern auch besorgte Kirchenvertreter, die befürchteten, am Ende sei den Gerüchten und Diffamierungen kein Einhalt mehr zu bieten, so dass alles ins Gerede kommen könnte, nicht nur der Papst, der den Weg für die kirchliche Einheit freigeben sollte. Die Mehrheit aber stellte sich hinter die Einsichten der vox populi. Anhand der Quellen aus dem Umfeld des Konstanzer Konzils wurde demonstriert, dass die Christenheit am Anfang des 15. Jahrhunderts Gerüchte mit Erfolg dazu benutzte, um sich gegen das Kirchenschisma zu wehren und dem Leitbild der einheitlichen Führung durch einen einzigen
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Vgl. Rathmann, Geschehen und Geschichten zit., S. 235. Vgl. dazu Mierau, Fama als Mittel zit.
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Papst für alle Christen zu folgen. Gerüchte wurden im Kampf gegen die drei widerstreitenden Päpste instrumentalisiert. Um die Bedeutung von publica vox et fama, wie es stereotyp in vielen Quellen heißt, zu erfassen, wurden die Nachrichten über Gerüchte in verschiedenen Quellengattungen vergleichend daraufhin untersucht, wer über das Gerede gegen den Papst berichtete und wer zu bemänteln versuchte, was die Würde des Papstes hätte schmälern können. Im Ergebnis lässt sich beobachten, dass die Orte des Sprechens und Schreibens die Informationen über die fama beeinflusst haben. Die Haltung zur Gerüchtekommunikation entsprang ebenso der Situationslogik des Sprechens und Schreibens wie den Inhalten der Gerüchte. Die Fiktion einer Gleichförmigkeit der Gerüchtethemen und -mechanismen über Jahrhunderte hinweg und auch das Konstrukt der Gültigkeit zeit- und raumübergreifender Gesetzmäßigkeiten der fama sind beim Blick in die Geschichtsdokumente zu relativieren. Fama fungierte bis zum Ende des Mittelalters als Stimme der Öffentlichkeit in einer hierarchisch geprägten, aber an klare Normsetzungen gebundenen Welt. Sie konnte dazu dienen, gegen einflussreiche Personen vorzugehen, die ihre Kompetenzen jenseits des göttlichen Auftrags überschritten, und stellte so Mechanismen bereit, Machtmissbrauch einzudämmen. In der Gemeinschaft der Christen boten Gerüchte die Möglichkeit, kirchliche und weltliche Hierarchien und Strafrechtsordnungen aufzubrechen, obwohl diese eigentlich als von Gott gegeben aufgefasst wurden. Fama bona und fama mala erlaubten in ihrer Gestalt als vox populi, die wiederum als vox Dei aufgefasst wurde, ein Eingreifen in den Lauf der Geschehnisse. Durch sie konnten gesellschaftliche Veränderungen angestoßen werden. Die kirchliche Gerichts- und Strafordnung hat deshalb Verfahren im Umgang mit Anklagen “de auditu” entwickelt. Anklagen aufgrund der fama waren in kirchlichen Prozessen vor allem bei Häresie seit Innozenz III. die Regel. Zuvor finden sich in der Schriftüberlieferung eher positive fama-Nachweise zur Durchsetzung der Heiligkeit. Als im Zuge der Strukturierung von Kanonisationsprozessen die Rationalisierung der fama voranschritt, wirkte sich dies auf das gesamte Rechtsleben aus. Die Inquisition spitzte die Ohren, um laufendes Gerede aufzuschnappen. Als skandalös bewertetes Handeln konnte so am schnellsten eingedämmt werden. Die kirchlichen Gerichte hatten in den zwei Jahrhunderten vor dem Konstanzer Konzil praktische Erfahrungen gesammelt und auch die rechtstheoretischen Schriften nahmen sich der Problematik an, Beweise jenseits der unumstößlich nachprüfbaren Faktenlage aufgrund der gesellschaftlichen Wahrnehmung an feste Regeln zu binden. Diese Regeln wur-
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den auch in Prozessen gegen Päpste angewandt. Dem literarischen Topos fama stand ein differenzierter Umgang im gesellschaftlichen Miteinander und insbesondere in der Rechtspraxis entgegen. Obwohl die vormodernen Gerüchte eigentlich Teil der flüchtigen Mündlichkeit waren, sind sie aufgrund der Verschriftlichung nicht völlig verloren, sondern können in den kulturwissenschaftlichen Vergleich eingebracht werden, wenn nur die Historiker sie nicht aus ihrem Blickfeld verbannen.
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Il mondo contemporaneo ha velocizzato in maniera esponenziale la propagazione della fama consentendo l’annullamento dello iato spaziotemporale che fino a qualche tempo fa separava il verificarsi di un evento dalla sua conoscenza da parte del pubblico. Questa accelerazione ha modificato le modalità e gli attori della comunicazione, adesso costituita da un sistema di echi in grado di consentire non solo la simultaneità rappresentativa degli eventi, ma anche inquietanti possibilità di virtualizzazione della realtà1. Va da sé che questa mutazione ha interagito in profondità nello stesso concetto di fama e sulle ‘funzioni’ da essa assolte nel divenire storico: ad esempio, il carattere ‘giuridico’ e anche giudiziario della publica vox in età medievale o, per restare ancorati al paradigma agiografico, la sanzione ‘notoria’ affidata ai culti per attestare iura e diritti tradizionali (es. i percorsi di ‘consacrazione’ e ricognizione di diritti manuali affidati alla memoria agiografica vescovile). Al di là dell’accentramento procedurale che tra medioevo ed età moderna assicurò il pieno controllo pontificio sul processo di canonizzazione2, la sanzione canonica amministrata da Roma non fu una condizione indispensabile né per la fortuna di un culto né per la sua fruizione. La percezione della santità rimase infatti a lungo affidata alle disparate forme della comunicazione devozionale ed essenzialmente garantita dalla fama di una efficacia apotropaica o taumaturgica.
1 Cyberfilosofie: fantascienza, antropologia e nuove tecnologie, cur. J. Baudrillard, Milano 1999; Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, Firenze 2005. 2 F. Dell’Oro, Beatificazione e canonizzazione: excursus storico-liturgico, Roma 1997; H. Misztal, Le cause di canonizzazione: storia e procedura, Città del Vaticano 2005; per l’età medievale A.Vauchez, La sainteté en occident aux derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès de canonisation et les documents hagiographiques, Rome 1981 (trad.it. La santità nel Medioevo, Bologna 1989).
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La santità, anche nel perfezionamento delle fasi di una sua verifica canonica, restò a lungo un fatto sostanzialmente locale (anche all’indomani della inscrizione calendariale nel circolo ecumenico della memoria cristiana) ancorché di natura ‘pubblica’ e collettiva. Essa si attestò in un ambito circoscritto (anche se talvolta assai vasto, come a volte dimostra il reseau territoriale dei fedeli che dichiararono l’ottenimento di miracoli per intercessione del santo) e definito territorialmente attraverso un uso cultuale, che talora ne sancì anche il carattere identitario. Al di là delle testimonianze agiografiche, solitamente seriori rispetto al primitivo enuclearsi di una tradizione cultuale, raramente le fonti ci consentono di identificare la percezione della santità da parte dei contemporanei. Una rara eccezione è costituita da Giovanni Villani3 il quale aveva annotato, come evento degno di quella memoria pubblica che egli affidata alla sua Cronica, la morte, avvenuta nel 1331, di due pii laici Barduccio e Giovanni da Vespignano, noti in Firenze per particolare pietà e santità di vita. Entrambi in tempi e modi diversi sarebbero poi scomparsi dalla memoria agiologica cittadina senza che della loro fama restassero tracce: il primo andò disperso tra le ceneri dell’incendio che distrusse, il 21 marzo 1470, la cappella – in Santo Spirito –, nella quale era stato deposto il suo corpo; il secondo fu dimenticato in San Pier Maggiore, subendo infine il destino (la soppressione e poi la demolizione)4 di quel complesso monastico, che nei secoli aveva incarnato la Florentina Ecclesia nei riti di intronizzazione dei vescovi cittadini. Già nell’epoca del Sacchetti la sua memoria doveva essere stata dimenticata, visto che il novelliere non fa di lui alcuna menzione nella sua nota recriminazione sul culto prestato ai ‘santi novellini’5; è pur vero però che non poche erano state le omissioni nella sua polemica rassegna dei corpi santi cittadini; se aveva infatti rinfacciato ai francescani di Santa Croce l’incetta di tre sacri cadaveri (quelli di Umiliana dei Cerchi6,
3 «L’uno ebbe nome Barduccio, e soppellìsi in Santo Spirito a.luogo dei frati romitani; e l’altro ebbe nome Giovanni […] e soppellìsi a San Piero Maggiore. E per ciascuno mostrò Idio aperti miracoli di sanare infermi e attratti e di più diverse maniere, e per ciascuno fu fatta solenne sepoltura, e poste più immagini di cera per voti fatti». Giovanni Villani, Nuova Cronica, cur. G. Porta, Parma 1991, XI, p. 176. 4 O. Fantozzi Micali - P. Roselli, Le soppressioni dei conventi a Firenze: riuso e trasformazioni dal sec. XVIII in poi, Firenze 1980, pp. 236-237; Censimento dei conventi e dei monasteri soppressi in età leopoldina, in La soppressione degli enti ecclesiastici in Toscana, cur. A. Benvenuti, Firenze 2008, pp. 255-256. 5 Franco Sacchetti, Le lettere: lettera XI a Iacomo di Conte da Perogia, in La battaglia delle belle donne, Le lettere, La sposizione dei Vangeli, ed. A. Chiari, Bari, 1938, p. 102. 6 A.M. Schuchman, The Lives of Umiliana de’ Cerchi:Representations of Female Sainthood in Thirteenth-Century Florence, http://www.luc.edu/publications/medieval/vol14/schuchman.html;
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Gherardo di Villamagna e un terzo reso anonimo da una lacuna nel testo), di due ai domenicani di Santa Maria Novella (Giovanna e Villana delle Botti8), di un numero imprecisato agli agostiniani di Santo Spirito («i Romitani hanno san Barduccio e degli altri») ed ai frati di Santa Maria del Carmine (presso i quali peraltro, forse per rispetto al prestigio del casato, egli non rammenta neppure il beato Andrea Corsini9), sottaceva una nutrita serie di personaggi che la credula devozione fiorentina aveva promosso «dal beato al santo» tra Duecento e Trecento: oltre Giovanni da Vespignano di villaniana memoria, sepolto presso le benedettine di San Pier Maggiore, aveva infatti omesso il ricordo di un altro laico caro alla pietas municipale, Chiarito del Voglia10, venerato dalle prostitute redente che egli aveva riunito nel monastero ‘correzionale’ di Santa Maria Regina Coeli; il novelliere non se l’era presa neppure coi camaldolesi, che avevano legittimato in quello stesso secolo la dignità spirituale del loro ‘nuovo’ monastero cittadino, Santa Maria degli Angioli, con la fama di santità dello sguattero ed ex scardassiere Salvestro, né aveva ironizzato sulle virtù dell’umile Paola11, sua discepola, così come aveva fatto con la beata Giovanna dei domenicani. Dalle sue ironie si erano salvati anche i vallombrosani, che in quello stesso secolo avevano aggiornato il loro repertorio, di santità ‘impor-
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A. Benvenuti, “In castro poenitentiae”. Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma 1990, pp. 59-100. 7 AASS, Maii, III, Venetiis 1738, pp. 246-251; D. Corsi, Gherardo da Villamagna. Storia di una leggenda, in La terra benedetta. Religiosità e tradizioni nell’antico territorio di Ripoli, Firenze 1984, pp. 47-82; A. Benvenuti, Pellegrini, cavalieri ed eremiti. Gli ordini religioso cavallereschi e la memoria agiografica, «Cristianesimo nella storia», 15 (1994), pp. 279-311, ora parzialmente ripreso in Benvenuti, I nomi dell’epopea. San Gherardo da Villamagna e Malta, in I fiorentini alle crociate, cur. F. Cardini, Firenze 2005, (numero speciale de “Il governo delle cose”, maggio 2005), pp. 9-16. 8 A. Benvenuti Papi, Il modello familiare nell’agiografia fiorentina tra Duecento e trecento: sviluppo di una negazione, «Nuova DWF», 16 (1981), pp. 80-107 ora in Benvenuti, “In castro poenitentiae” cit., pp. 171-204. 9 G. Cappelli, A Trecento bishop as seen by Quattrocento Florentines: Sant’Andrea Corsini, his “Life”, and the battle of Anghiari, in Portraits of medieval and renaissance living : essays in memory of David Herlihy, cur. S.K. Cohn jr. - S.A. Epstein - A. Arbor, University of Michigan 1996, pp. 283-297; si veda anche A. Benvenuti Papi, S. Zanobi: memoria episcopale, tradizioni civiche e dignità familiari, in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze 1984, pp. 79-115 (ora in Benvenuti, Pastori di popolo. Storie e leggende di vescovi e di città nell’Italia medievale, Firenze 1988, pp. 12-97). 10 AASS, Maii, V, Venetiis 1741, pp. 627-632. 11 Per entrambi cfr. la vita tardotrecentesca del camaldolese Zanobi Tantini, Vita della B. Paola e del B. Silvestro converso al monastero degli Angioli di Firenze il quale fu Maestro e Precettore della sopra detta B. Paola Badessa in S. Margherita, in Leggende di alcuni Santi e Beati, Bologna 1864.
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tando’ da Faenza Rosanese/Umiltà12 ed elevandola, da monaca fuggitiva, al rango di maestra e badessa. Del resto anche Villani del composito santorale cittadino aveva mostrato di apprezzare solo la fama di Barduccio e di Giovanni, omettendo ogni riferimento, ad esempio, alla sua contemporanea Umiltà: quando la donna era morta, il 22 maggio 1310, le esequie che la sua comunità le aveva riservato furono particolarmente solenni, così come la deposizione del suo corpo nella chiesa che «ella aveva hedificata inn.onore del beato evangelista messer Santo Giovanni»: esso trovò una prima onorevole collocazione «appresso al suo altare, dalla parte sinistra, con grandissimo honore di secolari, prelati, di religiosi e chierici, innanzi a moltitudine di popolo grandissima»13. L’evento sarebbe stato enfatizzato anche a livello iconografico, riferendosi ad esso l’ultima delle dodici tavolette con cui l’anonimo pittore, che realizzò nel corso del XIV secolo la pala d’altare conservata agli Uffizi, illustrò le fasi salienti della vita della santa. Con ogni probabilità questa grande pala da altare fu commissionata dal monastero all’indomani del miracolo della prodigiosa essudazione di ‘mirra’ dal sepolcro della religiosa14. Era stata la fama di questo prodigio a richiamare presso la primitiva sepoltura una folla concitata che, violando le prudenti riserve delle religiose, manifestò l’intenzione di procedere ad una improvvisata ricognizione sui resti15, forse sperando che essa diventasse occasione di una sacra rapina. Scongiurata dalle religiose la devota profanazione non ebbe luogo e al suo posto fu invece organizzata, coi tempi e le modalità opportune, una solenne traslazione con la quale, il 6 giugno 1311, quelle che ormai erano le reliquie di Umiltà furono degnamente riposte entro un grande altare appositamente predisposto. Da questa ‘sanctio’, unicamente affidata alla publica vox et fama, sarebbe discesa la necessità di una memoria agiografica accurata, un’ordinata esposizione della complessa esperienza religiosa di questa donna inquieta che aveva attraversato molti degli ‘stati’ concessi ad una donna nell’orizzonte istituzionale dell’esperienza religiosa medievale: quello di moglie, quello di vedova, quello di reclusa, quello di monaca e infine di quello di ‘mater’ spirituale, magistra capace di ammaestrare e di predicare16 così come era stata capace di costruire, soma dopo soma di sassi del Mugnone, le spesse muraglia del suo monastero ‘tra l’arcora’. 12 13
Cfr. Santa Umiltà da Faenza e il suo tempo, cur. C. Leonardi, Firenze 2006. Le vite di Umiltà da Faenza. Agiografia trecentesca dal latino al volgare, ed. A. Simonetti, Firenze 1999, p. 54. 14 Ibid., pp. 56-57. 15 Ibid., p. 57. 16 Cfr. A. Simonetti, I sermoni di Umiltà da Faenza, Spoleto 1995.
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La fama di una vitalità ‘prodigiosa’ del corpo santo, come evidente nel caso di Umiltà, era la condizione indispensabile per il mantenimento di un consenso devozionale, la cui ‘costruzione’ si era avviata coi grandi riti/evento delle esequie17, con la loro accurata predisposizione dei cadaveri per una esposizione18 protratta nel tempo e tale da assicurare non solo la presenza quasi per intero della popolazione urbana, ma anche l’afflusso di quella delle aree limitrofe. La ressa presso il catafalco per strappare da esso sacre porzioni da conservare gelosamente, la spasmodica attesa dell’annuncio del primo miracolo, il delirio della affannosa richiesta di grazie che in quel momento, più che in altri, si riteneva potesse essere soddisfatta19, il fasto delle liturgie e la sovrabbondanza di servizi religiosi offerti in quelle
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17 Emblematico è il racconto delle esequie di Barduccio trasmesso dal biografo quattrocentesco: «Et con ciò sia cosa che el corpo del beato da casa alla chiesa dovesse essere portato, di subito et maravigliosamente et fuori d’ogni usitato modo facto fu concorso quasi inextimabile di fanciulli et giovanetti gridanti et dicenti “Santo, santo è costui” et simile parole ancora di facto che quella benedecta anima dal corpo uscita fu, volò di questo la fama per tucta la città et insieme ragunati gl’ uomini parlavano: “Uno sancto essere questo, andato a Dio”, et con gran presteça studiavano d’andare a vedere con grande fede et riverenza el corpo di questo sancto. Et tanto fu el concorso de’ popoli, così della città come del contado et terre circunstante alla chiesa di Sancto Spirito nella quale el sancto corpo di Barduccio riposto è, et non solamente el dì che passò da questa vita mortale ma etiamdio per molti dì poi continuamente durando, che per la grande importunità molti dì stette che non fu potuto sepellirvi, tanta era la moltitudine che per la divotione lo volevano vedere et tochare, et tanta hera la spirituale letitia nelle menti di tucti che allora chi viveva diceva mai tale, et sì grande cose haver vedute. Stupenda cosa fu e’ miracoli di Dio che pe’ meriti del sancto di Dio Barduccio si facevano ne’ corpi delli infermi che a esso sancto fedelmente si rachomandavano. Di questi miracoli molti facti furono non di nascoso ma palesemente inançi al popolo circunstante, ché volle mostrare Idio quanto grato gli fusse stato et fusse el servo suo Barduccio. Chi volesse apunto intendere e’ grandi et evidenti miracoli suoi, ne troverà libro et scriptura apresso a’ frati del monastero di Sancto Spirito dell’ordine de’ frati heremitarij et quivi lo rimetto»; cfr. A. Benvenuti, “Fumus sanctitatis”, Il caso fiorentino di san Barduccio degli Eremitani, in Monaci, ebrei, santi. Studi per Sofia Boesch Gajano, cur. A. Volpato, Roma 2008, pp. 225-250. 18 Per un esempio dei trattamenti cui erano sottoposti i corpi cfr. G. Fornaciari - R. Ciranni, Ricognizione e studio paleopatologico del sacro corpo della Beata Diana Giuntini da Santa Maria a Monte (1287-?), Pontedera 2002, pp.7-34; R. Ciranni - L. Giusti - G. Fornaciari, Studio paleopatologico di Santa Zita. Malattie, ambiente e società nella Lucca del XIII secolo, «L’Aldilà. Rivista di storia della tanatologia», 4/1-2 (2000), pp. 7-34. 19 Interessante anche la ‘sacra rappresentazione’ della morte di Umiltà da Faenza, avvenuta il 22 maggio 1310 ed illustrata nell’ultima delle dodici scene che affiancano la trecentesca pala da altare conservata agli Uffizi. Con ogni probabilità questa grande tavola fu commissionata all’indomani della traslazione (6 giugno 1311) con cui le spoglie della santa furono ricollocate in una posizione più idonea alla venerazione dopo che un miracolo, la straordinaria fuoruscita di una ‘mirra’ oleosa dal sepolcro, aveva dimostrato la vitalità dei suoi resti. La notizia del prodigio richiamò presso la sepoltura una folla concitata che, violando le prudenti riserve delle religiose, manifestò l’intenzione di procedere ad una improv-
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circostanze: tutti questi momenti, pur nella loro drammatica intensità emotiva, erano tuttavia effimeri, e con l’ultimo cero talvolta doveva spengersi anche la tensione devozionale scatenatasi per giorni, con la conseguente caduta di interesse. Proprio l’intensa spettacolarità delle cerimonie e l’eccezionale concentrazione carismatica di quegli eventi generavano, all’indomani di essi, la necessità di un rientro nella normalità, una sorta di recupero dallo stress devozionale. Una volta smaltita l’overdose di ‘sacro’, il silenzio delle cappelle tornava ad avvolgere le sepolture e lentamente i tanti ‘boti’ di cera che le affiancavano potevano coprirsi dell’impalpabile polvere dell’oblio se non si aveva cura di quel culto. Il mantenimento, dunque, diveniva indispensabile condizione di continuità e questa attenzione risiedeva essenzialmente nella volontà e nella capacità organizzativa della comunità religiosa titolare della struttura ecclesiastica: l’attivazione di un ‘sistema memoriale’ che comprendesse la creazione di uno spazio proprio – di solito una cappella o un altare – nel quale concentrare il maggior numero possibile di ricordi, non ultimo il ‘libro’ o le scritture in cui si tramanda la Vita del santo; ma anche altri suoi oggetti personali, i quali potevano assurgere al ruolo di reliquie particolari – come ad esempio la berretta di san Zanobi, che veniva ‘prestata’ per curare le emicranie, o il codice della Vita di Torello20, che a Poppi era recato di casa in casa alle partorienti per assicurare il felice esito del parto –; non era infrequente che si delegassero gli aspetti cerimoniali del culto all’amministrazione di una confraternita21, la quale poteva farsene carico per gli aspetti materiali, assumendo i costi delle celebrazioni liturgiche o di particolari pratiche devozionali, così come l’ornamento pittorico degli ambienti o la gestione della festa. Questo tipo di impegno, non privo di onerosità, fu particolarmente curato dai Mendicanti e, salvo incidenti particolari, come nel caso di Barduccio, furono proprio queste formule organizzative a consentire che una eccellenza spirituale sancita per pubblica fama si trasformasse in santità percepita e si corredasse di tutti gli strumenti, agiografici, liturgici, omiletici, pastorali necessari per sostenerla nel tempo, propagandarla e diffonderla oltre i ristretti confini della devozione locale. Se non fosse stato mandato in fumo dall’incendio che distruggeva la sua cappella e le sue memorie, il culto di Barduccio sarebbe certamente sopravvisata ricognizione sui resti, forse sperando che essa diventasse occasione di una sacra rapina. Cfr. in proposito A. Benvenuti, Firenze e santa Umiltà, in Umilità da Faenza, Sermones. Le lezioni di una monaca, Firenze 2005, pp. 495-505. 20 Le vite di Torello da Poppi, ed. L.G.G. Ricci, Firenze 2002. 21 Si veda in proposito l’interessante caso analizzato da I. Gagliardi, Santi frati e corpi santi: il beato Antonio (Patrizi) da Monticciano, Siena 2002.
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vissuto, proprio perché gli agostiniani avrebbero continuato a curarlo ed a far ruotare anche attorno ad esso la composita domanda spirituale di un vivace ambiente devoto. Di contro quello, sinottico, e per certi versi speculare, di Giovanni da Vespignano sarebbe stato lentamente dimenticato, chiuso, come rimase, nell’angusto spazio della amministrazione memoriale di un monastero femminile che, per quanto importante ed emblematico nella storia municipale, restava inidoneo alla ‘comunicazione’ pastorale. Vincolate alla loro natura claustrale di ‘recluse’, anche se titolari dei diritti parrocchiali su una delle più antiche chiese cittadine, le benedettine di San Pier Maggiore non sarebbero riuscite a rendere durevole un consenso devozionale per il ‘loro’ santo, il cui ricordo si sarebbe lentamente sbiadito fino a scomparire dalla memoria al punto che anche la rielaborazione del santorale locale avviatasi a partire dal Quattrocento non avrebbe tenuto conto – stando almeno alle testimonianze note – del suo nome. Dei due ‘giusti’ per pubblica fama accomunati dal ricordo del Villani sarebbe sopravvissuto, dunque, solo quello affidato alla capacità comunicativa della famiglia agostiniana di Santo Spirito, che, fino all’incendio del 1470, aveva saputo ‘coltivarne’ la funzione cultuale. La sua festa, celebrata con particolare solennità nell’ottava di Pasqua, determinò per tutto il Quattrocento una grande affluenza di popolo in Santo Spirito, come si deduce da alcune memorie liturgiche trasmesseci dalla erudizione settecentesca e dal sopravvivere di una tradizione rituale testimoniata anche dalla novellistica22. I frati avevano dunque dato uno straordinario rilievo a questo culto: rilievo spaziale nella loro chiesa, nella quale la sepoltura fu inscritta in una apposita cappella dove erano state concentrate altre reliquie, oltre quelle corporee, del suo passaggio terreno; rilievo memoriale, con la compilazione di una vita e di una raccolta di miracoli che attestava e rendeva pubblica la santità riconosciuta dal popolo dei fedeli. Tuttavia perché tutto questo sistema fosse vitale ed attivo occorreva che alla sua base restasse il fondamento fisico, la ‘res’ che ne giustificava, appunto, la ‘realtà’: il corpo. Laddove, come nel caso di Barduccio, fossero subentrate condizioni di perdita o di scomparsa, l’intero processo memoriale attorno ad esso originatosi decadeva con la conseguente obliterazione della pratica cultuale. 22 Franco Sacchetti, Il trecentonovelle, Torino 2004, novella 157, dove il novelliere si esprime quasi negli stessi termini che nella Lettera sopra la dipintura dei beati: «E così avviene oggi nel mondo, che li signori e gli altri viventi sono sì vaghi di cose nuove che se elli potessono, muterìano la signoria del cielo, come spesso mutano quella delle terre. Abbiamo li santi canonezzati e cerchiamo di quelli che non sappiamo se sono. Abbiamo il nostro Signore Jesu Cristo, la sua Madre, gli Apostoli e gli altri maggiori del Paradiso, e andremo dietro a san Barduccio».
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Sacchetti aveva dunque colto nel segno percependo, della santità a lui contemporanea, il carattere ‘materiale’ che ne fondava la legittimità presso i fedeli. Solitamente gelosi custodi e rapaci procacciatori di corpi santi, i frati seppero pragmaticamente impiegarli sia nella promozione delle proprie strutture ecclesiastico-conventuali sia nella creazione di un consenso cultuale che fu importantissimo veicolo di crescita religiosa per i laici destinatari di essa: ma, come evidenzia la polemica sacchettiana, questa metodica promozionale incentivò un processo inflativo che alla lunga svalutò la credibilità dei suoi operatori, contribuendo a quella banalizzazione ed a quel decadimento spirituale che il novelliere denunciava. L’aggiornamento semantico che aveva interessato il santorale a partire dal XIII secolo in ragione del differenziarsi della società e dello specializzarsi delle richieste di patrocinio anche se non era stato determinato dall’opportunistico fratesco denunciato da Sacchetti, finì comunque per costituirne un esempio: questa sovrascrittura ridusse il significato di effettivo rinnovamento che la santità quale speculum della realtà aveva espresso a partire dai secoli bassi del medioevo23. Tuttavia, accanto a questi esiti particolaristici della loro pastorale i Mendicanti, agenti del processo di centralizzazione ideologica e carismatica del papato, si impegnarono, assai più che nella promozione di una santità vestita dei loro colori, in un radicale processo di omogenizzazione cultuale volto a ridurre l’incidenza del particolarismo nella pratica della devozione. I culti che avevano dato corpo alle istanze di autorappresentazione nei vari contesti della società medievale rimasero patrimonio delle singole realtà che li avevano prodotti: ma a questi marcatori agiologici del senso di appartenenza adottati da gruppi o comunità – ivi comprendendo anche le formazioni statuali, fossero esse quelle comunali dell’Italia medievale o le nazioni dell’area europea, ma anche le associazioni di categoria, come le corporazioni artigiane o le gilde mercantili – la struttura sovraterritoriale dei Mendicanti e delle famiglie regolari uscite dall’assestamento istituzionale del XIII secolo impose la necessità di referenze cultuali condivisibili su scala ecumenica, che coincidessero con gli sviluppi della riflessione teologica e con gli adeguamenti ad essa della pratica liturgica e della norma canonistica. Il lento ma inarrestabile processo che portò, tra XIII e XIV secolo, al costituirsi di una procedura giuridica formalizzata per l’autorizzazione dei culti24, fino ad allora prevalentemente espressione delle autonomie vescovili e delle consuetudi23
Per una aggiornata panoramica sulla vastissima storiografia del settore cfr. U. Longo, La santità medievale, Roma 2006. 24 Vauchez, La sainteté en Occident cit.
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ni monastiche, comportò infatti l’instaurazione di una prassi canonica di istruzione delle ‘cause di santità’, che ebbe importanti ripercussioni non solo nella produzione di ‘documenti’ agiografici, ma anche nella stessa impostazione della memoria, che fu organizzata in vista del processo di canonizzazione. Attiene a questi secoli anche il mutamento della morfologia dei Leggendari25 che andarono semplificandosi ed abbreviandosi per rispondere in maniera funzionale alle necessità omiletiche di una pastorale sempre più legata alla predicazione ed alle forme di una comunicazione religiosa che passava attraverso il linguaggio iconografico e la pratica devozionale. Le legendae novae o Passionalia nova – il cui esempio più famoso è la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze26 – , più maneggevoli nei formati e spesso fruibili anche nelle lingue volgari27, consentirono non solo una rinnovata diffusione e circolazione della materia agiografica, ma anche una sua sostanziale diversificazione rispetto al passato. Con la elaborazione di questi nuovi strumenti, infatti, si andò perdendo il carattere locale dei leggendari che cessarono di esprimere il proprium delle chiese e delle regole – elemento che sarà poi recuperato solo all’indomani del concilio di Trento – a favore di una memoria ecumenica della santità. Questo processo di centralizzazione, di cui gli Ordini Mendicanti furono strumento essenziale, costituisce uno dei più significativi fenomeni agiografici dei secoli più tardi del medioevo (XIII-XIV), ma la sua affermazione non soppiantò, negli usi locali – e specie in quelli municipali – la consuetudine cultuale tradizionale, che continuò a gravitare attorno ai santi che avevano incarnato, nel divenire delle forme di governo e di amministrazione territoriale, le varie identità culturali delle società civili: furono anzi queste ultime a potenziarne progressivamente l’uso cerimoniale trasformandoli in strumenti di autoaffermazione e di prestigio politico. L’ampliarsi della didattica spirituale a tutte le forme della comunicazione religiosa, unitamente all’estendersi della cura d’anime alle disparate possibilità della vita, non solo di quella consacrata, richiese un complessivo aggiornamento dei linguaggi e delle tecniche narrative in risposta alla crescente domanda di divulgazione sacra. Espressero questa istanza sia la razionalizzazione della strumentazione pastorale a uso dei religiosi, come
25 G. Philippart, Les légendiers latins et autres manuscrits hagiographiques, Turnhout 1977; S. Boesch Gajano, Leggendari, in Dizionario di omiletica, cur. M. Sodi - A.M. Triaca, Torino-Bergamo 1998, pp. 761-764. 26 Jacopo da Varazze, Legenda Aurea, ed. G.P. Maggioni, Firenze 1998. 27 La traduzione dei testi religiosi, cur. C. Moreschini - G. Minestrina, Brescia 1994; Sainthood Revisioned. Studies in Hagiography & Biography, cur. C. Binfield, [s.l.] 1995.
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dimostra la progressiva articolazione basso-medievale della trattatistica per i predicatori e i confessori28, sia la diffusione di opere di divulgazione sacra destinate ai fedeli: si pensi all’impennata nella produzione volgare di testi agiografici o di operette mistico-ascetiche che caratterizza il TreQuattrocento29. La predicazione in volgare, nel quadro di una complessiva crescita della partecipazione religiosa del laicato, ebbe come effetto non secondario quello di stimolare l’alfabetizzazione dei laici, tra i quali andò crescendo l’uso e il possesso di libri spirituali nei quali si volgarizzavano sia le Scritture (da qui l’enorme diffusione delle versioni vernacolari della Bibbia e dei Vangeli) sia le opere dei padri del pensiero cristiano (anche quelli della tradizione greca, come dimostrano le traduzioni delle Vite dei Padri del Deserto o degli esicasti orientali), e anche i difficili commenti dei pensatori della Scolastica o i complessi itinerari dei mistici alla ricerca di Dio. Questa divulgazione, che spesso si avvalse delle competenze dei ceti tra i quali la scrittura e il bilinguismo tra la lingua latina e quella volgare erano più in uso, come i notai o i mercanti più colti, ravvivò anche la trasmissione della memoria agiografica, che conobbe nella stagione dei volgarizzamenti una straordinaria fortuna. La produzione di libri devozionali in volgare destinati all’uso domestico è l’indicatore più significativo della progressiva diffusione di un sapere religioso ormai non più esclusivamente amministrato entro la dimensione pubblica e rituale della Chiesa, ma avviato verso la sfera privata e familiare dell’affabulazione e del racconto. Partecipe del gusto per la fiaba e per il romanzo epico, il volgarizzamento agiografico si arricchì di particolari narrativi utili a stimolare la fantasia e l’immedesimazione, e i santi divennero protagonisti di racconti, nei quali l’edificazione conviveva con il pia28
Models of holiness in medieval sermons, cur. B. Mayne Kienzle, Louvain-La-Neuve 1996; La parole du prédicateur: Ve-XVe siècle, cur. R.M. Dessì - M. Lauwers, Nice 1997; J. Leclercq, Predicare nel Medioevo, Milano 2001; Modern questions about medieval sermons: essays on marriage, death, history and sanctity, cur. N. Bériou - D.L. D’Avray, Spoleto 1994; L. Bolzoni, La rete delle immagini: predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino 2002; Predicazione e società nel Medioevo: riflessione etica, valori e modelli di comportamento, cur. L. Gaffuri - R. Quinto, Padova 2002; più recentemente M.G. Muzzarelli, Pescatori di uomini: predicatori e piazze alla fine del Medioevo, Bologna 2005; per la diffusione della pratica della confessione cfr. Dalla penitenza all’ascolto delle confessioni: il ruolo dei frati mendicanti, Spoleto 1996; R. Rusconi, L’ordine dei peccati: la confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002; Handling sin: confession in the Middle Ages, cur. P. Biller - A.J. Minnis, York 1998. 29 Per le evoluzioni del linguaggio agiografico e i volgarizzamenti: Hagiographies. Histoire internationale de la littérature hagiographique latine et vernaculaire en Occident des origines à 1550, cur. G. Philippart, Tournhout 1994 e s., di cui sono stati pubblicati i primi 4 volumi.
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cere della lettura o dell’ascolto. I complicati intrecci biografici della leggenda di sant’Alessio, la catartica redenzione dopo l’uccisione di entrambi i genitori da parte di san Giuliano l’Ospedaliere, le avventure col drago di santa Margherita d’Antiochia e di san Giorgio, gli onirici orizzonti geografici della storia di Barlaam e Josaphat animarono, con il ricorso al meraviglioso, il vivere quotidiano e la fantasia dei fedeli, divenendo spesso occasione di conversioni eclatanti – come esempio quella di Giovanni Colombini, che aveva cambiato vita dopo aver letto le gesta di santa Maria Egiziaca – o di entusiastiche immedesimazioni – come nel caso di Delfina di Puymichel. Il diffondersi di questa cultura religiosa rese familiare al popolo cristiano non solo le vite dei santi, gli attributi che li identificavano nella rappresentazione pittorica o plastica30 (gli oggetti/simbolo legati alle loro vite o gli strumenti della loro morte) o le loro funzioni specializzate nel patrocinio sulle varie occorrenze della vita, ma anche il sistema narrativo con le quali esse erano state descritte. Questo linguaggio entrò nella percezione ordinaria e quotidiana dell’esistenza (ancor oggi ci si riferisce a uno schema agiografico, quando si dice di «sapere vita, morte e miracoli» di qualcuno) trasmigrando all’interno di altri sistemi narrativi, come appunto quello della fiaba o del racconto di meraviglie, nelle varie forme in cui anche la memoria privata, e non più solamente quella pubblica o istituzionale, cominciava a trasmettersi. La divulgazione teologica, la descrizione di esperienze mistiche, il desiderio di approfondimento spirituale trovarono dunque nella scrittura volgare uno strumento straordinario di comunicazione, come appare chiaramente nel lessico dei tanti epistolari spirituali del tempo. Su questa base di alfabetizzazione religioso-ascetica doveva innestarsi anche una delle principale metamorfosi letterarie del periodo di transizione tra medioevo e rinascimento: la nascita dell’autobiografia31, e in
30 B. de Gaiffier, Études critiques d’hagiographie et d’iconologie, Bruxelles 1967; H. Belting, Il culto delle immagini, Roma 2000 (tit. or. Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Mûnchen 1990; D. Freedberg, Il potere delle immagini, Torino 1993 (tit. or. The Power of Images. Studies in History and Theory of Response, ChicagoLondon 1989), Hagiographie und Kunst. Der heiligenkult in Schrift, Bild und Architektur, cur. G. Kerscher, Berlin 1993, D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, Cinisello Balsamo 1995; più recentemente Arti e storia nel medioevo, III, cur. E. Castelnuovo - G. Sergi, Torino 2004 (in particolare i saggi di Jean Wirth, Il culto delle immagini, Michele Bacci, L’effige sacra e il suo spettatore, Guido Gentile, Sculture per l’immaginario religioso). 31 Biografia e agiografia nella letteratura cristiana antica e medievale, cur. A. Ceresa Gastaldo, Bologna 1990.
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particolare di quelle narrazioni nelle quali si sviluppava compiutamente il percorso mistico compiuto dall’anima verso il suo creatore. Venendo meno il filtro del biografo e quindi del principale attore delle scelte rappresentative della santità, cadevano anche le riserve sull’originalità dell’informazione trasmessa, la quale poteva sempre discendere, nell’agiografia tradizionale, dalla mediazione del descrittore. Parallelamente a quanto avveniva sul piano artistico, con l’affermarsi del ritratto e della prospettiva, anche nella scrittura la realtà si imponeva alle tipologie simboliche e allegoriche del mondo medievale attivando il registro personale dell’esperienza. Espressione di questo stesso processo fu anche il ridefinirsi di una drammaturgia sacra che, allontanata dagli spazi ecclesiali nei quali era stata coltivata nei secoli precedenti al XIII, si collocava adesso nella dimensione paraliturgica delle associazioni devozionali: al loro interno la divulgazione religiosa assunse spesso caratteri teatrali e scenici che giustificarono la produzione di testi specializzati come le sacre rappresentazioni o le laudi. I volgarizzamenti agiografici servirono di base alla sceneggiatura delle vicende dei santi e non ci fu confraternita che non partecipasse a qualche forma di animazione, con il coinvolgimento di propri membri nella messa in scena di vite e di leggende. Il ‘mistero’ religioso si trasferiva dunque dallo spazio liturgico delle chiese a quello laico della strada e della piazza, animando trionfi allegorici e carri nei quali era possibile immobilizzare, nel tempo della festa, i più complicati paradigmi teologici o le più semplici avventure dei paladini dello spirito.
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Nel commentario alle Consuetudini di Catania, pubblicato a Palermo nel 1594, il giurista Cosimo Nepita nell’illustrare – con ampio ricorso alle auctoritates del diritto – il titolo 68°: «quod vilis mulier manere non debeat in convicinio honestarum mulierum», tra i numerosi motivi elencati per definire una donna disonesta, comprendeva non solo quelli più evidenti, come la donna sposata «que aliquem cognovit» oppure quella trovata «cum manibus amasii ad mamillas positis», ma si presumeva la disonestà anche per la donna che «modo unam domum et modo aliam ingreditur» o della maritata che viveva luxuriose, comprendendo con questa espressione anche soltanto il sorridere ad un uomo estraneo all’ambiente familiare1. Questa casistica, certamente severa nel considerare la fragilità dell’onore femminile, mi è utile per introdurre il tema della “fama delle donne”, tema per il quale vorrei da una parte riprendere e sviluppare alcune osservazioni proposte dalla storiografia negli ultimi decenni, soprattutto dal punto di vista giuridico, dall’altra fare qualche breve riflessione sugli elementi ricavati dalla prassi processuale proprio su questo delicato tema. Però, prima di entrare in medias res, vale la pena di ricordare come nel medioevo fosse dominante la concezione di un’innata debolezza della donna, tanto fisica che morale, che rendeva conveniente esercitare un controllo permanente su di lei e le sue azioni, in particolare per quanto atteneva alla sfera sessuale. Come efficacemente espresso da Guido Ruggero, «l’onore sessuale di una donna non era soltanto suo […]: era legato ad un
1 Cosmi Nepitae siculi Catinensis V. Iurisconsulti eximii In consuetudines clarissime civitatis Catinae ac totius fere Siciliae Regni Commentaria, Panormi – apud Io. Franciscum Carraram – MDXCIIII, pp. 352- 355. Ha posto l’attenzione su questa fonte S. Tramontana, La condizione femminile in Sicilia fra Medioevo e Rinascimento, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, cur. S. Rota Ghibaudi - Fr. Barcia, I, Milano 1990, p. 73; Tramontana, Vestirsi e travestirsi in Sicilia, Palermo 1993, p. 214.
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calcolo dell’onore più complesso che coinvolgeva anche la sua famiglia e gli uomini che la dominavano»2. Era naturale quindi che tale controllo spettasse ad un uomo: il marito per la donna sposata, un altro uomo della sua famiglia o di quella del marito, se fosse stata rispettivamente nubile o vedova3. Tale esigenza era determinata da una parte dal desiderio per l’uomo della certezza di una successione legittima, dall’altra dalle strategie che la famiglia della donna (sulla base del proprio status e delle proprie possibilità economiche) poteva voler attuare in campo matrimoniale e che per essere le migliori possibili dovevano offrire una donna con precise caratteristiche, determinate dai valori condivisi da tutta la società del tempo: la verginità per la fanciulla da marito, la continenza per la vedova, la castità fuori dal matrimonio4. Non stupisce quindi ritrovare negli statuti norme che, nel disciplinare la vita sessuale dei cittadini5, cercavano di tutelare questi valori e che, nel punire i comportamenti illeciti, avevano come riferimento i diversi ceti sociali e i relativi privilegi presenti nel diritto medievale6. In particolare, fondamentale era la bona fama di un individuo presso la comunità d’appartenenza, che lo considerava «in rapporto al giudizio che su di esso emettevano gli altri, in quanto tutta la collettività rispettava
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2 G. Ruggiero, ‘Più che la vita caro’: onore, matrimonio e reputazione femminile nel tardo Rinascimento, «Quaderni storici», 66/3 (1987), pp. 753-773: 756. Sul tema della fragilità femminile in materia d’onore cfr. Ch. Klapisch Zuber, La donna e la famiglia nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari 1988. 3 C. Casagrande, La donna custodita, in Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, cur. Ch. Klapisch-Zuber, Roma-Bari 1990, pp. 88-128. Sulla condizione giuridica della donna nel medioevo cfr. T. Kuehn, Figlie, madri, mogli e vedove. Donne come persone giuridiche, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, cur. S. Seidel Menchi - A. Jacobson Schutte - T. Kuehn, Bologna 1999, pp. 431-460. 4 Sono valori e principi che rispondono all’etica cristiana e in questo la legge civile ben si accorda con la legge canonica e con le prescrizioni e i divieti della Chiesa, cfr. N. Davidson, Theology, nature and the law: sexual sin and sexual crime in Italy from the fourteenth to the seventeenth century, in Crime, society and the law in Renaissance Italy, cur. P. Dean - K.J.P. Lowe, Cambridge 1994, pp. 74-98: 77; cfr. anche A. Molho, Marriage alliance in late medieval Florence, Cambridge Mass.-London 1994; M.S. Mazzi, Come rose d’inverno. Le signore della corte estense nel ‘400, Ferrara 2004, pp. 97-100. 5 Ma si cercava di intervenire anche sulla vita coniugale, come nel caso di Rieti, cfr. Statuto della città di Rieti, cur. M. Caprioli, Roma 2008, cap. 18, pp. 184-185: «Volumus uxores reverenter et honeste stare, morari et habitare cum maritis et non recedere vel se absentare ab eis vel de domo ipsorum. Mariti quoque cum eorum uxoribus honeste morentur et vivant, easque bene et caritative tractent, ut non habeant materiam discedendi ab eis». 6 A.M. Nada Patrone, Simbologia e realtà nelle violenze verbali del tardo Medioevo, in Simbolo e realtà della vita urbana nel tardo Medioevo. Atti del V Convegno storico italocanadese (Viterbo 11-15 maggio 1988), cur. M. Miglio - P. Lombardi, Manziana (s.a.), pp. 47-87: 57-58.
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le medesime norme» . Fama e infamia influivano infatti sia sul sistema di controllo sociale, sia sulla capacità giuridica delle persone; per l’infame, oltre alla riprovazione e all’emarginazione dal corpo sociale, vi era anche l’esclusione da ogni tipo di protezione e difesa da parte delle autorità cittadine: ogni violazione delle regole era quindi esasperata e aggravata dalla sua cattiva reputazione. Ciò valeva particolarmente per le donne, per le quali la buona o cattiva fama rappresentava una discriminante giuridica di primaria importanza8. Ad esempio per quanto riguarda i delitti sessuali9, la donna pienamente tutelata dal diritto statutario, che in questo caso recepiva in pieno le norme del diritto civile, era quella definita “onesta” ovvero di buona fama e che in linea di massima apparteneva al ceto abbiente, mentre per le donne che non potevano essere ricondotte a questa condizione, quelle definite negli statuti inhoneste et male fame, o “di lieve vita” oppure minoris conditionis, per non parlare delle pubbliche meretrici che erano poste al fondo della scala sociale, lo ius proprium non offriva adeguate tutele. Resta da chiarire che cosa s’intendesse nell’età medievale per “onestà”. In quel periodo «l’onestà viene ad indicare il decoro interiore ed esteriore di una persona» e per una donna significava soprattutto «capacità di stare al proprio posto, di seguire le regole, ma soprattutto si fondava sui concetti di pudore e verecondia»10. Era però fondamentale il riconoscimento pubblico di tali virtù, come indica la definizione di donna onesta contenuta negli statuti trecenteschi di Roma: «et intelligatur mulier esse honesta si pro honesta communiter habita et reputata fuerit, maxime in vicinìa in qua habitat”11, ovvero nel contesto spaziale e umano in cui svolgeva gran parte della sua vita e che di fatto era l’arbitro della sua reputazione. Per questo motivo nella società medievale l’ingiuria, e particolarmente quella che colpiva un individuo nell’onore, «assumeva […] una forte carica di violenza e di suggestione emotiva perché era una pubblica valutazio7 8
Ibidem, p. 53. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, p. 94; Ruggiero, ‘Più che la vita caro’ cit. 9 S. Andres, Lo stupro non violento nella letteratura consiliare di diritto comune (fine sec. XV-inizio sec. XVI). Tesi di dottorato in Storia di diritto italiano, con particolare riferimento alla storia del diritto medievale e al diritto comune, rel. G. Di Renzo Villata, Università di Milano, XIV ciclo (aa. 2001-2002), pp. 13-17: 19. 10 Ibidem, pp. 50-63, da cui le citazioni nel testo. 11 Statuti della città di Roma, cur. C. Re, Roma 1880, l. II, rub. CLXXX. A Bagnoregio (1373) viene definita mulier bone fame la donna che avesse vissuto honeste in domo sua propria vel conducta. Cfr. Statuto della città di Bagnoregio del MCCCLXXIII, cur. G. Capocaccia - F. Macchioni, Bagnorea 1921, l. III, rub. CXXXII, pp. 87-88.
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ne, una riprovazione, vera o falsa che fosse, rivolta alla dignità dell’offeso»12. Non stupisce quindi che per offendere una donna – secondo le ricerche di Anna Maria Nada Patrone – l’epiteto più comune in Italia fosse meretrix o puttana13 (ma nel Lazio non manca la forma più dialettale “malafemmina” e sono anche presenti, fedelmente riportate negli statuti, frasi ingiuriose più o meno articolate come: «tu iacisti cum tali homine», «tua madre fa puttana o la tua sorella, tua figliola o tu sei stata femmina del tale» oppure «ti si iaciuta con lo tale»), mentre per l’uomo l’ingiuria di carattere sessuale più frequente è certamente “cornuto” e sempre le corna sono tra gli oggetti di dileggio posti di solito sull’uscio di casa di colui che si voleva offendere14.Un po’ ovunque, quindi, «il modo preferito (ed efficace) di intaccare l’onore di un altro uomo era deriderlo come cornuto» e ugualmente, per screditare in primo luogo il pater familie, il capo di casa, si usava diffamarne la moglie o la figlia come puttana15. É indispensabile, a questo punto, analizzare com’era definita dai legislatori cittadini la donna “di lieve vita” o “di mala fama”, oppure la meretrice e in quali situazioni questo status incideva in modo significativo a marcare la differenza con la donna onesta, che in molti casi – almeno è quanto emerge dalla normativa esaminata – si identificava con la donna «de bona conditione per parte de li parenti»16. La maggior parte degli statuti che ho consultato (relativi a città e borghi dell’Italia centrale e in particolare dell’area laziale) cerca di dare dei parametri di riferimento più o meno precisi, ma tutti per lo più attinenti alla sfera sessuale: quello di Ascoli Piceno del 1377 dichiarava la donna «dissonesta, infamata et bructa vita, la quale comunamente serrà stata et notoriamente infamata, de più et più persone se reputasse et havesse essere cognoscuta»17. «Et a provare che sia meretrice overo sia lavatrice de capi [cioè dei capelli, un mestiere che in diverse località era considerato infamante e avvicinato a quello di prostituta]18 overo sia 12 13 14
Nada Patrone, Simbologia e realtà cit., p. 53. Ibid., p. 75. Cfr. per l’ingiuria malafemmina, Roma, Archivio di Stato (d’ora in poi ASR), Statuti 822.15, Piglio (a. 1479), lib. III, cap. 55; Statuti 472, Rignano Flaminio (ante 1536), p. 301 e Statuti 514.10, Montelibretti (I metà sec. XV), f. 40, per le frasi offensive. L’ingiurie cornuto e puttana sono presenti nella maggioranza degli statuti consultati. Per le corna poste sull’uscio di chi si voleva offendere cfr. Statuti 802/1, Montopoli in Sabina (a. 1477), lib. II, cap. 20. 15 Cfr. J.R. Farr, Crimine nel vicinato: ingiurie, matrimonio e onore nella Digione del XVI e XVII secolo, «Quaderni storici», 66 (dic. 1987), pp. 839-854. 16 Così negli Statuti del comune d’Ascoli Piceno, edd. L. Zdekauer - P. Sella, Roma 1910, lib. III, rub. 16, p. 89. 17 Ibid., p. 90. 18 Cfr. G. Rezasco, Segno delle meretrici, «Giornale ligustico di archeologia, storia e let-
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dissonesta femina, baste la prova de cinque testimoni de fama” . Anche per Viterbo20 la publica fama della disonestà di una donna doveva essere provata per quinque testes fide dignos, e così pure nello statuto di Bagnoregio nel quale, dopo aver specificato che «mulier male fame intelligatur si fuerit cognita a tribus hominibus et ab inde supra, exceptis maritis», si ribadisce che ciò possa essere provato publica voce et fama da cinque testi «de contrada mulieris»21; mentre a Rignano Flaminio dovevano essere dodici i testimoni della cattiva fama della donna, i quali dovevano provare «che con più uomini abbia commesso alcuno degli acti et delicti carnali»22; in altri casi, come a Terni23 o a Rieti, erano sufficienti «quattuor testes fide digni, vel – prosegue la rubrica reatina – evidentia facti, habitus, conditio et qualitas mulieris, de quo stetur arbitrio et provisioni potestatis et capitanei»24. Solo qualche cenno in più – vista l’attenzione storiografica sul tema della prostituzione in questi ultimi decenni25 – per definire la meretrice ovvero la donna che quaestum sui corporis facit, la quale apertamente faceva con chiunque commercio del proprio corpo e che per questo aveva uno statuto particolare, era – per ricordare quanto ha scritto Francesco Migliorino – infame ipso iure26. Dal mio dossier statutario in primo luogo emerge, non diversamente da molte località italiane, dal Piemonte alla Sicilia, il desiderio dei legislatori ad emarginare le prostitute dallo spazio cittadino, almeno da quello ritenuto il cuore della città, per relegarle in
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teratura», 17 (1890), pp. 161-220: 174-175. Si veda, ad esempio, per Perugia A. Grohmann, Città e territorio tra medioevo ed età moderna: Perugia, secc. XIII-XVI, I, Perugia 1981, p. 319. 19 Statuti del comune di Ascoli Piceno cit., lib. III, rub. 85, pp. 139-140. 20 Lo Statuto del comune di Viterbo del 1469, ed. C. Buzzi, Roma 2004, lib. III, rub. 34, p. 194. 21 Cfr. Statuto della città di Bagnoregio cit., cap. 132. 22 Per Rignano cfr. ASR, Statuti, n. 472, pp. 277-278. 23 L. Pirro - P. Rossi, Statutum Interamnae Divo Valentino Urbis Patrono Dicatum, Terni 1999, rub. 32, p. 219. 24 Cfr. Statuto della città di Rieti cit., lib. III, rub. 60, p. 250. In altre circostanze la fama doveva essere “probata per quinque testes fidedignos”, cfr. ivi, rub. 34, p. 207. 25 Si cfr. ad esempio J. Rossiaud, Prostitution, jeunesse et société dans les villes du sudest au XVe siécle, «Annales ESC», 31 (1976), pp. 289-325; ripubblicato in Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo, Roma-Bari 1984, pp. 5-69; M.S. Mazzi, Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento, Milano 1991; Mazzi, Aspetti della prostituzione (secoli XIV-XV), in Il tempo libero. Economia e società. Secc. XIII-XVIII. Atti della XXVI Settimana di Studi, Prato 18-23 aprile 1994, cur. S. Cavaciocchi, Firenze 2005, pp. 721-730. 26 Migliorino, Fama cit., p. 95: un’infamia – cito – «che produce di fatto i suoi effetti di separazione e opera più come forma di etichettamento di una trasgressione necessaria (e perciò regolamentata) che come pena vendicativa». Dello stesso autore cfr. anche il saggio Corpo scrittura identità, in Migliorino, Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino 2008, pp. 62-83.
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quartieri marginali. Illuminante, anche per questo aspetto, lo statuto ascolano: «ordenemo che nesiuna meretrice, né lavatrice de capo, né altra dissonesta femmina ardisca overo presuma stare, habitare overo havere residentia overo stare appresso la piaza de sopra [Arrengo] per 25 canne et da li lati del palazo overo appresso alicuno loco de frati per 25 canne. Et quella che serrà trovata fare contra sia frustata»27. La stessa pena infamante della fustigazione – dal valore altamente simbolico, tanto più che doveva avvenire, come prescrivono molti statuti, in un luogo pubblico e generalmente in un giorno festivo28 – era prevista per chi, uomo o donna, praticava il lenocinio, un mestiere ancora più spregevole della stessa prostituzione, perché – per citare ancora Migliorino –, mentre la meretrice «in se delinquit», il ruffiano usava, mercificandola, un’altra persona e quindi era da considerarsi ancora più colpevole29. Secondariamente dalla normativa si delinea il tentativo di rendere le prostitute in qualche modo identificabili, non tanto tramite l’imposizione di appositi segni di riconoscimento, che diventano maggiormente diffusi in Italia dal tardo Quattrocento30 (peraltro, in nessuno degli statuti da me esaminati vi è questo provvedimento), ma attraverso la proibizione di indossare capi d’abbigliamento di particolare valore venale, di solito presenti nei corredi delle domine: così, ad esempio, nello statuto viterbese del 146931 si dispone che «nulla mulier … publice diffamata possit portare mantellum cum tacaglia [fibbia] de argento nec foderatum zendado32 aut pellibus, nec tunicam aut mantellum de panno novo», né panni con ornamenti d’oro e d’argento […].«Et predicta locum habeant in publicis meretricibus». Ugualmente in una riforma quattrocentesca dello statuto reatino
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Statuto del comune di Ascoli cit., rub. 85, p. 139. Ad Aspra Sabina (l’odierna Casperia), ad esempio, «le donne che spontaneamente commettono adulterio con alcuno […], quando non potessero pagare detta pena, spogliate nude» dovevano essere frustate «per tutta la terra un dì de domenica o di festa, acciò che a tutti passe in esempio», mentre a Tivoli – secondo gli statuti del 1305 – la fustigazione della moglie fedifraga poteva avvenire solo ad petitionem viri, cfr. rispettivamente Statuto di Aspra Sabina del MCCCLXXXXVII volgarizzato nel MDLVIII, ed. P. Fontana, in Statuti della Provincia Romana, cur. V. Federici, Roma 1930 (Fonti per la storia d’Italia, 69), pp. 367-507: 394-395, lib. I, cap. XIIII; Gli antichi statuti di Tivoli, ed. V. Federici, in Statuti della Provincia romana, cur. F. Tomassetti - V. Federici - P. Egidi, Roma 1910 (Fonti per la storia d’Italia, 48), lib. III, cap. CL, p. 205. 29 Migliorino, Fama cit., p. 96. 30 U. Robert, I segni d’infamia nel Medioevo, introduzione e traduzione cur. S. Arcuti, Soveria Mannelli 2000, pp. 90-94. 31 Lo statuto del comune di Viterbo cit., lib. III, cap. 36, p. 195. 32 Tessuto di seta molto leggero.
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si stabilisce che «nulla mulier male fame audeat nec presumat per civitate Reate deferre trochium [probabilmente un’acconciatura per capelli con largo uso di nastri, come a Milano] nec pannos coloratos nec scagiale [cintura di stoffa preziosa]»33. Particolarmente significativo il divieto per le prostitute di Roma di indossare «vesti alle quali si annetteva una grande importanza sociale» e simbolica34, quali il maccagnano e il bianco lenzuolo ad ammantandum, ovvero l’abito tradizionale delle honestae dominae, oltre che delle nobili matrone romane. Divieti dello stesso genere sono imposti alle pubbliche concubine, soprattutto dalla seconda metà del secolo XV, periodo in cui la concubina – anche quella che conviveva con un uomo non sposato35 – comincia ad essere equiparata sia alla donna male fame sia alla meretrice, con un significativo scadimento di status: ad esempio a Viterbo la rubrica prima citata – che vietava alle donne diffamate di indossare determinate pellicce e vesti –, comprendeva nel divieto anche la mulier concubina; a Ferentino36 le veniva espressamente vietato di portare su di sè aurum vel perlas. Ed è superfluo insistere sulla pessima considerazione che ovunque si aveva della «concubina sacerdotis publica», che – come si può leggere negli statuti viterbesi – «pro muliere diffamata habeatur»37. Naturalmente se dalla normativa si passa a considerare la prassi, così come viene delineata da altra tipologia di documentazione, il discorso sulla “fama delle donne” si articola notevolmente, soprattutto se si considerano i diversi livelli socioeconomici della società. Non posso ora soffermarmi su questa questione come sarebbe opportuno; per il momento credo sia sufficiente accennare alla grande considerazione che ebbero le amanti degli 33 34
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Statuto della città di Rieti cit., lib. III, cap. 60, p. 250. M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna 1999, p. 296. 35 Era soprattutto la concubina stans cum marito uxorato che era colpita dai legislatori, cfr. ad esempio lo Statuto della città di Rieti cit., lib.III, cap. 18, pp. 184-185. Su questo tema cfr. L. Ferrante, Legittima concubina, quasi moglie, anzi meretrice. Note sul concubinato tra Medioevo ed Età moderna, in Modernità: definizioni ed esercizi, cur. A. Biondi, Bologna 1998, pp. 123-141. 36 Il capitolo è purtroppo mancante. Rimane solo il titolo della rubrica 110 nell’indice del libro V, cfr. Statuta civitatis Ferentini, ed. M. Vendittelli, Roma 1988. 37 Lo statuto del comune di Viterbo cit., lib. III, cap. 34, p. 195. Sulla mala fama delle concubine degli ecclesiastici cfr. anche G. Todeschini, Visibilmenti crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007, pp. 84 ss. Particolarmente studiato il caso siciliano, cfr. A. Sparti, Moralità pubblica e costumi del clero nella Sicilia del ‘400, in La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ’400 al ’600. Fonti e problemi. Atti del convegno internazionale (Milano, 1-4 dicembre 1983), Roma 1986, pp. 221-240.
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uomini di potere, sia laici che ecclesiastici, soprattutto nell’età del Rinascimento. Ricordo tra le prime, tanto per fare un solo esempio, Lucia Marliani, l’ultima amante di Galeazzo Maria Sforza38, che fu lo strumento per l’affermazione della sua famiglia; riguardo alle donne degli ecclesiastici – vescovi, cardinali e a volte gli stessi pontefici – per non riproporre il notissimo caso di Vannozza Catanei, per lungo tempo concubina del cardinale Rodrigo Borgia (poi papa Alessandro VI) e madre dei suoi quattro figli39, accenno soltanto alla meno nota domina romana Girolama Tosti, la quale – mentre era ancora sposata con il discretus vir Battista Goioli – iniziò una lunga relazione con il potente cardinale Guillaume d’Estouteville, camerlengo di S.R.E. nel pontificato di Sisto IV. Ebbene anche Girolama – come la coetanea Vannozza – sarà onorata in vita e in morte, non solo nell’ambito delle sue relazioni familiari, ma anche dagli stessi ambienti ecclesiastici cui si rapportava, in particolare l’Ordine agostiniano, di cui l’Estouteville era stato protettore per più di quaranta anni40, e la chiesa di S. Agostino che era anche la sua parrocchia e il luogo di sepoltura della sua famiglia d’origine. Se passiamo ora ad esaminare i reati dove la fama della donna giocava un ruolo fondamentale – soprattutto nella punizione del reo – si deve certamente partire dallo stupro violento. Nello stupro cum vi 41, dove – com’è evidente – era essenziale che non vi fosse il consenso della donna, la mulier bone fame doveva dimostrare la sua opposizione alla violenza sessuale – quindi la sua onestà – in modo palese, come ad esempio a Supino, dove «statim vociferare debeat et notificare»42, altrimenti era considerata correa e incorreva nella stessa pena dell’uomo43. Inoltre in molti statuti si precisa38 F. Leverotti,
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Lucia Marliani e la sua famiglia: il potere di una donna amata, in Donne di potere nel Rinascimento, cur. L. Arcangeli - S. Peyronel, Roma 2008, pp. 281-312. Per un altro ‘caso’ relativo alla corte sforzesca cfr. N. Covini, Il palazzo milanese di Elisabetta da Robecco, ultima amante di Francesco Sforza, «Nuova rivista storica», 88/3 (2004), pp. 799-810. 39 R. Zapperi, Catanei, Vannozza (Giovanna), in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII, Roma 1979, pp. 295-298; E. Di Maggio, Le donne dell’ospedale del Salvatore di Roma. Sistema assistenziale e beneficenza femminile nei secoli XV e XVI, Pisa 2008, pp. 65-70. 40 Cfr. A. Esposito, Il notaio Benimbene e la sua clientela nella Roma del Rinascimento, «Studi e materiali - Quaderni semestrali del Consiglio nazionale del Notariato», 2004/1, pp. 593-604. 41 Nella giurisprudenza medievale era contemplato anche lo stuprum sine vi, su cui cfr. G. Cazzetta, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano 1999. 42 Lo statuto di Supino, ed. G. Giammaria, Roma 1986, lib. II, rub. 16. 43 Su questo cfr. anche Statuto di Civitavecchia, ed. V. Annovazzi, copia anastatica in O. Toti, Storia di Civitavecchia, Civitavecchia 1992, lib. II, rub. LXV, p. LXII; Gli statuti medievali del comune di Alatri, edd. M. D’Alatri - C. Carosi, Alatri 1976, lib. II, cap. 5, p.
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no i termini entro cui bisognava denunciare alla pubblica autorità la violenza subita, altrimenti il reato non veniva più perseguito: a Campagnano «illo die vel illa nocte» da parte della stessa donna che è tenuta al giuramento; a Supino entro tre giorni; a Frascati entro quindici giorni, per quanto riguarda la donna vergine, la quale avrebbe dovuto presentarsi alla corte «con li capelli sciolti, scapigliandosi et pelandosi et col capo della gonna stesa et aperta fino al petto»44. Per quanto riguarda il violentatore, gli erano comminate pene pecuniarie diversificate a secondo diverse varianti: se la violenza carnale fosse effettivamente avvenuta o fosse stata solo tentata ma non andata a compimento45; se la donna fosse stata soggetta ad una tutela maschile oppure fosse soluta ovvero libera, cioè non vincolata ad alcun uomo (marito, padre, fratello etc.): in questo secondo caso non aveva diritto alle stesse protezioni di una donna, i cui familiari di sesso maschile avrebbero potuto sentirsi offesi nell’onore46; secondo la qualità morale della donna, cioè se fosse ritenuta donna onesta, oppure donna “di lieve vita” o “di mala fama”, o ancora meretrice e infine se fosse maritata, vedova o nubile. Si veda, tanto per fare un esempio tra tanti, la rubrica 17 dello statuto trecentesco di Rieti47 «de violentiis illatis mulieribus», dove all’uomo che fosse riuscito a violentare una donna sposata di buona fama era inflitta una multa di ben 100 libbre; se si trattava di una vedova di buona fama la pena era di 60 libbre, mentre se la vittima fosse stata una vergine, il seduttore era tenuto non solo a pagare 100 libbre, ma anche a dotare la ragazza, «secundum facultatem et qualitatem patrimonii», a meno che non la pren-
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145. Sulla resistenza che una donna doveva opporre alla violenza sessuale cfr. G. Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, pp. 321322. 44 Cfr. rispettivamente F. Passeri, Lo statuto di Campagnano del secolo XIII, «Archivio della Società Romana di storia patria», 14 (1891), pp. 5-85: 64, cap. 24; Lo statuto di Supino cit., lib. II, rub. 16; A. Ilari, Frascati tra Medioevo e Rinascimento, con gli statuti esemplati nel 1515 e altri documenti, Roma 1965, rub. LXVIII, p. 174. 45 Si veda ad esempio lo statuto borgiano di Sermoneta (tutt’ora inedito), dove si valuta non solo l’actum proximum alla violenza sessuale, e cioè amplexando vel deosculando, ma anche altre azioni perpetrate verso la donna, come «solum verbis […] requirendo vel pannos de dorso tangendo», cfr. Roma, Fondazione Camillo Caetani, Archivio Caetani, Miscellanea 11/32, lib. III, cap. XXIII. 46 Sul termine soluta per indicare la donna libera cfr. lo statuto quattrocentesco di Montelibretti in ASR, Statuti, 514.10, f. 38r. Interessante quanto disposto dallo statuto di Tivoli: non è tenuto ad alcuna pena colui che rem habuerit con una donna consenziente «proxineti conditionis, non nupte, non virginis, non monialis nec Deo dicate», cfr. Gli antichi statuti di Tivoli cit., lib. III, cap. CLII, p. 205. 47 Statuto della città di Rieti cit., p. 184.
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desse in moglie, «de communi concordia et voluntate», perché in quel caso non si sarebbe potuto condannarlo «pro dicta violentia». E lo stesso valeva per la vedova di buona fama48. Invece a Roma, dove la società era molto più articolata, la normativa statutaria trecentesca – di forte impronta antimagnatizia – comminava ammende di entità diversa in relazione sia alla posizione sociale del reo (pedes, cavallaroctus seu miles, baro vel de genere baronis) sia alla condizione della donna violentata (honesta, vilis conditionis et inhonesta non tamen meretrix publica, e infine meretrix publica)49. Se la donna era “onesta”, un pedes era multato in 300 libbre di provesini, un cavallaroctus sive miles in 500, mentre un baro vel de genere baronis in 1000. L’ “adulterio” con una pubblica meretrice non dava corso a nessuna pena. Questo caso era contemplato anche negli statuti di Viterbo del 1469, dove però si disponeva che, se qualcuno avesse fatto ingiuria di qualunque tipo a una meretrice oppure a una donna diffamata o inhoneste fame, sarebbe stato punito «in quarta pene […] que alias imponitur per statutum de tali iniuria vel offensa»50. Negli statuti di Ascoli si è più precisi: se con la violenza, «alicuno conoscerà alicuna donpna, la quale sia … notoriamente dissonesta, infamata et de bructa vita» e che fosse noto che «de più et più persone havesse da essere conosciuta», sia in arbitrio del podestà se punire l’uomo oppure no. Per quanto riguarda invece le donne di buona fama, nel valutare la qualità della donna oltraggiata dai legislatori ascolani viene usato un criterio che definirei socioeconomico, dove – cosa non certo nuova – viene stabilita una precisa correlazione tra livello sociale della famiglia d’appartenenza / onestà / e quindi fama. Si stabilisce infatti che «se alicuno carnalmente conoscerà contro sua volontà alicuna donpna […] vedua overo maritata de bona conditione per parte de li parenti, sia punito omne volta in libre cento de dinari», ma se la donna fosse invece «femmina pactuale51 overo serva de piccola conditione», il seduttore avrebbe avuto una pena dimezzata per lo stesso delitto ed era lasciato alla discrezione del podestà stabilire «quale sia la femmina overo donpna de bona conditione […] e quale de piccola»52. 48 49 50
Nessun cenno per la violenza ad una donna di cattiva fama o ad una prostituta. Statuti della città di Roma cit., lib. II, cap. CLXXX, p. 182. Lo Statuto del comune di Viterbo cit., rub. 34, p. 194: «… Et si ex tali iniuria amputetur membrum seu debilitaretur, teneatur delinquens ad dimidiam partem pene, que ex delicto imponitur per statutum». 51 Pactualis ovvero persona vincolata da un patto agricolo, cfr. P. Sella, Glossario latino-italiano. Stato della Chiesa, Veneto, Abruzzi, Città del Vaticano 1944, p. 395. 52 Le citazioni sono tratte da Statuti del comune di Ascoli Piceno cit., lib. III, cap. 16.
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Dunque una esplicita presunzione di disonestà per le donne dei ceti inferiori, che dovevano lavorare al di fuori del contesto familiare e spesso lontano dal controllo maritale, perciò di fatto donne “non custodite” e quindi più esposte ai pericoli della concupiscenza maschile, in particolare le serve domestiche, che sappiamo essere con facilità vittime sessuali dei loro padroni. Non è un caso che di solito le confraternite che erogavano sussidi dotali, come ad esempio la SS. Annunziata alla Minerva di Roma, escludessero le serve dalla tipologia di fanciulle assistite dal sodalizio53. Per non parlare poi delle serve di taverna, che erano equiparate alle prostitute proprio per la negativa considerazione legata a quel promiscuo e spesso degradato ambiente di lavoro54. Inoltre – riprendendo un’osservazione della Klapish Zuber – «in una società dove dominano i valori dell’onore, il lavoro delle donne è considerato socialmente degradante, segno di debolezza, povertà o decadenza»55, quindi un presupposto della possibile disonestà nei loro comportamenti. Anche la donna sposata che aveva rapporti sessuali con un uomo diverso dal marito diveniva infame ipso iure. Infatti l’adulterio della donna coniugata appariva ai legislatori di estrema gravità perché metteva in pericolo non solo l’integrità del nucleo familiare, ma soprattutto la certezza della legittimità della prole56. La fedeltà della donna ne era l’unica garanzia e il «controllo che il marito esercitava sul corpo della moglie l’unico strumento in grado di rassicurarlo sulla paternità»: su questo convincimento si trovano concordi non solo i trattati d’ispirazione aristotelica e la letteratura teologico-morale, con in testa le opere di san Tommaso e di Egidio Romano – dove la fedeltà insieme alla pudicizia e alla castità, virtù considerate squisitamente femminili, sono valutate proprio in «funzione di offrire al maschio quelle garanzie di paternità legittima che la natura non può dargli”–, ma anche la letteratura canonistica e penitenziale, in cui dominano «le discussioni sul comportamento da tenere nei confronti della moglie adultera»57. A 53
A. Esposito, Le confraternite del matrimonio. Carità, devozione e bisogni sociali a Roma nel tardo Quattrocento (con l’edizione degli Statuti vecchi della Compagnia della SS. Annunziata), in Un’idea di Roma. Società, arte e cultura tra Umanesimo e Rinascimento, cur. L. Fortini, Roma 1993, pp. 7 - 51. 54 A questo proposito cfr. G. Cherubini, La taverna nel basso medioevo, in Il tempo libero cit., pp. 525-555: 539 55 Ch. Klapisch Zuber, Un salario o l’onore: come valutare le donne fiorentine del XIVXV secolo, «Quaderni storici» 79 (1992), pp. 41-49. 56 M.T. Guerra Medici, L’aria di città. Donne e diritti nel comune medievale, Napoli 1996, p. 52. 57 Cfr. S. Vecchio, La buona moglie, in Storia delle donne cit., pp. 138-140, da cui sono tratte le citazioni nel testo.
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questo proposito particolarmente interessante quanto contenuto nello statuto di Civitavecchia, in cui si distingue tra la prima volta e la reiterazione del crimine da parte della donna «consueta ponere cornua marito»58 e dove si definisce anche cosa s’intenda per consenso: «Et presumesi la femmina haver consentito in commettere tali cose si la femmina voluntariamente aprarà l’uscio all’omo o vero lei andarà ad l’omo et che l’omo più che una fiata habia hauto ad fare con lei o vero che lei habia hauto più fiate con altri ad fare carnalmente, de le quali cose tutte sia publica voce et fama nel vicinato de la decta femina, la quale se provi per dui testimoni contra li quali non se possa fare exceptione»59. Un’ulteriore testimonianza di quanto fosse importante l’onore per una donna è possibile ricavarla dalla raccolta dei miracoli del santuario viterbese di S. Maria della Quercia60. In questo contesto – tra le numerose grazie invocate ed ottenute dalle donne dell’intera Tuscia per i pericoli del parto e di varie malattie ginecologiche etc. –, sono registrati anche miracoli riferibili alla sfera dell’onore femminile. Tra questi compaiono prodigi relativi sia alla difesa della verginità delle fanciulle sia alla risoluzione di situazioni familiari degenerate a causa della gelosia dei mariti, che – sobillati da voci malevole di vicini e parenti – avevano dubitato dell’onestà delle loro consorti fino ad usare la violenza proprio per difendere il proprio onore61. Se dalla normativa si passa alla realtà processuale, alle testimonianze concrete, alla ‘voce’ di imputati, testimoni, giudici, il quadro finora delineato acquista un maggior spessore, anche se si riduce l’ambito sociale di riferimento. Infatti le donne che a vario titolo compaiono nei processi esaminati (relativi a Roma, Rieti, Viterbo, Magliano Sabina, Aspra/Casperia) appartengono tutte a strati sociali medio-bassi, e una discreta percentuale è costituita da forenses, un elemento questo già messo in luce dalla storio58 L’espressione è tratta dallo statuto di Villanova d’Asti, cit. in A. Marongiu, Adulterio (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, I, Milano 1958, pp. 622-623: 622. 59 Statuto di Civitavecchia cit., lib. II, cap. 72, p. LXVII. 60 N.M. Torelli, Miracoli della Madonna della Quercia, Viterbo 1793; A. Carosi - G. Ciprini, Gli ex voto del santuario della Madonna della Quercia di Viterbo, Viterbo 1992. 61 Cfr. Torelli, Miracoli cit., p. 158: è il caso di Livia di Francesco Pieraccini «accusata dalla sua suocera che volesse bene ad altri che il suo marito, seppe tanto bene dire al suo figliolo che, ritornato a casa e vedendola alla finestra più per aspettare il marito che per essere veduta d’altri, fu ferita con sei ferite … et fu lasciata per morta; corse la madre di Livia et molte altre vicine et parenti et da tutte insiemi si chiamava la Madonna della Quercia di Viterbo et fu votita, quale – come fusse svegliata dal sonno – disse: “la Madonna della Quercia mi ha liberata dalla morte”. Sanò in breve et si cognobbe l’innocentia sua. 1522 alli 8 de magio».
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grafia relativa ad altre regioni italiane . Le domine, esponenti della società aristocratica, per le quali è scontata la buona fama in quanto «de bona conditione et conversatione», non compaiono quasi mai in queste fonti, sia perché vivevano una vita più ritirata e protetta, sia perché le loro famiglie facevano evidentemente da filtro in modo da risolvere in privato le situazioni ‘devianti’ che le vedessero coinvolte per preservare così lo stesso onore familiare63. Un elemento appare con evidenza nei verbali processuali: in maniera più marcata rispetto al campione maschile, la condizione di straniera è affiancata con frequenza ad una cattiva reputazione e spesso anche alla pratica del meretricio. Forensis inhonesta et male fame è un ritornello che ha un’unica variante nell’espressione della nazionalità o della città d’origine. Vorrei ricordare inoltre che vi sono specifiche nazionalità connotate da una generalizzata mala fama: tra queste gli slavi, gli albanesi e, soprattutto nelle regioni tirreniche, i corsi. Non è un caso quindi che in una lite tra due donne a Viterbo, una insulti l’altra definendola di mala fama perché ha sposato un corso!64 In un processo contro la “fogliarara” Caterina, costei da ben cinque testimoni ‘a carico’ viene definita «sclava et vilis et inhonesta» ovvero donna di cattiva fama65. E, come abbiamo visto, non vi è dubbio che l’ambiente in cui si è inseriti sia un’importante discriminante per definire la qualità di una persona.
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62 Cfr., ad esempio, S.K. Cohn jr, Donne in piazza e donne in tribunale a Firenze nel Rinascimento, «Studi Storici», 22/3 (1981), pp. 515-333, ora ripubblicato in Cohn, Women in the Streets. Essays on sex and power in Renaissance Italy, Baltimore-London 1996, pp. 1638; e i diversi saggi pubblicati in «Studi Storici», 27/3 (1986), in particolare R. Comba, ‘Apetitus libidinis coherceatur’. Strutture demografiche, reati sessuali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte tardo-medievale, pp. 529-576; P. Dubuis, Comportamenti sessuali nelle Alpi del basso Medioevo: l’esempio della Castellania di Susa, pp. 577-609; M.S. Mazzi, Cronache di periferia dello Stato fiorentino: reati contro la morale nel primo Quattrocento, pp. 609-635. 63 Mazzi, Cronache di periferia cit., p. 613; V. Rizzo, Donne e criminalità a Viterbo nel XV secolo, «Rivista storica del Lazio», 12 (2000), pp. 11-27: 15. 64 Ibid.; sulla cattiva fama dei corsi a Roma e nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia cfr. A. Esposito, La presenza dei corsi nella Roma del Quattrocento, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-temps modernes», 1986, fasc. 2, pp. 607-621; Esposito, Probi viri pro improbis reputari non debent. Il controverso problema della presenza dei Corsi nella provincia del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia alla fine del Quattrocento, «Rivista storica del Lazio», 3 (1995), pp. 67-98; per una realtà processuale castrense cfr. A. Peri, Ne delicta remaneant impunita: il caso di Aspra Sabina (oggi Casperia) nel tardo Medioevo, «Rivista storica del Lazio», 18 (2003), pp. 39-56. 65 Cfr. P. Cherubini, Una fonte poco nota per la storia di Roma: i processi della curia del Campidoglio (sec. XV), in Roma memoria e oblio, Roma 2001, pp. 157-182: 170.
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Non è questa la sede per ripercorre i casi – ben documentati nei processi – in cui compaiono donne per le quali la cattiva fama è insita o nello stile di vita segnato da pratiche sospette, come per le donne definite “incantatrici, streghe, fattucchiere”66, oppure nella professione di una fede religiosa diversa da quella cristiana, come le donne ebree, a volte accusate di pratiche illecite e malefiche67. Proprio nei processi che vedono implicate queste ultime68, emerge un ulteriore elemento, che mi sembra interessante sottolineare. Non solo le donne ebree, ma anche le donne cristiane che per vari motivi hanno con loro rapporti di assidua frequentazione, di quotidiana conversatio, risultano – dalla concorde testimonianza delle deposizioni processuali – essere contraddistinte dalla stessa mala fama delle ebree e forse da una reputazione ancora più negativa proprio per intrattenere rapporti di familiarità con chi – come l’ebreo – era considerato disonorato per definizione e di fatto posto al di fuori della cittadinanza69. L’esempio di Fiorimanda, moglie di Malapezza di Magliano Sabina è, a questo proposito, particolarmente significativo. Accusata nel 1422 di aver ucciso Gemma vedova di Mosè da Roma, l’ebreo feneratore de terra Malleani70, sottoposta ad estenuanti interrogatori e più volte alla tortura della corda per estirparle la confessione – cosa che la donna non farà mai tanto da essere poi assolta dall’accusa – Fiorimanda è messa in cattiva luce soprattutto dalle dettagliate testimonianze che il podestà e giudice, il romano Giuliano Boccamazza,71 riceve dalla decina di donne che spontaneamente vanno a
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Cfr. i casi citati da Rizzo, Donne e criminalità a Viterbo cit., in particolare pp. 22-27: la sentenza del processo contro Margherita da Grosseto; per un famoso caso tudertino cfr. D. Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco: 20 marzo 1428, Todi 1977. 67 Come nel caso presentato nel processo perugino del 1462 contro l’ebrea Bellafiore, definita «feminam matematicam, incantatricem et malignorum spiritum invocatricem», che viene accusata di aver compiuto riti diabolici nell’attingere acqua in una fonte in contrada Piantarose. La donna è però assolta perché il reato non risulta provato, cfr. Grohmann, Città e territorio cit., I, p. 310. 68 Su questo cfr. le osservazioni di D. Quaglioni, La parola data e la parola presa: le donne nel processo, in A. Esposito - D. Quaglioni, I processi contro gli ebrei di Trento (14751478), II, I processi alle donne (1475-1476), Padova 2008. 69 Cfr. Todeschini, Visibilmenti crudeli cit., pp. 178 ss. 70 Il processo relativo all’omicidio di Gemma ebrea è in Rieti, Archivio di Stato, Archivio della Curia del Podestà di Magliano Sabina, reg. 59, a. 1422 (le carte del registro non sono numerate). Per gli altri processi, si vedano, nello stesso fondo, i regg. 46 (a. 1453) e 58 (a. 1483). Sulla presenza ebraica in Sabina cfr. A. Esposito, Note sulla presenza ebraica in Sabina nel tardo Medioevo, in «Italia», XIII-XIV, In memory of Giuseppe Sermoneta, cur. R. Bonfil, Jerusalem 2001, pp. 103-116. 71 Da non dimenticare che Magliano Sabina era una delle città direttamente soggette al Comune di Roma e perciò il podestà doveva essere un cittadino romano ed essere nomi-
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testimoniare contro di lei. La grande familiarità che la donna aveva con l’ebrea rappresenta, oltre a un grave indizio di colpevolezza, anche una conferma della cattiva fama di Fiorimanda, che – a detta di tutte le testimoni – «multum fuit solita conversari cum dicta Gemma defunta ac uti et praticare in domo predicta», cioè la casa dell’ebrea, dove aveva sede anche il banco di prestito72. Dalle deposizioni si raccolgono molte informazioni sul ruolo di intermediazione svolto da Fiorimanda tra gli ebrei prestatori e i clienti cristiani, che si vergognavano a frequentare apertamente il banco ebraico, come l’inquisita non manca di ricordare, mentre è sottoposta a tortura73. Queste le parole di Fiorimanda al giudice: «quello che me dicete [l’accusa dell’omicidio di Gemma], me sse appone indebitamente e quello che me sse appone, me sse appone per lo molto usare che agio facto colla dicta Gemma et in casa sua; menne so’ gita in casa sua venti volte per li facti de Paolo de domino Paolo et per li facti de molte altre persone che me pregavano che io li faci prestare denari dalla dicta Gemma sopra li pegni et per questa cascione sono usata con essa et in casa sua». Per concludere, resta una domanda cui cercare di rispondere, seppure sinteticamente: che mezzi aveva una donna per preservare/custodire la sua buona fama? Per la donna coniugata o la filia familie i comportamenti cui conformarsi erano quelli che, come abbiamo prima indicato, si fondavano sui concetti di pudore e verecondia pubblicamente riconosciuti, sull’obbedienza al padre o al marito, sul rispetto delle regole. Diverso era il problema per le donne non sorrette da una adeguata protezione familiare, meno controllate e quindi molto più esposte alle chiacchiere del vicinato e ai pericoli di aggressione e violenza sessuale, specialmente se povere e costrette – per sopravvivere – a ricorrere al lavoro manuale. Spesso per donne isolate, ancora nubili, donne separate o abbandonate, vedove da tempo «e quindi – in una società in cui la morale dominante è quella matrimoniale – sospette o méprisées»74, non era facile difendere la propria onorabilità.
nato da Roma, come previsto dai patti del 1311. Cfr. C. Ardito, Un fortunato ritrovamento: frammenti di riformanze di Magliano Sabina del 1422, «Rivista storica del Lazio», 9 (1998), pp. 79-89. 72 Il giro d’affari non doveva essere troppo cospicuo se al momento dell’assassinio di Gemma nel banco vi erano beni per un valore di circa 300 ducati. 73 Peraltro da un’umile teste, la fornaia Antonella, si recupera un’immagine sostanzialmente positiva della giustizia, una giustizia che, a suo parere, metteva tutti sullo stesso piano e non operava discriminazioni tra cristiani ed ebrei: secondo la teste, il delitto dell’ebrea sarebbe stato severamente punito perché a Magliano «se fao rascione così alli giudei como alli cristiani». Che non fosse soltanto una battuta, è provato dal proscioglimento di Fiorimanda. 74 Rossiaud, Prostitution cit., p. 301.
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Una soluzione dignitosa – per chi non voleva (o non poteva per motivi economici) entrare in convento – era la scelta religiosa della Terza regola o del bizzocaggio. Isabelle Chabot, dall’analisi del Catasto fiorentino del 1427 e da altre fonti, ha evidenziato come questo stile di vita fosse una risorsa non solo per “donne senza uomini”, ma anche per donne nubili rimaste presso le loro famiglie, spesso perché portatrici di handicap o perché di nascita illegittima e quindi più difficili da maritare: pur senza minimizzare la sincerità di una vera propensione religiosa, l’“abito di religione” appare a volte come un mezzo per tutelare «l’immagine pubblica della casa – garante di quest’onore femminile così fragile, conferendo, non senza riserve, una forma di legittimazione sociale alla loro solitudine vissuta nel mondo»75. Ugualmente, la vita bizzocale poteva costituire una risorsa anche per molte donne prive di protezione o con gravi problemi di convivenza nell’ambiente familiare: vivere in comunità anche molto piccole, come penitenti o recluse, ma soprattutto far parte di un bizzocaggio o di una domus di terziarie di più ampie dimensioni diviene – come ha scritto Anna Benvenuti – una valida alternativa di vita, «uno strumento di salvezza religiosa [...], ma anche una valvola di sopravvivenza esistenziale» 76, che conferiva a queste donne una specifica identità sociale e consentiva loro di preservare la propria buona fama.
75 I. Chabot, “Sola, donna, non gir mai”. Le solitudini femminili nel Tre-Quattrocento, «Memoria. Rivista di storia delle donne», 18 (1986), pp. 7-24: la citazione è a p. 14. 76 A. Benvenuti, Le forme comunitarie della penitenza femminile francescana. Schede per un censimento toscano, in Prime manifestazioni di vita comunitaria maschile e femminile nel movimento francescano della Penitenza (1215-1447). Atti del convegno di studi francescani. Assisi 30 giugno- 2 luglio 1981, cur. R. Pazzelli - L. Temperini, Roma 1982, pp., pp. 389449: la citazione è a p. 443. Per la diffusione di questo fenomeno a Roma cfr. A. Esposito, Il mondo della religiosità femminile romana, in Roma religiosa secc. XIII-XV. Atti della Giornata di studi (Roma, 12 maggio 2008), cur. G. Barone - A. Esposito, «Archivio della Società Romana di storia patria», 132 (2009), pp. 149-172.
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La reputazione economica come fattore di cittadinanza nellâ&#x20AC;&#x2122;Italia dei secoli XIV-XV
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Che cosa significa nelle città italiane del Tre e Quattrocento avere una buona reputazione economica? Prima di arrivare a chiarire il significato assunto in questo contesto dal rapporto tra fama economica e cittadinanza, è necessario approfondire brevemente la nozione stessa di reputazione economica in Italia alla fine del medioevo. Le memorie e i libri di conti dei mercanti scrittori abbondano di dichiarazioni più o meno estese ed esplicite, più o meno retoricamente eleganti, in materia di importanza della fama per chi si dedichi al commercio e più in generale a guadagnarsi la vita investendo il proprio denaro nei giochi economici proposti da un mercato, che, ormai, dal Tre al Quattrocento si va facendo sempre più internazionale1. Si va da Giovanni Morelli che insiste sull’importanza di avere ottime relazioni con persone affermate, ben reputate e socialmente preminenti, per acquistare una ricchezza coincidente con il buon nome pubblico, all’anonimo mercante trecentesco che dichiara seccamente l’opposizione che esiste tra i mercanti di chiara fama e di nota ricchezza e quelli “disfatti” ovvero in rovina e mal reputati, sino all’imponente discorsività dell’Alberti e di Benedetto Cotrugli che erigono dei veri e propri monumenti linguistici al cittadino commerciante per il quale essere ricchi a buon diritto è del tutto indistinguibile dall’essere riconosciuti come stimabili e cioè pubblicamente utili nell’ambito della civitas2.
1 F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985; J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la rèvolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XVe siècle), in La preuve en justice de l’Antiquité à nos jours, cur. B. Lemesle, Rennes 2003, pp. 119-147; Fama. The Politics of Talk and Reputation in Medieval Europe, cur. T. Fenster - D.L. Smail, IthacaLondon 2003; G. Todeschini, Theological Roots of the Medieval/Modern Merchants’ SelfRepresentation, in The Self-Perception of Early Modern Capitalists, cur. M.J. Jacob - C. Secretan, New York 2008, pp. 17-46. 2 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori, ed.V. Branca, Milano 1986,
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Bernardino da Siena, del resto, ereditando dalla Scuola oliviano – scotista, cui apparteneva, una nozione di ricchezza inscindibilmente connessa a quella di utilità pubblicamente riconosciuta della medesima, aveva stabilito negli stessi anni, che il peccato del commerciante truffatore era in realtà anche, se non soprattutto, un crimine nei confronti del sistema economico che costui avrebbe dovuto rappresentare3. Il tradimento della fiducia di cui pubblicamente godeva, infatti, se da un lato cancellava definitivamente il suo nome e la sua reputazione, contribuiva d’altra parte a svalutare, infamandolo, il sistema di relazioni economiche di cui, invece, avrebbe dovuto essere il garante. Non era estranea a questa visione del crollo della fiducia collettiva indotto dalla disonestà del singolo una lettura classicamente agostiniana4 del tradimento di Giuda come attentato al bene pubblico, ossia come metaforico peculato perpetrato ai danni della persona del Cristo a sua volta intesa metaforicamente come figura dello Stato e dell’erario5. La buona fama del mercante, in altre parole, era raffigurata dai teologi e dai giuristi, oltre che dai mercanti stessi, come l’esito di una competen-
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III; G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio Storico Italiano», 110 (1952), pp. 114-119; L.B. Alberti, I libri della famiglia, edd. R. Romano A.Tenenti, Torino 1969; Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura, ed. U. Tucci, Venezia 1990. 3 Bernardino da Siena, Sermo XXXIII. De mercationibus et vitiis mercatorum, in Opera omnia, IV, Sermones XXXII-XLV. De contractibus et usuris, Firenze 1956, pp. 158-159. G. Todeschini, Ricchezza francescana, Bologna 2004, pp. 168 ss. 4 Agostino, In Iohannis evangelium tractatus, 50, 10, ed. R. Willems (CC sl 36), Turnhout 1954, p. 437: «Ecce audite quia Iudas iste non tunc perversus factus est, quando a Iudaeis corruptus Dominum tradidit. Plerique enim incuriosi Evangelii existimant tunc periisse Iudam, quando accepit a Iudaeis pecuniam ut Dominum traderet. Non tunc periit, iam fur erat, et Dominum perditus sequebatur; quia non corde, sed corpore sequebatur. Duodenarium numerum Apostolorum implebat, apostolicam beatitudinem non habebat, ad imaginem fuerat duodecimus: quo decedente, et alio succedente, et suppleta est apostolica veritas, et numeri permansit integritas. Quid ergo voluit Dominus noster Iesus Christus, fratres mei, admonere Ecclesiam suam, quando unum perditum inter duodecim habere voluit, nisi ut malos toleremus, nec corpus Christi dividamus? Ecce inter sanctos est Iudas, ecce fur est Iudas, et, ne contemnas, fur et sacrilegus, non qualiscumque fur: fur loculorum, sed dominicorum; loculorum, sed sacrorum. Si crimina discernuntur in foro, qualiscumque furti et peculatus; peculatus enim dicitur furtum de re publica; et non sic iudicatur furtum rei privatae quomodo publicae: quanto vehementius iudicandus est fur sacrilegus, qui ausus fuerit non undecumque tollere, sed de Ecclesia tollere? Qui aliquid de ecclesia furatur, Iudae perdito comparatur». 5 Cfr. ora una messa a punto del problema e una bibliografia, in G. Todeschini, The Incivility of Judas: “Manifest” Usury as a Metaphor for the “Infamy of Fact” (infamia facti), in Money, Morality, and Culture in Late Medieval and Early Modern Europe, cur. J. Vitullo - D. Wolfthal, New York-London 2010, pp. 33-52; G. Todeschini, Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’età moderna, Bologna 2011.
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za nel far funzionare l’equilibrio civico: il suo contrario, la cattiva reputazione, era invece il segno di una attitudine perversamente orientata a distruggere il gioco delle fiducie che teneva insieme il mercato. Ma, poiché questo sistema di relazioni poteva essere identificato come corpo civico, ne risultava che la cattiva reputazione del commerciante era in definitiva la prova di un suo tradimento nei confronti della res publica intesa come Corpo economico e mistico. L’essenziale di quanto nell’Italia del Tre e del Quattrocento si poteva intendere con l’espressione reputazione economica, per come essa ci giunge attraverso i lessici che denotano la fama derivante dai comportamenti tecnicamente economici, stava dunque nell’impossibilità di essere veduti come persone o come appartenenti a gruppi che commettono crimini e peccati in grado di danneggiare la Cosa pubblica. Chi aveva una buona fama economica apparteneva, doveva appartenere, per ciò stesso al gruppo dei costruttori del bene comune, ciò che implicava un pregiudizio favorevole riguardo ai suoi comportamenti economici. L’azione economica che conferiva una buona riconoscibilità sociale, una sorta di celebrità civica, dipendeva interamente dall’agire in termini rappresentabili e cioè pensabili come profittevoli per il bonum commune, ossia per ciò che il governo politico, la norma etico-religiosa e la consuetudine locale intendevano con questa definizione. Il termine di riferimento negativo, dal quale guardarsi, di continuo ricordato implicitamente o esplicitamente tanto dalle fonti narrative e memorialistiche quanto da quelle giuridiche e legislative, era non a caso l’avarizia di Giuda, ossia un’ansia di arricchimento raffigurata sempre di più alla fine del medioevo non tanto nei termini di una avidità generica, ma piuttosto come indifferenza colpevole per la felicità e per la salvezza collettiva, ovvero, sulla traccia di Agostino, come minaccia nei confronti della ricchezza istituzionale: furtum de re publica. Per meglio comprendere la forza di questo collegamento tra la figura dell’apostolo maledetto e la cattiva fama di coloro che risultavano estranei e disinteressati in senso economico al benessere della res publica, occorre ricordare che la tradizione omiletica, ma anche quella teologica e canonistica, riecheggiata in questo da quella civilistica, avevano incollato sulla storia di Giuda così come era stata tramandata non solo dai commenti al testo dei Vangeli, ma anche dai lessici dell’avveduta amministrazione monastica, oltre che da una miriade di sentieri testuali leggendari, ricapitolati nella loro sostanza dalla Legenda aurea, la rappresentazione solo in apparenza più generica del fur, del ladro comune abituato a perpetrare in una oscurità tanto reale quanto simbolica le proprie malefatte, a determinare dunque la rovina del pubblico bene per la via di una dissimulazione e di un ingan-
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no tanto peggiori perché mascherati6. Una tradizione narrativa, radicata nel Vangelo di Giovanni, riorganizzata e tramandata dai vocabolari delle regole monastiche laddove essi avevano definito le forme della corretta gestione di beni della comunità, rileggeva a partire soprattutto dal XII secolo la figura di Giuda come tipo del ladro occulto, e decifrava la sua impiccagione come modello di pena da infliggersi esemplarmente a quanti attentassero all’ordine economico della collettività7. L’infamia del fur, anche lessicalmente riconducibile al concetto-parola furvum8 ossia oscuro, invisibile, notturno, nigrum, e per questo autore di un crimine tanto più inquietante, aveva acquistato insomma nella ricostruzione della figura di Giuda tra XI e XIII secolo, tutto il fascino negativo di uno stereotipo dominante: che aveva pertanto invaso prepotentemente il campo della legislazione e della rappresentazione diffusa, se è vero che, mentre l’ambito statutario e giurisprudenziale italiano e francese segnalano, fra Due e Quattrocento, nel furto la trasgressione più odiosa perché più insidiosamente connessa al tradimento di una fiducia sociale ipotizzata come irrinunciabile, nel contempo teologi e canonisti fanno del ladro il protagonista obbligato di un’avarizia criminosa e impenitente, quasi certamente recidiva e in se stessa, dunque, preludio ad una disobbedienza politica da punire con la morte9. Sì che, ad esempio, una cronaca come quella di
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6 Cfr. sul furto notturno: La notte. Ordine, sicurezza e disciplinamento in età moderna, cur. M. Sbriccoli, Firenze 1991, e qui: Sbriccoli, Nox quia nocet. I giuristi, l’ordine e la normalizzazione dell’immaginario, pp. 9-19; S. Piasentini, “Alla luce della luna”: i furti a Venezia (1270-1403), Venezia 1992; M. Sbriccoli, Periculum pravitatis. Juristes et juges face à l’image du criminel méchant et indurci (XIVe-XVIe siècles), in Le criminel endurci: récidive et récidivistes du Moyen Âge au XXe siècle, cur. F. Briegel - M. Porret, Paris 2006, pp. 25-43. Si veda anche B. Geremek, La pietà e la forca: storia della miseria e della carità in Europa, Bari 1986; V. Toureille, Vol et brigandage au Moyen Âge, Paris 2006. 7 Todeschini, The Incivility of Judas, cit.; Todeschini, Come Giuda cit.; V. Toneatto, Judas et les moines. L’utilisation d’une image patristique dans les règles monastiques du haut Moyen Âge, in Réceptions des Pères et de leurs écrits au Moyen Âge. Le devenir de la tradition ecclésial, cur. N. Bériou, in corso di stampa. 8 L’associazione è già ben presente in Corpus Iuris Civilis, Digesta (ed. Mommsen, Berlin 1954), 48, 13: 1, 4, 11; Institutiones, 4, 18, 9. 9 Alberto da Gandino, Tractatus de maleficiis, ed. H. Kantorowicz, Berlin-Leipzig 1926, II, pp. 306 ss., De furibus et latronibus et eorum receptatoribus; Thomas de Chobham, Summa confessorum, (1215 c.), ed. Broomfield, Louvain 1968, dist. VI de avaritia, q. IIIa de rapina, 4, p. 494 (Quare ecclesia sustineat quod fures occidantur): «Sed mirum quod in quibusdam regionibus occiditur homo pro simplici furto, cum antiquitus fuerit statutum in lege dei et in legibus secularibus quod fur simplex aliter non puniretur nisi quod restitueret damnum in duplum vel in triplum vel in quadruplum secundum quod fuertum esset maius vel minus. Unde mirum est quomodo constitutio regum vel principum potuit mutare constitutionem dei. Verumtamen hoc per magnam considerationem, quia in quibusdam
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Matteo Villani può sottolineare che è appunto per mezzo dell’accusa di furto che in ogni momento si può infamare il nemico politico, anche se «leggiadro e di gran pompa» come Bordone figlio di Chele Bordoni, indurlo dunque sulla base della pubblica voce a confessare sotto tortura («il mormorio del popolo minuto era contro di lui» ci fa notare il Villani), ed anche metterlo a morte10. Antonino da Firenze all’inizio del Quattrocento ribadirà il concetto stabilendo che «la terza figliuola del avaritia si chiama proditione cioe tradimento di persone come giuda traditore che tradì christo dandolo nelle mani de’ nimici o tradire cipta o castella [...]»11. Già fra Due e Trecento, del resto, un testo, attribuito a un divulgato enciclopedista come Vincenzo di Beauvais, aveva affermato la somiglianza tra il più malfamato degli uomini d’affari, l’usuraio manifesto, e Giuda: «comedendo et bibendo cum homine, et cum fratre proprio, mutuando et pecuniam tradendo, intendit eum exheredare et spoliare suis. Similis Iudae proditori qui comedendo et bibendo cum domino eum intendebat prodere»12. La mala fama economica si congiungeva quindi ad una nozione di tradimento del bene pubblico in molteplici flussi testuali, che, dal Tre al Quattrocento, facendo leva sulla divulgata figura di Giuda come prototipo di un uso antisociale, ma anche economicamente perdente della ricchezza, conducevano ad intendere il mercante da poco, il mercante fallito o il mercante isolato e privo di contatti col mondo dei gruppi solidali, delle fraternità e delle famiglie, come personaggi anomali e fondamentalmente sinistri. Indebitati insolventi e cattivi pagatori di quanto richiesto per via fiscale dalle amministrazioni cittadine, come ci rivelano gli studi di Massimo Vallerani e Giuliano Milani, avevano del resto molto in comune con coloro che, per essere stati identificati come esterni alla fama economica, piombavano nel ruolo di nemico del bene pubblico13.
regionibus sunt homines ita proni ad furtum vel ad rapinam quod nisi mortem timerent vel mutilationem membrorum si comprehenderentur, numquam cessarent rapere vel furari. Et ideo sustinet ecclesia quod fures occidantur». 10 Matteo Villani, Cronica, c. 58, Milano 1834, p. 96. 11 Antonino, Specchio di conscientia (Confessionale “Omnis mortalium cura”), Firenze 1488, avaritia. 12 Vincenzo di Beauvais, Speculum morale, Douai 1624 (anast.: Graz 1964), III XI 7 usura, coll. 1295 ss. 13 M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005; G. Milani, L’esclusione dal Comune: conflitti e bandi politici a Bologna e in altre citta italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003. Sul rapporto fra “pacificazione” civica e ricomposizione di rapporti pregiudicati da infamanti situazioni di debito, cfr. i saggi raccolti in Conflitti, paci e vendette nell’Italia comunale, cur. A. Zorzi, Firenze 2009. Cfr. G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque fra medioevo ed età moderna, Bologna 2007.
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La buona reputazione economica non coincideva dunque, nelle parole e nelle concettualizzazioni di mercanti e giuristi fra Tre e Quattrocento in Italia, con un generico insieme di buoni ed onesti comportamenti attestati dalla publica vox, ma assai più concretamente con una pratica economica e sociale in grado di attestare e confermare la partecipazione di chi agiva economicamente ad un modello di gestione della cosa pubblica, a sua volta costruito a partire da catene concettuali lunghe e profonde, non necessariamente consapevoli ed esplicite, ma desumibili da una analisi del vocabolario delle fonti serrata e costante. Una reputazione economica non era fatta quindi soltanto di provata onestà negli affari, ma anche, se non di più, dalla consuetudine familiare con le famiglie o i clan cittadini meglio reputati e più potenti. Dal fatto, sì, di essere associati sul piano economico con questi uomini onorati e rispettati, ma anche di essere uniti a loro da vincoli di amicizia, parentela, affinità, consuetudini14. Un certo numero di documenti abitualmente considerati prove di una vita economica chiusa nei confini del perseguimento di una onesta utilità, potranno a questo punto essere riletti nella prospettiva di quanto essi ci dicono in tema di appartenenza civica e di contrattabilità sociale delle norme economiche. È il caso tanto delle serie statutarie dedicate a fissare le logiche del recupero di crediti da parte dei comuni15 quanto delle infinite registrazioni notarili di debiti pagati o non pagati a gruppi professionali (un buon esempio ci è offerto, per Firenze, dalle imbreviature di Matteo Biliotto riguardanti i debiti vantati dalla società dei linaioli)16. In entrambi i casi l’abitudine storiografica a pensare le relazioni creditizie medievali italiane che stabilivano un prezzo del denaro, come comportamenti semi-legali ed estranei ad una piena rispettabilità economica risulta infondata e aprioristica. È infatti chiaro 14
Cfr. G. Todeschini, Theological Roots cit.; G. Alfani, Padri, padrini, patroni. La parentela spirituale nella storia, Venezia 2006. 15 Cfr. i testi statutari toscani riuniti in http://www.labinf-digips.unisi.it/statuta/ e, ivi, le rubriche riguardanti il percepimento di “interesse” o la riscossione di mutua da parte dei comuni; ad esempio, Asciano, 1465 (III 10/An/29v): «Che ‘l Podestà possa riscuotere da’ debitori del Comune. Statuiro ancora che al Podestà et a suo Vicario sia lecito potere rischuotere ogni quantità di denari, e quali el Comune dovesse avere da qualunque persona et per qualunque cagione si fusse, i quali fusseno scripti debitori su qualunque libro del Comune di Sciano et di tucto quello che in verità riscuoterà et alle mani del Camarlingho farà pervenire, habbi da tale debitore soldo uno per ciascuna lira». Cfr. D. Ciampoli, Lo statuto del comune di Asciano del 1465, Siena 2000; Bibliografia delle edizioni di statuti toscani secoli XII-metà XVI, cur. L. Raveggi - L. Tanzini, Firenze 2001(Documenti di Storia Italiana, ser. II, 9). 16 Ser Matteo di Biliotto Notaio, Imbreviature. I Registro (anni 1294-1296), edd. M. Soffici - F. Sznura, Firenze 2002. Cfr. Notaires et crédit dans l’Occident méditerranéen médiéval, cur. F. Menant - O. Redon, Rome 2004.
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che, tanto nel primo quanto nel secondo caso, il debito e la sua registrazione normativa o notarile non soltanto dimostrano l’esistenza di un vincolo d’obbligazione, ma, di più, attestano tutto l’onore di appartenere a gruppi, governativi o professionali, sia in veste di creditori sia in veste di debitori. L’esibizione scritturale del debito da restituire, sub poena dupli, ovvero cum damnis, expensis et interesse, ossia maggiorato da un interesse di tipo usurario, aveva nelle scritture ufficiali tutta la pubblicità di una transazione onorevole, ben lontana dunque dalla ambiguità del prestito mascherato come in genere si ritiene: questa relazione economica e fiduciaria era in effetti sistematicamente qualificata da un pagamento aggiuntivo alla somma prestata o di cui si vantava il credito; se l’importo dell’interesse non veniva quantificato formalmente, ciò dipendeva dal fatto che esso era inteso o come prezzo della gratitudine risultante da un mutuo amichevole comprensiva di una compensazione di spese, o come ammenda punitiva da definirsi in base alle definizioni specifiche del mancato o ritardato pagamento. L’intera configurazione dei rapporti di credito-debito, per come ci è rivelata dalle definizioni statutarie, e dalle registrazioni notarili, ossia da documenti pubblici, mostra dunque sino a che punto da un lato lo spazio economico cittadino italiano tre e quattrocentesco ritenesse onorata la relazione creditizia e costoso il denaro ove credito e denaro fossero gestiti da soggetti indiscutibilmente ossia per definizione ritenuti utili al Corpo sociale, e dall’altro facesse discendere il significato di una transazione economica dal prestigio di gruppo di coloro che la attivavano. Il problema non era costituito, in sostanza, per legislatori, civilisti, canonisti e teologi dal denaro e da una sua astratta sterilità17, ma dal significato sociale e politico ovvero dalla rispettabilità e dunque dal valore civico riconosciuti a coloro che lo facevano circolare, lo spendevano e lo pagavano. In questa prospettiva, le ricerche recentissime di Gabriella Piccinni sulla vita economica e i dibattiti antiusurari nella Siena trecentesca18, di Anna Esposito sulla definizione di inaffidabilità di forestieri e socialmente disinseriti nella Roma del Quattrocento19, e di Antonella Astorri sul potere del tribunale della Mercanzia nella Firenze trecentesca di definire il senso e i confini della 17 Cfr. G. Todeschini, Eccezioni e usura nel Duecento. Osservazioni sulla cultura economica medievale, «Quaderni Storici», 44/2 (2009), pp. 351-368. 18 G. Piccinni, Il sistema senese del credito nella fase di smobilitazione dei suoi banchi internazionali. Politiche comunali, spesa pubblica, propaganda contro l’usura (1332-1340), in Fedeltà ghibellina affari guelfi, cur. G. Piccinni, Pisa 2008, pp. 209-289. 19 A. Esposito, Minoranze e credito: il caso di Roma tra medioevo e rinascimento, in Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal Medioevo all’Età Moderna, Asti, in corso di stampa.
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reputazione economica , permettono di capire a fondo quanto la fama economica fosse questione determinata da elaborazioni discorsive e da sentenze prodotte in ogni caso da una ristretta minoranza di detentori del potere economico. Il fatto che l’attentato alla buona reputazione di un mercante noto e socialmente ben inserito ci sia testimoniato a Firenze, come ha messo in luce Antonella Astorri, da carte processuali che narrano storie di truffe ordite da infedeli e stranieri ignoti alla città cristiana ai danni di mercatores di ottima fama, e che la forma di tali ipotetici inganni sia quella di una rivendicazione di credito, negata con successo grazie all’intervento del Tribunale della mercanzia fermamente intenzionato a difendere l’onore economico di chi è al sopra di ogni sospetto, ci induce a riflettere non soltanto sui modi di costruzione della colpa economica in Italia fra Tre e Quattrocento, ma anche sulla indubitabilità della parola di chi, a Firenze come a Roma, a Milano come a Siena, faceva parte della piccola schiera dei super-cittadini ovvero di quelle che Edwyn Hunt ha denominato «the medieval super-companies»21. Il «numero piccolo di cittadini che ordinassono e pacificassono i cittadini e la terra» e che, stando alle parole di Giovanni Bentivoglio per come ce le riferisce il Morelli nelle sue memorie, riteneva di avere un maggiore diritto di amministrare la realtà cittadina22, si impone sempre più dal Tre al Quattrocento come protagonista privilegiato della vita economica italiana23. Questo modello di élite o di oligarchia ha 20
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A. Astorri, Mercanti e giustizia a Firenze nel Trecento: un processo per frode contro un ebreo nel tribunale della Mercanzia, in From Florence to the Mediterranean and Beyond. Essays in Honour of Anthony Molho, D. Razmada Curto - E. R Dursteler - J. Kirshner, cur. F. Trivellato, Firenze 2009, pp. 83-102. 21 E.S. Hunt, The medieval super-companies. A study of the Peruzzi company of Florence, Cambridge 1994. 22 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori cit., IV: «Giovanni Bentivoglio si fé Signore di Bologna. Tornati da Bologna i nostri cittadini, passata la mortalità, vi furono certe novità, però che i bolognesi teneano molte amicizie con signori, e toccavano provvigioni e presenti e caccabaldole e frasche. E non vedevano il disfacimento loro: però che chi era amico del Duca volea quello che ‘l Duca, chi era amico del Marchese procurava la volontà del Marchese, e così chi era d’Astore faceva il simile. E tanto furono da loro aizzati che non v’era pace. Il perché seguì che uno Giovanni Bentivoglio, di franco animo e savio, ma pieno di baldanza e di seguito di certi Becherini, uomini bassi, a un punto preso e a certa discordia, consigliò che non era possibile la terra istesse in quella forma e che bisognava provvedere di certo numero piccolo di cittadini che ordinassono e pacificassono i cittadini e la terra, e certe altre parole intorno alla sua intenzione. E detto ch’egli ebbe, gli amici suoi dissono ch’egli era buono egli e ch’egli avesse a suo consiglio certi altri de’ maggiori, per non gli schiudere così tosto; e in effetto egli avea sì provveduto e dentro e fuori che non fu detto il contradio, e fu fatto Signore di Bologna […]». 23 Cfr. ora la sintesi storiografica con bibliografia e raccolta di fonti, di A. Zorzi, Le signorie cittadine in Italia (secoli XIII-XV), Milano 2010.
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tuttavia il suo punto di forza politico nella capacità che, fra centro e nord italiano, già fra Due e Trecento, esso ricava dalla capacità che lo caratterizza di presentarsi come fautore e produttore di un bene comune economico altrimenti impossibile, di un equilibrio governativo come quello che Giovanni Villani poteva attribuire alla competenza dei «XXXVI buoni uomini mercatanti e artefici, de’ maggiori e migliori che fossono nella cittade»24 che, a Firenze, nel 1266 venivano creando un meccanismo di controllo economico e politico potente come quello delle Arti maggiori e minori25. Se, tuttavia, la reputazione economica, quale ci appare da molti indizi, era faccenda dipendente dalla appartenenza di gruppo, e, per esempio, non erano l’esercizio del prestito a interesse, o la pratica creditizia, a determinare l’accusa di usura, ma piuttosto la condizione di usuraio manifesto e conclamato, o l’autodenuncia, o la resistenza a pagare quanto dovuto, a imporre uno stigma di estraneità e il ruolo di nemico del bene pubblico, ci si deve domandare come la condizione di cittadino e l’appartenenza alla civitas fossero in realtà connesse ai comportamenti economici e alla fama che poteva derivarne. Bisogna prima di tutto distinguere con una certa cura fra le dichiarazioni formali di cittadinanza, così come venivano registrate in molte città italiane, dipendenti che fossero dall’acquisizione di proprietà immobili o da privilegi concessi per meriti particolari26, da un grado più profondo di cittadinanza come poteva essere quello derivante dalla reputazione economica, in se stesso debolmente connesso alla registrazione ufficiale, ma tipico di un basso medioevo cittadino italiano, che appunto riguardo alla nozione di appartenenza al corpo cittadino aveva sviluppato un massimo di ambiguità, non fosse altro perché la convalida
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24 Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, Parma 1991, VIII 13 (Come in Firenze si feciono i XXXVI e come si diede ordine e gonfaloni a l’arti), leggibile in http://www.classicitaliani.it/villani/cronica_08.htm 25 Cfr. ora Florence et la Toscane, XIVe-XIXe siècles. Les dynamiques d’un État italien, a cura di J. Boutier, S. Landi, O. Rouchon, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2004, e la discussione di G. M. Varanini, A proposito di Firenze e dello stato fiorentino nei secoli XIV-XV, in «Reti Medievali - Rivista», 11 - 2010/1 (gennaio-giugno), http://www.rivista.retimedievali.it; cfr. G. A. Brucker, The Civic World of Early Renaissance Florence. Princeton 1977; A. Astorri, La Mercanzia a Firenze nella prima metà del Trecento. Firenze 1998. 26 J. Kirshner, Paolo di Castro on cives ex privilegio: A Controversy over the Legal Qualifications for Public Office in Early Fifteenth-Century Florence, in Renaissance. Studies in honor of Hans Baron, cur. A. Molho - J.A. Tedeschi, Firenze 1970, pp. 229-264. Cfr. E. Brambilla, Appartenenze di nascita e di fede. Battesimo e giuramenti di cittadinanza confessionale, in La fiducia secondo i linguaggi del potere cit., pp. 179-199; nel complesso: P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, RomaBari 1999.
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delle identità civiche dipendeva da un groviglio giurisdizionale di cui facevano parte la norma canonica, la pratica sacramentale, il diritto locale e quello comune. Proprio perché essere cives era in ogni caso il risultato di una composizione, del sovrapporsi di differenti aspetti della identità personale, ed equivaleva ad una risposta molteplice alle esigenze di riconoscibilità stabilite da poteri e da istanze di giustizia differenti, la vox publica, o almeno quanto il gioco dei poteri ammetteva o doveva ammettere della vox publica, giocava un ruolo importante nella definizione della cittadinanza e soprattutto di quella legata a comportamenti economici ossia pubblicamente visibili e presupposti, tanto dal vocabolario della tradizione teologica, quanto da quello della codificazione canonistica e civilistica, come fondamento della felicità pubblica e del bene comune. In altre parole, la relazione fra reputazione economica ed appartenenza civica risultava nell’Italia delle città tre-quattrocentesche dal sottile equilibrio che si determinava fra riconoscibilità pubblica, attestata dalla rinomanza, e partecipazione ai riti di una socialità di mercato convalidata istituzionalmente, ma anche a livello dottrinario dalla élite giuridica, teologica ed economica che amministrava il potere nelle città e che era espressa dal sistema dominativo delle famiglie di antica o recente ricchezza. La definizione corrente del risultato di un tale non facile equilibrio, riassunta da definizioni ingannevolmente limpide come quella corrente nelle memorie mercantili di «onorevole cittadino e buono mercatante», non deve nasconderci la complessità reale di cui si intesseva la piena cittadinanza fondata su una buona fama economica27. Gli scritti memorialistici e didascalici dei mercatores italiani di successo illustrano, fra Tre e Quattrocento, e con una certa chiarezza, se osservati da vicino, la complessità di una fama economica in grado di fondare una cittadinanza indiscutibile. Proprio il fatto che in queste dichiarazioni di identità appaia esplicitamente la necessità di un intreccio tra abitudini, scelte economiche e sociali, e strategie politiche di inserimento comunica al lettore e mette in pubblico quanto la fama di “buon mercante” e buon cittadino sia questione da contrattarsi con i poteri e gli ambienti che, nella città, fanno e cioè dominano il mercato. Già Pegolotti, nella celebre introduzione versificata al suo manuale di mercature, per definire «Quello che dee avere in sè il vero e diritto mercatante», deve comporre un elenco alquanto eterogeneo di comportamenti in grado di far riconoscere nel mercator un membro credibile della società cittadina. Onestà (dirittura), e pre27
Cfr. G. Todeschini, Theological Roots cit.; «Médiévales», 24 (1993), La renommée, Saint-Denis, Publications de l’Université de Paris VIII; Fama. The Politics of Talk cit.
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vidente accortezza (provedenza) lo devono qualificare, ossia atteggiamenti tanto morali quanto tecnicamente economici. Al tempo stesso la sua parola deve essere ritenuta affidabile («ciò che promette non venga mancante»), e il suo aspetto onorevole e piacevolmente accogliente («sia se può di bella e onesta contenenza […] fuori di rampogna con bella accoglienza»). Cautela economica, intelligenza contrattuale, e buoni rapporti col mondo ecclesiastico ne faranno un protagonista apprezzato del mercato («scarso comperare e largo venda […] la chiesa usare e per Dio donare crescie in pregio, e vendere a uno motto»). La sua visibilità di commerciante dovrà infine ben distinguersi dall’infamia del gioco d’azzardo e dell’usura manifesta, risultando invece da una costante professionalità contabile («usura e giuoco di zara vietare e torre via al tutto. Scrivere bene la ragione e non errare»)28. Non può sfuggire che questo sistema di qualità fa dell’abilità di inserimento sociale un aspetto decisivo della capacità gestionale e aziendale: per essere considerati bravi mercanti bisogna prima essere riconosciuti come cittadini nel senso pieno del termine da quanti – l’Arte della Mercanzia, la Chiesa, le grandi famiglie, la pubblica opinione – organizzano la credibilità di chi gioca i giochi del mercato. Pochi anni dopo, Benedetto Cotrugli si diffonderà ancora su tutto questo, ma insisterà, divulgandolo, su un aspetto della competenza e dunque della reputazione economica dell’uomo d’affari, la resistenza del corpo e della mente, una sorta di stoicismo economico, che, pur accennato e presente tra i mercanti scrittori del Trecento, poiché radicato in una lunga ed antica tradizione discorsiva, messa a punto nell’ambito delle riflessioni sulla credibilità mercantile della scuola economica francescana (Olivi, Scoto e avanti, fino a Bernardino da Siena e Matteo d’Agrigento29), e in grado di connettere ascesi e mercatura, stava diventando nel Quattrocento un segno distintivo 28 Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, ed. A. Evans, Cambridge/Mass. 1936, p. 20; cfr. G. Todeschini, Cristianesimo e modernità economica, in Le religioni e il mondo moderno, cur. G. Filoramo, I: Cristianesimo, cur. D. Menozzi, Torino 2008, pp. 87-108. 29 P. Evangelisti, Fede, mercato, comunità nei sermoni di un protagonista della costruzione dell’identità politica della corona catalano-aragonese. Matteo d’Agrigento (1380 c.1450), in «Collectanea Franciscana», 73 (2003), pp. 617-664; Evangelisti, La caritas cristomimetica francescana come strumento di costruzione della credibilità politico-economica (XIII-XV secolo), in Politiche del credito. Investimento, consumo, solidarietà (Atti del Congresso internazionale, Asti, 20-22 marzo 2003), Asti 2004, pp. 84-112; Evangelisti, Mercato e moneta nella costruzione francescana dell’identità politica (Relazione al seminario “Forme di razionalità economica medievale” dell’Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma, 14 novembre 2005), «Reti Medievali - Rivista», 7/1 (2006), <http://www.dssg.unifi.it/_RM/rivista/saggi/Evangelisti.htm>.
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della appartenenza del grande mercante al mondo delle aristocrazie cittadine. Scrive dunque Cotrugli, dopo aver nettamente distinto lo stile economico, spassionato e indifferente al denaro in se stesso, del vero mercante, da quello gretto dei rivenditori, degli inesperti del mercato o, peggio, degli usurai e della gente da poco, che quanto in definitiva fa del professionista del mercato una persona specialmente nobile è la capacità di «durare gran fatica di giorno et di nocte, camminare personalmente a pie et a cavallo, per mare, per terra, et così affaticarsi nel vendere et nel comperare, et usare in tucte simili facciende quanta diligentia è possibile, posponendo ogni altra cura non solamente di cose superflue, ma etiamdio di quelle che sono necessarie alla conservatione della humana vita. Et però n’occorre alcuna volta il differire il mangiare et bere et dormire, anzi è necessario di tollerare fame, sete et vigilie et simili altre cose che sono noiose et contrarie alla quiete del corpo; il quale se non fussi acto come dextro instrumento, non potrebbe sopportare, et sopportandolo ne riceverebbe incommodità, alla quale di necessità sequirebbe infirmità et di poi morte. Onde di due inconvenienti ne sequirebbe l’uno, o veramente che non pigliando simili exercitii come si conviene non sarebbe il proposito et cet., nè verrebbe al suo desiderato fine, o che facciendolo non potrebbe per la disaptitudine del corpo perseverare et perseverando chascherebbe nella infirmità et morte. Et perché l’uno et l’altro di questi due inconvenienti extremi sono da schifare, diciamo et confirmiamo ch’egli è sommamente utile et ancora necessario l’avere il corpo in buona dispositione, acto a simile essercitio, il quale a questa opera della consequition del fine concorrerà come instrumento adacto non altrimenti che si facci il martello che concorre come dextro instrumento del fabbro quando fabrica l’acuto»30. L’uomo d’affari superiormente dotato, a buon diritto riconoscibile come componente della élite cittadina e al tempo stesso così padrone di sé da sdegnare il denaro in quanto tale, ha nel suo stesso corpo, ammaestrato e ben esercitato, il primo strumento di un successo che è soprattutto ascesa sociale. Si tratta, però, di una forza fisica e di una resistenza, di una tenacia, prodotte da un’acutezza mentale in se stessa segno di elezione. «Il corpo dev’essere acto a supportare li affanni, non dico però che sia bastagio, perché communemente quelli che sono robusti et forti di loro natura non sono habili d’intellecto. Debbe dunque il mercante essere supportante li affanni et havere le sue carni molli et delicate, le quali demostrano la nobiltà dello intellecto, non dico corpi inbecilli per la inaptitudine al’exer-
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Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura cit., p. 144-145.
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citio, né dico facti bastagi et robusti, li quali communemente sono inscipidi et bestiali compagnoni et sanza fructo, la quale cosa è contrariissima allo mercante»31. La reputazione economica, in altri termini, fonda una supremazia civica poiché produce, al di là della competenza e anche del profitto, un’immagine divulgabile di superiorità intellettuale e politica. L’apparizione nel discorso del “bastagio”32 il facchino, a indicare la quotidiana e spregevole miseria di una forza fisica utile ma socialmente indegna, «inscipida e bestiale», ossia priva del sale dell’intelligenza e dello spirito e dunque subumana33, orienta evidentemente il ragionamento specificandone il senso che è tanto politico e antropologico quanto economico. La supremazia economica, ma anche l’incontrovertibile cittadinanza del vero mercante dipendono a questo punto da scelte e comportamenti la cui valenza, civica, religiosa, morale rivela in realtà una superiorità molto vicina a quella di sangue. Un abisso incolmabile separa la forza e la compostezza di questo esperto della ricchezza pubblicamente significativa dalla sciatta incompetenza del piccolo bottegaio, dalla avidità dell’usuraio o dalla smania di guadagno di «ignoranti, vedove, villani et homini che non sono usi alo exercitio della mercantia»34. Si tratta nel caso del grande mercante di essere e di apparire nella mente, nel corpo e nella amministrazione come uno di «quelli che sono ricchi et hanno il governo di molte cose et grandi», e che pertanto «debbono stare con l’intellecto sublevato et investigare le cose alte»35. La fama economica deve essere fama di un’identità centrale alla città, superiormente predisposta alla gestione della ricchezza come governo del bene comune: una vera e indiscussa reputazione economica fa tutt’uno, ci spiega Cotrugli, con l’appartenenza al gruppo esclusivo di coloro che sanno amministrare la cosa pubblica.
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Ivi, p. 145. Dal greco bastazein, bast¡zein, “portare”, “sopportare”, anche nel greco evangelico, “portare la Croce”: cfr. Luca, 14, 27; Giovanni, 19, 17; Paolo, Ad Romanos 15; cfr. F. Fanciullo, Facchino e facchini: le vicende di bastaso, bastagio, vastaso fra alta e bassa Italia, Occidente mediterraneo, Grecia, in Atti del Convegno di Studi in memoria di Tristano Bolelli, Pisa 2003 (Studi e saggi Linguistici, 40-41), pp. 89-100; cfr. Lessicografia della Crusca in rete (http://193.205.158.203/cruscle/index.jsp), s. v. basterna. 33 Cfr. Todeschini, The Incivility of Judas cit., pp. 36 ss. 34 Benedetto Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura cit., p. 155 ss. 35 Ivi, p. 158: «[...] diverso debbe essere l’ordine nel governarsi secondo diverse facultà et capitali che l’homo ha, però che altrimenti si debbe governare un riccho molto et altrimenti uno riccho mezzanamente, et altrimenti uno povero, perché alcuni sono acti al governo di molti danari, alcuni di poco, alcuni sono buoni a essere famigli delli altri, però che quelli che sono ricchi et hanno il governo di molte cose et grandi, debbono stare con l’intellecto sublevato et investigare le cose alte, et per ragione, che si dice gran nave gran travaglio».
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Chi guida un’economia, come chi comanda una nave, dovrà dunque essere ed essere visto come uomo «temperato, continente, sobrio, domestico nello magnare, apto alle fatigie, acre et vivo, non avaro, non giovene, patre che agia figlioli, addire apto et ornato, de extimatione predito»36, ma ormai queste sue qualità ne segnaleranno più che la virtù generica o la competenza economica, il diritto di far parte della luminosa élite che, come aveva scritto Tommaso d’Aquino, può comandare all’infinito popolo di quelli devono ubbidire37.
36 Benedetto Cotrugli, De Navigatione, trascrizione provvisoria di Piero Falchetta, http://geoweb.venezia.sbn.it/cms/images/stories/Testi_HSL/Cotrugliy.pdf, f. 30r, Dello Capitanio De Mare, c. V. 37 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II IIae, q. 70, a. 3, Utrum alicuius testimonium sit repellendus absque eius culpa, Respondeo: «[...] ex exteriori conditione, sicut sunt pauperes, servi et illi quibus imperari potest, de quibus probabile est quod facile posssint induci ad testimonium ferendum contra veritatem […]»; ivi, I IIae, q. 105, a. III, ad 2um, sulla questione della cittadinanza secundum quid e simpliciter: «[...] dicendum quod, sicut philosophus dicit, in III Polit., dupliciter aliquis dicitur esse civis, uno modo, simpliciter; et alio modo, secundum quid. Simpliciter quidem civis est qui potest agere ea quae sunt civium, puta dare consilium vel iudicium in populo. Secundum quid autem civis dici potest quicumque civitatem inhabitat, etiam viles personae et pueri et senes, qui non sunt idonei ad hoc quod habeant potestatem in his quae pertinent ad commune. Ideo ergo spurii, propter vilitatem originis, excludebantur ab Ecclesia, idest a collegio populi, usque ad decimam generationem». Cfr. Tommaso d’Aquino, Sententia libri politicorum, Lectio 4, in Opera omnia, 47, Roma 1971.
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Attorno a metà Trecento, nel suo Libro di buoni costumi, Paolo da Certaldo scriveva: «Se fai mercatantia e co le tue lettere vengano legate altre lettere, sempre abbi a mente di leggere prima le tue lettere che dare l’altrui. E se le tue lettere contassoro che tu comperassi o vendessi alcuna mercatantia per farne tuo utile, subito abbi il sensale, e fa ciò che le tue lettere contano, e poi dà le lettere che sono venute co le tue. Ma no le dare prima che tu abbi forniti i fatti tuoi, in però che potrebboro contare quelle lettere cosa che ti sconcerebboro i fatti tuoi, e il servigio ch’avresti fatto de la lettera a l’amico o vicino o straniero ti tornerebbe in grande danno: e tu non dei servire altrui per disservire te e’ fatti tuoi»1. Questo breve precetto ben sintetizza l’importanza che giustamente veniva attribuita dai mercanti alle informazioni che arrivavano attraverso la corrispondenza commerciale. Essere pìù informati, evidentemente, dava enormi vantaggi competitivi. Come, assai più recentemente, ha sottolineato North, «the name of the game is to raise the cost of transacting to the other party to the exchange. One makes money by having better information than the adversary»2. Per questa ragione, la scarsella fiorentina, cioè quel servizio di posta – su cui ci soffermeremo – organizzato da una società stipulata tra alcune compagnie nel 1357, consegnava le lettere ai soci 2448 ore prima di quanto non le recapitasse agli altri che utilizzavano i suoi
1 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, in Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, cur. V. Branca, Milano 1986, pp. 1-99: 49 nota 251. 2 D.C. North, Transaction Costs in History, «The Journal of European Economic History», 14 (1985), pp. 557-576: 564-565. Un simile concetto esprime Y. Renouard: «La sete d’informazione non è per nulla disinteressata. Gli uomini d’affari vogliono conoscere le notizie al più presto non solo per prendere posizione in funzione degli avvenimenti, ma soprattutto per farlo prima dei concorrenti: solo in questo modo possono realizzare grandi profitti ed evitare perdite in un mondo economico in cui tutte le attività da loro svolte sono parallele» (Gli uomini d’affari italiani del Medioevo, Milano 1995, p. 244).
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servizi ; e per lo stesso motivo, alcuni mercanti – come vedremo – pagavano un «vantaggio» ai fanti per far sì che la propria corrispondenza giungesse a destinazione prima di quella degli altri. I mercanti, quindi, “inondavano” le strade d’Europa di corrieri: essi avevano infatti una grande fame di notizie, evidenziata dai reiterati «informami … dimmi … scrivimi» che caratterizzavano le loro lettere4. Lo scambio delle informazioni ovviamente doveva basarsi sulla reciprocità. Lo si evince ad esempio da quanto scriveva nel 1395 da Damasco Beltramo Mignanelli alla compagnia Datini di Barcellona: «Quando mi scrivi, sempre me n’avisa a pieno; e come n’è costà e che upinione n’ài; e de’ navili si partono di costà per di qua e del carico loro: e così farò io a te»5. Durante la prima fase di sviluppo delle fiere, eventi chiave della rinascita dell’economia medievale e punti di incontro tra mercanti di luoghi lontani, la diffusione delle informazioni era portata da coloro che vi partecipavano e in forma soprattutto orale. Gli operatori vedevano le merci che compravano e quindi non avevano bisogno se non di poche, generali, notizie. Se si restava nella propria sede, il flusso informativo non sviava dal percorso da e per le fiere. Ma a partire dal XIII secolo il mercante “dai piedi polverosi” divenne stanziale: il suo segno distintivo, ora, erano le dita macchiate d’inchiostro6. Nel nuovo modello organizzativo, le grandi compagnie italiane avevano filiali sparse per l’Europa e con esse dovevano comunicare per prendere decisioni strategiche relative a operazioni effettuate in località lontane: era quindi importante conoscere prezzi, tassi di cambio, disponibilità dei diversi prodotti sul mercato e altri dettagli che facilitassero lo svolgimento di banca e mercatura. Non vi è dubbio che i mercanti italiani del Medioevo fossero dei grafomani7. La necessità di mandare e ricevere lettere è quindi frequentemen-
3 Y. Renouard, Information et transmission des nouvelles, in L’histoire et ses méthodes, cur. C. Samaran, Paris 1961, pp. 95-142: 119. 4 A volte il desiderio di essere informati sconfinava nella stizzita impazienza: «Cela nous paraît mille ans d’attendre chaque heure de chaque jour des vos nouvelles de tout ce qui se passe là-bas […] par Dieu écrivez plus souvent!» scriveva Lorenzo Dolfin al suo agente di Bruges nel secondo quarto del XV secolo (B. Doumerc, Par Dieu écrivez plus souvent! La lettre d’affaires à Venise à la fin du Moyen Âge, in La circulation des nouvelles au Moyen Âge. Atti del XXIVe Congrès de la S.H.M.E.S. (Avignon, juin 1993), Roma-Parigi 1994, pp. 99-109: 99). 5 F. Melis, Documenti per la storia economica dei secoli XIII-XVI, Firenze 1972, p. 184, n. 27. 6 Nel Quattrocento Leon Battista Alberti faceva dire a Giannozzo: «stava così bene al mercatante sempre avere le mani tinte d’inchiostro» (I libri della famiglia, cur. R. Romano - A. Tenenti, Torino 1969, p. 251). 7 Per una valutazione più ad ampio raggio del rapporto tra i mercanti e la scrittura, e
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te sottolineata nei carteggi di molti mercanti medievali, così come nei manuali o pratiche di mercatura. Ad esempio, un anonimo operatore trecentesco sottolineava come «allo scrivere non si può essere tardo, e masimamente per lettere. La cartta costa pocho, e spesso ne recha buon profitto»8. Francesco Datini, in una lettera alla moglie del 1397, rimarcava come «non si puote erare a scrivere ispeso, in però che da una ora a un’altra apaio(n) chose nuove»9. Nel 1458, anche il raguseo Benedetto Cotrugli, autore del celebre Libro dell’arte di mercatura, si soffemava sull’utilità di tenere in ordine le proprie scritture, riferendosi non solo ai libri di conto, ma anche alle lettere, fonte inesauribile di informazioni sia per il presente che per il futuro: «Et anche vuole essere diligente alla penna, tanto in notare i libri, le facciende sua quanto nel rispondere alle lectere. Et mai non lassare nulla lectera per trista che sia che non li facci risposta, perché ognuna t’aporta qualche cosa, o in stante o in futurum»10. Luca Pacioli, nella sua Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità del 1494, il famoso trattato che per primo – nella sezione intitolata Tractatus de computis – formalizzò l’uso della partita doppia nella tenuta dei conti, enfatizzava con grande dettaglio i vantaggi derivanti dal catalogare e riordinare bene le lettere inviate (di cui si facevano copie) e ricevute11. D’altronde, il giovane Lorenzo Strozzi si compiaceva della propria rapidità nello scrivere lettere, attività cui, subito dopo l’arrivo a Valenza nel 1446, dedicava l’intera giornata: «no mi rincresce a scrivere: sto tutto dì nello scrittoio, e copio il dì dodici lettere: iscrivo tanto presto, che ve ne maraviglieresti». Più incline alla lamentela era invece Giovanni Morelli che nel 1509, da poco giunto a Lisbona, stava «tutto el dì e mezza la notte nello
più in generale tra lo sviluppo economico e la nascita dell’umanesimo fiorentino, si veda C. Bec, Les marchands écrivains. Affaires et humanisme à Florence, 1375-1434, Paris 1967. 8 G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio Storico Italiano», 110 (1952), pp. 114-119: 118. 9 Le lettere di Francesco Datini alla moglie Margherita (1385-1410), ed. E. Cecchi, Prato 1990 (Biblioteca dell’Archivio Storico Pratese, 14), p. 184. Persino durante la nascita del proprio figlio, Bindo Piaciti, corrispondente a Venezia dello stesso Datini, era intento a scrivere al mercante pratese: «Posta e postini» nella documentazione di un mercante alla fine del Trecento. Catalogo della mostra cur. E. Cecchi - L. Frangioni, Prato 1986 (Quaderni di storia postale, 6), p. 6. E d’altra parte, ancora Datini, sentendo approssimarsi la propria morte, si sfogava con l’amico e corrispondente milanese Bassano da Pessina: «in vita mia non ò fatto altro che scrivere!» (L. Frangioni, Il carteggio commerciale della fine del XIV secolo: layout e contenuto economico, «Reti Medievali - Rivista», 10 (2009), pp. 1-39: 2, url: <http://www.retimedievali.it>). 10 B. Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura, ed. U. Tucci, Venezia 1990, p. 217. 11 L. Pacioli, Trattato di partita doppia, ed. A. Conterio, Venezia 1994, pp. 103-106.
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ischrittoio a schrivere, sì che si dura fatica assai»12. I toscani in particolare mostravano una forte propensione alla scrittura, tanto che talvolta manifestavano fastidio per il diverso comportamento di altri operatori: «e non sono gente scrivono al modo nostro, pesa loro la penna!»13. Un flusso informativo completo e dettagliato, dunque, era tanto più importante quanto più lontani erano i mercati con cui ci si trovava a commerciare. Preliminarmente, i mercanti utilizzavano le Pratiche di mercatura, manuali pieni di dettagli su pratiche commerciali di vari paesi (o città), pesi e misure, dazi doganali, tassi di cambio, etc. Ma si trattava di notizie “statiche”, a volte vecchie di anni; se la parte relativa alle unità di misura e ad alcuni altri elementi rimaneva valida, erano necessarie anche informazioni “fresche” per far capire al mercante la strategia da scegliere. Ovviamente non si poteva pretendere un’informazione in tempo reale, ma si cercava di ottenere notizie la cui “età” non superasse il tempo postale. I mercanti-banchieri italiani furono anche in questo all’avanguardia, ed era noto che essi potessero fornire notizie aggiornate, di carattere economico ma non solo. Quando, nel 1348, papa Clemente VI, preoccupato della minaccia portata al Regno di Sicilia (suo vassallo) da Luigi d’Ungheria, non riusciva ad avere notizie attendibili, si rivolse ai fiorentini Alberti antichi, suoi banchieri di fiducia, perché si procurassero – e gli comunicassero – tutte le informazioni possibili14. Le reti informative dei mercanti, peraltro, riuscivano anche a carpire notizie che si tentava di mantenere nascoste. Per quanto riguarda l’espansione portoghese verso l’Asia, ad esempio, alcuni studiosi lusitani hanno ricollegato la scarsità di documenti del periodo compreso fra il regno di Giovanni I (1385-1433) e quel-
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A. Macinghi negli Strozzi, Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XVI ai figliuoli esuli, ed. C. Guasti, Firenze 1877, p. 30; M. Spallanzani, Mercanti fiorentini nell’Asia portoghese (1500-1525), Firenze 1997, p. 42. Anche Ambrogio Rocchi, scrivendo nel 1395 da Valenza, si lamentava: il «cervello non mi basta a tanto scrivere» (Mercanzie e denaro: la corrispondenza datiniana tra Valenza e Maiorca (1395-1398), cur. A. Orlandi, Valencia 2008, p. 15 nota 18). Tale impegno, peraltro, non era richiesto solo ai giovani: nello stesso 1395, da Avignone, un altro mercante enfatizzava la «faticha dello iscrivere perché abiamo pasato anni 61 e ora è mezanote e abiamo a scrivere sino a dìe e a scrivere ci àvi tutta la note» (M. Giagnacovo, Guerre, epidemie e privato: il contenuto extra-economico del carteggio commerciale, «Reti Medievali - Rivista», 10 (2009), pp. 1-37: 5 nota 20, url: <http://www.retimedievali.it>). 13 Archivio di Stato di Prato (d’ora in poi ASPo), Datini, 657.6 / 107707, GenovaFirenze, Francesco Datini e Andrea di Bonanno a Francesco Datini e Stoldo di Lorenzo, 10.11.1394, pubblicata da M. Giagnacovo, Mercanti toscani a Genova. Traffici, merci e prezzi nel XIV secolo, Napoli 2005, p. 35 nota 42. 14 Renouard, Information et transmission des nouvelles cit., pp. 123-124.
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lo di Emanuele I (1495-1521) a una politica di segretezza (sigilo), perseguita dai sovrani della dinastia Aviz, che avrebbe celato un numero di imprese molto più cospicuo di quanto sia noto: studi successivi hanno invece sottolineato come la presenza di una così vasta comunità di mercanti stranieri, in continuo contatto con collaboratori o amici nella patria d’origine, rendesse quantomeno complicato il problema del mantenimento della segretezza15. A sostegno di quest’ultima tesi vengono ad esempio alcune considerazioni del mercante fiorentino Guido di Tommaso Detti il quale, trovandosi a Lisbona al ritorno della flotta di Vasco de Gama (che per prima aveva raggiunto l’India circumnavigando l’Africa), scriveva: «Questo re à fato torre tutte le charte da navichare sotto pena de la vita e chonfischazione de’ loro beni, coè ttutte quelle che danno lume di questa chosta, perché non si sappi quella gita, overo l’andare a chamino per quelle bande, accò non vi si meta altra gente. Chredo potrà ben fare ma tuto s’à a sapere»16. D’altronde, anche se guardiamo all’altra grande potenza iberica, fautrice dell’espansione europea verso il continente americano, il panorama può dirsi analogo: «Sono le lettere dei mercanti a costituire il nucleo più consistente della documentazione sui viaggi colombiani»17. Anche i mercanti veneziani contribuivano alla diffusione delle informazioni nella Serenissima, uno “Stato mercantile” la cui solidità era fondamentale per la prosperità dei mercanti stessi, i quali dunque si prodigavano in ogni modo per tutelare e favorire la Repubblica. Anche per questo, Venezia costituì sempre un centro rilevantissimo di informazioni, provenienti da fonti più o meno ufficiali, come testimoniano ad esempio le raccolte dei Diarii di Sanudo o di Priuli18. Per un periodo successivo (inizio
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15 La prima presentazione dettagliata sulla politica del sigilo fu di J. Cortesâo: Do Sigilo Nacional sobre os Descobrimentos. Crónicas desaparecidas, mutiladas e falseadas; alguns dos feitos que se calaram, «Lusitania», 1 (1924), pp. 45-81. Per quanto riguarda le opinioni critiche, si rimanda a B.W. Diffie, Foreigners in Portugal and the “policy of silence”, «Terrae incognitae», 1 (1969), pp. 23-34. 16 Firenze, Biblioteca Riccardiana (d’ora in poi BRF), Ms. 1910, c. 70v, pubblicata in C.M. Radulet, Vasco da Gama. La prima circumnavigazione dell’Africa, 1497-1499, Reggio Emilia 1994, pp. 195-196. 17 G. Airaldi, L’eco della scoperta dell’America: uomini d’affari italiani, qualità e rapidità dell’informazione, in Gli orizzonti aperti: profili del mercante medievale, cur. G. Airaldi, Torino 1997, pp. 225-237: 235. 18 H. Kissling, Venezia come centro di informazione sui Turchi, in Venezia centro di mediazione tra oriente e occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi. Atti del II Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia, 3-6 ottobre 1973), cur. H.G. Beck - M. Manoussacas - A. Pertusi, I, Firenze 1977, pp. 97-109: 103-104. I mercanti erano spesso utilizzati come spie dai vari governi e, altre volte, erano le spie a travestirsi da mercanti: per vari esempi di ambito veneziano, si veda P. Preto, I servizi segreti di Venezia. Spionaggio
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XVI-metà XVII secolo), Giorgio Doria ha sottolineato come i genovesi vantassero una «netta superiorità» su tutti i concorrenti europei proprio con riguardo alla capacità di acquisire notizie, grazie a una fitta rete di «informatori esperti», in grado di fornire «valutazioni con alto grado di attendibilità sullo svolgimento futuro dei processi economici nelle diverse piazze»19. Molto è stato scritto sulla formazione dei mercanti e sulla loro educazione. Non entreremo qui nel merito di un argomento che rischierebbe di condurci fuori tema; tanto per citare un solo esempio, basti menzionare la Cronica del Villani, che sottolinea il diffuso livello di istruzione dei giovani fiorentini, e non solo di quelli destinati a una carriera nel campo della mercatura: «Trovamo che fanciulli e fanciulle che stavano a leggere del continuo da VIIIM in XM. I garzoni che stavano ad aprendere l’abbaco e algorisimo in VI scuole da M in MCC. E quelli che stavano ad aprendere gramatica e loica in IIII grandi scuole da DL in DC»20. Altre città italiane raggiungevano gradi di istruzione relativamente elevati, ma anche all’estero, pur non arrivando al livello che essa aveva in Italia, la formazione dei mercanti presentava degli esempi di tutto rilievo. La formazione, dunque, era fondamentale; ma – come sottolineato da Braudel – «informarsi conta ancor più che formarsi e la lettera è anzitutto informazione»21.
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e controspionaggio ai tempi della Serenissima, Milano 20042, pp. 470-472. Per un quadro più ampio, si veda anche il recente F. De Vivo, Information and Communication in Venice: Rethinking Early Modern Politics, Oxford 2007. 19 G. Doria, Conoscenza del mercato e sistema informativo: il know-how dei mercantifinanzieri genovesi nei secoli XVI e XVII, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, cur. A. De Maddalena - H. Kellenbenz, Bologna 1986 (Annali dell’Istituto Storico italo-germanico, 20), pp. 57-121: 77-78. 20 G. Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, III, Parma 1991, p. 198 (Libro 12, cap. XCIV). 21 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), II, I giochi dello scambio, Torino 1981, p. 412. P. Jeannin ha sottolineato come si debba effettuare una distinzione fra notizia e informazione: la prima si riferisce a un avvenimento ben preciso, i cui effetti sui mercati non sono valutabili, perché non si riescono a isolare da quelli derivanti da fattori reali quali la domanda e l’offerta; le informazioni continue, ma anche più “ordinarie”, sono invece quelle che maggiormente determinano l’azione dei mercanti (La diffusion de l’information, in Fiere e mercati nella integrazione delle economie europee, secc. XIII-XVIII. Atti della XXXII Settimana di Studi [Prato 8-12 maggio 2000], cur. S. Cavaciocchi, Firenze 2001, pp. 231-262: 231-232). Interessante, in proposito, è anche l’analisi lessicale di J. Hayez sui termini del gruppi avvisare, informare e nuova / novella. Egli nota una prevalenza del primo in quanto, «dérivant de termes signifiant opinion ou prudence autant qu’avertissement ou conseil, il associait davantage à l’idée d’une transmission celle de sa finalité»; informare, invece, «évoquait surtout la première étape du processus d’information» (Avviso, informazione, novella, nuova: la notion de l’information dans les correspondences toscanes vers 1400, in Informations et société en Occident à la fin
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1. La trasmissione delle notizie: tempi e costi
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Un contributo rilevante per la diffusione delle informazioni commerciali era fornito dalle scarselle: esse erano promosse da consorzi di grandi mercanti, i quali affidavano il servizio di trasporto della corrispondenza (custodita nelle borse da cui il servizio stesso prende il nome) a privati o ad aziende, definendo con estrema precisione tutti i dettagli del viaggio, compresi gli itinerari e i premi o le penalizzazioni in caso di tempi più rapidi o più lenti rispetto a quelli accettati come standard. Evidenza sparsa di una corrispondenza tra Toscana e fiere della Champagne risale già alla seconda metà del Duecento22, ma la prima scarsella, organizzata da un gruppo di mercanti fiorentini residenti in parte a Firenze e in parte ad Avignone, è del 135723. Le più famose scarselle erano quella catalana (che da Barcellona portava lettere verso Bruges e verso Pisa-Firenze), quella fiorentina (Barcellona, Parigi-Bruges, Milano-Colonia-Bruges), quella lucchese (Bruges) e quella genovese (Barcellona, Bruges)24. Si trattava, insomma, di
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du Moyen Âge. Actes du colloque international [Montréal-Ottawa 9-11 mai 2002], cur. C. Bourdreau - K. Fianu - C. Gauvard - M. Hébert, Paris 2004, pp. 113-134: citazione p. 131). In questo contesto, tuttavia, tralasceremo queste distinzioni, considerando i due termini quasi come sinonimi. 22 Esempi del 1260 mostrano una regolarità di comunicazione, ma allo stesso tempo anche un suo stadio “primitivo”: infatti un mercante senese scriveva al socio di stanza nella Champagne chiedendo di non ripetere informazioni precedentemente comunicate, per evitare di generare confusione (R.K. Berlow, The Development of Business Techniques Used at the Fairs of Champagne from the End of the Twelfth Century to the Middle of the Thirteenth Century, «Studies in Medieval and Renaissance History», 8 [1971], pp. 3-31: 21). In una lettera del 1265, Andrea de’ Tolomei, da Troyes, scriveva a Siena che «sapiate que li uomini da Siena, que sono in questo luogho, ne mandaro in chomune messo al dietro de la fiera di Santaiuolo pasata, siccome soliono»; d’altronde, anche nell’altra direzione «lo meso de la merchantia non è anchora venuto» proprio a significare un’organizzazione strutturata (Lettere volgari del secolo XIII scritte da senesi, edd. C. Paoli - E. Piccolomini, Bologna 1871, pp. 49, 55). 23 G. Milanesi, Ordini della “Scarsella” de’ Mercanti Fiorentini per la corrispondenza tra Firenze e Avignone, «Miscellanea fiorentina di erudizione e storia», 1/10 (1886), Firenze 1902, rist. Roma 1978, pp. 149-153. Il documento, firmato da diciannove operatori e da un notaio, detta regole estremamente precise riguardo ai tempi e ai costi della consegna, prevedendo anche la possibilità che il fante «posa prendere ogni vantagio» (ovvero un compenso extra) in caso di consegna anticipata (p. 152). 24 F. Melis, Intensità e regolarità nella diffusione dell’informazione economica generale nel Mediterraneo e in Occidente alla fine del Medioevo, in Histoire économique du monde méditerranéen, 1450-1650, Mélanges en l’honneur de Fernand Braudel, I, Toulose 1973, pp. 389-424: 394-395 (rist. in Melis, I trasporti e le comunicazioni nel Medioevo, cur. L. Frangioni, Firenze 1984, pp. 179-223). Un patto della scarsella di Barcellona dell’8 gennaio 1395 è pubblicato in L. Frangioni, Organizzazione e costi del servizio postale alla fine del
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un sistema che può essere considerato precursore di quelle organizzazioni private, ma nate sotto licenza regia (l’esempio più illustre è il servizio creato dai bergamaschi Tasso, i quali, impegnati nel settore già attorno al 1300, gestirono le comunicazioni scritte dell’Impero asburgico a partire dalla fine del Quattrocento), a loro volta precorritrici dei moderni sistemi postali25. Esistono altri esempi, anche più precoci, di organizzazioni postali promosse o quanto meno controllate dal potere pubblico: nel 1305 il governo veneziano aveva riconosciuto lo statuto di una Compagnia dei corrieri, che era stata appena fondata per radunare tutti coloro che esercitavano tale mestiere nello Stato, ponendola sotto il controllo dei Proveditori di Comune; a Milano, a fine Trecento, esisteva un servizio di «corrieri del Signore», organizzato dai duchi ma aperto anche all’utenza privata26. I corrieri effettuavano singoli viaggi: compagnie o gruppi di compagnie mercantili-bancarie li impiegavano direttamente oppure appoggiandosi a maestri di corrieri, alcuni dei quali riuscirono ad approntare servizi notevolissimi per efficienza e ramificazione27. Le grandi compagnie che si rivolgevano a loro riuscivano spesso a diminuire le spese unendo alla propria corrispondenza quella di diversi mercanti o di altri. In alternativa, le compagnie potevano servirsi di fanti propri, votati spesso – ma non solo – alle comunicazioni più urgenti, oppure utilizzare soggetti occasionali, persone che, interne all’azienda o meno, si recavano nel (o passavano attraverso il) luogo di destinazione della lettera28.
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Trecento. Un contributo dell’Archivio Datini di Prato, Prato 1983 (Quaderni di storia postale, 3), pp. 59-63. 25 Come ha scritto Renouard, «les hommes d’affaires européens des XVIe et XVIIe siècles organisent pour le compte des États les systèmes postaux que leur prédécesseurs italiens des XIIIe et XIVe siècles avaient créés pour eux-mêmes» (Information et transmission des nouvelles cit., p. 119). Nella seconda metà del Cinquecento, erano famosi i «Fuggerzeitungen», notiziari predisposti dai mercanti-banchieri tedeschi Fugger perché tutta le rete di filiali ricevesse informazioni adeguate (G. von Pölnitz, Die Fugger, Tübingen 1999, pp. 293-296). 26 B. Caizzi, Dalla posta dei re alla posta di tutti. Territorio e comunicazioni in Italia dal XVI secolo all’Unità, Milano 1993, p. 212; Frangioni, Organizzazione e costi del servizio postale cit., pp. 25-27. 27 Ci limitiamo qui a citare il caso di Antonio Del Vantaggio il quale, da Firenze, copriva un’area comprendente tutta la penisola italiana e l’Europa occidentale (Ginevra, Lione, Catalogna, Lisbona, Bruges e Londra). Per i soli Cambini trasportava ben 400 lettere l’anno e in diciotto mesi, nel 1473-74, inviò ben 81 corrieri a Venezia per conto della compagnia Salutati-Serristori. Egli offriva anche sottoscrizioni annuali, come quella concordata nel 1473 con Filippo e Lorenzo Strozzi, che gli pagarono 40 lire perché gestisse la loro corrispondenza da e per Roma per un anno (R.A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence, Baltimore-London 2009, p. 95). 28 Melis, Intensità e regolarità nella diffusione dell’informazione cit., pp. 395-397.
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La diffusione del carteggio, dunque, oltre a permettere che le notizie si irradiassero a un numero di persone che esulava il semplice ambito aziendale, assumeva importanza perché quelle stesse aziende che organizzavano – dovevano organizzare – il servizio di trasmissione delle informazioni lo mettevano a disposizione anche di altri. I grandi mercanti-banchieri, cioè, erano in grado di offrire a una vasta clientela – certamente di rango e con ampie risorse – un servizio efficiente e puntuale, che pure richiedeva costi elevati. 1.1 I tempi
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Per dare un’idea sui tempi che si richiedevano nell’Europa del Quattrocento, presentiamo alcuni dati tratti da un ricco e dettagliato contributo di Melis: evidenzieremo qui esclusivamente i valori modali, avvertendo il lettore che la variabilità era comunque enorme e dipendeva da una vasta gamma di fattori. Se tale valore veniva preso come riferimento, uno scarto nel senso di una maggior rapidità era ovviamente assai apprezzato. I tempi erano tanto più variabili quanto più dipendevano da fattori esterni: gli invii per mare – che talvolta erano preferiti a quelli terrestri – subivano più degli altri l’alea delle condizioni meteorologiche e per questo si tendeva, finché possibile, a scegliere gli itinerari interni. Comunque, i percorsi erano in alcuni casi esclusivamente terrestri, in altri esclusivamente marittimi, in altri ancora prevedevano una combinazione delle due vie. Per avere maggiori garanzie, i mercanti spedivano più copie della stessa lettera attraverso vie diverse; e spesso inviavano con ogni missiva una copia di quella precedente. Si trattava insomma di combattere contro quello che Braudel ha efficacemente indicato come il «nemico numero uno»: lo spazio29. Da Firenze servivano 14 giorni per raggiungere Avignone, 23 per Barcellona, 27 per Bruges e 30 per Londra; da Bruges 4 per Parigi, 6 per Londra, 10 per Avignone, 23 per Barcellona e 22-28 per le città dell’Italia centro-settentrionale; da Barcellona 8 per Avignone, 17-23 per le destinazioni italiane del centro-nord, 23 per Bruges, 27 per Londra. La distanza più lunga era Bruges-Tana (Mar d’Azov), coperta in 72 giorni; nel complesso, però, il Levante non era così lontano, se sia per Alessandria d’Egitto che per Costantinopoli si impiegavano 38 giorni da Venezia (e, rispettivamente, 35 e 41 da Barcellona)30. 29 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, I, Torino 1976, p. 379. 30 Melis, Intensità e regolarità nella diffusione dell’informazione cit., pp. 398-419.
Queste valutazioni sono molto simili a quelle fornite da Giovanni da Uzzano nella sua
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La cosa che forse più di ogni altra dovrebbe impressionare il moderno osservatore è il ritmo delle partenze, che, fin da un’epoca piuttosto precoce, riguardava i collegamenti fra le principali piazze. A partire da metà XIII secolo l’Arte di Calimala inviava ogni giorno un corriere verso le fiere di Champagne e con la stessa cadenza quotidiana ne riceveva uno di ritorno31. Alla corrispondenza mercantile si aggiungevano ovviamente documenti di altro tipo, che pure, laddove divulgati, erano assai utili ai mercanti per delineare la propria strategia. Per quanto riguarda la corrispondenza diplomatica verso Venezia, attorno al 1500 arrivavano 2-3 corrieri a settimana da Roma, Milano e Firenze; uno da Napoli, Genova e Innsbruck; uno ogni 15 giorni da Parigi-Lione, Augusta e Budapest; uno al mese da Palermo, Madrid-Barcellona, Valladolid-Burgos-Bayonne-Lione, Londra, Costantinopoli e Alessandria32. 1.2 I costi
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Attorno all’anno 1400, il viaggio andata-ritorno di una scarsella tra Barcellona e Genova costava 18 fiorini: per tale cifra, tuttavia, essa portava fino a 30 mazzi di lettere (ovvero 120-150 lettere)33. Per servizi effettuati con corrieri speciali tra Firenze e Avignone, il costo poteva anche raggiungere – a metà Trecento – le cifre, elevatissime, di 10-20 fiorini. Nello stesso periodo, la compagnia di Iacopo e Bartolomeo degli Alberti spendeva poco più di 30 fiorini annui per le proprie «lettere andate e venute d’ogni parte»; sullo stesso livello (20-40 fiorini) si ponevano le spese del-
Pratica di mercatura del 1442 (pubblicata in G.P. Pagnini Del Ventura, Della decima e di varie altre gravezze & c., Lisbona-Lucca 1766, rist. anast. Bologna 1967, II/4, p. 103). 31 A. Sapori, La cultura del mercante medievale italiano, in Sapori, Scritti di storia economica, I, Firenze 1955, pp. 53-93: 71 nota 3. 32 P. Sardella, Nouvelles et speculations à Venise au début du XVIe siècle, Paris s.d. [1949], p. 64. 33 Melis, Intensità e regolarità nella diffusione dell’informazione cit., pp. 408, 424a nota 48. Nel periodo 1380-1500 il valore modale per quanto riguarda la durata di tale viaggio fu di 17 giorni in ciascuna direzione (pp. 405, 411). Secondo Frangioni, il costo del trasporto di un mazzo «scempio» di 5-7 lettere tra Barcellona e Genova, effettuato da un corriere «normale», era di 8 soldi nel periodo 1395-1411 (Organizzazione e costi del servizio postale cit., pp. 54-57); per altri dati relativi a tariffe a/da Avignone, Barcellona, Firenze, Genova e Valenza si veda ibid., p. 56. Della stessa autrice anche I costi del servizio postale alla fine del Trecento, in Aspetti della vita economica medievale. Atti del Convegno di Studi nel X Anniversario della morte di Federigo Melis (Firenze-Pisa-Prato, 10-14 marzo 1984), Firenze 1985, pp. 464-474.
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l’azienda avignonese di Francesco Datini nell’ultimo ventennio del secolo34. È stato calcolato che le grandi compagnie fiorentine quattrocentesche spendessero ogni anno tra i 50 e i 60 fiorini per spedire la propria corrispondenza35. A prima vista una somma di grande rilievo, pari allo stipendio annuo di un direttore di filiale, ma in realtà non così esorbitante, considerando quante lettere venivano inviate. L’archivio Datini, come noto, contiene circa 125.000 lettere commerciali per un arco di tempo di circa 45 anni: ma oltre 80.000 di queste vennero scritte nel solo decennio 13951405, con punte di 11-12.000 documenti annui36. Ovviamente il costo di una singola spedizione era commisurato al tempo impiegato e, quindi, l’onerosità decresceva parallelamente al decrescere della celerità; in ogni caso, solo pochi (governi, grandi mercanti-banchieri, cardinali, alcune corporazioni) potevano permettersi cifre rilevanti. La velocità, d’altronde, si pagava. A inizio Cinquecento, per percorrere i quasi 400 chilometri tra Venezia e Roma, un corriere veniva pagato 40-44 ducati se impiegava 40 ore, 30-40 ducati per 44 ore, 30-34 ducati per 48 ore, 20-24 ducati per 60 ore, 12-16 ducati per 72 ore e 10-12 ducati per 96 ore; per il percorso Venezia-Norimberga, si pagavano 78-80 fiorini di Reno nel caso di un viaggio durato 4 giorni, 48-50 per 5 giorni e 25-33 per 6 giorni37. Di volta in volta, quindi, si doveva valutare quanto davvero fosse importante la rapidità. Alcune notizie di carattere politico o militare avevano un particolare carattere di urgenza, che è naturale e sul quale non vale forse la pena di soffermarsi. Ma anche per un più proficuo svolgimento dei traffici, il tempestivo arrivo di una notizia poteva a volte essere fondamentale. Nel 1501, ad esempio, temendo di non trovare sul mercato siriano merci sufficienti a riempire le proprie stive, i veneziani, che si apprestava-
34 M. Spallanzani, Spedizioni e tempi di percorrenza, in R. Goldthwaite - E. Settesoldi M. Spallanzani, Due libri mastri degli Alberti. Una grande compagnia di Calimala, 13481358, I, Firenze 1995, pp. LXXXIII-XCIV: LXXXVIII-XCI. Ammontava invece a circa 13 fiorini annui la spesa della compagnia Datini di Firenze nel 1396-98 (p. XCI). 35 Melis, Intensità e regolarità nella diffusione dell’informazione cit., p. 420. 36 Secondo Frangioni, non è comunque «molto significativo il fissare medie annuali di spesa per il servizio postale»: dal punto di vista quantitativo esse acquisirebbero interesse solo se comparate con le altre voci del conto profitti e perdite; sotto l’aspetto descrittivo, invece, esse non costituirebbero un indice inequivoco di una maggiore o minore attività economica perché potrebbero sottintendere sia un’attività fervente che, al contrario, il desiderio di risollevarsi in un momento di ristagno (Organizzazione e costi del servizio postale cit., p. 37). 37 Sardella, Nouvelles et speculations à Venise cit., p. 50. Per avere dei valori di riferimento, nella Venezia del 1500 10 ducati corrispondevano al salario annuale dei meglio pagati fra i domestici, o al costo del pane consumato in un anno da una famiglia di tre persone adulte (pp. 52-53).
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no a salpare da Venezia con la muda di Beirut, mandarono in avanscoperta una piccola nave per avvertire i mercanti arabi che sarebbero arrivate quattro galee ben fornite: il patrono dell’imbarcazione sarebbe stato pagato 850 ducati se fosse arrivato in 18 giorni, 800 per 20 giorni e così via a scendere, con un’addizionale penalità di 25 ducati al giorno se fosse arrivato oltre il ventiquattresimo38. In generale poteva essere previsto un «vantaggio», cioè un cifra aggiuntiva, per stimolare una rapida consegna da parte di corrieri speciali. Tale «vantaggio», tuttavia, si poteva pattuire anche per la normale corrispondenza, compresa quella portata dalla scarsella: in questo caso i fanti, una volta giunti a destinazione, consegnavano le lettere per le quali avevano ricevuto il sovrappiù (ben specificato in base ai tempi di consegna) e trattenevano le altre. Molto chiare in tal senso sono le indicazioni fornite nel 1393 da due operatori pratesi in Avignone: «Noi siamo d’accordo con questo fante, ch’à nome Cola da Bisso, e abialli fatto vantaggio f. 3 ½ e chostà [a Genova] dè esser domenica a dì 9 a vespro; meno termine non à voluto perché sono chattivi tenpi da caminare e anche noi non abiamo voluta fare maggiore spesa. Se al termine v’è, dateli costì f. due; e abiamo di patto con lui che non deba rendere veruna lettera se none il mazo vostro e quello di Marchione de’ Marini e tutte altre lettere dèe sopratenere infin a l’altro dì a vespro. Se fa buono servigio lo contentate bene. Questo vantaggio non aremo preso se none perché voi abiate tenpo di parlare a Marchione e di seguire quanto in questa vi si dice inanzi per li altri costì si sappia nulla; fate d’esser con Marchionne sì tosto che ’l fante giugna, ancora se giugnesse di notte»39. E tuttavia, dati gli elevati costi di queste operazioni, anche quando si richiedevano tempi brevi si potevano porre dei limiti: nel 1394 Tommaso di ser Giovanni, agente della filiale avignonese del Datini in Milano, scrivendo alla compagnia datiniana di Genova sollecitava un rapido inoltro di alcune lettere verso Avignone («i’ priegho vi mettete un pocho di solecitudine di mandare preste queste lettere [...] fate vostra possa»). Allo stesso tempo, tuttavia, chiariva: «non s’intende ne mandiate però fante propio»40. 38 39
Ibid., pp. 50-51: il viaggio durò nella realtà ben 28 giorni. ASPo, Datini, 745.9 / 111031, Avignone-Genova, Francesco Benini e Niccolaio di Bonaccorso e compagni a Francesco Datini e Andrea di Bonanno e compagni, 31.10.1393, pubblicata da Giagnacovo, Mercanti toscani a Genova cit., p. 34. Si nota dal testo come la somma venisse liquidata in parte dall’azienda mittente e in parte da quella destinataria. Ciò era vero sia nel caso del «vantaggio» che in quello della corrispondenza ordinaria. Per altri esempi e per casi – più o meno giustificati – di mancato rispetto dei tempi, si veda anche Frangioni, Organizzazione e costi del servizio postale cit., pp. 44-46. 40 L. Frangioni, Milano fine Trecento. Il carteggio milanese dell’Archivio Datini di Prato, II, Firenze 1994, p. 172.
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2. Il contenuto delle lettere
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«Le lettere commerciali raggiungono rapidamente un livello piuttosto elevato, che conserveranno in seguito, poiché questo livello è la loro stessa ragione d’essere, la giustificazione dello scambio costoso di una corrispondenza sovrabbondante»41. L’enorme numero di lettere mercantili giunte fino a noi presenta ovviamente anche una gamma di argomenti che riusciremo solo in parte a riassumere in categorie. D’altronde, scopo di questo contributo non è tanto analizzare l’evento in sé, quanto la notizia dell’evento stesso. Innanzitutto, cominciando dalle tematiche più strettamente connesse allo svolgersi dell’attività dell’azienda, il contenuto delle lettere dipende anche dal ruolo ricoperto da chi le scrive e da chi le riceve. Se vi è un rapporto di subordinazione del destinatario nei confronti del mittente, è evidente che molto spesso si tratterà di richieste e di istruzioni; a parti invertite, il mittente subordinato darà risposte a quanto sopra e inoltre cercherà di fornire al maggiore tutti i dati che gli permettano di sviluppare la propria strategia economica. Nel caso di rapporti tra corrispondenti, prevarranno notizie relative a invii di merci, esecuzione di operazioni commerciali o finanziarie, aggiustamento di conti (accreditamenti e addebitamenti). In entrambe le circostanze – e anche in altri casi – potranno aggiungersi infine notizie riguardanti i prezzi, i tassi di cambio, gli arrivi o le partenze di navi, l’andamento dei raccolti. Già sintomo di una specializzazione – tanto che si distaccavano dalla lettera vera e propria, anche se a volte viaggiavano ad essa allegate – sono le cosiddette «valute di mercanzia», veri e propri listini di prezzi, elencati secondo la tipologia merceologica o l’unità di misura: ve ne sono esempi tardo-trecenteschi nell’Archivio Datini42. Per una gran parte il contenuto di queste lettere aveva un carattere privato, che legava espressamente mittente e destinatario. Tuttavia, alcuni di questi elementi, con un carattere più generale (prezzi di riferimento, tassi
41
412.
Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, II, I giochi dello scambio cit., p.
42 Melis, Documenti per la storia economica cit., pp. 38-39 e 298-321 nn. 86-94. Altri esemplari sono conservati nell’Archivio di Stato di Venezia per l’inizio del Quattrocento e in quello di Firenze per il XVI secolo (p. 38). L’Archivio Datini è ricco anche di «carichi di nave», ovvero elenchi di merci imbarcate o sbarcate (con le rispettive quantità): da essi si poteva quindi desumere la presenza di determinati prodotti nei porti. Ancora più antico è un listino, inviato a Venezia, relativo a merci disponibili sul mercato di Famagosta presumibilmente nel 1349 (Lettere di mercanti a Pignol Zucchello (1336-1350), ed. R. Morozzo della Rocca, Venezia 1957, pp. 123-125).
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di cambio, etc.), potevano essere divulgati43. E dovevano in qualche modo avere il carattere della pubblicità anche i «carichi delle galere» veneziani, i quali riguardavano operazioni promosse e organizzate dallo Stato44. Un riflesso economico lo aveva tuttavia anche un’ulteriore, ampia gamma di notizie. Le vicende politico-militari, ovviamente, erano valutate con grande attenzione: nel gioco mutevole delle alleanze, il commerciare con certe aree poteva ad esempio far venir meno privilegi precedentemente ottenuti in paesi nemici di queste; oppure il commercio con alcune zone poteva essere reso impossibile da embarghi. In aggiunta, operazioni belliche potevano anche mettere a repentaglio la sicurezza dei trasporti e rendere quindi le operazioni troppo rischiose. Il carteggio datiniano, ad esempio, è pieno di riferimenti alla Guerra dei Cent’anni che, fra tregue e recrudescenze, caratterizzò i rapporti tra Inghilterra e Francia, ma influenzò anche i traffici nella vivace area commerciale del Mare del Nord. Dall’altro lato, tuttavia, una guerra poteva aprire interessanti prospettive per chi fosse impegnato nel commercio di armi e armature45. Alcune volte le notizie di unioni matrimoniali di alto livello erano molto apprezzate: da un lato per le conseguenze diplomatiche che esse potevano avere (e si torna al caso precedente), dall’altro perché nozze fastose implicavano un’accresciuta domanda di prodotti di lusso, di cui i mercanti italiani erano grandi esportatori. Stessa considerazione può esser fatta relativamente all’elezione di un pontefice o di un sovrano, o alla visita di uno di questi grandi personaggi. Molto temute erano invece le notizie di epidemie, che a loro volta ricorrono con preoccupante continuità tra le migliaia di lettere superstiti. Ad esempio, nel 1425 Matteo Strozzi scriveva: «di qua per ora si lavora pochissimo e nonn è huomo in San Martino che vadia non che a comperare, ma a di‹...›dere bioccolo di lana; e sse qui credo ne sia cagone perché ci s’à sospecto della morìa, im però che continuamente ce ne muore. E ristorando l’uno de l’altro ne viene per dì 3 o 4. Iddio ci ponga rimedio»46. Gli eventi climatici venivano monitorati e riferiti per le conseguenze 43 44
Jeannin, La diffusion de l’information cit., pp. 244-250. U. Tucci, I listini a stampa dei prezzi e dei cambi a Venezia, «Studi veneziani», n.ser., 25 (1993), pp. 15-33: 17. 45 Su quest’ultimo aspetto si veda Giagnacovo, Guerre, epidemie e privato cit., pp. 7-8. 46 Firenze, Archivio di Stato (d’ora in poi ASF), Carte strozziane, Prima serie, 137, c. 181r (nuova numerazione 178r), Matteo Strozzi, in Firenze, a Pinaccio Strozzi e compagni, in Londra, 17 settembre 1423. L’unica merce di cui saliva enormemente la richiesta – nonché, conseguentemente, il prezzo – era la cera, utilizzata durante le cerimonie funebri (Giagnacovo, Guerre, epidemie e privato cit., pp. 8-9).
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che essi avevano sui trasporti e sui raccolti. Quello dell’approvvigionamento alimentare era un problema ovviamente molto sentito – anche al fine di evitare disordini sociali – e quindi grande attenzione veniva riservata alle notizie relative agli arrivi di grano, particolarmente via mare, in special modo in momenti di carestia. Matteo Villani sottolineava come «certezza non si può avere di grano che di pelago si aspetta» e quindi, per «dare larga speranza al popolo», suggeriva di «aprire i serrati granai cittadini»47. Infine, vi erano notizie di natura personale, dipendenti ovviamente dal legame più o meno stretto che intercorreva tra mittente e destinatario. Membri di una stessa famiglia si potevano scambiare informazioni sullo stato di salute, sui viaggi o sui matrimoni di altri parenti, mentre informazioni su amici e connazionali caratterizzavano le missive tra personaggi che vantavano comunque un rapporto di consuetudine. Tutto ciò, come vedremo, serviva anche a cementare un legame che poi avrebbe avuto riflessi positivi sull’affidabilità degli interlocutori e sulla qualità delle informazioni scambiate. Oltre che dalle informazioni vere e proprie, una parte del contenuto delle lettere commerciali era costituito dalle previsioni di chi scriveva, che potevano riguardare ambiti più specifici (arrivi di navi, abbondanza di raccolti, etc.) oppure prospettive più generali. Cambiamenti epocali, come ad esempio l’apertura della via marittima verso le Indie, determinavano considerazioni anche molto enfatiche. Presente a Lisbona al ritorno della flotta di Vasco de Gama, che giunse nella capitale portoghese con le stive cariche di spezie, il mercante-banchiere fiorentino Girolamo Sernigi non riuscì a trattenere il proprio entusiasmo: «a mio iudicio stimo che tutta la richeza del mondo sia trovata et già altro non si possa schoprire»48. Tutte queste notizie avevano ovviamente varie ripercussioni: sui prezzi, innanzitutto, con variazioni che, anche nell’arco di pochi giorni, potevano essere molto rilevanti. I mercanti, quindi, dovevano percepire con precisione e con sollecitudine la congiuntura di breve periodo, in modo da agire tempestivamente sul mercato. Come ha notato Sardella nel suo studio sul mercato veneziano, la variabilità dei prezzi era ancora maggiore nel caso di cattive notizie. Ciò aveva delle ripercussioni anche sul mercato delle assicurazioni (in particolare marittime), che si presentava estremamente volatile in tempi di incertezza49. 47 M. Villani, Cronica, L. III, cap. LXXVI, cit. in G. Pinto, Il lavoro, la povertà, l’assistenza. Ricerche sulla società medievale, Roma 2008, p. 158. 48 BRF, Ms. 2112 bis, c. 7v. 49 Sardella, Nouvelles et speculations à Venise cit., pp. 70-73. Nella prima parte del volume, l’autore ricostruisce l’andamento del mercato del grano e delle spezie a inizio Cinquecento, mettendolo in collegamento con gli eventi di quegli anni (pp. 19-37).
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3. L’informazione come vantaggio competitivo
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Pur senza dilungarsi su modelli econometrici e teoria dei giochi, è opportuno fare un accenno al problema dell’asimmetria informativa: un problema, peraltro, toccato dallo stesso Paolo da Certaldo nel brano citato all’inizio di questo contributo. In un recente articolo, incentrato su un’epoca a noi più vicina, Alessandro Stanziani ha evidenziato come il tema dell’informazione sia stato spesso trascurato dagli storici dell’economia e ha individuato la causa del problema nel fatto che le teorie economiche tradizionali (classica, marxista e neoclassica) partono dal presupposto di un mercato in concorrenza perfetta, in cui non vi è incertezza e in cui è il prezzo a fornire tutte le informazioni necessarie a prendere le decisioni strategiche. Le cose cambiano quando vi è asimmetria informativa: è questo un punto cardine dell’approccio neo-istituzionalista (di cui è rappresentante il già citato Douglass North), che sottolinea come la circolazione delle informazioni permetta di ridurre i costi di transazione e come il non ottimale comportamento degli attori economici non dipenda dal fatto che essi sono irrazionali, ma piuttosto dal fatto che essi non possiedono tutte le informazioni necessarie. Ci sarebbe peraltro da discutere sul fatto che tutti gli attori diano veramente la stessa risposta nel momento in cui possiedono la medesima informazione (in altre parole una cosa è l’acquisizione dell’informazione, altra è l’interpretazione che se ne dà alla luce dell’esperienza passata o del contesto); inoltre bisognerebbe anche segnalare il fatto che non tutte le decisioni dell’attore sono determinate da calcoli di convenienza economica (ma magari possono essere determinate da desiderio di prestigio, di potere, etc.); poi, può anche darsi che l’attore economico non tenga conto delle informazioni anche se esse sono disponibili; infine, bisogna tener distinti il processo di apprendimento (in base al quale l’attore può fare un diverso uso della stessa informazione in tempi diversi) dall’informazione stessa50. Anche nel Medioevo, ovviamente, si era consapevoli che tra le doti richieste al buon mercante vi fosse la «discrezione», ovvero la capacità di discernimento, di analisi. Perché se è vero che il primo passo era quello della raccolta delle informazioni, il secondo doveva essere quello della loro interpretazione ai fini di un appropriato utilizzo: come sottolineava il già citato anonimo mercante trecentesco, «ttu no’ debi intendere niuna scrit-
50 A. Stanziani, Information économique et institutions. Analyses historiques et modèles économiques, in L’information économique, XVIe-XIXe siècle. Journées d’études (Paris, 21 juin 2004 et 25 avril 2006), cur. D. Margairaz - P. Minard, Paris 2008, pp. 17-35.
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tura per lo testo, ma per la intenzione […] e allora verrai a cognioscere e intendere di fare chosa secondo che il tenppo e i’ luogho e il grado richiede»51. D’altronde, se si prende un qualunque moderno manuale che parli di sistemi informativi aziendali, si vede come l’uso delle informazioni sia «il processo di conversione di informazioni in azioni», laddove l’informazione è definita come «un dato che è stato sottoposto a un processo che lo ha reso significativo per il destinatario, e realmente importante per il suo processo decisionale presente e futuro»52. Non si poteva, insomma, prescindere dalle informazioni. Quando, nel 1402, i rapporti tra Firenze e Milano divennero molto tesi, Gian Galeazzo Visconti vietò la circolazione delle lettere fra operatori delle due città: «niuno fiorentino vi [a Milano] posa scrivere, né eziandio niuno lonbardo possa scrivere a niuno fiorentino». I fiorentini di stanza a Venezia pensarono allora di mascherare le proprie lettere come veneziane («soprascrivere di mano e di segnio di viniziano») e riuscirono nell’intento di continuare le comunicazioni («alle lettere mandate non sentiamo ne sia suto fatto chatività per questa via di Lonbardia»)53. Come scriveva Cotrugli, bisognava anche essere al corrente di ciò che facevano gli altri («dilectati di sapere facti d’ognuno et partiti che vanno atorno, perché altrimenti se’ inpacciato, et così le nuove d’ogni banda»)54; e, per dirla con le parole di alcuni corrispondenti datiniani, i mercanti dovevano essere sempre pronti, «cho gli orechi levati», in modo tale da essere i primi a carpire ogni informazione ed evitare di «farsi togliere la palla di mano»55. L’informazione riservata, che non aveva particolare diffusione, portava evidentemente maggiori vantaggi, sia dal punto di vista economico che politico. Nel 1478 furono scoperti tre patrizi veneziani – Giovanni Loredan, Jacopo Trevisan e Daniele Barbaro – che erano riusciti ad appostarsi sul tetto di Palazzo Ducale e, rimuovendo alcune tegole e un lucer51 52
Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista cit., p. 119. Cfr. ad esempio P. Camussone, Il sistema informativo. Finalità, ruolo e metodologia di realizzazione, Milano 1977, pp. 21-27 (citazioni pp. 22, 25). 53 Frangioni, Organizzazione e costi del servizio postale cit., pp. 8-9. 54 Cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura cit., p. 164. Nel 1537, all’interno della comunità fiorentina di Norimberga, si era sparsa la voce che Piero Antonio de’ Nobili si fosse fatto mandare 3 pezze di arricciati «pel turcho». Tali tessuti erano così belli da stimolare la curiosità degli altri tra cui Piero Saliti che però, recatosi presso il magazzino del connazionale, poté vedere solo «alchune telette d’oro e domaschi in uno chamino»: Nobili, infatti, non volle mostrare gli «arriciati richissimi» (ASF, Corporazioni religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 2037, c. 198v, Piero Saliti, in Norimberga, a Francesco Carletti, in Firenze, 26 agosto 1537). 55 Giagnacovo, Guerre, epidemie e privato cit., p. 11.
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nario, avevano potuto ascoltare la relazione al Senato di Tommaso Malipiero, appena tornato da Costantinopoli con informazioni di rilevante importanza sia politica che economica56. Emblematico è il passo di una lettera scritta nel 1777 dal mercante francese (installato ad Amsterdam) Louis Greffulhe a un socio in affari; si esce così dai limiti cronologici del nostro contributo, ma questa considerazione ha certo portata universale: «ricordatevi che se l’affare si propala, siamo fottuti […] non appena c’è un po’ di concorrenza, non c’è più acqua da bere»57. Non si deve però pensare che nel mondo mercantile tardo-medievale fosse portata all’estremo una tendenza alla segretezza da parte degli operatori economici: già anni orsono, prima Sapori e poi Melis hanno autorevolmente smitizzato tale concetto. D’altronde, in un ambiente in cui agenti situati in piazze lontane agivano per conto di più compagnie, in cui il commercio su commissione era correntemente praticato e in cui singoli mercanti passavano da un’azienda all’altra, era impensabile che tale segretezza fosse mantenuta58. Altrove mi sono soffermato a valutare il rapporto tra le compagnie – in particolare fiorentine – che si trovavano ad agire sulle stesse piazze estere: ebbene, in tali casi si possono ravvisare elementi sia di concorrenza che di collaborazione e in questo senso, dunque, è probabile che le informazioni più generali circolassero tranquillamente senza che questo pregiudicasse l’azione di ciascuno59. In alcune occasioni, peraltro, le più note fra le lettere dei mercanti venivano declamate pubblicamente dal destinatario davanti alla sua cerchia di amici e vicini60. Un esempio per tutti è ravvisabile in una missiva inviata da Lorenzo Tornabuoni a Benedetto Dei il 4 novembre 1486: «Io udi’ istamane, sendo in piazza a cerchio con molti nobili citadini, infra quali era Zanobio Del Nero, el quale legea una lettera da Portogallo venuta da uno certo suo amico che gli scriveva» dell’espansione portoghese in Guinea61. 56 57
413.
D.E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987, p. 368. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo II, I giochi dello scambio cit., p.
58 Sapori, La cultura del mercante medievale italiano cit., pp. 68-69; Melis, Documenti per la storia economica cit., pp. 15-16. 59 F. Guidi Bruscoli, Florentine merchant-banking companies abroad in the Renaissance: collaboration vs competition, in Travel and movement in medieval and renaissance Italy c. 500-1500, cur. E. Coleman - W.R. Day jr, Aldershot (in corso di stampa). 60 Bec, Les marchands écrivains cit., p. 50. 61 ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 78, 317, c. 220, Lorenzo Tornabuoni, in Firenze, a Benedetto Dei, in Milano, 4 novembre 1486, parzialmente pubblicata in Lo studio fiorentino 1473-1503. Ricerche e documenti, cur. A. Verde, III/1, Pistoia 1977, p. 576.
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Resta il fatto che «la vittoria arride a chi dispone della miglior rete di informazioni, di relazioni migliori, di comunicazioni più rapide; a chi riesce a sapere prima degli altri – e che, per qualche giorno o qualche ora, è il solo a sapere – se il domani porterà la guerra o la pace, la carestia o l’abbondanza»62. Di conseguenza erano molto ambite le anticipazioni, i rumours, quelle notizie non confermate – introdotte spesso nelle lettere dall’espressione «si dicie che» – le quali davano, a chi ne fosse entrato in possesso, un vantaggio non indifferente; certo vi era una componente di rischio, derivante dall’incertezza.
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4. Voci, leggende e false informazioni
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«Allora, che notizie da Rialto?», chiede Solanio nello shakespeariano Mercante di Venezia. La risposta di Salerio è significativa: «Mah, c’è una voce, ancora non smentita, che una nave d’Antonio ben stivata di ricca mercanzia abbia fatto naufragio nello Stretto, nel punto detto, credo, Sabbie Goodwins: un bassofondo insidioso, fatale, sul quale pare giacciano sepolte le carcasse di molte grosse navi, se è vero quel che va dicendo attorno quella grande ciarlona di comare ch’è la comune voce della gente». Solanio, amico di Antonio, si augura ovviamente che la «comare» sia «bugiarda». Completamente opposto è l’auspicio di Shylock, che vede nella rovina del rivale il prospettarsi della propria vendetta. D’altronde Tubal lo rassicura: egli ha infatti «inteso dire a Genova», da «certi marinai ch’eran proprio scampati dal naufragio» che è «naufragata una sua ragusina» e che «vari creditori di Antonio» giurano che egli «non ha altra scelta che la bancarotta». In realtà non è vero, e nel lieto finale si viene a sapere che le navi di Antonio sono rientrate felicemente in porto63. Questa digressione letteraria mette ben in evidenza quali fossero i problemi derivanti dal diffondersi di voci incontrollate. Anche Ariosto, nell’Orlando furioso, segnalava come, nel momento in cui si trasmettevano di bocca in bocca, le notizie diventassero incontrollate64. Non a caso i gran-
62 J. Favier, L’oro e le spezie. L’uomo d’affari dal Medioevo al Rinascimento, Milano 1990, p. 75. 63 W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto III, scena I e Atto V, scena I. 64 «Credea il Guascon quel che dicea, non senza / cagion; che ne l’esercito de’ Mori / openione e universal credenza, / e publico parlar n’era di fuori. / I molti segni di benivolenza / stati tra lor facean questi romori; / che tosto o buona o ria che la fama esce / fuor d’una bocca, in infinito cresce» (L. Ariosto, Orlando furioso, Canto XXXII, 32).
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di diaristi veneziani di fine Quattro-inizio Cinquecento riportavano con grande attenzione l’intera catena che aveva dato adito alle informazioni; e questo era tanto più vero quanto più incerte erano le notizie, ovvero quando si trattava di voci, piuttosto che di fatti accertati. Nei Diarii sia di Girolamo Priuli che di Marin Sanudo si nota l’estrema precisione con cui gli autori annotavano mittente, luogo di origine e data della lettera da cui traevano l’informazione riportata, la quale poi veniva magari integrata con notizie provenienti da dispacci ufficiali o da altre fonti65. Anch’essi tuttavia, pur in termini dubitativi, rilanciavano a volte informazioni di non provata veridicità. Nell’agosto del 1499 Priuli, basandosi su lettere provenienti da Alessandria, segnalava l’arrivo nel porto indiano di Calicut di tre caravelle portoghesi capitanate da Cristoforo Colombo. Egli esprimeva i propri dubbi: «Questa nova et effecto mi par grandinisimo, se l’he vero; tamen io non li presto autenticha fede». Effettivamente l’errore c’era – il nome del capitano – ma per il resto la notizia era vera; quando, successivamente, essa fu confermata, «cadauno rimaxe stupefatto», perché questa era «la peggior nova che mai la Repubblica veneta potesse avere abuto dal perdere la libertà in fuori»66. Il timore – non certo infondato – era che i portoghesi potessero privare la Serenissima dell’assai proficuo commercio delle spezie orientali, che Venezia aveva quasi monopolizzato fino ad allora. Circolavano insomma notizie incerte, voci che a volte non avrebbero poi trovato riscontri, che magari venivano divulgate per sentito dire, senza che fossero effettuate le necessarie verifiche; tuttavia, in molti di questi casi, non vi era intenzionalità nella diffusione della notizia falsa. Diverso era invece il caso di quelle false informazioni che venivano deliberatamente divulgate – quindi con dolo – magari per ottenere vantaggi concorrenziali. Lo stesso Machiavelli, d’altronde, non lesinava ammirazione verso 65 E a sua volta ogni lettera poteva fare riferimenti ad altre lettere (M. Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Bari-Roma 2002, pp. 5-7). 66 Ibid., p. 4. D’altronde la notizia non era di primissima mano: «ne foronno lettere de Alexandria de zugnio che scrivenno come per lettere dal Chaiero per homeni venutti de India intendevanno come a Colochut et a Adem in la India, citade principale, heranno capitate tre caravelle del re di Portogalo, el quali li haveanno mandate ad inquerir dele ixolle di spesse et che di quelle hera patron il Colombo» (G. Priuli, Diarii, ed. A. Segre, in R.I.S.2, 24/3.1, Città di Castello 1912, p. 153). Per cercare di limitare i danni di tale impresa, i veneziani misero in atto una fortissima azione di spionaggio e controspionaggio che coinvolse, tra gli altri, Lunardo da Ca’ Masser, «privatamente come semplice marchadante, non demonstrando cum alchuno esser mandato per la Signoria Nostra» (Preto, I servizi segreti di Venezia cit., pp. 217-218).
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quei principi – come ad esempio papa Alessandro VI – che dissimulavano le apparenze, che affermavano una cosa e ne facevano un’altra, avendo il fine primario di «mantenere lo Stato»: «Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E gli uomini, in universali, iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’»67. Anche se in realtà, secondo Guicciardini, questa strategia serviva a poco, in quanto «perché le opinione false non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni, se in verità non sarete»68. Nel 1506, vista la difficoltà in cui versavano i loro affari («a Damasco et per tuta la Soria» si «fazevanno pochissime fazende, et questo perché non ne chapitava spettie dala Mecha»), i mercanti arabi pensarono che se avessero diffuso la (falsa) notizia che le caravelle portoghesi, non avendo trovato spezie a Cochin, erano tornate vuote dall’India, tutti – e in particolare i veneziani – si sarebbero precipitati a comprarle da loro. Tuttavia tale manovra non funzionò, poiché i mercanti della Serenissima erano ben al corrente sia della reale situazione che del tentativo attuato dagli arabi69. D’altronde, un secolo prima, nel 1401, si pensava che proprio i veneziani avessero adottato una tattica analoga. Si era infatti diffusa la notizia che Tamerlano avesse preso Damasco, ma dalla filiale genovese di Francesco Datini si esprimevano dubbi sulla sua veridicità: «Ècci da Vinegia lettera ne’ Ricci e dichono v’era nuove di Candia, per una nave partì a dì 23 di gennaio di là, chome v’era venuto una nave da Baruti, partì a dì 18 di dicembre; e contava Tanburlano avia arso Domascho, tutto, salvo il castello. Non vi si dà, però, piena fede, perché i viniziani fano ciò posso67 N. Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII. 68 F. Guicciardini, Ricordi, Serie seconda, n. 44. Abbiamo tratto la segnalazione di que-
sti brani da B. Dooley, The Social History of Skepticism. Experience and Doubt in Early Modern Culture, Baltimore-London 1999, pp. 116-117. 69 «Et per lettere da Damasco [del 18 aprile], abutte cum il sopra dicto naviliio [il 25 maggio], se intendeva chome Mori in quello locho de Damasco aveanno abuto lettere et avixi dale parte de l’India, chome le caravelle portogalexe heranno sttate et chapitate a Chuzim, locho ne l’India, per prendere dele spetie, segondo il consuetto, et che non aveanno abutto ricapitto. Dil che per molti fu judichato questa nova esser tuto il contrario, ymmo che intendevanno il giongere dele dicte charavelle a Chuzim et aver abutto bona summa de spetie, ma che marchadantti mori dicevanno il contrario per vendere le sue spetie a meglior pretio et far li facti sui» (Priuli, Diarii, II, ed. R. Cessi, in R.I.S.2, 24/3.2, Bologna 19331937, p. 417).
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no per far montare le loro spezie». Pochi giorni dopo, tuttavia, una volta ottenuta conferma dell’evento, i soci del Datini ne valutavano le conseguenze economiche, ovvero l’aumento del prezzo delle spezie: «Ècci nuove da Vinegia, là era nuove Domascho era suto arso da Tanburlano: il perché le spezie sono qui ritocche»70. Uno dei problemi, dunque, era quello di controllare l’autenticità di una notizia. Evidentemente, se fonti diverse e indipendenti concordavano, essa era molto probabile. Ma non sempre gli operatori potevano effettuare tali verifiche: emerge quindi la questione della fiducia riposta nel corrispondente. Un fattore che ovviamente favoriva tale aspetto era dato dalla dimestichezza e dalla vicinanza caratterizzanti i rapporti mittente/destinatario. La fiducia poteva essere accresciuta dallo scambio di informazioni personali, la cui inclusione nelle lettere contribuì senz’altro a cementare i legami affaristici ma anche sociali e a fornire garanzie sull’affidabilità dell’interlocutore, minimizzando in questo modo i rischi71. Nel mondo mercantile toscano del Tre-Quattrocento si può cogliere la percezione della comune origine come “garanzia” di affidabilità: compatrioti erano insomma in grado di trasmettere «nuove cierte», contrariamente ad altri operatori, come ad esempio i «pechoroni lombardi», i quali raccontavano «mille milioni di novelle e bugie»72. Un’altra possibilità era quella di cercare informazioni, magari a titolo confidenziale, riguardo all’affidabilità di compagnie con le quali si stava per intraprendere un’operazione commerciale o cambiaria73. E in effetti la reputazione contava e poteva avere anche altre conseguenze: laddove tutte le informazioni circolano e il comportamento disonesto è sanzionato “socialmente” qualora emerga una reputazione negativa, l’attore economico è stimolato ad agire onestamente74. Nel 1397, ad esempio, dalla compagnia datiniana di Valenza si comunicava alla corrispondente maiorchina 70
Bec, Les marchands écrivains cit., pp. 393, 425 nota 265; F. Melis, Aspetti della vita economica medievale (Studi nell’Archivio Datini di Prato), Siena 1962, pp. 30-32. 71 F. Trivellato, Merchants’ letters across geographical and social boundaries, in Cultural Exchange in Early Modern Europe, III, Correspondence and Cultural Exchange in Europe, 1400-1700, cur. F. Bethencourt - F. Egmond, Cambridge 2007, pp. 80-103: 88, 102-103. Sulle relazioni epistolari come “cemento” di relazioni personali nel mondo dei mercanti toscani del XIV-XV secolo si veda: J. Hayez, La gestion d’une relation épistolaire dans les milieux d’affaires toscans à la fin du Moyen Âge, in La circulation des nouvelles au Moyen Âge cit., pp. 63-84. 72 Giagnacovo, Guerre, epidemie e privato cit., p. 11. 73 Jeannin, La diffusion de l’information cit., p. 245. 74 A. Greif, Reputation and Coalitions in Medieval Trade: Evidence on the Maghribi Traders, «The Journal of Economic History», 49 (1989), pp. 857-882.
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l’inaffidabilità della società Ambrogi-Franceschi di Bruges, un cui manager, Tedaldo Ambrogi, si dedicava al gioco: «A questi di Deo darò poche fatiche per avanti, se non frascholine per ritenerli co noi. Pocho mi piaciono loro fatti, poiché i’ vegio el Tedaldo guocha, che i una notte potrebbe disfare loro e altri»75. 5. Conclusione
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Già dopo la metà del Quattrocento vi fu un sostanziale aumento dei flussi informativi che fece seguito all’istituzione di sedi diplomatiche stabili presso le principali corti italiane ed europee. Gli ambasciatori non si limitavano a trasmettere le notizie apprese de visu ma inviavano anche notizie provenienti da «lettere de’ merchadanti»76. Sempre più, a partire dal tardo Medioevo e poi in età moderna, la scrittura mercantile si intrecciò a quella diplomatica77. Famoso per l’accuratezza delle notizie che diffondeva, tanto da essere denominato «tromba della verità», fu Benedetto Dei, la cui formazione mercantile fu certamente utile anche per il suo ruolo di informatore politico a beneficio di molte corti. Addirittura, nel corso del tempo, si nota un’evoluzione che portò le sue lettere a evolversi «da epistolario familiare e privato a sistema di informazione pubblica, ormai senza un preciso destinatario»78. Ma, con l’arrivo della stampa, le cose sarebbero cambiate in modo ancora più eclatante. Se fino al tardo Medioevo l’acquisizione delle informazioni richiedeva rapporti e comunicazioni dirette e personali, dalla prima età moderna la diffusione delle notizie fu enormemente più ampia grazie ai business newspapers, che caratterizzarono l’economia europea a partire da metà Cinquecento. Secondo McCusker si può ipotizzare anche il manifestarsi di un cambiamento di mentalità. E cioè che nella prima fase i mercanti ritenevano di poter ottenere un vantaggio competitivo dalla segretezza (anche se, come abbiamo mostrato, la reale dimensione di tale concetto non deve essere sopravvalutata); successivamente, invece, arriva-
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Mercanzie e denaro cit., p. 496. Infelise, Prima dei giornali cit., p. 5. Si veda in proposito R. Mazzei, I mercanti e la scrittura. Alcune considerazioni a proposito degli italiani in Polonia tra ’500 e ’600, in La cultura latina, italiana, francese nell’Europa centro-orientale, cur. G. Platania, Viterbo 2004, pp. 93-122. 78 R. Barducci, Dei, Benedetto, in Dizionario Biografico degli Italiani, 36, Roma 1988, pp. 254, 256.
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rono a valutare maggiori i vantaggi derivanti dalla diffusione (e dalla vendita) dell’informazione. Vi fu forse una fase intermedia, nella quale le organizzazioni mercantili – o, meglio, i loro rappresentanti – si riunivano in città o in occasione delle fiere per condividere le informazioni di base su prezzi, tassi di cambio, etc.79. Con i notiziari a stampa l’informazione veniva quindi diffusa in forma anonima. Tuttavia, se la scomparsa della segnalazione dell’autore fu un chiaro indizio di cambiamento, esso avvenne in modo assai graduale. Alla lettera, spedita da un mittente preciso a un singolo destinatario, si sostituiva ora l’avviso destinato a un pubblico non identificato, che pure poteva riportare anche estratti di lettere private. Nella prima fase, a volte il compilatore si firmava; ma successivamente, quando tale compito venne preso da veri e propri professionisti dell’informazione, si riteneva più prudente celare il nome dell’autore80. Per Venezia, la crisi dei viaggi di Stato e l’ingresso sul mercato di Paesi concorrenti dettero – come abbiamo già visto – una grande scossa alla prassi consolidata fatta di solidarietà ed esperienza, determinando una crescente incertezza e la conseguente ricerca di maggiori informazioni: tale passaggio è esemplificato anche dalla pubblicazione, nel 1503, della Tariffa di pexi e mesure di Bartolomeo di Pasi, prodotta espressamente per la stampa e certamente diversa dalle Pratiche di mercatura medievali81. La pratica di una diffusione di notizie secondo questi criteri cominciò
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J.J. McCusker, The Demise of Distance: The Business Press and the Origins of the Information Revolution in the Early Modern Atlantic World, «The American Historical Review», 110/2 (2005), pp. 295-321. Non entreremo qui nel merito di una discussione relativa al nesso di consequenzialità, ovvero se sia stata l’invenzione della stampa a generare questi listini (come sostiene E.L. Eisenstein), o se essa si sia limitata ad accelerare un processo già in atto. 80 Infelise, Prima dei giornali cit., p. 7. Sullo sviluppo di questi notiziari e sull’utilizzo delle lettere mercantili come fonte per la loro compilazione si vedano anche, nel volume Cultural Exchange in Early Modern Europe cit., i saggi di M. Infelise, From merchants’ letters to handwritten political avvisi: notes on the origins of public information (pp. 33-52) e di Z. Barbarics - R. Pieper, Handwritten newsletters as a means of communication in early modern Europe (pp. 53-79). 81 Tucci, I listini a stampa cit., pp. 23-24. Quando, all’inizio dell’età moderna, il nuovo contesto storico comportò una graduale marginalizzazione di Venezia, la Signoria investì molto per mantenere il proprio controllo sul flusso informativo da e verso l’Impero ottomano, con il fine di difendere il ruolo politico ed economico della Serenissima sia in Europa che in Oriente (E. Dursteler, Power and Information: The Venetian Postal System in the Mediterranean, 1573-1645, in From Florence to the Mediterranean: Studies in Honor of Anthony Molho, cur. D. Ramada Curto - E.R. Dursteler - J. Kirshner - F. Trivellato, II, Firenze 2009, pp. 601-623: 602).
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ad Anversa, ma i primordi sono forse da ricercare a Venezia, vero crocevia delle informazioni provenienti da Levante e da Ponente82. Si possono fare alcune ipotesi per cercare di spiegare questo cambiamento: innanzitutto è presumibile che la comunità mercantile locale abbia valutato che tale diffusione di notizie promuovesse il mercato di Anversa, in quanto pubblicizzava le merci che là venivano vendute e quindi determinava l’afflusso di un numero sempre maggiore di compratori. Secondariamente, la produzione di questi bollettini informativi era un’attività remunerativa in sé. In terzo luogo essi determinavano una maggiore efficienza del sistema, da un lato attraverso la riduzione rischi (grazie alla maggiore quantità di informazioni disponibili), dall’altro liberando i corrispondenti dal gravoso compito di informare su dati che venivano ora acquisiti indipendentemente83. Ciò nonostante, anche in questo periodo, se pure alcune informazioni (prezzi, tassi di cambio, etc.) venivano diffuse a mezzo stampa, la corrispondenza privata continuò a giocare un ruolo fondamentale per la trasmissione delle informazioni economiche84. Tra l’altro, a partire da fine Cinquecento, modelli di lettere commerciali iniziarono ad apparire in forma stampata. Una delle ragioni di questo perdurante successo risiedeva senz’altro nel fatto che, affiancandosi all’abbondanza di dati quantitativi permessa dai nuovi mezzi di comunicazione, lo scambio epistolare rimaneva una fonte unica per la possibilità di valutare attitudini e affidabilità di corrispondenti stanziati in piazze lontane: il contatto diretto era ancora fondamentale. E l’informazione, penetrando i confini di comunità mercan-
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82 Alcuni studiosi rinvengono invece a Firenze i primi germi di tale modello. Fanno propendere per l’origine italiana vari elementi: il fatto che, per molto tempo, anche in sedi straniere (Anversa, Francoforte, etc.) tali listini siano stati pubblicati in lingua italiana; e il fatto che essi duplicassero con grande precisione i manoscritti italiani dei secoli XIII-XIV (J.J. McCusker, The Italian Business Press in Early Modern Europe, in Produzione e commercio della carta e del libro, secc. XIII-XVIII. Atti della XXIII Settimana di Studi (Prato 15-20 aprile 1991), cur. S. Cavaciocchi, Firenze 1992, pp. 797-841: 800). Si vedano in proposito anche le osservazioni Tucci, I listini a stampa cit., pp. 19-21. 83 McCusker, The Demise of Distance cit., pp. 303-307. 84 Hayez ipotizza che ciò sia dovuto al fatto che i mercanti privilegiassero «la notion de conseil aux dépens de celle de connaissance» (Avviso, informazione, novella, nuova cit., p. 132; cfr. anche nota 21). Si veda C. Lesger, The Rise of the Amsterdam Market and Information Exchange, Aldershot 2006, pp. 214-257 per il ruolo di Amsterdam come centro di informazioni attorno al 1600, periodo del suo massimo splendore: anche in questo caso, la corrispondenza continuava a svolgere un ruolo fondamentale, a fianco di bollettini a stampa. Per un panorama sui principali carteggi commerciali dell’età moderna, si rimanda a J. Bottin, Négoce et circulation de l’information au début de l’époque moderne, in Histoire de la poste, de l’administration à l’entreprise, cur. M. Le Roux, Paris 2002, pp. 41-54.
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tili diverse, ebbe un ruolo decisivo nella creazione di reti commerciali inter-culturali85. Ma nonostante tutto, in una qualunque epoca, rimane connaturata all’attività economica una percentuale di imprevedibilità che è impossibile ridurre: di conseguenza non è infrequente trovare, nelle lettere dei mercanti medievali, espressioni come «che a Dio piacia», sintomo di un fatalismo religioso che sapeva a volte di rassegnazione, nonostante si fosse consapevoli dei vantaggi che derivavano dall’enorme sforzo di passare molte ore seduti allo scrittoio.
85 Trivellato, Merchants’ letters cit., pp. 81, 84-85, 99. Anche M. Weber riconosceva come ancora nel XVIII secolo «business depended on the organized exchange of letters. Rational trading between regions was impossible without secure transmission of letters» (General Economic History, New York 2007, p. 295).
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«Procul a Fame palpebris»: la fama come male da Virgilio a Boccaccio
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«Desubito famam tollunt, si quam solam videre in via». La prima apparizione del termine fama nella letteratura latina, stando ai dizionari, avviene così, in un frammento tragico di Nevio che parla di una donna che facendosi vedere sola per la strada solleva le chiacchiere della gente1, ed è poi ancora a spese di una donna, Didone regina di Cartagine, che la Fama, questa volta con la f maiuscola, fa il suo ingresso ai piani alti dell’invenzione letteraria, tra le prosopopee, quelle «fictiones personarum» – così dice Quintiliano – che servono mirabilmente a variare e ad animare lo stile2. Rileggiamo dunque i vv. 169-197 del IV libro dell’Eneide che segnano, per Enea e Didone, il discrimine tra la felicità di un amore appagato e il dolore, insopportabile per uno dei due, del distacco:
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Ille dies primus leti primusque malorum causa fuit; neque enim specie famave movetur nec iam furtivom Dido meditatur amorem; coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam. Extemplo Libyae magnas it Fama per urbes, Fama, malum quo non aliut velocius ullum: mobilitate viget virisque adquirit eundo; parva metu primo, mox sese attollit in auras ingrediturque solo et caput inter nubila condit. Illam Terra parens, ira inritata deorum, extremam, ut perhibent, Coeo Enceladoque sororem
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1 Naev., Trag., 7. Il frammento ci è stato conservato da un grammatico della tarda antichità, Nonio Marcello, che lo sfrutta e lo ripete per due volte nel suo De conpendiosa doctrina, nel IV libro a proposito del termine fama e nel XII per mostrare l’uso da parte degli scrittori che egli definisce veteres di composti formati da una preposizione e un avverbio del tipo di desubito: cfr. Nonii Marcelli De conpendiosa doctrina libros XX, onionsianis copiis usus ed. W.M. Lindsay, Lipsiae 1903, pp. 475 (305 M.) e 833 (518 M.). 2 Cfr. Quint., Inst., IX 2, 29 e 36.
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progenuit pedibus celerem et pernicibus alis, monstrum horrendum ingens, cui quot sunt corpore plumae, tot vigiles oculi subter (mirabile dictu), tot linguae, totidem ora sonant, tot subrigit auris. Nocte volat caeli medio terraeque per umbram stridens nec dulci declinat lumina somno; luce sedet custos aut summi culmine tecti, turribus aut altis et magnas territat urbes, tam ficti pravique tenax quam nuntia veri. Haec tum multiplici populos sermone replebat gaudens et pariter facta atque infecta canebat: venisse Aenean Troiano sanguine cretum, cui se pulchra viro dignetur iungere Dido; nunc hiemem inter se luxu, quam longa, fovere regnorum immemores turpique cupidine captos. Haec passim dea foeda virum diffundit in ora. Protinus ad regem cursus detorquet Iarban 3 incenditque animum dictis atque aggerat iras .
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In questi versi celebri di un libro tra i più letti dell’Eneide, per la prima volta in assoluto, Fama viene dotata, oltre che di una funzione narrativa, di un corpo, sia pure poetico, di mores, addirittura di una famiglia. Ma è opportuno forse partire da un riesame complessivo del passo che ci consenta in primo luogo di estrapolare gli elementi essenziali e distintivi della descrizione, che si stacca per così dire dal racconto vero e proprio al v. 174, aggettando rispetto al piano narrativo grazie all’anadiplosi («Extemplo
3 «Quello fu il primo giorno di morte, e la prima/ causa di sventure. Didone non si pre-
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occupa di apparenze/ o di fama, ormai non medita un amore furtivo;/ lo chiama connubio; vela con questo nome la colpa./ Subito va la Fama per le grandi città della Libia,/ la Fama, fulminea fra tutti i mali; possiede/ vigore di movimento, e acquista forze con l’andare;/ dapprima piccola e timorosa; poi si solleva nell’aria,/ e avanza sul suolo, e cela il capo tra le nubi./ La Terra madre, incitata dall’ira contro gli dei,/ la generò, dicono, ultima sorella a Ceo/ e a Encelado, veloce di passi e d’infaticabili ali,/ mostro orrendo, immane: di quante piume riveste/ il corpo, sotto ha tanti vigili occhi – mirabile a dirsi –,/ tante lingue, e altrettante bocche risuonano e orecchi protende./ Di notte vola tra il cielo e la terra nell’ombra,/ stridendo, e non chiude gli occhi al dolce sonno;/ di giorno siede spiando sul culmine d’un tetto,/ o su alte torri, e sgomenta grandi città,/ tenace messaggera tanto del falso e malvagio, quanto del vero./ Allora esultante riempiva di molti discorsi/ le genti e annunziava ugualmente il reale e il fittizio:/ era giunto Enea, nato da sangue troiano,/ a cui la bella Didone non disdegnava di unirsi;/ ora passavano tutto l’inverno in reciproche mollezze,/ immemori dei loro regni, presi da turpe passione./ Questo la malvagia dea spargeva sulla bocca degli uomini./ Subito rivolge il cammino verso il re Iarba,/ e gli accende l’animo con parole e ne stimola l’ira» (Virgilio, Eneide, II, cur. E. Paratore; trad. L. Canali, Milano 1978, pp. 64-67).
«PROCUL A FAME PALPEBRIS»
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Libyae magnas it Fama per urbes,/ Fama, malum quo [...]»), e giunge fino al v. 188, per essere ripresa e adattata alla situazione libica nei versi successivi4. Cominciamo tuttavia dal v. 173 nel quale già emerge un tratto riportabile ai mores della figura che sta per essere descritta: la Fama, che – come risulta da ulteriori passi di Virgilio e di altri poeti – può espandersi iperbolicamente per boschi e vallate, per mari e continenti, predilige però i luoghi abitati, anzi le città. Proseguendo, ormai all’interno della descrizione vera e propria, apprendiamo in primo luogo che la fama è un male, anzi e più precisamente che è il più veloce tra i mali: «Fama, malum quo non aliut velocius ullum» (v. 174); che essa si rinvigorisce nel movimento e andando acquista forza; all’inizio è piccola e timorosa, ma poi si leva nell’aria; cammina sul suolo e col capo raggiunge le nuvole (v. 177). È stato notato che ciò che abbiamo visto finora con gli occhi dell’immaginazione potrebbe essere una figura femminile che si muove sempre più velocemente ingrandendosi via via anche in altezza. E quel che segue fornisce in un certo senso la spiegazione sul piano genetico di questa crescita smisurata: Fama è l’ultima figlia della Terra, è sorella di Ceo ed Encelado, una specie di gigantessa dunque, dotata non solo di piedi, ma anche di ali veloci, ed è stata partorita dalla Terra irritata dall’ira degli dei (dove l’espressione «ira [...] deorum» può indicare l’ira della terra stessa «propter extinctos gigantas» o – e questo è un suggerimento del cosiddetto Servius auctus – l’ira degli dei che si manifesta nel fatto che sulla terra appunto «fulmina et grandines de caelo cadunt»5). Comunque fino al v. 180 il lettore potrebbe credere di trovarsi di fronte a una qualche forma di grandiosa e sovrumana, magari terribile, bellezza. Ma col v. 181 ogni illusione cade: quel che abbiamo davanti è un mostro coperto di piume, una donna-uccello, che non può farci pensare a un’Arpia (anche se alle Arpie la avvicina l’aggettivo foeda del v. 1956) perché, quando le piume si sollevano, sotto ognuna di esse scorgiamo un occhio spalancato, una bocca dotata di lingua che brusisce e un’orecchia rizzata a captare il minimo rumore. Questo corpo, che appare dotato non solo di un robusto apparato motorio ma anche, in misura del tutto abnorme, degli organi che rendono 4
Per un’accurata analisi di questo passo cfr. A.-M. Tupet, La Fama au livre IV de l’Enéide, in Colloque l’Épopée greco-latine et ses prolongements européens, Calliope II, cur. R. Chevallier, Paris 1981 (Collection Caesarodunum, XVI bis), pp. 81-91. Si veda inoltre la voce fama di G. Abbolito Simonetti - A.-M. Tupet in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, pp. 461-462. 5 Cfr. Servii Grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, edd. G. Thilo H. Hagen, I, Lipsiae 1878, p. 494. 6 Cfr. Verg., Aen., III 227, 244.
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possibili le tre operazioni di vedere, emettere suoni, udire, assomiglia – se posso usare una analogia del tutto impropria – a una specie di stazione rice-trasmittente per la quale, in assenza di un’adeguata, se si può dir così, prospettiva tecnologica, Virgilio non può che ricorrere alla categoria del mostruoso: si tratta – per riassumere – di un «monstrum horrendum ingens», veloce di piedi e di ali, capace di presentarsi in dimensioni modeste e poi di giganteggiare levandosi dal suolo fino alle nuvole, ma anche di muoversi velocissimo in orizzontale e di posarsi come un uccello sui tetti e sulle torri. Di fronte a questa ricchezza di particolari, per far coesistere i quali bisogna pensare a un’entità capace di subitanee mutazioni, i lettori dell’Eneide hanno reagito in vari modi, non tutti favorevoli. Macrobio per esempio (e così restiamo tra i lettori antichi), registrando in questo passo un’imitazione di Iliade IV 442-443, osserva che di Eris, la Discordia, Omero «a parvo dixit incipere et postea in incrementum ad caelum usque succrescere», che è appunto ciò che Virgilio dice della Fama, «sed – egli aggiunge – incongrue»7. I tetti e le torri dei vv. 186-187 ci riportano al punto di partenza, le città, anzi, almeno in questo caso, le grandi città nelle quali la Fama suole adempiere a una delle sue funzioni principali (quella che più strettamente la apparenta con la Eris di Omero), spargere il terrore (v. 187), funzione che persegue facendosi «tenace messaggera tanto del falso e malvagio, quanto del vero» (v. 188). Ora due di questi tre termini si collocano in rapporto di opposizione tra loro, fictum e verum, mentre il terzo, pravum (“storto, difettoso, cattivo”), appare irrelato e privo del suo opposto che dovrebbe essere rectum o bonum: sembra insomma che la Fama virgiliana poco si interessi a ciò che è buono, prediligendo e amplificando quel che può dire di sfavorevole e rivelando anche in questo un’indole non positiva. Con il v. 189 dalla descrizione obiettiva della sorella di Ceo ed Encelado Virgilio torna alla specifica funzione narrativa che le ha assegnato: «gaudens», gioiosamente, la Fama riempiva di molti discorsi le genti e annunziava ugualmente, a proposito di Enea e Didone, particolari veri e inventati (v. 190), diffondendoli lei, turpe dea, sulle bocche degli uomini e facendoli giungere così alle orecchie del re libico Iarba (vv. 196-197), pretendente respinto di Didone, accendendo in questo modo e alimentando la sua ira. Vien fatto a questo punto di considerare che spargere il terrore (v. 187) e accendere gli animi (v. 197) sono funzioni non troppo lontane da quelle cui assolve tradizionalmente nell’epica latina la Furia Aletto e qualche analogia emerge se pensiamo che di lei, anch’essa un monstrum can7
Macr., Sat., V 13, 31-32.
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giante, Virgilio dice in Aen., VII, 328-329, con una costruzione non dissimile da quella che ha usato per la Fama, che «tot sese vertit in ora,/ tam saevae facies, tot pullulat atra colubris»8. Bisogna tuttavia aggiungere che Aletto è una creatura degli inferi che si muove o viene mossa con l’intenzione di far del male, mentre nell’operare della Fama questo non c’è, anche se i risultati che l’una e l’altra ottengono non sono troppo diversi. Aletto agisce, se posso dire così, in profondità, da quel demonio che è, impossessandosi del cuore e dei sentimenti delle persone (la regina Amata) o sostituendosi ad esse (Calibe, la sacerdotessa di Giunone) nel VII dell’Eneide; la Fama opera più in superficie, non influisce direttamente sui cuori, ma sulle orecchie e le bocche degli esseri umani e attraverso queste stesse orecchie e bocche. Non si può dire che, nel suo insieme, il corpo mostruoso inventato da Virgilio per la Fama abbia avuto grande fortuna. Ovidio lo ignora e se emula la complessità della descrizione virgiliana, la trasforma però profondamente. Nel XII delle Metamorfosi (vv. 39-68), per mostrare la rapidità con la quale giunge a Troia la notizia che l’esercito greco è pronto ormai a partire, egli infatti riprende l’idea di quella che ho definito poco sopra come una stazione rice-trasmittente, ma svincola le molteplici operazioni che essa riassume in sé dal corpo della Fama, che non viene descritto né mostrato, trasferendole sulla sua dimora:
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Orbe locus medio est, inter terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod est usquam, quamvis regionibus absit, inspicitur, penetratque cavas vox omnis ad aures. Fama tenet, summaque domum sibi legit in arce innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et nullis inclusit limina portis. Nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti, tota fremit, vocesque refert, iteratque quod audit. Nulla quies intus nullaque silentia parte, nec tamen est clamor, sed parvae murmura vocis, qualia de pelagi, siquis procul audiat, undis esse solent, qualemve sonum, cum Iuppiter atras increpuit nubes, extrema tonitrua reddunt. Atria turba tenet: veniunt, leve vulgus, euntque, mixtaque cum veris passim commenta vagantur milia rumorum confusaque verba volutant.
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8 Così traduce Luca Canali: «si muta in tanti volti ed aspetti/ crudeli, e pullula nera di tanti serpenti» (ed. cit., IV, Milano 1981, p. 29).
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E quibus hi vacuas implent sermonibus aures, hi narrata ferunt alio, mensuraque ficti crescit, et auditis aliquid novus adicit auctor. Illic Credulitas, illic temerarius Error vanaque Laetitia est consternatique Timores Seditioque repens dubioque auctore Susurri. Ipsa, quid in caelo rerum pelagoque geratur et tellure, videt, totumque inquirit in orbem. Fecerat haec notum Graias cum milite forti adventare rates. Neque inexpectatus in armis hostis adest; prohibent aditus litusque tuentur Troes, et Hectorea primus fataliter hasta, 9 Protesilae, cadis; [...] .
Nella poesia occidentale dei secoli successivi se permangono le funzioni narrative assegnate alla prosopopea della Fama, del corpo cangiante che Virgilio aveva inventato si salvano per lo più singoli organi, singoli mores. Così, per fare solo qualche esempio, nel II libro della Tebaide di Stazio, la Fama va in giro portando la notizia delle nozze di Polinice con Argia, figlia di Adrasto re di Argo, e di quelle, contemporanee, di Tideo con l’altra figlia di quel re, Deipile, e prima la reca tra le città amiche, poi [...] Ogygias eadem dea turbida Thebas insilit. Haec totis perfundit moenia pinnis Labdaciumque ducem praemissae consona nocti
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«Al centro del mondo c’è un luogo che sta fra la terra, il mare/ e le regioni del cielo, al confine di questi tre regni./ Da lì si scorge tutto ciò che accade in qualsiasi luogo del mondo,/ anche nel più remoto, e lì giunge, a chi ascolta, qualsiasi voce./ Vi abita la Fama: ha eretto la casa nel punto più alto,/ una casa nella quale ha posto infinite entrate e mille fori,/ senza che una porta ne impedisca l’accesso./ È aperta notte e giorno; tutta di bronzo sonante,/ vibra tutta, riporta le voci e ripete ciò che sente./ Non vi è pace all’interno e in nessun angolo silenzio,/ ma pure non vi è frastuono, solo un brusio sommesso,/ come quello che fanno le onde del mare se le si ascolta/ di lontano o come l’ultimo brontolio dei tuoni,/ quando Giove fa rimbombare lugubri le nubi./ L’atrio è sempre affollato: gente d’ogni risma che va e viene./ Mescolate a voci vere ne vagano qua e là migliaia/ di false, che spargono intorno chiacchiere e parole equivoche./ Di queste alcune riempiono le orecchie sfaccendate di calunnie,/ altre riportano il sentito dire, e la dose delle invenzioni/ cresce a dismisura, perché ognuno vi aggiunge qualcosa di suo./ Lì trovi la Credulità, l’incauto Errore,/ la Gioia immotivata e i Timori sfibranti,/ la Sedizione improvvisa e i Sussurri d’origine incerta./ Così la Fama vede tutto ciò che accade in cielo,/ in mare e in terra, indagando sull’universo intero./ Fu lei a render noto che le navi greche, cariche di truppe,/ stavano arrivando. Perciò, quando il nemico in armi sbarca,/ non sbarca inatteso. I Troiani gli sbarrano il passo difendendo/ il lido, e tu per primo, Protesilao, cadi per fatalità/ sotto la lancia di Ettore. [...]» (Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, cur. M. Ramous con un saggio di E. Pianezzola, Milano 1992, pp. 522-525).
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territat; hospitia et thalamos et foedera regni permixtumque genus – quae tanta licentia monstro, quis furor est ? –, iam bella canit. [...]10 (Theb., II, 208-213)
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Come nell’Eneide la voce degli amori di Enea e Didone aveva sconvolto il re libico Iarba, così nel poema di Stazio l’annuncio del duplice matrimonio avvenuto ad Argo e dell’alleanza che là è stata stabilita turba Eteocle, il fratello di Polinice che regna temporaneamente su Tebe; ma qui l’unico tratto corporeo evocato sono le ali (v. 209) e il lettore è indotto a ricondurre quella parte al “tutto” virgiliano più che altro dal termine monstrum del v. 212. Del resto il medesimo Stazio nel III libro rielabora più radicalmente l’invenzione del poeta mantovano inserendo la Fama, come battistrada, nel corteggio di Marte ancora una volta con il compito di propagare notizie, fondate o infondate, non importa, purché alimentino il terrore:
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Et iam noctivagas inter deus armifer umbras desuper Arcadiae fines Nemeaeaque rura Taenariumque cacumen Apollineasque Therapnas armorum tonitru ferit et trepidantia corda implet amore sui. Comunt Furor Iraque cristas, frena ministrat equis Pavor armiger. At vigil omni Fama sono vanos rerum succincta tumultus antevolat currum flatuque impulsa gementum alipedum trepidas denso cum murmure plumas excutit: urguet enim stimulis auriga cruentis facta, infecta loqui, curruque infestus ab alto 11 terga comamque deae Scythica pater increpat hasta . (Theb., III, 420-431)
10 «[...] infine piomba, la dea turbolenta, sull’ogigia Tebe. Su queste mura stende intere le sue ali, e rinnova nel re, discendente di Labdaco, un terrore pari a quello della notte precedente: annunzia l’ospitalità e le nozze e gli accordi relativi al regno e la nuova parentela e infine (quale licenza non ha questo mostro, quale furore?) perfino la guerra» (Publio Papinio Stazio, Opere, cur. A. Traglia - G. Aricò, Torino 1980, pp. 186-187). 11 «E già, fra le ombre erranti della notte, il dio della guerra scuote dall’alto, col fragore delle armi, le terre d’Arcadia e i campi di Nemea e la cima del Tenaro e Terapne sacra ad Apollo; suscita amore di sé nei cuori tremanti. Il Furore e l’Ira gli adattano il cimiero; la Paura, suo scudiero, regge le briglie dei cavalli. Ma la Fama, attenta a ogni rumore, cinta di falsi allarmi, corre davanti al carro e, incalzata dal fiato ansimante dei cavalli alati, scuote le piume, che fremono in fitto fruscio: poiché l’auriga, con la frusta insanguinata, la forza a dire il vero e il falso e dall’alto del carro il dio stesso, implacabile, la pungola con l’asta di Scizia al dorso e alla chioma» (Stazio, Opere cit., pp. 240-243).
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E qui Stazio dopo aver evocato le plumae che, associate come sono a un murmur (v. 428), possono far pensare alle innumerevoli lingue e bocche dei vv. 181-183 del IV dell’Eneide («cui quot sunt corpore plumae,/ tot vigiles oculi subter (mirabile dictu),/ tot linguae, totidem ora sonant, tot subrigit auris»), accenna però anche a un dorso e a una chioma (v. 431), tratti non virgiliani, che potrebbero rinviare a una dea dall’aspetto più umano, meno teratologico. Del resto, dopo un rapido esame, oltre che del passo di Ovidio, anche di alcuni luoghi di Seneca, Petronio, Valerio Flacco, Silio Italico, Stazio e Claudiano, Anne-Marie Tupet, che alla fortuna di questa prosopopea ha dedicato alcune pagine interessanti, conclude:
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Si tous ces passages ont retenu quelque caractéristique de la Fama virgilienne, aucun d’eux n’a osé tenter d’imiter la description de Virgile, et ils ont évité ce qui était proprement virgilien, la description de la Fama sous la forme d’un monstre12.
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Se avessimo il tempo di passare in rassegna la poesia dei secoli seguenti potremmo constatare che gli elementi corporei più ricorrenti, in riferimento alla Fama, sono proprio, come in Stazio, le ali, le penne, quelli cioè più neutri, meno compromessi con l’immagine inventata dal poeta dell’Eneide. Poco o niente troveremmo a proposito di bocche (o bocca), orecchie e poco anche a proposito di occhi. Tanto più risulta quindi interessante il testo dal quale è stato desunto il verso che compare nel titolo di questo intervento: «procul a Fame palpebris». Il salto che facciamo ora sull’asse temporale è davvero notevole, perché passiamo dal I secolo d.C. all’inizio – sembrerebbe – del XIII. Il testo, che riproponiamo qui, è noto ai lettori moderni se non altro perché fa parte di una raccolta celeberrima, è infatti il Carmen Buranum 120, e anzi, secondo il giudizio di alcuni studiosi, si tratta di «una delle vette poetiche dei Carmina Burana». Riconducibile a quella vena lirico-amorosa che a partire dal secolo XI sgorgò abbondante in occidente servendosi, oltre che delle lingue volgari, anche e in primo luogo del latino, questo testo ci è giunto anonimo in due manoscritti13 e un esperto come Peter Dronke immagina (ma va sottolineato questo “immagina”) che l’autore possa essere vissuto «nell’ambiente di una corte austriaca
12 Cfr. A.-M. Tupet, La survie d’un thème virgilien: la «Fama», in Présence de Virgile. Actes du Colloque des 9, 11 et 12 Décembre 1976 (Paris E.N.S., Tours), cur. R. Chevallier, Paris 1978, pp. 497-505: 500. 13 Uno dei due è appunto il Codex latinus Monacensis 4660, f. 50v, l’altro Stuttgart, Landesbibl., H. B. I (Ascet.) 95, ff. 77v-78r.
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o tedesca verso il 1220» . Chi si esprime lungo queste tre strofe in prima persona – lo si percepisce subito – è un amante disincatato e deluso che si rivolge all’amata di un tempo rimproverandole di essere già venuta meno, con il nuovo amante (o i nuovi amanti), a quelle norme di prudenza grazie alle quali il suo buon nome era stato preservato al tempo dell’amore con il personaggio al quale sono attribuite queste parole15: II. Nulla notavit te turpis fabula, dum nos ligavit amoris copula. Sed frigescente nostro cupidine sordes repente funebri crimine. Fama letata novis hymeneis irrevocata ruit in plateis. Patet lupanar omnium pudoris, en, palatium, nam virginale lilium marcet a tactu vilium commercio probroso.
III. Nunc plango florem etatis tenere, nitidiorem Veneris sidere, tunc columbinam mentis dulcedinem nunc serpentinam amaritudinem. Verbo rogantes removes hostili, munera dantes foves in cubili. Illos abire precipis, a quibus nichil accipis; cecos claudosque recipis, viros illustres decipis cum melle venenoso.
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I. Rumor letalis me crebro vulnerat meisque malis dolores aggerat. Me male multat vox tui criminis, que iam resultat in mundi terminis. Invida Fama tibi novercatur; cautius ama, ne comperiatur! Quod agis, age tenebris procul a Fame palpebris! Letatur amor latebris cum dulcibus illecebris et murmure iocoso.
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14 P. Dronke, La lirica d’amore in latino nel secolo XIII, in Dronke, Sources of Inspiration. Studies in Literary Transformations, 400-1500, Roma 1997 (già in Aspetti della letteratura latina nel secolo XIII. Atti del primo Convegno internazionale di studi dell’Associazione per il Medioevo e l’Umanesimo latini, cur. C. Leonardi - G. Orlandi, Perugia-Firenze 1986, pp. 29-56), pp. 325-348: 334-336. 15 Carmina Burana, mit Benutzung der Vorarbeiten W. Meyers, kritisch herausgegeben von A. Hilka und O. Schumann, I, 2, Die Liebeslieder, herausgegeben von O. Schumann, Heidelberg 19712, pp. 200-201. Cfr. anche, per un essenziale commento, Carmina Burana, cur. P.V. Rossi, presentazione di F. Maspero, Milano 1989, pp. 154-155 e 289; Love Lyrics from the Carmina Burana, ed., trad., comm. P.G. Walsh, Chapel Hill - London 1993, pp. 150-153. Questo testo potrebbe essere tradotto così: «I. Chiacchiere letali mi feriscono con insistenza e aggiungono dolori ai miei mali. Malamente mi punisce la voce della tua colpa che ormai rimbalza ai confini del mondo. La Fama, invidiosa, si comporta come una matrigna nei tuoi confronti; ama più cautamente perché non si sappia! Quel che fai, fallo nelle tenebre, lontano dalle palpebre della Fama! L’amore, con le sue dolci lusinghe e il suo mormorio giocoso, si compiace dei luoghi nascosti. II. Nessuna turpe diceria ti bollava nel tempo in cui ci univa il legame d’amore. Ma ecco che, raffreddandosi il nostro desiderio, improvvisamente sei insudiciata da una funebre colpa. La Fama resa lieta dalle nuove nozze corre per le piazze senza la possibilità di essere richiamata. Ecco il palazzo del pudore è aperto a tutti come un lupanare; infatti per il contatto di chi è vile il giglio verginale marcisce in uno scambio obbrobrioso. III. Ora piango il fiore dell’età tenera, più splendente della stella di Venere; quella che allora era la dolcezza di una mente di colomba, ora è amarezza
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La Fama in questo testo apparentemente leggero sembra deporre il suo aspetto mostruoso per assumere le movenze di un personaggio umano. Così nella prima strofa non è solo invidiosa della fanciulla alla quale si rivolge l’antico amante, invidiosa così come la vuole un distico proverbiale registrato da Hans Walther: Fama boni lente volat invidia retinente; Fama referta malis velocibus evolat alis16;
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ma si comporta nei suoi confronti come una matrigna (I 9-10). Ed è proprio la consapevolezza di questa malevolenza a suggerire al poeta l’invito dei vv. 13-14: quel che fai fallo al buio, lontano dalle palpebre, e quindi dagli occhi, della Fama! Nella seconda strofa poi (vv. 9-12) la Fama si rallegra per le nuove nozze (si noti come il termine hymenei alluda ironicamente al matrimonio in un contesto nel quale non pare proprio che sia in causa questo tipo di unione) e corre precipitosamente nelle piazze senza che si possa richiamarla indietro, muovendosi – vien fatto di supporre – come una qualunque pettegola. Non dobbiamo tuttavia dimenticare l’ingombrante precedente costituito dall’episodio virgiliano nel quale la Fama si mostra per l’appunto particolarmente attratta dalle vicende amorose dei personaggi, da quell’unione colpevole tra Didone ed Enea, che dovrebbe limitarsi a essere un amore furtivo, ma che la regina non pensa di nascondere e chiama coniugium, matrimonio (Aen., IV, 171-172). E anche nell’Eneide, come abbiamo notato, la Fama fa correre la notizia di questi amori in ambienti cittadini. E allora tornando al Carmen Buranum 120 e all’unico particolare corporeo che venga lì rammentato, le palpebre, non siamo più sicuri di doverle immaginare come le solite membrane che coprono i due occhi di una figura umana femminile, ma finiamo con il sospettare che il termine sia usato non in senso proprio, ma come una sorta di metafora o, forse, catacresi, per indicare quelle che nei versi dell’Eneide sono le piume che coprono il corpo della Fama, le piume sotto ciascuna delle quali si apre un occhio e quante sono le piume e gli occhi altrettante sono le bocche (e le lingue) e le orecchie. Quel che ne risulta è forse la più ambigua, e felice, ripresa medievale della prosopopea virgiliana.
di serpente. Con parole ostili allontani quelli che chiedono, accogli bene nel tuo letto quelli che portano doni. Ordini che se ne vadano quelli dai quali nulla prendi; ricevi ciechi e zoppi, inganni uomini illustri con miele velenoso». 16 H. Walther, Proverbia sententiaeque Latinitatis medii aevi. Lateinische Sprichwörter und Sentenzen des Mittelalters in alphabetischer Anordnung, Göttingen 1963-1969 (Carmina medii aevi posterioris Latina, II/1-6), n° 8819 e cfr. n° 8835.
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Per incontrare di nuovo il corpo virgiliano tutto intero bisogna giungere, secondo Anne-Marie Tupet, alla Franciade di Pierre de Ronsard17, alla quale possiamo accostare, per quel che riguarda la letteratura italiana, l’Adone di Giovan Battista Marino. Nel Canto Undecimo di questo poema il protagonista, pervenuto al cielo e al pianeta di Venere in compagnia della dea stessa, vede, tra le schiere delle belle donne (quelle che già sono vissute e quelle che vivranno in futuro) più bella e luminosa di tutte Maria dei Medici. Ma delle virtù di questa regina, come Venere si affretta a spiegare, potrà fornirgli migliori informazioni
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[...] colei, che tu le vedi a tergo tra’l fido stuol dele seguaci ancelle. Fama s’appella e tien sublime albergo là nel’ultimo ciel sovra le stelle, dove sorge, fondata immobilmente di diamante immortal, torre eminente. (L’Adone, XI, 98, 3-8)
Appare chiaro a questo punto che Marino si colloca sulla scia di Ovidio, tanto che, alle ottave 100 e 101, descrive la dimora della Fama così:
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Entrate innumerabili ha la rocca, e’l tetto e’l muro in molte parti rotto, di bronzo usci e balconi, e non gli tocca, che gran romor non faccia, aura di motto; tosto ch’esce il parlar fuor d’una bocca, a lei per queste vie passa introdotto, e forma quivi un indistinto suono, come suol di lontan tempesta o tuono. Quivi la pose il gran rettor de’ cieli, quasi guardia fedel, cauta custode, perché ciò che si fa scopra e riveli, nunzia di quanto mira e di quant’ode. Cosa occulta non è, ch’a lei si celi, e dà conforme al’opre o biasmo o lode. Se si move aura in ramo, in ramo fronda, esser non può che da costei s’asconda. (L’Adone, XI, 100-101)
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Cfr. Tupet, La survie d’un thème virgilien cit., pp. 500-501.
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Ma questa rocca più o meno ovidiana, di per sé bastevole ad assicurare la funzione rice-trasmittente di cui dicevamo all’inizio, è per Marino la dimora del mostro virgiliano, come si evince dalle ottave 103-104:
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Generolla la terra, e co’ giganti nacque in un parto orribili e feroci; dea, che quant’occhi intorno ha vigilanti, tanti ha vanni al volar presti e veloci, e quante penne ha volatrici e quanti lumi, tante anco ha lingue e tant’ha voci, e tante bocche e tante orecchie, ond’ella tutto spia, tutto sa, tutto favella. Picciola sorge e debile da prima, poi s’avanza volando e forza prende; passa l’aria e la terra e su la cima poggia de’ tetti e fra le nubi ascende; e per vari idiomi in ogni clima pari al guardo ed al volo il grido stende, di ciò ch’altri mai fa, di ciò che dice 18 o di buono o di reo publicatrice . (L’Adone, XI, 103-104)
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Accanto alle riprese encomiastiche, tra le quali non va dimenticata quella di Voltaire nella Henriade, sono altrettanto notevoli quelle più esplicitamente parodiche di Antoine Girard de Saint-Amant (Rome ridicule), Paul Scarron (Enéide travestie), Nicolas Boileau (Le Lutrin)19, che culminano, per ciò che riguarda la letteratura italiana, in una gustosa pagina del Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni nella quale, a spargere la notizia della conversione del Conte del Sagrato, è proprio la Fama del IV dell’Eneide:
Ma quella dea che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, e (ma questo pare più naturale) tante bocche quante lingue, e finalmente tante orecchie quanti occhi lingue e bocche (debb’essere una bella dea) questa ultima sorella di Ceo e di Encelado, partorita dalla Terra in un momento di collera, veloce al passo e al volo, che cammina sul suolo, e nasconde il capo tra le nuvole, che vola di notte per l’ombra del cielo e della terra, nè mai vela gli occhi al sonno; e di giorno siede sui comignoli dei tetti o su le torri, e spaventa le città, 18 G.B. Marino, L’Adone, ed. G. Pozzi, Milano 1976, I, pp. 617-619 e cfr., per il commento, II, pp. 475-476. 19 Cfr. Tupet, La survie d’un thème virgilien cit., pp. 501-503.
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portando attorno il finto e il vero indifferentemente, costei aveva già prima della notte diffusa nei paesi circonvicini la storia delle avventure di quel giorno. Per fare intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato formole che a dir vero appartengono esclusivamente alla poesia, ma saremo scusati da coloro, i quali sanno che ad imprimere vivamente una immagine nelle fantasie il mezzo più efficace è l’allegoria, e singolarmente quella già nota e consecrata dalle antiche favole; poichè quando si vuol fare immaginar bene una cosa, bisogna rappresentarne un’altra: così fatto è l’ingegno umano quando è coltivato con diligenza. Siccome però a voler cavare dalle allegorie il senso vero ed ultimo, quello che si vuol trasmettere, è necessario in ultimo pensare alle cose che le allegorie fanno intendere, così non lasceremo di dire che tutti gli abitanti del contorno, che erano convenuti quel giorno in Chiuso, tornando la sera alle case loro, raccontarono ciò che avevano veduto, ripeterono ciò che avevano inteso, commentarono le circostanze che per sè non avrebbero bastato a dare idea d’un fatto compiuto, e inventarono gli episodj che erano indispensabili per dare continuità alla storia. Ma il fondo delle loro relazioni era vero; e questo fondo aveva abbondantemente di che eccitare una grande maraviglia e un grande interesse. [...] Al mattino seguente la fama si posò anche sul comignolo del castellotto di Don Rodrigo; ed è facile immaginarsi che la novella ch’ella portava fece sull’animo suo tutt’altro effetto che sull’animo di quella povera moltitudine20.
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Mettiamo ora da parte questo corpo, spesso eluso o rappresentato di volta in volta, quasi per sineddoche, attraverso un solo elemento (o pochi elementi) e proviamo a vedere che cosa succeda della definizione della Fama come male e della sua genealogia, che anch’esse pare non abbiano goduto di un grande successo. È bensì vero che l’esametro «Fama, malum quo non aliut velocius ullum» (Aen., IV, 174), insieme al successivo «mobilitate viget viresque adquirit eundo», è registrato nella raccolta di proverbi e sentenze della latinità medievale allestita da Hans Walther21, ma, a riscontro di questo dato, vale la pena di rileggere alcune righe del più grande ammiratore medievale di Virgilio. Si tratta di quel celebre passo del Convivio in cui Dante comincia a spiegare perché l’esilio e la povertà, che l’hanno spinto a peregrinare «quasi mendicando» lontano da Firenze, l’abbiano svilito agli occhi di molti che forse «per alcuna fama» se l’erano immaginato diverso; e, riservandosi per il capitolo seguente la spiegazione delle ragioni per le quali «la presenza fa la persona di meno valore ch’ella
20 A. Manzoni, Fermo e Lucia, III 3, 25-30, in A. Manzoni, I promessi sposi, cur. L. Caretti, con un indice analitico dei personaggi e delle cose notevoli, I, Torino 1971, pp. 342343. 21 Cfr. Walther, Proverbia cit., n° 8827.
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non è», conclude il III capitolo del primo libro mostrando come avvenga che la fama ingrandisca le cose oltre la verità:
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La fama buona, principalmente [è] generata dalla buona operazione nella mente dell’amico e da quella è prima partorita; ché la mente del nimico, avegna che riceva lo seme, non concepe. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade dell’amico che lo riceve, non si tiene alli termini del vero ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra coscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. La seconda mente che ciò riceve, non solamente alla dilatazione della prima sta contenta, ma ’l suo riportamento, sì come qu[as]i suo effetto, procura d’adornare; e sì, che per questo fare e per lo ’nganno che riceve della caritate in lei generata, quella più ampia fa che a lei non vène, e [con] concordia e con discordia di coscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. E così, volgendo le cagioni sopra dette nelle contrarie, si può vedere la ragione della infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto dello Eneida che la Fama vive per essere mobile e acquista grandezza per andare. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa 22 imaginata nel vero stato .
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Dante dunque sigilla queste righe con un rinvio a Virgilio, al IV dell’Eneide, ma (come è facile notare) volgarizza solo il secondo verso del distico, che, come abbiamo avuto occasione di dire, era diventato proverbiale, «Fama, malum quo non aliut velocius ullum:/ mobilitate viget virisque adquirit eundo» (Aen. IV, 174-175): «la Fama vive per essere mobile e acquista grandezza per andare». La Fama dunque nel Convivio non è ontologicamente un male e alla genealogia mitica del maestro sempre ammirato, ma dal quale si può, talvolta, anche discostarsi, Dante sostituisce una più complessa genesi psicologica nella quale non tutto è ugualmente degno di condanna: a concepire e partorire la fama non è la Terra, ma la mente dell’uomo che nel suo parto «non si tiene alli termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra coscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa». La genealogia virgiliana della Fama non sembra del resto che abbia avuto fortuna né tra i mitografi tardo-antichi e medievali, né tra quei commentatori dell’Eneide che puntavano le loro carte sull’allegoria: tace su questa dea Fulgenzio e tace Bernardo Silvestre. Il primo a occuparsi dell’argomento, per quanto ne so, fu Paolo da Perugia, il dotto bibliotecario 22 Dante Alighieri, Convivio, I, III 7-11, ed. F. Brambilla Ageno, 2. Testo, Firenze 1995, pp. 14-15.
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di re Roberto d’Angiò e poi, sulla sua scorta, Giovanni Boccaccio nelle Genealogie deorum gentilium (un’opera che ebbe la sua stesura definitiva fra il 1365 e il 1370). Lì il X capitolo del primo libro è tutto dedicato alla Fama, che viene classificata fra i cinque figli che la Terra generò da padri sconosciuti: Notte, Fama, Tartaro, Tagete, Anteo23. Naturalmente, benché sia ricordato anche Ovidio con la dimora che ha costruito per la dea nelle Metamorfosi, la fonte principale è il IV libro dell’Eneide, donde Paolo da Perugia aveva ricavato la fabula sulla quale prende l’avvio Boccaccio, con quest’aggiunta però (derivata probabilmente dal cosiddetto Servius auctus24), che la Terra avrebbe partorito la Fama «scelerum superum relatricem», perché raccontasse i misfatti degli dei: Quod cum ob regni cupidinem bellum inter Titanas gigantes, Terre filios, et Iovem esset exortum, eo itum est ut omnes Terre filii qui Iovi adversabantur occiderentur a Iove et diis aliis. Quo dolore Terra irritata et vindicte avida, cum sibi adversus tam potentes hostes arma deessent, ut illis quibus poterat viribus aliquid mali ageret, coacto utero, Famam emisit scelerum superum relatricem25.
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Fin qui la fabula. Poi Boccaccio riferisce l’interpretazione allegorica dello stesso Paolo da Perugia che si concentra su quattro elementi: gli dei, la loro ira (deorum quindi viene interpretato come genitivo soggettivo), la Terra, la Fama. Gli dei sono gli astri, la loro ira sono gli influssi astrali che di per sé sono tutti buoni in quanto vengono da Dio, ma che talvolta gli uomini sentono come ingiusti, negativi, come nel caso in cui portano la morte. La Terra è l’uomo (si noti, su questo punto, l’analogia con il Convivio), che prova irritazione nei confronti di questi influssi e reagisce procurandosi la fama per sopravvivere, grazie al ricordo dei propri meriti, 23
Cfr. Giovanni Boccaccio, Genealogie deorum gentilium, ed. V. Zaccaria, in Giovanni Boccaccio, Tutte le opere, cur. V. Branca, VII-VIII, Milano 1998, pp. 118-127 (anche la traduzione è di Vittorio Zaccaria. 24 A commento di «extremam» (Aen., IV, 179) leggiamo che la Terra partorì la Fama per ultima «aut post omnes gigantas, quippe ad deorum ultionem nata: nam per ipsam eorum crimina vulgata sunt; aut certe ‘extrema’ pessima: omnes enim, qui de medicina tractant, dicunt naturale esse, ut inutiliores sint qui nascuntur ultimi. Famam ergo inducit ultam esse fratres, quia ipsa deorum delicta vulgavit. [...]» (Servii Grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii cit., pp. 494-495: in corsivo le parti attribuibili a quella redazione del commento che siamo soliti individuare come Servius auctus). 25 «Poiché era sorta una guerra, per la brama del regno, fra i Titani giganti, figli della Terra, e Giove, le cose giunsero al punto che tutti i figli della Terra, che avversavano Giove, furono uccisi da lui e dagli altri dei. La Terra, irritata dal dolore di queste uccisioni e avida di vendetta, poiché le mancavano le armi contro nemici così potenti, per arrecare loro con le forze disponibili qualche male, premendo l’utero, partorì Fama, affinché riferisse i delitti degli dei» (Boccaccio, Genealogie deorum gentilium cit., pp. 118-119).
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quando si sarà abbattuta su di lui l’ira degli dei, cioè la morte. Ora in questa catena interpretativa che fa pensare al trionfo (l’uso di un termine così petrarchesco è del tutto intenzionale) della Fama sulla Morte, c’è, se posso dire così, un punto debole, per rilevare il quale basta affiancare l’una all’altra la serie dei significanti letterali e quella dei significati allegorici: dei ira degli Dei Terra Fama
astri influssi astrali negativi (morte) uomo fama
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Ora nell’ultimo passaggio il significato letterate e quello allegorico apparentemente coincidono. Ho detto “apparentemente”, perché in realtà una differenza c’è: la personificazione virgiliana della Fama rumigerula ha come significato “secondo” la fama come buona reputazione, cioè come l’unico “bene” che (là dove le ricchezze ci abbandonano) può prolungare la nostra vita oltre la morte. Ma questo spostamento da un significato all’altro dello stesso termine, oltre a contravvenire alle regole del gioco allegorico, si scontra con una evidente difficoltà nel testo stesso di Virgilio dove, lo abbiamo visto, la Fama è definita «malum». Per venire a capo di questa aporia Boccaccio comincia col dire che la definizione di Virgilio si giustifica tenendo conto del fatto che talvolta l’uomo persegue e ottiene la fama con metodi illeciti; ma è chiaro che questo non basta:
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Hanc autem Famam ideo malum dixit Virgilius, quia non equo passu ad eam perquirendam tendimus omnes. Nam per fraudes ut plurimum summa occupari sacerdotia cernimus, dolo victorias obtineri, principatus possideri violentia, et ea quecunque per fas et nefas que nomina solent in lumen extollere. Nam si per virtutem agatur, tunc non malum iure dicitur Fama.
E allora ecco l’accusa a Virgilio di essersi, per una volta, spiegato male (dobbiamo sempre ricordare che Boccaccio non sta commentando Virgilio, lo sta usando come fonte mitografica), quella che nel IV dell’Eneide viene chiamata Fama, non è la Fama, è l’Infamia:
Verum in hoc improprie locutus est autor usus pro infamia vocabulo Fame, cum si fictionem inspiciamus, seu potius fictionis causam, satis advertemus ex ea infamiam non famam secutam26.
26 «Questa Fama poi Virgilio ha definito un male, perché tutti, con non giusto passo, tendiamo a ricercarla. Vediamo che per lo più con la frode si ottengono i sommi sacerdozi, con l’inganno le vittorie, con la violenza si occupano i principati e tutte quelle cose che, in
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Così, per salvare l’interpretazione allegorica di Paolo da Perugia, Boccaccio finisce col revocare in dubbio la congruenza del testo antico. Del resto qualche sintomo di disagio nei confronti della definizione della Fama come male si può registrare anche nei secoli precedenti. Per esempio Ilario di Orléans, un allievo di Abelardo, usa per due volte, giocosamente, la iunctura «Fama malum», una volta per confermare l’asserzione virgiliana e una volta per contraddirla. In un suo carme la Fama è davvero quel male di cui si parla nell’Eneide perché Caliastrum (Chalautre - La Petite, una modesta località vicina a Provins) è un luogo bello, rigoglioso e accogliente, mentre la Fama lo fa passare per insignificante; in un altro essa invece fa conoscere in giro le virtù di un personaggio dal quale il poeta si aspetta dei benefici e quindi non è un male, anzi è un bene: Fama bonum, ex cuius nuntio magna qui sis ex parte sentio. Sed plus tamen sentire sitio, si sit opus meo servitio.
Fama malum, dixit Virgilius, bene dixit, nil umquam melius. Fama bonum, dixit Hilarius, verum dixit, nil umquam verius27.
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Ora questo sdoppiamento scherzoso si fa serio in un altro poeta del XII secolo, Alano di Lilla, autore di un lungo poema allegorico, l’Anticlaudianus, nel quale personificazioni come Natura, Prudentia, Ratio, agiscono alla stregua di personaggi. La fabula – è ben noto – consiste in questo: Natura, insieme con le Virtù, progetta una riforma dell’umanità e, con l’assenso e l’aiuto di Dio, che crea l’anima, dà vita a un uomo nuovo (Juvenis) che riporterà l’età dell’oro sulla terra. In questo poema Alano ricorre non a una, ma a due personificazioni (anzi, si potrebbe quasi dire
modo lecito o illecito, sogliono sollevare i nomi alla luce della gloria. Se infatti si agisca con la virtù, allora la Fama non a ragione può dirsi un male. Invero non propriamente ha parlato l’autore, usando il vocabolo fama per infamia, poiché, se penetreremo la finzione poetica, o, meglio, la sua causa, ben ci accorgeremo che da essa non la fama, ma l’infamia è derivata.» (Boccaccio, Genealogie deorum gentilium cit., pp. 122-123). 27 Hilarii Aurelianensis Versus et ludi, Epistolae, Ludus Danielis Belouacensis, herausgegeben von W. Bulst† und M.L. Bulst-Thiele, Leiden-New York-København-Köln 1989, pp. 3236. «La Fama – possiamo tradurre – è un bene dal cui annuncio sento in gran parte quale tu sia. Ma, se c’è bisogno del mio servizio, ho voglia di sentire di più. “La Fama è un male” disse Virgilio; bene disse, niente mai fu detto meglio. “La fama è un bene” disse Ilario; con verità disse, niente mai fu detto di più vero».
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tre) riconducibili al concetto di fama. Nel VII libro del poema Natura ha completato il nuovo corpo, Concordia ha unito questo corpo all’anima e ciascuna delle Virtù concede alla nuova creatura il dono che le è proprio. Alla fine giunge Favor che fa in modo che tutte queste doti ottengano anche il riconoscimento della lode e siano note dappertutto grazie alla celere Fama: Que, quamvis soleat verum corrumpere falso, hic nescit nisi vera loqui moresque vetustos exuit [...]28. (Anticlaudianus, VII, 87-89)
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Si tratta qui, in sostanza e almeno dal punto di vista morale, della personificazione virgiliana, che, eccezionalmente, tiene un comportamento contrario alla propria natura in onore di Juvenis, salvo poi tornare, nell’VIII libro, alle proprie cattive abitudini quando, diffondendo la notizia che le forze infernali si stanno muovendo contro Juvenis, riprende a mescolare il falso col vero e a dilatare i pericoli per spargere terrore:
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Nuncia Fama volat et veris falsa maritans, in superos Furias, in celum regna silentum conspirasse refert, Manes Herebique tirannum tartareum reserasse Chaos [...]; monstraque mentitur, monstris maiora loquendo, dum sceleri scelus accumulat Furiisque furorem addit et Eumenides solito plus posse fatetur. Thesiphones cumulat iras augetque Megeram; sevior assurgit Pluto; fit maior Herinis; desinit esse triceps inferni ianitor, ora mille capit; proprios Alecto dupplicat angues29. (Anticlaudianus, VIII, 305-316)
Ma nell’VIII libro, tra le schiere dei Vizi suscitate da Aletto contro 28
«Questa, sebbene sia solita corrompere il vero col falso, stavolta dice solo la verità, va contro al suo antico costume [...]» (Alano di Lilla, Viaggio della Saggezza. Anticlaudianus, Discorso sulla sfera intelligibile, introd., trad. C. Chiurco, Milano 2004, pp. 256-257). 29 «Fama vola annunciando le notizie e, mescolando menzogne a verità, riferisce che le Furie e i regni dei morti si sono uniti in cospirazione contro gli dei e il cielo e che, assieme ai Mani, il tiranno dell’Erebo ha disserrato il Caos tartareo [...]; ella inventa cose terribili, rendendole ancora più mostruose con le sue parole, mentre accumula delitti su delitti e aggiunge follia alle Furie, ed afferma che le Eumenidi sono ancora più potenti di quanto sia usuale. Accresce le ire di Tesifone ed aumenta quelle di Megera; dice che Plutone si innalza dal profondo ancor più crudele; l’Erinni appare ancor più grande; il custode dell’Inferno non ha più solo tre teste, ma mille; Aletto duplica i suoi serpenti» (ibid., pp. 294-297).
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Juvenis e le sue Virtù, dopo Discordia e Pauperies si era già fatta avanti anche Infamia: Subsequitur vallata suis Infamia monstris; illius vexilla gerunt Contagia vite, Factaque digna notis et Vita notabilis actu. Despectus comittatur eam, Pudor heret eunti, serpit humi Murmur, currunt Convicia, laudem Fama per antiphrasim fundit risumque Cachini30. (Anticlaudianus, VIII, 243-248)
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Juvenis, nel IX libro, subirà anche l’assalto di questo nemico che lo attaccherà vanamente prima con un’arma da getto, poi anche con la spada:
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Sed postquam ducis insultus nil posse clientum turba videt, magis in rabiem succenditur; ergo forcius arma rapit, pugnant Contagia, Murmur irruit, insurgunt Convicia, Dedecus instat. Sed iuvenis nec mente iacet, nec frangitur hoste, nec terrore pavet, nec vulnere lesus oberrat, sed cornu quo Fama sue preconia laudis intonat, ad tempus Fame subducit et hostem hoc mucrone ferit, vires in vulnere multo monstrat et egressus crebro reseratur in ictu. Hostis in occasu Pudor occidit, arma reponit Murmur, mutescunt Convicia, Dedecus iram nescit, Contemptus moritur, Contagia cedunt. Dedecus ergo Favor extinguit, Fama Pudorem; Gloria supplantat Murmur, Convicia Laudes, Contemptum predatur Honor, Contagia Virtus31. (Anticlaudianus, IX, 133-148)
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«La segue, circondata dai suoi mostri, Infamia: portano i suoi vessilli i Contagi della vita, i Fatti degni di censura e la Vita famigerata. L’accompagna Disprezzo, Vergogna le sta accanto nel cammino, Zizzania striscia sul terreno, le Contese corrono, Fama per contrasto sparge lodi e Sghignazzo il riso» (ibid., pp. 292-293). 31 «Quando la turba dei suoi clienti capisce che l’attacco del comandante non ha alcun potere, ancor più si accende di rabbia; ecco che con più vigore essi afferrano le armi: combattono i Contagi, Chiacchiera si lancia, Ingiurie insorgono, Disonore incalza. Juvenis non perde la concentrazione né viene abbattuto dal nemico, e non è neppure colto dal terrore né vaga ferito, ma per un attimo sottrae a Fama il corno con cui di solito questa intona le proclamazioni della propria gloria ed usandolo come un pugnale ferisce il nemico, mostra le sue forze infliggendo gravi ferite e si apre un varco con ripetuti colpi. Nella disfatta del nemico Vergogna muore, Chiacchiera abbandona le armi, Ingiurie ammutoliscono, Contagi cedono, mentre Favore spegne Disonore, Fama la Vergogna; Gloria soppianta la Chiacchiera, Lode le Ingiurie, Onore depreda Disprezzo e Virtù i Contagi» (ibid., pp. 306-307).
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Dunque non solo la turba dei clientes viene sbaragliata, ma Juvenis colpisce addirittura Infamia col corno, strappato per l’occasione proprio a Fama, che fa ancora parte del suo seguito (si noti che, col tempo, il corredo di questa personificazione ha preso ad arricchirsi). Ora lo sdoppiamento Fama / Infamia, come in Ilario di Orléans, così anche in Alano mostra una radice che possiamo definire, in senso lato, encomiastica, dal momento che è tutt’altro che improbabile che Juvenis alluda anche al giovane re di Francia Filippo Augusto. Ma è giunto il momento di tornare a Virgilio e di porci, a modo di conclusione, due domande. In primo luogo, perché secondo il poeta dell’Eneide la Fama è un male? E poi, perché la definizione della Fama come male viene per lo più ignorata e in alcuni casi anche contraddetta da altri poeti? A me pare che la risposta a entrambe le domande sia la medesima. La Fama per Virgilio è un male perché unisce, senza badare alle conseguenze o addirittura con intenti gioiosamente maligni, il vero con il falso, facendosi annunciatrice «tam ficti pravique [...] quam [...] veri» (v. 188). Ma così facendo essa usufruisce di una libertà di movimento nel regno del falso, dell’inventato, che, sia pure con fini diversi, è concessa anche alla poesia che, quasi per statuto, mescola «vera cum fictis», come suonano le parole che Servio usa proprio nell’accessus all’Eneide, quando cerca e trova la definizione che per secoli spiegherà ai lettori occidentali i tratti caratterizzanti del genere poetico più alto, il carmen heroicum32. Né si può infine ignorare che il verbo che Virgilio adopera al v. 190 per indicare il modo in cui la Fama si esprime sia canere («pariter facta atque infecta canebat»), proprio quello che di solito viene usato per gli oracoli, le Parche, le Muse o, naturalmente, per i poeti33. Proprio queste analogie tra la Fama e la poesia devono aver indotto i poeti dei secoli seguenti a guardare con freddezza, se non con sospetto, la definizione della Fama come male. Del resto – chi non lo sa? –, prestando a Virgilio una fede che, come non è dovuta ai rumores della fama, così non è dovuta ai poeti, molti lettori dell’Eneide 32 33
Cfr. Servii Grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, ed. cit., p. 4. Il nesso Fama canit ricorre, ad esempio, in Lucan., II, 672; Stat., Theb., X, 669 (ma cfr. anche II, 213, addotto più sopra); Claud., Carm., 21, 312. Quanto agli indovini e agli oracoli si pensi, per fare solo pochi esempi tratti dall’Eneide, a Calcante che «extemplo temptanda fuga canit aequora [...]», all’arpia Celeno che «novom dictuque nefas [...]/ prodigium canit», alla Sibilla che «rupe sub ima/ fata canit» (II, 176; III, 365-366; III, 443-444), o, lasciando da parte Virgilio, alle Parche di Catull., Carm., 64, 306 («Veridicos Parcae coeperunt edere cantus»), alla Lachesi di Claud., Carm., 20, 288 («Lachesis grandaeva canebat»), alle Pieridi di Tib., Eleg., III, 8, 21 («Hanc vos, Pierides, festis cantate kalendis»). Quanto ai poeti, benché sia del tutto superfluo, mi piace ricordare l’incipit dell’Eneide: «Arma virumque cano [...]».
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hanno creduto che davvero Didone si sia uccisa per amore di Enea, senza prendere in considerazione la possibilità che in questo episodio come in altri molto ci sia di inventato. Ma a rivendicare l’onore di Didone, non contro la Fama menzognera, bensì contro la poesia di Virgilio, ci avrebbe pensato Francesco Petrarca che, forte delle testimonianze di storici, esegeti, padri della Chiesa, che presentavano Didone come eroina della fedeltà coniugale, nel Triumphus Pudicitie accoglie la versione che la vuole suicida, non per essere stata abbandonata da Enea, ma per evitare le nozze con Iarba e mantenersi fedele alla memoria del primo marito:
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Poi vidi, fra le donne pellegrine, quella che per lo suo diletto e fido sposo, non per Enea, volse ire al fine: taccia il vulgo ignorante! io dico Dido, cui studio d’onestate a morte spinse, 34 non vano amor, come è il publico grido .
34 Triumphus Pudicitie, 154-159 (Francesco Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, Codice
degli abbozzi, cur. V. Pacca - L. Paolino; introd. M. Santagata, Milano 1996, pp. 254-256; ma cfr. anche la nota alle pp. 228-230 che contiene gli opportuni rimandi bibliografici). Il testo petrarchesco forse più significativo a proposito di Didone è però Sen. IV, 5, 57-67 (cfr. Francesco Petrarca, Res seniles, Libri I-IV, ed. S. Rizzo, con la collaborazione di M. Berté, Firenze 2006, pp. 310-343: 330-333). Cfr. A. La Penna, Didone, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, pp. 48-57: 50-51; M. Feo, Petrarca, ibid., IV, Roma 1988, pp. 53-78: 72; V. de Angelis, Petrarca, i suoi libri e i commenti medievali ai classici, «Acme», 52 (1999), pp. 49-82: 51-61.
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Il Triumphus Fame del Petrarca: varianti testuali e costanti tematiche
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Dalla semantica della reputazione, ieri, a quella della fama come male, oggi, a quella della gloria terrena, «che trae l’uom del sepolcro e ‘n vita il serba» (Petrarca, Triumphus Fame, I 8-9); ma già Dante temeva, se fosse stato «timido amico» della verità, di «perder vita fra coloro / che questo tempo chiameranno antico» (Paradiso, XVII 119-120) e, sempre nel poema, Brunetto Latini presagiva all’antico allievo «Se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorïoso porto» (Inferno, XV 55-56). Eppure, le cose stanno in modo più complesso, con oscillazioni fra il polo positivo e quello negativo anche in Dante. A maggior ragione sarebbe una pretesa illusoria quella di chiudere in una normale relazione congressuale l’intera problematica della Fama in Petrarca; come sarebbe velleitario limitarsi al solo ambito del quarto Trionfo (che d’ora in poi sigliamo TF). Essa infatti attraversa il complesso dell’opera petrarchesca in quanto componente essenziale del cosiddetto “mito dafneo”, sintesi di amore e poesia, o meglio gloria poetica, nelle sue radici ovidiane, evidenti soprattutto fra i Rerum Vulgarium Fragmenta (d’ora in poi RVF), dove c’è addirittura una canzone dedicata alla Gloria1 e l’Africa2, e della successiva condanna “cristiana” o “anti-pagana” dello stesso3, non senza che la mitografia del «dì sesto d’aprile» si prospettasse quale coeva e insieme contrapposta, fin dagli esordi poetici, alla Parnasia laurus4. Tale mito, inoltre, trova addentellati precisi, rispetto all’asse del TF, in primo luogo nel Secretum (si ricordi che nel III libro Agostino rimprovera Petrarca «di aver fatto una cosa sola di
1 È la CXIX, Una donna più bella assai che ‘l sole, scritta dopo l’incoronazione in Campidoglio, l’8 aprile 1341: cfr. C. Calcaterra, Nella selva del Petrarca, Bologna, 1942, pp. 74 ss. 2 Ivi, pp. 11 ss., 34 ss. 3 Ivi, pp. 15 ss. 4 Ivi, pp. 44, 50, 61.
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Laura e della gloria poetica») , ma anche nell’epistolario e nel De remediis. Ma su tale snodo complesso ci affidiamo oggi alle parole chiarificanti di Michele Feo, che ha saputo sviluppare da par suo non solo un riepilogo della questione6, ma soprattutto7 le connessioni fra la decima egloga, Laurea occidens (ove, nella scia del De raptu Proserpinae di Claudiano, la «galleria dei grandi trapassati» si associa alla pulcherrima laurus, cioè all’allegoria della gloria) e la successiva canzone delle “visioni”, Standomi un giorno solo a la fenestra (RVF, CCCXXIII), celebrante il lauro stroncato contro natura dalla folgore, allegoria della morte di Laura-gloria, dove al v. 55 si legge che «ogni cosa al fin vola», dunque anche la fama che ci si illudeva fosse immortale. Per tutto questo, e per non scivolare in una schedatura analitica e dispersiva, mi sono imposto un titolo che intende ancorare al TF tutti i possibili agganci essenziali per intendere il senso profondo, o, se vogliamo, la polivalenza contraddittoria del tema della Fama in Petrarca: non tanto nel suo legame con l’Amore, quanto nel più difficile e periglioso rapporto col Tempo.
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A testimonianza di quanto controversa sia la fenomenologia della Fama in Petrarca, potrebbero già avere un ruolo le varianti testuali accreditate da una tradizione duplice, cui afferiscono da una parte i cosiddetti collettori cinquecenteschi di lezioni originarie – nel caso di TF, ben quattro: l’Harleiano (H), il Casanatense (C), il Parmense (P) e l’incunabolo londinese (I) –, dall’altra la “vulgata” (tendenzialmente) quattrocentesca comprendente oltre seicento testimoni. Premettiamo che non esiste altro “canto”, fra i sei che compongono il poema, così tormentato e instabile (sia nell’ordine, sia nel numero dei capitoli, sia nel testo dei singoli elementi) e insieme così paradigmatico per la costitutiva incompiutezza dei Triumphi (nei quali l’unico dato certo è il “sei laurano” dei singoli “canti”)8. L’unico che gli si possa lontanamente paragonare, anche perché attestato nei col-
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Ivi, pp. 60 e 74 ss. M. Feo, Umanesimo del Canzoniere, in Petrarca nel tempo. Tradizioni lettori e immagini delle opere, Pontedera, 2003, p. 40. 7 M. Feo, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, in Il Petrarca ad Arquà, Padova, 1975, pp. 117 ss., ora riproposto in Petrarca nel tempo cit., pp. 119 ss. 8 Ivi, pp. 209 ss.; E. Pasquini, Per il «dì sesto d’aprile»: postille minime ai «Triumphi», «Studi e problemi di critica testuale», 71 (ottobre 2005), pp. 17-33; ma anche La sestina CXLIII («A la dolce ombra»), «Atti e memorie dell’Accademia Galileiana di Padova», 116/3 (2004), pp. 337-346.
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lettori di varianti , è il TC, in quattro capitoli, il quale – a parte le microvarianti testuali – presenta solo un’incertezza nell’ordine dei capitoli (fra TCII e TCIII) e soprattutto, per TCIII, una fase frammentaria (sia pure attestata dall’autografo, “codice degli abbozzi”, V2), superata da una redazione successiva, che è poi quella approdata alla vulgata. Viceversa TF annovera ben due capitoli in redazioni rifiutate, confinati in appendice nelle edizioni moderne, a partire da Appel (1901). Si tratta in primo luogo di TFIa, composto fra il 1348 e il 135110, sdoppiatosi poi in TFI-II11, strettamente legato a TM212, con possibilità di un Ur-Triumphi costituito soltanto da questi due capitoli: dunque pertinente a una fase cronologica (primissimi anni Cinquanta)13 ben anteriore a TFIIa, che è il capitolo riscoperto sessant’anni fa da Roberto Weiss14. TFIIa infatti si colloca addirittura nel 1371, a sette anni dal completamento di TFIII, che intendeva sostituire15 e che resta sostanzialmente incompiuto16. E tuttavia TFIIa venne archiviato dall’autore, insoddisfatto del tentativo17, al punto di lasciarlo precocemente incompiuto, fra lacune, vuoti, e il malconcio spazio bianco finale18. Del resto, è quasi endemica l’insoddisfazione di Petrarca all’altezza del TF19; ed è ugualmente giusto ravvisare in TFIII 118-121 «i versi più tormentati del poema». Non potendo in questa sede offrirvi l’intero prospetto del work in pro-
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9 Il TM (cioè il Triumphus Mortis), formato di due capitoli, quantunque esibisca un frammento-abbozzo (TMIa), non ha cittadinanza nei collettori, come anche TT (Triumphus Temporis), con capitolo unico però. TC è la sigla del Triumphus Cupidinis. 10 Cfr. F. Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, codice degli abbozzi, edd. V. Pacca - L. Paolino, introd. M. Santagata, Milano, 2006, p. 551 (d’ora in poi cit. come Pacca più pagine). 11 Cfr. F. Petrarca, Triumphi, ed. M. Ariani, Milano, 1988, p. 419 (d’ora in poi cit. come Ariani e pagine) e Pacca, p. 549 («non tutti gli elementi del rifiutato TFIa confluirono nei due capitoli canonici», ma «non ci sono da segnalare esclusioni clamorose»). Sulle diverse opinioni, anche aberranti, circa questo capitolo, palesemente rifiutato da Petrarca, cfr. Pacca, pp. 552-553. 12 Cfr. Ariani, p. 419 e E. Pasquini, Filologia petrarchesca fra Otto e Novecento: i «Triumphi», in La filologia petrarchesca nell’800 e ‘900. Atti dei convegni lincei, 231, Roma, 2006, pp. 177-178. 13 Cfr. Ariani, p. 418. 14 R. Weiss, Un inedito petrarchesco. La redazione sconosciuta di un capitolo del Trionfo della Fama, Roma, 1950. 15 Cfr. Ariani, p. 433. 16 Ivi, pp. 327 e 348. 17 Ivi, p. 435, nella scia di Ezio Raimondi, recensione a Weiss (1950), «Studi Petrarcheschi», 3 (1950), pp. 215-229. 18 Cfr. Ariani, pp. 443 e 446-447. 19 Giustamente Ariani, p. 306, osserva: «non ha mai firmato un esplicito hoc placet complessivo per queste pagine».
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gress per TF, che ovviamente riservo all’edizione nazionale che da troppi anni attende di essere completata20, vorrei qui proporvi alcuni esempi di grovigli redazionali di TF, lontanissimi dalle due semplificanti redazioni di Appel, a preparare il discorso tematico, specie per i casi in cui certe correzioni dell’autore attestano uno sforzo di corrispondere meglio ai concettichiave che dominano la stesura di questo Trionfo21. Prescindo dunque dalle varianti meramente formali, che pure spesso i commenti moderni registrano (segnatamente, l’Ariani), e mi limito alle varianti instaurative, cioè a correzioni e miglioramenti di senso o di sostanza, privilegiando per giunta gli acquisti culturali su quelli espressivi, senza poi trascurare i casi più interessanti di varianti adiafore, dove la scelta del poeta non perviene all’ hoc placet fatidico. Interessano in primo luogo i passi (in genere coppie di versi o terzine) in cui si hanno oscillazioni, fra sostituzioni e rinunce anche tormentose, di clara nomina, i nomi dei protagonisti di questo museo delle glorie terrene22: TFI
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53 duo Pauli e duo Metelli e Regol uno> duo Metelli, duo Apii…> duo Metelli e duo Pauli e duo Marcelli > …Pauli e duo Apii Bruti > … Metelli, duo Apii Bruti e duo Marcelli > duo Pauli, duo Bruti e duo… 95-96 Rutilio e Philo e quel forte e leggiero / Papirio ch’è sul fior degli anni suoi > Cosso e Philone… > … Philone e Mallio e quel leggiero… > Cosso e Rutilio e quel forte… > Cosso e Philon, Rutilio e quel severo… > Quel che da l’esser suo destro e leggiero / ebbe nome e sul fior… > … / ebbe ‘l nome e fu ‘l fior… 109-111 Poi venian quei che ben resser il mondo, / fra’ qua’ Vespasian rividi e Tito / […] > Poi Mario vien, cui nulla par che caglia / del tedesco furor; e Fulvio Flacco / ch’al capuan senato l’ingrate teste taglia > … che ‘l collo a’ capuani ingrati taglia > Mario poi, che Iugurta e i Cimbri atterra / e ‘l tedesco…/ che per far me’ iustitia a bel studio erra > …ch’a gli ‘ngrati troncar a bel …
20 Mi limito a rinviare alle anticipazioni che ne ho dato in più riprese, a partire dai Preliminari del 1974 (in Il Petrarca ad Arquà…, pp. 199-240), attraverso Il testo: fra l’autografo e i testimoni di collazione … (1999), Petrarca fra il Tempo e l’Eternità (2004), Per il “dì sesto”… (2005), fino a Filologia petrarchesca… (2006), Nell’officina dei Triumphi: Petrarca fra il tempo e l’eternità, in Studi in onore di Vitilio Masiello, Bari, 2006, I, pp. 156-182 e a F. Petrarca, Opere italiane. Ms. Casanatense 924, commento di P. Vecchi (per RVF e “disperse”) ed E. Pasquini (per i Triumphi), Modena, 2006. 21 Non rientra in questo spoglio TFIa che non presenta varianti originarie: cfr. Pacca, p. 551. 22 Tre puntini a indicare equivalenza di versi o segmenti di versi; parentesi quadre per i versi non ricostruibili in quanto appartenenti a una terzina di cui manca uno dei versi: così a TFI 109-111, TFII 88, eccetera. Corsive e separate da un vs le eventuali lezioni adiafore.
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50-51 Lungi vidi con altra gente il primo / che volse a l’alto dio fondare il tempio > Poi venia gente ov’era quel ch’è ‘l primo… > Brenno, sotto cui cadde gente molta, / poi cadde egli a quel famoso tempio > … e poi cadd’ei sotto ‘l famoso… > … sotto al delphico tempio 76-78 Poi il giusto Ezechia e Sanson casto; / colui vidi oltra qual occhio non varca, / la cui inobedientia ha ‘l mondo guasto > Poi, stendendo la vista quant’io basto, / rimirando ove l’occhio oltre non varca, / vidi lui, la cui gola ha… > … vidi il giusto Ezechia e Sanson guasto 88-90 I’ vedea gir insieme ad una lista / alquante donne e l’una […] > I’ vidi alquante donne ad una lista, / Anthiope et Erithia ch’è sua sorella, / Menalippe et Hipolita più trista > … Ipolita, che in guerra vs in l’arme vs al ferro fu sì snella, / ma del figliuol assai vs venia pensosa e trista > … Antiope et Oritia armata e bella, 23 / Hippolita del figlio afflitta e trista 157-159 Tre chiudean poi quell’honorata schiera / che, per ornar di nove e lucide astre / il ciel, là su saliron pur iersera > Poi tre ch’al ciel saliron pur iersera / per ornarlo di chiare e lucide astre […] > E vidi tre ch’al ciel salir iersera… […] > Poi vidi uomin duo […] > E vidi due che si partiro iersera / di questa nostra etate e del paese: / questi chiudean quella onorata schiera > … costor chiudean… 160-163 L’un era il chia… > L’un fu ‘l famoso… > Riconobbi il bon duca di Lancastro… > Il buon… > L’alto… > Il buon re sicilian… > el buon re cicilian che in alto intese, / riconobbi il buon duca di Lancastre24, / da l’altra parte el mio gran Colonnese, / splendor con l’opre coraggiose e mastre > … gloria con l’opre valorose… > … e molto vide e fu veramente Argo; / i duo di nostra etate e del paese, / magnanimo, gentil, cortese e largo > … e lunge vide… / da l’altra parte… / … constante e largo
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46-48 E vidi andar inseme per camino / Crasso, Antonio e Ortensio e Galba e Calvo / tener che van vie tenne quel d’Arpino > … tener che via mi tenne… > … ardito di tentar già quel d’Arpino > Poi vidi il gran platonico Plotino / che, credendosi in otio viver salvo, / prevento fu dal suo fero destino 73-74 Vidi Anacarsi, huom severo e alpestro […] > Vidi Isocrate abandonar la via / usata e trita et usar nuovo stile / et eran seco Hesperide e Lisia > … e trita e farsi un nuovo… > Vidi Anaxarco intrepido e virile / e Xenocrate più saldo ch’un sasso
23 Si tenga conto inoltre del legame con la terzina successiva, che ha questo sviluppo: «E Menalippe e Constantia sì snella / che vincer lli (?) fu gloria al grande Alcide / e l’un ebbe e Teseo l’altra sorella > E ciascuna ne l’arme fu sì snella / che vincerle […] Theseo ebbe l’una et e’ l’altra sorella > [… ] è tanto snella / […] / Orithia era > vien con lei ch’è sua sorella > E Menalippe, e ciascuna sì snella / […] e l’una ebbe, e Teseo l’altra sorella». 24 A Enrico duca di Lancaster aveva già dedicato un verso nella terzina 151-153: «E non lunge venia dal Saladino, / poi il duca da Lancastro, che pur dianzi / era al regno de’ Franchi aspro vicino > Quel di Luria seguiva il Saladino […]».
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88-90 Curioso in historie Dicearco, / eravi e con suoi discepoli appresso, / molto divisi Seneca e Plutarco > Qui era ‘l curioso Dicearco, / e’ discepoli suoi venian appresso… > Ivi era… / con i suo magisteri assai dispari, / Quintiliano e Seneca e… > … et, in suo magisteri… 113-114 E poi vidi Zenon col pugno chiuso […] > Poi, con gran subbio e con 25 mirabil fuso / tela lunga e sottil […] >… vidi tela sottil tesser vs ordir Crisippo 115-117 Vidi Zenon col braccio alzato in suso / per dichiarar sua bella opinione / mostrar la palma aperta e ‘l pugno chiuso > Vidi seder col… / per far chiaro suo dir vidi Zenone… > Anaximene, Antistene, più suso… > De li stoici il padre alzato in suso… 118-120 e, per fermar sua bella opinione, / la sua tela gentil pinger vs ordir Cleante […] … bella intenzione / depinger la sua tavola Cleante, / che tira al ver la vaga opinione > … depinger nobil tavola…
S’aggiunga il caso particolarissimo di TFIIa, capitolo della quarta “cantica” che Petrarca tentò di sostituire a TFIII, di cui era insoddisfatto, all’altezza del 1371, come suona l’intestazione latina nei due testimoni che ci hanno conservato copia dell’autografo perduto, H e I: «1371 Mercurii post so(m)num diurnum Julii 9»; ma rinunciò accontentandosi di correggere il testo arrivato poi alla vulgata: appunto, l’attuale TFIII. Lasciando da parte anche qui le varianti formali, selezioniamo tra le instaurative quelle che chiamano in causa incertezze o pentimenti o correzioni di rotta sul piano dell’inclusione o meno di certi personaggi:
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49-51 Vidi il gran Tullio che venia parlando / in nostra lingua, e Seneca il seguia, / e Virgilio et Homero ivan cantando > Poi Varo e Tullio gir chiaro parlando… > Varo e ‘l gran Tullio che venian parlando / lingua latina, […] / […] alto cantando 70-72 E vidi uno a Virgilio ir sì da presso / che li dava del piè nelle calcagna, / e reverente et inchinar se stesso > Vidi Statio a Virgilio […] / … et humiliar se stesso 73-75 poi vidi con Lucan venir di Spagna / Columella A.26 e Martiale / ch’un gran Guascone aveva in lor compagna > […] d’ultima Spagna / Columella venir e Martiale… 84-86 e Propertio et Ovidio et Ibico et Tibullo… > […] et Ovidio era e Tibullo / Ibico, il grande amante calabrese
25 Tutto l’insieme dei vv. 113-120 va considerato come un blocco unico per le interconnessioni del work in progress, con lo spostamento sulla scacchiera delle tre terzine delle tessere costituite dai clara nomina. 26 È da presumere che Petrarca volesse qui anticipare quell’Ausonio che entra in gioco solo con la perifrasi del verso seguente.
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Più interessante l’episodio di un verso cancellato perché entrava in rotta di collisione col successivo, mentre l’intenzione era di introdurre un altro personaggio registrato a margine, Hesiodo, di cui Petrarca non riusciva a trovare una giusta definizione: 57-62 Euripide vid’io levarsi a volo, e Sophocle, duo nobili tragedi, / e de’ greci e de’ nostri un grande stuolo, / e greci e nostri, che son fatti eredi / del monte di Parnaso…
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Ma i segni di approssimazione e di incompiutezza sono ben più vistosi di questo episodio, se il v. 78 è rimasto a metà («ma non posso tacer»), né si può completare con l’emistichio «di Giovenale» (suggerito dalla rima Martiale:equale) perchè quel grande satirico è già chiamato in causa dalla perifrasi del v. 65 («quel d’Aquino»); e se soprattutto il verso finale 114 resta in sospeso («tutti d’ingegno e d’eloquentia alteri») senza un minimo supporto nel frammento staccato di cinque versi27, per il quale non soccorre alcun aggancio di rime nei 108 versi precedenti. Ambigua non a caso la postilla che precede: «Supra ubi occurret». E tuttavia, più di questi vuoti, colpisce l’affanno denunciato nel suo complesso dalla stesura di questo capitolo. Si pensi soltanto al groviglio redazionale da cui sono uscite almeno in due occasioni tre terzine fra loro connesse:
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31-33 Xenocrate, Anaxagora e Cleante, / che ‘l dì l’arte e la notte il libro riga / e quivi e qui e qui vidi far liete e verdi piante. // E Zenon, ch’aspra ch’una e dura e dritta riga / fé con la qual il ver misuri e tocchi, / tal ch’a tutti i compagni ha dato briga. // Poi vidi l’altro ch’a se stesso li occhi > che se tolse […] > Democrito ch’a sé tolto avea gli occhi / tolse per non veder > mirar chi ‘n suo studio lo ‘ngombre, > perché ‘l senso in suo studio non lo ‘ngombre > perché l’ingegno in suo studio lo ‘ngombre > perché ‘l pensier la vista non ingombre, / forse, o per non veder fiorit li sciocchi >>> Xenocrate, Anaxagora e Cleante / e Zenone e Pherecide, radice / onde uscir molte verdi e liete piante. // Epicuro e i compagni, quel che E Epicuro, che col popol dice, / pur che ‘l diletto sensual trabocchi, / di far d’huom > far d’un huom rational porco felice. // Poi colui ch’a se stesso tolse gli occhi, / perché ‘l pensier la vista non occupe […]
27 «Cinea e Carneadès, che di memoria / vinsero ogni uomo, s’ come Grecia afferma, / Hortensio, c’ha gran parte in questa gloria; / Plinio coi [con H] libri suoi quattro e settanta / di sua romana e naturale [natural H] istoria».
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100-108 Herodoto e Tucchidide, e con loro / Eutropio e duo Valeri e ‘l grande Hebreo > Giosefo fé il sembiante, il grande Hebreo > Eutropio e Dice e Dare, e ‘l grande Hebreo > Pollibio e Quinto Claudio che tesseo / senza grande > senza molta arte far saldo lavoro > tra vasi a’ ciechi […] > di rozza trame un nobile lavoro. // Giosefo fé il sembiante, il grande Hebreo, > Eutropio e Dice e Dare e ‘l grande Hebreo > Iosepho e duo Corneli e duo Valeri > E in ciò sembiante il veritiero Hebreo / Iosepho et Egisippo in cinque libri / che di gran soma picciol fascio feo > quel che > che poi l’istoria sua più breve feo. // Et Iulio Celso, ch’io non so qual vibri / meglio o ‘l ferro o la penna, e Dare e Dice / fra lor discordi, e non è chi ‘l ver cribri.
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Non vi è dubbio che, con tutti i dubbi e le alternative che si sono registrate, sussista in Petrarca un atteggiamento di fondo, quasi rituale, definibile come laudatio temporis acti, simile a quello di un Leopardi quando osservava (nello Zibaldone del 1827)28 che tutti i luoghi della gloria sono occupati dai grandi antichi, non scalzabili dai moderni. Ed ecco Petrarca celebrare preliminarmente (fra TFIa e TFI) i grandi Romani29, assaporarne via via gli alti nomi (TFII 5), non diversi dai clara nomina di Fam. VI, 4, 2-530, compiere in TFIII il massimo sforzo, se non altro in termini di catalogo31, da contrapporre (io suppongo) al regesto degli spiriti magni in Inf. IV: insomma, l’insieme delle statue illustrium suscitate dalla sua magnifica biblioteca32. Ma soprattutto eccolo uscirsene con quella formula rivelatrice a TFII 4 «giungea la vista con l’antiche carte», dove è vero che «l’attualità è brutalmente bocciata» 33, ma dove si coglie il segreto di un passag-
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28 Cfr. il mio vecchio saggio L’“Imitazione” leopardiana. Per l’esegesi e la datazione, «Studi e problemi di critica testuale», 1 (ottobre 1970), pp. 195-217, con la postilla Ancora sull’esegesi e la datazione di “Imitazione” del Leopardi, ivi, ma 6 (aprile 1973), pp. 198-199. E per la carenza di protagonisti moderni nel TF, cfr. Pacca, pp. 349 e 431. 29 Cfr. Calcaterra, Nella selva del Petrarca cit., p. 329, per la gloria dei grandi Romani nell’ Africa, entro la cui rassegna (libro II, 125-278) era rifluito il modello archetipico della rassegna di eroi romani che in Virgilio Anchise illustra ad Enea (Aen. VI 756-885): cfr. Pacca, pp. 349-350. Di mezzo, ci sarebbe anche il Dante del Convivio (IV iv 8-v 20), peraltro ignoto a Petrarca. 30 Cfr. Ariani, pp. 280-282. 31 Ivi, p. 324. 32 Ivi, p. 50; ma cfr. anche Calcaterra, Nella selva del Petrarca cit., p. 147, per il tema della gloria nelle parole della misteriosa guida a TFIII 3 («ché s’acquista ben pregio altro che d’arme») nell’introdurre lo stuolo dei filosofi e poeti. Il che ci richiama alla struttura tripartita del TF, fra uomini d’azione, distinti in Romani (TFI) e stranieri (TFII), e uomini di pensiero (TFIII), quale trova riscontro nel De remediis, nella Famil. XIII 4 e nella Sen. II 3: cfr. Pacca, p. 349. 33 Ariani, pp. 31-32, 304-305.
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gio di consegne fra la generazione di Dante e quella di Petrarca: il quale consegnerà all’Umanesimo europeo il messaggio magnanimo che, non potendo tutti ripetere il viaggio oltremondano di Dante, l’insegnamento dei morti-vivi, sul senso dell’esistenza umana, diventava captabile attraverso i libri, sottratti alla precarietà del presente. Morti da far parlare con le loro voci, senza imporre loro le nostre. Un archetipo che ha forse le sue radici più remote in Seneca oltre che in Cicerone e in Orazio34 e numerose occorrenze trasversali per l’intera opera petrarchesca35 Di fatto, però, la Fama, pur vittoriosa sulla morte (ma «si dà come vittorioso ciò che è ab aeterno corroso da caducità»)36, non può che convivere con l’insidia del Tempo, con quel sole incombente (emblema anche di Laura), distruttore dei clara nomina37. In altre parole, Petrarca oscilla costantemente fra un’idea positiva, attivistica, della Fama (meglio la fatica e la morte con fama che una vita tranquilla senza fama)38, e l’idea negativa o frustrante di una fama transeunte e peritura: ricorrono, così, il topos del-
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Cfr. K.O. Brogsitter, Das hohe Geistergespräch. Studien zur Geschichte der humanistischen Vorstellungen von einer zeitlosen Gemeinschaft der grossen Geister citato da M. Feo, Petrarca e Cicerone, in Cicerone nella tradizione europea dalla tarda antichità al Settecento. Atti del VI Symposium Ciceronianum Arpinas (Arpino, 6 maggio 2005), cur. E. Narducci, Firenze, 2006, pp. 24-26. Dello stesso Feo cfr. anche «Sì che pare a’ lor vivagni». Il dialogo col libro da Dante a Montaigne, in Agnolo Poliziano poeta scrittore filologo. Atti del convegno internazionale di studi, Montepulciano, 3-6 novembre 1994, cur. V. Fera e M. Martelli, Firenze 1998, pp. 245-294. Di Seneca suggerirei, personalmente, la lettura di un tratto del De brevitate vitae (14, 1-15, 5). 35 Cfr. E. Pasquini, Due concordanze petrarchesche, «Il Cannocchiale», 3-4 (1965), pp. 59-73 (o rist. anast., Bologna 2007); Pasquini, Tradizione e fermenti nuovi nella poesia dell’Alberti, «Quaderni lincei», 209 (Convegno internazionale nel 5° centenario, RomaMantova-Firenze, 25-29 aprile 1972), Roma 1974, pp. 305-368, poi nel volume Le botteghe della poesia. Studi sul Tre-Quattrocento italiano, Bologna 1991, pp. 245 ss., specie 286 ss., in garbato dissenso con Ch. Bec, Dal Petrarca al Machiavelli (1976), ora in Cultura e società a Firenze nell’età della Rinascenza, Roma 1981, pp. 228-244. La stessa mitografia dello studio-colloquio con persone vive si coglie nella bella traduzione di Epyst. I 6, 179-200 procurata da Feo, in Petrarca nel tempo cit., p. 456. 36 L’osservazione è dell’Ariani, p. 49. 37 Ivi, p. 44. 38 È quanto egli afferma nella Famil. XIII 4 (cfr. Ariani, p. 281), e da questo punto di vista (Ariani, pp. 281 e 283) «nichil literis stabilius». Sul desiderio di gloria espresso da Petrarca nel Secretum cfr. il commento che ne fa E. Fenzi, Milano 1992, passim; su questo punto, di Fenzi si veda anche l’antologia recente del De remediis, Napoli 2009, pp. 11 ss. Nel dialogo latino è significativo che il capitolo De tristitia et miseria esalti il valore della vita e dell’uomo senza mai chiamare in causa la fama; e che il capitolo De gloria ex edificiis sperata alluda solo di scorcio alla gloria ottenuta con le opere dell’ingegno, mentre s’intona possente la trenodia dell’ubi sunt?
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l’ubi sunt? di Secretum III, 25239 e l’«aura volubilis» di Secretum III 232, già preparati del resto dall’impietosa diagnosi di Agostino a III 194 («Finge igitur esse tibi et temporis et otii et tranquillitatis abunde; evanescat omnis torpor ingenii, omnis corporis languor; cessent fortune impedimenta omnia, que, interrupto scribendi impetu, sepe properantem calamum adverterunt. Felicius tibi et supra votum cunta perveniant. Quid tamen tam grande facturum esse te iudicas?»); l’ «ad finem cuncta festinant» di Familiares XVII 3; la triade ventus-fama-umbra, anzi il nichil est di Familiares I, 2; ancora, l’impietosa diagnosi dell’Africa II 422 ss.: «clara quidam libris felicibus insita vivet / Fama diu, tamen ipsa suas passura tenebras»40. A questo proposito, Ariani parla di una «dicotomia di compresenze», anche se l’esito finale segna l’oscurarsi di ogni nomen di fronte al sol iustitiae 41; eppure nulla sembra rispecchiare la nobiltà di questo meccanismo contraddittorio e pur mai sterile come la straordinaria postilla in capo a TFI, trascritta dall’autografo, con la data 19 gennaio 1364, in ben quattro collettori cinquecenteschi42: Dum quid sum cogito, pudet haec scribere; sed dum quid fieri cupio animum subit, corde pudor torporque omnis abscedit; scribo enim non tanquam ego, sed quasi alius nescioquis in quem transformari studeo
che tradurrei43:
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39 E nello stesso Secretum, III, il «nosti enim gloriam velut umbram quondam esse virtutis», che va con la lettera ad Andrea Dandolo del 1352, nella scia di Cicerone, Tuscol. I 109 e di Seneca, Ad Lucil. LXXIX 13. Cfr. anche, per il tema della fama nel Secretum, Calcaterra, Nella selva del Petrarca cit., pp. 74 ss. 40 Cfr. Ariani, pp. 18, 281, 283-285; ma cfr. già Calcaterra, Nella selva del Petrarca cit., pp. 338 (a proposito di Africa, II: «Che cosa è la gloria? Sonora vacuità di nomi»), 339 (sul lamento di Magone e il grande tema dell’ irrequietus homo su cui osservazioni esemplari restano quelle di U. Bosco, Francesco Petrarca [1946], Bari 19612, pp. 54 ss.: 75-76), 345 (sul tramonto di un sogno di gloria, appunto il poema latino) e 428 (per Scipione Africano). Sul lamento di Magone, cfr. anche Fera, in Petrarca nel tempo cit., pp. 269 ss. 41 Ariani, pp. 284 e 325. 42 Solo I reca corde, gli altri (H e C) crevit o nulla (P). Per suggerimento di Donatella Coppini, che ringrazio, emendo in quem sull’unquam, presente in tutti i testimoni, che non dà senso. 43 Migliorando la mia proposta (nell’ed. cit. del Casanatense) alla luce dell’intera tradizione della postilla e tenendo conto anche della resa sagace ma imprecisa di Vincenzo Fera (in Petrarca nel tempo cit., p. 459), dove si include anche il cronotopo che precede: «Mattino del 19 gennaio 1364, controvoglia sto riposando a Padova; Triumphus IV; pensando a quel che sono, mi vergogno di scrivere; pensando a quel che desidero diventare, la vergogna si sottomette al coraggio e tutto il torpore cede; scrivo infatti non come se fossi io,
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Mentre penso a cosa io sono, mi vergogno di scrivere questi versi; ma quando mi viene in mente che cosa desidero diventare, ogni vergogna e ogni inerzia abbandonano il mio animo; scrivo infatti non come se fossi io stesso, ma come se fossi un altro, non so chi, in cui desidero trasformarmi.
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Che è un modo sottile e drammatico insieme per denunciare la frustrazione e insieme la tentazione della fama, il meccanismo che dalla depressione guida di slancio all’attivismo, quasi per una forma di alienazione, di mistica uscita da se stessi. «Desidero diventare qualcosa…»: c’è, sottinteso ma indubitabile, l’appello ai “modelli”, quel triplice ventaglio di clara nomina che innerva l’intero TF, nelle sue cinque scansioni (due delle quali accantonate). In questa sorta di museo del passato, non sono tanto le individualità a contare quanto piuttosto le serie compatte. Voglio dire che l’ansia di offrirci cataloghi completi di questo teatro delle glorie passate, con la paura di dimenticare qualche attore importante (di fatto, i Padri della Chiesa rappresentano un’omissione di qualche rilievo), non offre spazio per presentazioni a tutto tono, diverse dalle efficaci ma secche definizioni cui l’autore è costretto dagli spazi troppo affollati. È notevole che in TFI e TFII manchino del tutto esempi di ritratti meglio delineati quali troviamo in TFIIa ai vv. 11-15 (per Socrate) e 89-94 (per Tito Livio), in TFIa ai vv. 121126 (per Annibale), e in TFIII, ai vv. 10-15 (per Omero). Citiamo almeno quest’ultimo
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[...] quello ardente vecchio a cui fur le Muse tanto amiche ch’Argo e Micena e Troia se ne sente. Questo cantò gli errori e le fatiche del figliuol di Laerte, e d’una diva, primo pintor delle memoria antiche.
Di fronte a questi rari exploits stanno le serie imponenti dei “grandi Romani” (TFI, 28-30: «gente di ferro e di valore armata: / sì come in Campidoglio al tempo antico / talora o per via Sacra o per via Lata»), cui è dedicato l’intero TFI, nonché lo scartato TFIa nell’arco (vv. 19-102) che va da Giulio Cesare a Teodosio, cui succedono in un bel pot-pourri, dopo gli antichi re di Roma, il cartaginese Annibale, i greci e i troiani, gli eroi bibli-
ma come se fossi un altro». Su questa postilla si sofferma anche Pacca (ed. cit., pp. 350351), ma senza arrischiarsi a suggerire una traduzione, resa difficile da una punteggiatura passivamente acquisita.
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ci, infine Artù e Carlo Magno. E ad essi fanno seguito la serie dei «pellegrini egregi», i “grandi stranieri”, cui è addetto TFII (da Annibale al Saladino e al duca di Lancaster, con l’appendice casalinga degli amici “contemporanei”, Roberto d’Angiò morto nel 1343 e Stefano Colonna il Vecchio morto fra il ‘48 e il ‘50; e la serie degli auctores, filosofi e scrittori, cui sono delegati TFIII (da Platone a Cleante) e TFIIa (da Platone a Plinio). Sarebbe troppo lungo e in fondo non appagante ripercorrere la galleria di questi personaggi, cui spesso corrispondono altrettanti manoscritti della biblioteca del poeta (ma che in ogni caso fanno parte della sua biblioteca mentale e delle sue memorie erudite). Certo è che la definizione della Fama che si legge a TFI, 8-9 («quella / che trae l’uom del sepolcro e’n vita il serba»), pur con l’alone foscoliano che per noi moderni la irradia, resterebbe inadeguata se non fosse corroborata dalla tematica dell’onore, non circoscrivibile al riverbero del IV canto dell’Inferno, quale s’avverte a TFI, 19-21 unitamente al richiamo – in qualche modo limitativo – a TC: Scolpito per le fronti era il valore de l’onorata gente, dov’io scorsi molti di quei che legar vidi Amore.
Lo snodo più importante, a nostro avviso, va ravvisato in TFII, 4-6, dove Petrarca confessa la sua meraviglia «presa a mirar il buon popol di Marte», la nobile schiatta dei Romani: giungea la vista con l’antiche carte ove son gli alti nomi e ‘ sommi pregi, e sentiv’al mio dir mancar gran parte.
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Insomma, un paragonare quanto vedeva con quanto aveva letto nei suoi auctores, altrettanti libri-persone vive, i clara nomina (gli «alti nomi»), con il loro alone di gloria («sommi pregi»), quasi per verificare sui libri stessi l’esattezza di quelle apparizioni. Che44 è una commovente confessione del nesso strettissimo fra la realtà apparentemente onirica che via via si presenta al poeta e la sua cultura di sommo erudito, con cui quella realtà non può non misurarsi; ma che al tempo stesso segna per noi moderni la condanna di una narrazione in buona misura stimolata o condizionata dai
44 A parte il rinvio a Dante implicito in quella sia pur rituale e topica dichiarazione di ineffabilità: cfr. G. Ledda, La guerra della lingua. Ineffabilità, retorica e narrativa nella «Commedia» di Dante, Ravenna 2002.
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libri della sua biblioteca. In altre parole gli alti nomi e i sommi pregi nascono dalla sua lettura piuttosto che dalla visione, sono etichette inventate dal filologo piuttosto che qualità desunte da una realtà immaginata. Come nel binomio costitutivo del mito dafneo l’accento poggiava soprattutto sull’Amore di cui si alimentava la poesia generatrice di gloria (o meglio ancora il sinolo vedeva al centro l’icona di Laura-lauro) , la proclamata vittoria della Fama sulla tomba si rivela al fondo illusoria. L’autentico sentimento del poeta si alimenta piuttosto del polo negativo costituito dalla frana del Tempo, con cui si salda il tema della senectus mundi, la decadenza del mondo che invecchia e vede svanire tutte le illusioni di gloria, nel solco dell’ubi sunt? dei grandi Romani e del tramonto del loro impero, quale si percepisce a TFIa, 103-105, subito dopo la menzione di Teodosio: Questo fu di vertù l’ultimo speglio, in quell’ordine dico; e dopo lui cominciò forte il mondo a farsi veglio.
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Sono tonalità che preparano il Tasso del Mondo creato, e che nel Petrarca non restano certo isolate: Ariani giustamente richiama l’icona di Saturno e celebri pagine di Panofsky negli Studi di iconologia 45. Non è un caso che il TF sia al centro della vasta tradizione iconografica riguardante i Triumphi, l’opera più illustrata della nostra tradizione letteraria. Ma qui, anche in presenza di una bibliografia sterminata46, le mie energie appaiono impari rispetto al compito di riassumere anche l’essenziale; o meglio, ne verrebbe fuori, un’altra relazione per la quale non mi soccorre neppure un’adeguata competenza.
45 46
Ed. cit., p. 356. Mi limito ad alcuni lemmi fra i più recenti: M. Feo, Triumphi, in Petrarca nel tempo cit., pp. 112, 175 ss.: 177, 183-184, 189-192, 194, 202, 204, 228, 235, 240, 244, 365; M.M. Donato, “Veteres” et “novi”, “externi” et “nostri”. Gli artisti di Petrarca: per una rilettura, in Medioevo: immagine e racconto. Atti del convegno di Parma, 20-30 settembre 2000, Milano 2004, pp. 433-455; G. Marini Canova, Petrarca, i suoi libri, le sue opere: memorabilia per la storia della miniatura e dell’arte a Padova nel Trecento, in Petrarca e il suo tempo, Milano 2006, pp. 59 ss. (inaccettabile tuttavia l’affermazione, a p. 73, che Petrarca riuscì a completare i Triumphi, sul fondamento dell’ hoc placet conclusivo in TE, che però riguarda solo la lezione dell’ultimo verso); F. Toniolo, Petrarca e l’umanesimo: l’illustrazione delle Rime e dei Trionfi nella miniatura veneta del Rinascimento, ivi, pp. 87 ss.; D. Banzato - C. Limentani Virdis, La tradizione iconografica dei Trionfi, ivi, pp. 107 ss. (s’aggiunga, nello stesso volume, a pp. 247 ss., il catalogo finale con la serie delle immagini e a pp. 399 ss. le schede delle singole opere).
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Verba volant, scripta manent. Epigrafi e fama
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Una epigrafe, per sua definizione è una scrittura esposta e per sua natura è un manufatto destinato a trasmettere un testo con la volontà di renderlo pubblico. In questo il veicolo fornito dall’epigrafe è, per sua natura intrinseca, uno strumento destinato a procurare fama a un evento, a un singolo individuo o a una collettività. O a stabilire e fissare una memoria. O a cambiare le coordinate di una memoria, fissando così una fama “revisionata”, o a consolidare una fama già in vita o post mortem. In questi termini, e in particolare all’interno della produzione destinata a trasmettere informazioni specifiche su singoli individui, la costruzione di una epigrafe (con le fasi di redazione del testo, impaginazione e scrittura fisica dell’epigrafe) è una operazione alla quale si deve prestare particolare attenzione, sottoponendo tali passaggi ad un controllo rigido al fine di evitare possibili fughe in avanti delle informazioni trasmesse. A maggior ragione quando l’epigrafe è destinata a correggere una fama in vita non particolarmente esaltante1. Cito ad esempio il caso del duca di Napoli Bono il cui epitaffio è conservato oggi a Napoli, presso Santa Restituta2, della metà del secolo IX:
1 Questo contributo deve parte dei materiali censiti e presentati alla schedatura effettuata in seno al progetto Wittgenstein Projekt 2005-2009, III. Texte und Identitäten. Quellenstudien zur Identitätsbildung, sez. f, Inschriften, coordinato per la sezione epigrafica da chi scrive e per il progetto complessivo sotto la direzione di Walter Pohl, Österreichischen Akademie der Wissenschaften di Vienna. 2 Fig. in A. Silvagni, Monumenta epigraphica christiana saeculo XIII antiquiora quae in Italiae finibus adhuc exstant..., IV/1, in Civitate Vaticana 1943; Ed. in M.G.H., Poetae, II, Berolini 1883, pp. 651-652 . V. inoltre per un commento generale, C. Russo Mailler, Il senso medievale della morte nei carmi epitaffici dell’Italia meridionale fra VI e XI secolo, Napoli 1981, pp. 102-104.
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Bardorum bella invida hinc inde vetusta, Ad lacrimas, Parthenope, cogit saepe tuos. Ortus et occasus norit, quo Sico regnavit, Suadendo populos munera multa dabat. Nam mox hic recubans ut principatu refulsit Eosque perdomuit bellis, triumphis subdit. Ut reor affatim nullusque referre disertus Enumerando viri facta decora potest. Sic ubi Bardos agnobit edificasse castellis Acerre, Atelle diruit custodesque fugavit. Concussa loca Sarnensis, incenditur Furclas, Cuncta letus depredans cum suis regreditur urbe. Omnibus exclusis isto tantum retinebit antro Metium et annum brebe ducatu gerens. Nam moriente eo tellus magno concussa dolore Inde vel inde pauper luxit et ipse senex. Sibi o quam duris uxor cedit pectore palmis, Subtili clamitans voce mori parata satis. Ululatu potius communia damna gementes, Pax quia nostra cadit, sed decor ipse simul. Loquax, vigilis tantus habebatur ab omni, ut moriens populi corda cremaret idem. Eheu teneri quam lacrimas patiuntur infantum Clamitant: ic nobis paxque paborque fuit. Turmatim properant dibersi sexus et hetas Funera de tanto voces ubique gemunt. Dapsilis et fortis, sapiens, facundus et audax, Pulcher erat specie, defensor ubique totus. Virgo precipua, mater Domini, posce benigna Ut sociare dignetur beatorum amenis locis. […]
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Nel testo dell’epigrafe, eseguita in scrittura capitale longobarda con una cornice decorativa molto elegante, il duca napoletano viene ricordato in termini positivi, elogiativi quasi e sono omesse sia le vicende che ne portarono alla presa del potere (alleanza segreta con i Longobardi di Benevento, in un momento di forti tensioni belliche tra il Ducato napoletano e i Longobardi confinanti, assassinio del duca di Napoli suo predecessore Stefano III – †832 –, del quale l’epitaffio ricorda la morte violenta: Sebae cum facinoribus invasit me horror mortis3), sia la sua turbolenta 3 Tradizione parzialmente indiretta: dell’iscrizione ancora si preserva un ridotto pezzo, oggi presso il Museo di San Martino in Napoli. Si accenna alla morte violenta del duca. Dubbi sono stati avanzati sull’autenticità della composizione, almeno per la parte termina-
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guida del Ducato napoletano (alleanze con i Longobardi alternate a episodi di guerra con i medesimi; riduzione in cattività del vescovo di Napoli Sergio e imposizione del vescovo Giovanni IV “lo scriba” con conseguente crisi con la Chiesa di Roma), sia infine le vicende che ne provocarono la morte violenta (rivolta dei Napoletani e sua uccisione – accennata nell’iscrizione - su istigazione del duca suo successore alleatosi anche lui con i Longobardi). Di tutte queste vicende, come si evince dal testo dell’epigrafe, non vi è traccia alcuna: l’operazione di scrittura del testo celebrativo avviene con una particolare cautela nell’evitare anche il minimo riferimento alle discutibili alleanze – almeno agli occhi dei Napoletani – che ne avevano caratterizzato l’operato; al contrario viene esaltata proprio la sua politica di ostilità verso i Longobardi divenuti nemici (dopo la segreta e taciuta alleanza per la presa del potere) contro i quali di frequente lo stesso duca Bono si misurava con le armi. È evidente che in questo caso premeva sottolineare il ruolo di difensore del ducato medesimo contro i nefasti e turbolenti vicini di casa: si ricorda per inciso che proprio al duca Bono si deve il recupero delle reliquie di s. Gennaro trafugate dal principe di Benevento Sicone (+833) da San Gennaro extra murano: Iste Sico cum diu Neapolim obsedisset et afflixisset, tandem sancti martyris Ianuarii corpus auferens, Beneventum detulit, et cum sanctis Festo et Desiderio in ipso episcopio honorabiliter recondidit, sicut in historia Erchemperti refertur 4. Così con una accorta operazione di revisione critica dell’operato del duca in vista della stesura del testo funerario, la sua fama e la sua memoria sono assicurate ai posteri private di ogni possibile ombra. Esempi quali quello appena citato se ne incontrano lungo la produzione epigrafica medievale e in genere rispondono alle medesime esigenze di carattere politico, su sede locale o su più ampia sede. Sotto questo profilo, le omissioni acquistano valore se poste in relazione al contesto storico all’interno del quale esse sono maturate, come ben dimostra il caso del duca Bono: in un momento di particolare tensione con i Longobardi di Benevento caratterizzato da episodi di guerra, la fama del duca non poteva essere adombrata da una alleanza con gli stessi Longobardi; conseguen-
le dell’opera, ma lo stile e l’esistenza del frammento non possono porre in dubbio l’autenticità del prodotto; forse solo la parte terminale dell’epitaffio non è autentica, dal momento che sono sbagliati sia la datazione relativa all’indizione, sia la menzione di alcuni imperatori. Il tenore dell’epitaffio corrisponde in ogni caso alle indicazioni culturali dell’Italia Meridionale: v. Russo Mailler, Il senso della morte cit., pp. 98-99). 4 Chronica monasterii Casinensis (Redactio I, cod. A), lib. I, 20. Ed. in M.G.H., Scriptores, XXXIV, Hannoverae 1980, p. 66.
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temente l’epigrafe ne esalta l’attività di strenuo difensore del ducato bizantino di Napoli contro i molesti vicini beneventani. Vedendo dalla parte opposta, ossia dal lato dei Longobardi, le vicende che vedono protagonisti i due personaggi qui sopra citati, appare ancora più chiara la politica di revisione delle memorie ai fini della fama dei singoli – e quindi del gruppo sociale di appartenenza – . Sicone, quel principe beneventano che Erchemperto così ricorda: Suscepto itaque Sico principatu, foedus cum Francis innovavit, Beneventanos bestiali efferitate persequitur, atque se superstite filium suum Sicardum nomine heredem principatu effecit, virum satis lubricum, inquietum et petulante animique elatione tumidum5 e avversario di Bono, a sua volta riceve anche lui un epitaffio “revisionato”, dove le parole non proprio elogiative di Erchemperto non trovano riscontro nel testo dell’epigrafe che si apre con le seguenti parole6: Principis hic magni requiescunt membra Siconis, flenda nimis populis , heu Benevente, tuis, Stirpe satus regum, melior maiorque priorum nullus ut in cunctis par similisque foret.
Dopo una lunga descrizione delle vicende belliche che ne hanno caratterizzato il principato, non mancano i riferimenti a Napoli: Obsidione quatit Romanas saepe catervas, Urbis Parthenope falsidicosque viros, Qui dominis solita Samnitum fraude rebelles Pellere Bardorum fortia iussa volunt.
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Confrontando i due testi epigrafici appaiono evidenti i diversi punti di vista da parte dei relativi estensori e le finalità anche politiche che i due epitaffi devono raggiungere 7. La variazione della memoria ai fini di presentare, preservare e quindi di costruire una fama (anche se non aderente perfettamente alla realtà agli
5 Erchemperti Historia Langobardorum Benventanorum, cap. 10. Ed. in M.G.H., SS rer. Lang., 1, Hannoverae 1878, p. 238. 6 Tradizione diretta – anche se ora è l’epigrafe risulta danneggiata dalla Seconda Guerra Mondiale – in origine conservata sulla facciata del Duomo di Benevento. Ed. in M.G.H., Poetae, II cit., pp. 649-651; v. Russo Mailler, Il senso medievale cit., pp. 94-95. 7 Sull’uso politico di queste fonti comprese quelle epigrafiche in Italia meridionale e in particolare in questo periodo, v. W. Pohl, Werkstätte der Erinnerung. Montecassino und die Gestaltung der langobardichen Vergangenheit, Wien-München 2001 (Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung, Ergänzungsband 39).
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accadimenti) diviene così un elemento importante e diffuso e la redazione dei testi quindi è controllata al dettaglio e non soggetta ad una semplice variazione dei dati. In altri casi non saranno le distorsioni o le omissioni a guidare la revisione di una memoria scritta, quanto piuttosto delle minime varianti nel formulario adottato che però sono altrettanto significative. E’ il caso della badessa Teodote e del re longobardo Cunincpert e dell’episodio che li vide protagonisti entrambi. L’identificazione di Teodote si basa su di un brano di Paolo Diacono, il quale nella Historia Langobardorum8 narra di un episodio piuttosto increscioso della vita del re Cunincpert, descritto peraltro dallo stesso Paolo Diacono come vir elegans et omni bonitate conspicuus audaxque bellator9. Il re, invaghitosi di una fanciulla di nome Teodote, puellam ex nobilissimo Romanorum genere ortam10, con uno stratagemma lascia la moglie Ermelinda e procede a fare propria la fanciulla, forse con una azione di stupro: l’episodio è narrato all’interno del capitolo relativo alla morte di Perctarit e del regno di Cunincpert, capitolo il cui titolo recita: de morte Perctarit et regno Cunincperti et stupro Theodotae: Quae cum in balneo Theodotem, puellam ex nobilissimo Romanorum genere ortam, eleganti corpore et flavis prolixisque capillis pene usque ad pedes decoratam vidisset, eius pulchritudinem suo viro Cununcperti regi laudavit. Qui ab uxore hoc libenter audire dissimulans, in magnum tamen puellae exarsit amorem; nec mora, venatum in silvam quam Urbem appellant perrexit secumque suam coniugem Hermelindam venire praecepit. Qui exinde noctu egrediens, Ticinum venit, et ad se Theodotem puellam venire faciens, cum ea concubuit. Quam tamen postea in monasterium, quod de illius nomine intra Ticinum apellatum est, misit11.
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Nasce il dubbio tuttavia, dalla narrazione di Paolo Diacono, che possa non essersi trattato di stupro vero e proprio: ad se Theodotem puellam venire faciens, cum ea concubit. L’uso del verbo “concubere” lascerebbe piuttosto pensare ad una relazione dalla quale il tema della violenza fisica sia fuori, o comunque una convivenza, piuttosto che uno stupro: Fatta venire a sé Teodote, giacque con lei. Ma subito dopo il re, mite e di animo dolce, la mise in un monastero che dalla stessa Teodote prese il nome, Santa Maria Teodote o “alla Pusterla” : misit in monasterium. 8 Pauli, Historia Langobardorum, lib. V, 37. Ed. in M.G.H., 9 Ibid., lib. VI, 17, ed. in M.G.H., SS rer. Lang.cit., p. 170. 10 Ibid., lib. V, 37, ed. in M.G.H., SS rer. Lang.cit., p. 157. 11 Ibid., lib. V, 37, ed. in M.G.H., SS rer. Lang.cit., p. 157
SS rer. Lang.cit., p. 157.
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Di una badessa Teodote possediamo ancora oggi la iscrizione funeraria12:
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[---] Possim Theodote [---] [caelicula]e sic demum [eius prosapiam texam.] [Mater vixi]t virginum [ per annos nimium plures] [in grege] dominico [pascens oviculas Christi.] [ Quas foven]s docuit, a[rguit, correxit, amavit.] [Invidus ne] c perderit eiu[s ex ovibus quenquam,] [frontem ru]gatam tenens e[rat quibus pectore pura.] [Cuius abs]tinebant a fla[gellis placidae manus,] [in tribuen]do dapes aeginis [dapsilis erant,] [muribus] ornata pro[diens fautrix atque honesta,] [patiens ma]gnanimis c[orde dextraque pia,] [decebat sic] denique tali c[um ex stirpe veniret,] [--- e]x novili cres[scens ut fluvius fonte.] [---] regali linea splendet. [Si ad cursus rerum et p]raesenti studia saecli [tendatur cratio, mu]lta suntque possumus dici. [Per te semper Virginis] nitiscit pulcrum dilubrum; [auferes vetusta] instauras vilia cuncta. [Namque domicili]a sita caenubio ridunt [vultu intuentium] praecellentes moenia prisca, [nec sunt in orbe ta]les praeter palatia recum. [Nec ss ecclesias,] quae vibrant fundamine claro [et piis exequantur] quoniam a cunctis coluntur. [Hoc ergo Theodota,] alumnis tuae Teodotae, [cui relinquisti nome]n, dignitatem, cathetram, [nimis cum lacrim]is aflicto pectore domna [lapidibus sarco]phago ornans excolui pulcris. […]
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Il testo, in pessimo stato di conservazione, è stato scritto da una seconda Teodote, come appare dal testo, la quale ne elogia le virtù morali, la discendenza da stirpe nobile, ne esalta l’attività di mecenate del monastero che fiorì splendente al punto da poter essere paragonato solo ai palazzi regi: nec sunt in orbe talia praeter palatia regum. La lastra, nelle intenzioni celebrative della discepola Teodote, crea intorno alla badessa una immagi-
12 In M.G.H., Poetae latini, IV, 2.3, Berolini 1915-1923, pp. 724-725. La lastra, in origine la copertura di un sarcofago, proviene dal monastero di Teodote, detto anche della Pusterla, attualmente identificato con il sito del Seminario Vescovile. Il sarcofago di Teodote venne smantellato già nel 1462, quindi la lastra, collocata come soglia di una porta, venne infine nel 1791 ancorata su di una parete. Con la soppressione del monastero la lastra, dopo alterne vicende, fu donata ai Musei Civici di Pavia, dove attualmente è collocata.
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ne di grande rigore morale, di forti capacità gestionali del monastero stesso. Si potrebbe forse leggere, nelle intenzioni della scrittrice, la precisa volontà di restituire alla fanciulla a suo tempo violata dal re una immagine pura, cancellando con le attività e i rigori morali descritti, l’episodio che portò la stessa Teodote ad essere rinchiusa in monastero. E che all’origine della monacazione di Teodote vi sia stata una relazione con il re (ne rimane traccia nella Historia di Paolo Diacono, al passo già citato) e viene suggerito velatamente da una importante assenza: la menzione della “castità”, elemento che viene costantemente evocato nelle iscrizioni funerarie di badesse. Né può essere riferita alla castità il termine honesta che compare nell’epigrafe, definizione che si trova anche nelle iscrizioni di personaggi femminili, come ad esempio nell’iscrizione funeraria di Madelgrima, moglie del gastaldo di Sant’Agata de’ Goti, Radoaldo, da identificare forse con quel Radoald conte (+ 642) che successe al duca di Benevento Aione13 . Per Teodote, quindi, se di castità si parla, essa è tutta interna alla badessa: pectore pura. Il testo scritto dalla giovane allieva di Teodote, la Teodote numero 2, dunque contiene due dati. Il primo, quello di celebrare le attività della badessa defunta; in secondo luogo, l’assenza della menzione esplicita alla castità Essa viene posta allo stesso livello del re, costruendo un monastero che può rivaleggiare solo con i palazzi regali e chiese che non hanno uguali perla loro nobile origine. La virtù che il re le aveva sottratto così le è restituita attraverso il rigore di una vita all’ombra delle mura monastiche. E l’epigrafe celebrativa della memoria della badessa, cancellata l’azione che ha originato la monacazione forzata di Teodote, le conferisce fama imperitura come colei che ha realizzato il monastero. La produzione epigrafica quindi, come ho cercato di esemplificare con questi pochi casi, risulta determinante nella costruzione di una fama o nel consolidamento di questa. Non a caso, i Romani (che della scrittura esposta hanno fatto un vero e proprio strumento di visibilità politica e di dichiarazione di presenza nei territori conquistati) la propria presenza delegando ai monumenti epigrafici funerari di singoli individui il ruolo di intermediario per una visibilità politica capillare; e, coniugando alla sfera del semi-privato quella della ufficialità, imponevano su tutti i monumenti, con particolare attenzione verso quelli realizzati nelle province dell’Impero la menzione dell’imperatore creando così fama e mantenendo alto il livello di attenzione sulla persona stessa dell’imperatore 14. 13 14
Russo Mailler, Il senso della morte cit., pp. 67-68. Questa particolare categoria di iscrizioni rivestiva tale importanza da indurre la necessità di codificare entro norme ben precise l’impiego dei termini utilizzati per la reda-
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È evidente quindi che la realizzazione di un prodotto epigrafico deve essere stata non solo uno strumento di celebrazione del singolo individuo, ma anche un mezzo attraverso il quale si potevano orientare memoria e quindi fama.
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Ora se l’epigrafe quanto contenuto e forma (scrittura e apparato decorativo) risponde a precise esigenze di varia e ampia natura, specialmente nelle intenzioni da parte dei committenti, viene da chiedersi quale ruolo abbiano avuto questi prodotti epigrafici nei periodi successivi alle loro realizzazioni. Ci si chiede se e come nel corso dei secoli alcuni prodotti epigrafici abbiano goduto di una propria fama, una fama a sé stante, legata beninteso al contenuto conditio sine qua non, ma ancorata saldamente al manufatto stesso, e quali i motivi di questa fama epigrafica.
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Molti sono stati i prodotti che nel corso dei secoli non solo hanno perso il proprio ruolo di “creatori” di fama, ma hanno anche subìto (proprio a seguito di questa caduta della funzione di uso) le ingiurie del tempo: manufatti reimpiegati per le pavimentazioni, per opere in muratura ad esempio, per citare i tipi di reimpiego più frequenti. Accanto a tali prodotti, molti dei quali del tutto scomparsi e altri dei quali si possiedono solo le copie tràdite da fonti indirette (ad es. le sillogi epigrafiche), alcuni manufatti sono passati indenni o quasi attraverso i secoli. Le motivazioni di tale sopravvivenza – talvolta del tutto casuale, talaltra invece frutto di una attenzione particolare - possono essere poste in relazione con differenti fattori. Fra questi, la funzione di uso di un manufatto e l’importanza del testo in esso contenuto: il mantenimento in vita di entrambi i fattori è la principale garanzia di sopravvivenza di un manufatto epigrafico. A questi si possono poi aggiungere il prestigio del committente o del manufatto in sé; l’importanza e il ruolo che un determinato gruppo sociale continua svolgere all’interno di una società; la memoria che viene assegnata ad un personaggio o a specifici eventi; il concetto di vecchio e di antico, che nel primo caso colpisce indiscriminatamente prodotti epigrafici, mentre nel secondo tende a risparmiare le iscrizioni, anche quando non comprese del tutto nei loro significati. Cito ad esempio il caso di Boncompagno da Signa (ca. 1170-post 1240), olim fiebant scul-
zione dei testi in esse contenute, come dimostrano il Codice Teodosiano (C. Th., XV, 1, 31, 394, la norma sottende il concorso fondi pubblici nella realizzazione dell’opera) e il codice Giustinianeo (C.J., 8,11,10).
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pturae mirabiles in marmoribus electissimis, cum litteris punctatis, quas hodie plenarie legere vel intelligere non valemus15 che annota tali parole rispetto a dei manufatti chiaramente mirabili, ma altrettanto chiaramente leggibili con difficoltà. È evidente qui il riferimento a manufatti che per il prestigio del proprio aspetto sono tenuti in grande considerazione, ma al di là di questo dato non è certo il contenuto a renderli immortali. Esistono poi dei prodotti che, nel corso dei secoli, hanno goduto di lunga fama sia per le forme sia per in contenuti. Fra questi l’epigrafe funeraria di papa Adriano I, ancora oggi conservata nell’atrio di San Pietro in Vaticano, la quale riassume in sé tutti gli aspetti qui citati in precedenza: presigio del testo (realizzato da Alcuino di York), prestigio del committente (l’imperatore Carlo Magno), l’aspetto materiale (un marmo nero), la scrittura (una capitale epigrafica a caratteri dorati nei solchi) 16. Tutti gli elementi di questo manufatto hanno contribuito alla sua sopravvivenza nel corso dei secoli nonostante i numerosi spostamenti subiti all’intenor della Basilica di San Pietro in Vaticano. Senza qui ricordare la poderosa letteratura che è fiorita intorno a questo manufatto, sia per il contenuto sia per le eccezionali – fin troppo – qualità materiali, ho provato a ripercorrere le tappe del suo vagabondaggio nella Basilica di San Pietro, dalla collocazione nella basilica costantiniana fino a quella attuale, nell’atrio della basilica medesima. In questo lavoro di ricerca centrato inizialmente su di un solo prodotto, è stato possibile rilevare come la fama che accompagnava e precedeva la lastra adrianea in ogni suo spostamento, era stata estesa ad altri due prodotti. Procedendo poi nell’indagine sui manufatti l’Archivio della Reverenda Fabbrica di San Pietro ha rivelato un ulteriore prezioso elemento: la capillare descrizione dell’intera realizzazione del progetto epigrafico della Basilica medesima, indicando una valutazione attenta sia sui materiali utilizzati, sia sulla realizzazione delle lettere. Tale attenzione, dimostrata apparentemente in una fase iniziale solo verso i manufatti antichi, veniva estesa all’intero progetto epigrafico della Basilica. Il progetto destinato a sottolineare la fama di colui che a distanza di quasi un secolo dall’inizio dei programmi di rinnovamento della basili15
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G.B. De Rossi, Inscriptiones Christianae Urbis Romae, II/1, Roma 1888, pp. 300-
16 F. De Rubeis, Sillogi epigrafiche: le vie della pietra in età carolingia. Atti del Convegno Internazionale di Studi “Paolino di Aquileia e il contributo italiano all’Europa carolingi”, Cividale del Friuli-Premariacco, 10-13 ottobre 2002, cur. P. Chiesa, Udine 2003, pp. 93-114.
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ca petrina ne stava portando a termine la facciata: Paolo V Borghese. Il pontefice affiancava alla progettazione della nuova San Pietro passo dopo passo il corredo epigrafico della basilica stessa, operazione effettuata sotto il rigido controllo dell’architetto Maderno e del suo calligrafo Badesio. Operazione fatta con l’intento di celebrare la memoria del rinnovatore e contestualmente di stabilire la fama della sua opera, della sua famiglia e del suo ruolo, il tutto fatto iscrivere sulla facciata della rinnovata San Pietro.
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La Basilica di San Pietro offriva la possibilità straordinaria di scrivere in un unico progetto e programma grafico un monumento intero, dalle porte agli archi, dalle colonne ai monumenti funerari, dai basamenti della cupola fino ai minimi dettagli, compresi restauri. Sulla base dei dati raccolti e conservati presso l’Archivio della Fabbrica, si può seguire passo passo il progetto grafico della Basilica. Occorre precisare che le iscrizioni alle quali si mette mano immediatamente sono due: la prima, quella che corre lungo il fregio ai piedi della cupola e soprastante la tomba di s. Pietro, con la lunga iscrizione recante la citazione da Matteo 16, 18-19, iscrizione realizzata prima ancora della progettazione ed esecuzione del baldacchino di San Pietro ad opera di Bernini, tra il 1624 e il 1633; la seconda è quella, esattamente opposta, che corre lungo la facciata, dedicatario il pontefice Paolo V Borghese. La cronologia dell’operazione di scrittura della Basilica di San Pietro è conservata presso l’Archivio della Fabbrica di San Pietro ed è possibile seguirne passo passo – o quasi – le tappe. Il 5 gennaio 1606 vengono pagati gli uomini che hanno lavorato alla Fabbrica «a fare li ponti per li stuccatori et a tagliare il fregio dove vanno le lettere»17; sempre nel medesimo fascicolo compare anche il nome di chi ha realizzato le lettere dell’iscrizione che corre lungo il basamento della cupola “pagamento delle lettere che ha fatto nel fregio della cupola”18 (da Matteo, 16, 18-19 iniziante con Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et tibi dabo claves regni caelorum), l’intagliatore Ventura Farfallini 19. Di qui a poco, nel 1612, si pone mano al secondo grande progetto di scrittura della Basilica, quello destinato a scrivere l’intero avancorpo della basilica, dal portico alla facciata: il 5 aprile 1612 20 è registrata la consegna 17 Archivio della Fabbrica di S. Pietro (d’ora in poi ARFSP), Arm. 26 A 178, c. 39v, 61r, 68v. 18 Ibid., Arm. 26 A 178, c. 39v, 61r, 68v. 19 Ibid., Arm. 26 A 178, c. 68v. 20 Ibid., Arm. 26 B 207, 5 aprile.
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di 40 fogli di carta papale a Pietro Paolo per le lettere della facciata e, sempre nel medesimo fascicolo, sotto la data 7 aprile del 1612, Pietro Paolo riceve il piombo per “squagliare” per la facciata, lavoro che prosegue nel tempo se ancora a giugno del medesimo anno lo stesso Pietro Paolo riceve ancora del piombo per la realizzazione della medesima iscrizione. Ma il programma di scrittura della facciata in realtà è già stato avviato nel tempo. Nel 1607 in un disegno di Carlo Maderno derivato da una incisione di Giovanni Maggi21 del 1608, è possibile vedere il primo progetto della facciata e il relativo programma grafico con la lunga iscrizione perfettamente leggibile22. Da questo disegno si rileva un dato interessante, in quanto il testo tràdito nel disegno della facciata appare variato rispetto a quello realizzato nel 1612 e oggi ancora visibile. In particolare le varianti interessano la data, l’indicazione dell’anno di pontificato e la mise en page dell’iscrizione: Anno Domini MDCVII / Paulus V Burghesius romanus/ Pontifex Maximus pontificatus III.
Nella realizzazione recante la data 1612 si legge:
In honorem principis Apostolorum / Paulus Burghesius romanus / Pontifex Maximus anno Domini MDCXII pontificatus VII.
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E in una incisione del 1613 ad opera di Matthaus Greuter l’epigrafe compare nella sua redazione definitiva23. L’aggiornamento del progetto epigrafico passa innanzitutto attraverso la rettifica della datazione sia con riferimento all’anno di pontificato di Paolo V sia all’anno effettivo di realizzazione dell’epigrafe monumentale. A questi particolari, derivati come già sottolineato, dall’aggiornamento cronologico del testo, si aggiunge un elemento nuovo, la dedica al principe degli apostoli, dedica che nell’iscrizione prende il primo posto nella lettura ma che, a ben osservare, non cade immediatamento agli occhi del lettore, dove al contrario si mantiene salda la menzione del pontefice dedicante. L’impaginazione variata indica un mutamento progettuale tra una prima fase ed una seconda fase, forse legata all’ampliamento della facciata 21 22 23
London, Victoria and Albert Museum, E 321/1937, Talman Collection, 92-D-46. Ripr. in H. Hibbard, Carlo Maderno, cur. A. Scotti Tosini, Milano 2001, p. 214. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Stampe. Cartella San Pietro, n. 6. Ripr. in Petros eni. Pietro è qui, Roma 2006, p. 124, II. 26a.
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voluto da Paolo V nel 1611 con l’inserimento dei due campanili sulla facciata. Ma a fronte di questa ipotesi e analizzandola dettaglio le due iscrizioni e le due differenti impaginazioni, si noterà che gli spazi dedicati a ospitare la scrittura non differiscono tra di loro enormemente, poiché l’iscrizione sconfina nella realizzazione del 1612 con sole 5 lettere. Il mantenimento dell’iscrizione del 1607 non avrebbe dunque comportato un restringimento grafico visivo eccessivo. Al contrario, l’iscrizione del progetto del 1612 comporta un restringimento degli spazi dedicati alla scrittura con un affastellamento lungo il lato destro tra le due parole pontifex maximus che non appaiono adeguatamente separate tra di loro. Il che fa supporre non solo un cambiamento di programma grafico, ma anche una voluta esposizione della scrittura con un testo ampliato e significativamente enfatizzato. Una volta eseguite le iscrizioni in facciata e sul luogo centrale della basilica, si procede a rifinirne il progetto. E in questo momento il nome più autorevole per porre mano al corredo scrittorio della nuova San Pietro sembra essere quello di Fabrizio Badesio. Di Fabrizio Badesio, Francesco Maria Torrigio, quasi contemporaneo, nel 1639 scrive:
Fabritio Badesio, al dì presente benefitiato di Santa Maria Maggiore, di cui, come di persona assai intendente di far lettere romane antiche, se ne servì Paolo quinto, Gregorio decimo quinto, et a dì presente nostro signore, nel disegnare l’iscritioni et epitafii che si vedono sparsi per Roma, in chiese, palazzi et altri edifitii nobili et segnalati24.
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La prima indicazione dell’attività di Fabrizio Badesio nella Basilica è ricordata nel 1614 25, nel mese di ottobre al giorno 10 viene pagato per lettere disegnate nell’arme che va nella paolina et in molti altri lochi. Una seconda testimonianza molto vicina risale al 1617, quando Fabrizio Badesio presenta una nota di spesa relativa alla realizzazione dell’apparato epigrafico della tomba di San Pietro26, le epigrafi di corredo della tomba di San Pietro. Il testo ricorda due iscrizioni in marmo, posti in opera vicino l’altare di San Pietro, sotto le grotte dipinte di novo. I due epitaffi contengono un 24 F.M. Torrigio, Le sacre grotte vaticane: nelle quali si tratta di corpi santi, sepolchri de’ pont., imperatori, ré, cardinali, vescoui, chiese, statue, imagini, inscrittioni, epitaffij e d’altre cose memorabili si dentro Roma, come fuori, Roma 1639, pp. 356-357. 25 ARFSP, Arm. 1 B 16, p. 183. 26 Ibid., Arm. A 3 20.
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numero elevato di lettere, come ricorda con precisione lo stesso Badesio nella richiesta di pagamento: ben 311 variamente distribuite e di altezza variabile. Non escludo che allo stesso Badesio si debba anche l’iscrizione posta sulla porta in bronzo dorato, dove compare il nome del pontefice Paolo V, anche se non è possibile seguirne la documentazione. Questa impresa epigrafica segna l’inizio di una durevole collaborazione con l’architetto Carlo Maderno. Collaborazione che vedrà Badesio principale esecutore delle iscrizioni che seguono gli interventi di Maderno. Tra il 1615 e il 1617 Maderno interviene con un ampliamento della tomba e viene annotato un intervento relativo all’altare di San Pietro da parte di Badesio, nonché una serie di indicazioni relative alla loggia delle benedizioni27. Ma la collaborazione più importante di Badesio con Maderno è relativa agli anni 1618-1619, quando viene realizzato l’intero programma epigrafico dell’atrio di San Pietro, ivi compreso, come si vedrà di qui a poco, il riposizionamento delle iscrizioni “antiche” nelle relative sedi. Nel manoscritto 1 A 9 dell’Archivio della Reverenda Fabbrica di San Pietro, le annotazioni circa le iscrizioni realizzate da Badesio si infittiscono per gli anni 1618 e 1619. E qui torno a citare il manoscritto dove lo stesso viene pagato in primo per aver segnato l’inscrittione di nostro signore (Paolo V) in cinque fregi delle cinque porte della basilica di San Pietro, et ancora doi altri fregi simili delle due contro porte (per un totale di 161 lettere), e ancora annota ancora una serie di iscrizioni sempre destinate al portico (atrio) nonché le iscrizioni che corredano le figure dei papi sempre nell’atrio. Da questa lunga serie di annotazioni per i pagamenti ricevuti o richiesti, le descrizioni minuzione rivelano che lo stesso Badesio non solo fece i modelli (i cartoni), ma ne curò la realizzazione fino all’opera finita, comprensiva di dipintura per gli stucchi, cartelle d’oro, come dalle sue indicazioni. In questa lunga redazione scritta dell’atrio, Badesio annota anche che alcune iscrizioni sono state ampliate, in particolare i cartoni relativi alla porta bronzea reimpiegata nella nuova struttura del Maderno, per la quale si rende necessario aggiungere ulteriori lettere – come precisa sempre la nota relativa a Badesio, con l’iscritione del papa quali hanno servito alla porta di metallo restaurata […] e prosegue ancora e più per aver fatto un altro cartone per la suddetta porta di bronzo per accrescere altre parole 28. Il riferimento è alle imposte della porta bronzea del secolo XV del Filarete 27 28
Ibid., Arm. A 3 21. Ibid., Arm. 1 A 9, pp. 311 ss.
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che infatti risultano, allo stato attuale, rialzate con l’aggiunta nei battenti superiore ed inferiore dei riferimenti al pontefice Paolo V. Poi elenca una serie di cartoni per le iscrizioni realizzate all’interno del portico, per le quali lavora non solo ai modelli, ma precisa anche che questi stessi cartoni furono da lui stesso dipinti ad oglio: si tratta dell’epigrafi recanti i nomi dei pontefici e le reiterate menzioni del pontefice Paolo V, per il quale lavora per ordine diretto proprio su questi ultimi materiali 29. A gennaio del 1619 Badesio risulta ricevere ancora dei pagamenti per le iscrizioni dell’atrio fino a tutto aprile, e quindi fino a dicembre, quando riceve l’ultimo pagamento a conto delle lettere poste sulle porte dell’atrio. Il programma epigrafico dell’atrio sembrerebbe così essere terminato. In realtà il progetto prosegue, con una immissione diretta di epigrafi “antiche”. Il 24 luglio del 1619 come risulta dal manoscritto 16 A 159 30 s’è ordinato che si accomodino nelli pareti del porticale l’iscritioni antiche che erano nel porticale vecchio con quelli ornamenti che convengono al sito e disposizione d’esso. A settembre iniziano le registrazioni delle spese sostenute per l’arredo epigrafico e il riassetto delle iscrizioni antiche. A Leone Garvo e compagni scarpellini scuti 65 a conto del’iscrizione e so ornamenti intorno all’iscrizioni antiche sotto al portivale viene effettuato il pagamento al 27 di settembre31. Sempre a Leone Garvo e ai suoi collaboratori dei quali si ricordano, fra i molti rimasti anonimi, i soli nomi di Carlo Fanciulli, Costanzo Tincalla e Giovanni Antonio Gaberto, nei mesi successivi vengono effettuati dei pagamenti per la lavorazione dell’iscrizione e so ornamenti intorno all’iscrizione antiche sotto il porticale32. Partecipano 28 uomini come si apprende dal manoscritto 26 C 218, per le sole iscrizioni, con lo scopo di nettare et arrotare per l’epitaffi nettare le lettere fatte calare li pezzi e gustare e tagliare. Nello stesso anno è intrapresa una seconda opera di scrittura, questa volta relativa alla grotta vaticana. Tra il 1619 e 162033 un secondo personaggio interviene all’opera di scrittura, ma limitatamente alle grotte. Matteo Albertini affianca Badesio nella realizzazione del corpus epigrafico secentesco del vaticano, ma con una rilevante differenza. A lui viene affidatala realizzazione fisica delle
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Ibid., Arm. 1 A 9, c. 311v. Ibid., Arm. 16 A 159, cc. 30r-31r. Ibid., Arm. 26 C 229, c. 45r. Ibid., Arm. 26 C 229, c. 45r e ss. Ibid., Arm. 26 C 229, c. 12r.
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iscrizioni della grotta. Il suo ruolo è preciso, è quello di scalpellino, ossia di chi realizza fisicamente gli epitaffi, ai quali lavora per quasi tutto il 1619 e risulta ancora attivo nel 1620. Rispetto a Badesio, Albertini svolge il suo lavoro come manovalanza, senza arrivare alla creazione dei modelli delle lettere, della loro ornamentazione e della loro cromatura. In questo giro di anni, intorno al 1619, Badesio è ancora attivo nella zona dell’atrio. Qui convergono gli sforzi di realizzare il progetto celebrativo di Paolo V, iniziato con la già ricordata impressionante iscrizione della facciata e il cui nome è ossessivamente ripetuto all’interno nel portico: sulle porte d’ingresso alla basilica, su ciascuna il nome del pontefice con la stessa scrittura antichizzante nella quale Badesio era esperto. A coronamento del progetto di scrittura della Basilica infine sono riposizionate le iscrizioni come dalla decisione del 1619. Il fatto non è casuale. Già un predecessore di Paolo V aveva spostato nella facciata della basilica alcune iscrizioni antiche, in particolare nel 1574 il papa Gregorio XIII34. Ma i rifacimenti del portico portarono ovviamente ad una nuova campagna di riposizionamenti dei manufatti, dettata dalle medesime esigenze dell’imponente opera in corso: Paolo V e la fama. Lo stesso principio sembra sostenere la trama dell’incredibile sequenza epigrafica della facciata interna del portico. Nell’ordine sono così collocate le epigrafi: l’iscrizione di Gregorio II (ritenuta a lungo come una iscrizione di Gregorio Magno), recante un elenco di donazioni e di proprietà della chiesa di San Pietro; segue l’iscrizione di papa Adriano, su commissione di Carlo Magno; segue la bolla di Bonifacio VIII relativa al giubileo del 1300 35. Venendo ai particolari e ipotizzando una sequenza semplicemente cronologica, si dovrebbe ammettere una casualità progettuale assai singolare per i contenuti delle epigrafi medesime. Ritengo, al contrario, che a dettare la disposizione delle epigrafi lungo la facciata interna del portico non sia stato un criterio meramente cronologico (dalla più antica alla più recente), quanto piuttosto un ragionamento più complesso e articolato su più livelli. L’iscrizione di Gregorio II (711-730) è stata ritenuta a lungo, fino alle
34 Sulle sequenze degli spostamenti anteriori ai rifacimenti di Maderno e le epigrafi del portico, v. quadro riassuntivo in La Basilica di San Pietro, cur. A. Pinelli, 2 voll., Modena 2000 (Mirabilia Italiae, 10), in particolare II, Schede, pp. 490-495. 35 V. prospetto in ibid.
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precisazioni di G.B. de Rossi nel 188836, una iscrizione di papa Gregorio Magno, come indicano De Winghe, Veggio e Sabino e come registra Grimaldi37, ossia di quel pontefice alla cui attività è legata l’opera di evangelizzazione dei popoli “barbari” agli albori della espansione religiosa del cristianesimo imperante. L’iscrizione, quindi, oltre a rendere esplicit i possedimenti reali della Chiesa, evoca tramite la lastra medesima ritenuta di quel pontefice evangelizzatore di quelle stesse popolazioni che da poco meno di un secolo, con il sacco del 1527, avevano violato Roma, simbolo della Chiesa terrena. Una sorta di monito. Ma ampliando ulteriormente la riflessione del perché di questa lastra la cui principale caratteristica risiede nel testo, un elenco di possedimenti della Chiesa (ancorché mirati alle luminarie della Basilica di San Pietro), non si può non scorgere dietro le quinte l’ombra del dibattito non del tutto sopito tra i giuristi medievali circa il Constitutum Constantini38 qui evocato potentemente dalla statua equestre di Costantino. Si ricorderà infatti che dal piano dell’analisi strettamente filologica di Lorenzo Valla, la questione del Constitutum era stata spostata sul piano giuridico, con i maggiori nomi della giurisprudenza medievale chiamati ad esercitare le proprie raffinate armi esegetiche proprio sul trattato fondante del patrimonium Sancti Petri. E ancora alla fine del ‘500 la questione animava, anche se con toni via via sempre più spenti, il dibattito, arrivando al punto di evocare la communis opinio quale elemento di credibilità come ricorda il giurista mantovano Francesco Borsati nel suo Consilia sive responsa di poco posteriore al 157039. Borsati dopo avere tracciato un breve riassunto dei detrattori dell’autenticità del Constitutum, enumera poi papi, imperatori, teologi, canonisti, legisti e storici che, a sua conoscenza, non avevano nutrito dubbi sulla veridicità del constitutm medesimo. E ricorda anche come la negazione dell’autenticità del Consitutum costituisca, di fatto, un atto di eresia: Praemittereque intendoquo his temporibus siquis teneret donationem per Constantinum Sylvestro minime factam, quatenus vero factam non tenuisse, forte ab aliqua haeresis suspicione non procul distaret40. Sotto questo profilo, la collocazione della lastra con i possedimenti di San Pietro trova una propria piena giustificazione. 36 37
De Rossi, Inscriptiones Christianae Urbis Romae, II cit., pp. 411-413. Edd. in G. Grimaldi, Descrizione della basilica antica di S. Pietro in Vaticano. Codice Barberini Latino 2733, cur. R. Niggl, Città del Vaticano 1972. Cfr. La Basilica cit., pp. 490491. 38 Rinvio per la questione nel suo complesso a D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1969. 39 Ibid., pp. 337-341. 40 Cito da Maffei, La Donazione cit., p. 339 nota 48.
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Segue l’iscrizione di papa Adriano I (772-795) , il pontefice legato a Carlo Magno, il fondatore dell’Impero nocnché difensore della Chiesa. L’epigrafe sembra voler suggellare il patto tra Chiesa e Impero e attraverso lo stesso Carlo Magno, pone Impero, genti e città, sotto la protezione della Chiesa, personificata dal pontefice. L’epitaffio composto da Alcuino di York pone i due personaggi, papa e re, non proprio affiancati, bensì con una subordinazione del secondo al primo, come si evince dal testo ai versi 17-24 dell’epitaffio: […]
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Post patrem lacrimans, Karolus haec carmina scribsi. Tu mihi dulcis a morte modo plango pater, tu, memor esto mei, sequitur te mens mea semper, cum Chr(ist)o teneas regna beata poli.
[…]
Nomina iungo simul titulis clarissime nostra, Hadrianus, Karolus, rex ego tuque pater42.
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Piangendo il padre, io Carlo, scrissi questi versi … Metto insieme, nell’iscrizione, i nostri nomi Adriano, Carlo, io il re, tu il padre. Il ricordo del pontefice e l’iscrizione commemorativa voluta da Carlo Magno evoca questo concetto di alleanza indissolubile tra Papato e Impero e, come credo negli intenti di chi la ha voluta nell’atrio, sottilmente ricorda anche che il potere temprale passa attraverso la sottomissione alla Chiesa la quale sola ne può legittimare il potere. La salvezza quindi passa attraverso la sottomissione di tutti, e non solo dei più umili credenti, alla chiesa di Roma, alla sede di San Pietro. Ma come per la lastra già creduta di Gregorio Magno, anche l’evocazione di Carlo Magno può essere giustificata dalla questione del patrimonio ecclesiastico, specie se si tiene conto della secondo la quale proprio ai sovrani Pipino e Carlo Magno si facevano risalire le donazioni patrimonia41 Riproduzione in Silvagni, Monumenta Epigraphica cit., I, Roma pars I, tab. II, 6. L’epitaffio del papa Adriano, attualmente murato nell’atrio di San Pietro, è stato riconosciuto come originario dalla Francia da G.B. De Rossi (L’inscription du tombeau d’Hadrien Ier composée et gravée en France par ordre de Charlemagne, «Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’École française de Rome», 8 [1888], pp. 478-501, pl. XIII). L’autore ha dimostrato che l’epitaffio venne eseguito per ordine di Carlomagno, come risulta dagli Annales di Lorsch (M.G.H., Scriptores, 1, Hannoverae 1826, p. 36): Ebitaffium aureis litteris in marmore conscriptum iussit in Francia fieri, ut eum partibus Romae trasmitteret ad sepoltura summi pontificis Adriani ornandam. 42 Vv. 23-24.
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li della chiesa, come ricordato anche da Jean Feu (vissuto a cavallo tra 400 e 500) citato non a caso da Borsati43. Un gioco di specchi che riverbera continuamente lo spettro del Constitutum, un problema non del tutto risolto, anche se in via di risoluzione. Segue l’iscrizione di Bonifacio VIII, il cui testo ricorda l’istituzione del Giubileo del 130044. L’iscrizione pone direttamente in chiaro il concetto la supremazia della Chiesa di Roma su tutti e su tutte le Chiese: se la salvezza dell’anima è una questione che passa attraverso la remissione dei peccati, è proprio a Roma e nel seno della Chiesa cattolica che questa remissione ottiene tutta la sua efficacia. Il grande Giubileo del 1300 apre la via della remissione dei peccati con il pellegrinaggio romano. Anche qui dietro le quinte si muove un’altra ombra, quella del Concilio di Trento, chiuso da qualche scarso decennio. La lastra parla chiaramente: è alla Chiesa di Roma che ci si deve rivolgere per ottenere la remissione dei peccati, con il pellegrinaggio e quindi con il giubileo; la salvezza la si ottiene varcando la soglia della Basilica di San Pietro a Roma e non rivolgendosi ai dirimpettai tanto osteggiati nel concilio di Trento. Anche qui non si faticherà a scorgere un nuovo monito. Ma se si amplia la riflessione spostandola dal piano della salvezza dell’anima verso quello molto più concreto delle relazioni Papato e Impero, l’epigrafe assume un significato ancora più rilevante. Autore dell’epigrafe – in senso epigrafico – è il papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani di Anagni, la cui figura si staglia nitida nelle ultime burrascose relazioni tra Papato e Impero in un momento di rivendicazioni circa la supremazia dell’uno sull’altro. Non a caso infatti il papa Bonifacio VIII, detentore di un irriverente schiaffo ad Anagni, era l’ultimo pontefice che aveva deliberato in materia di sottomissione dell’Impero al Papato, con la sua bolla Unam sanctam del 1302, definita da ennio Cortese un “proclama della supremazia di Pietro su tutti i poteri temporali”45. La Bolla, già a suo tempo vista e vissuta dai sovrani come una imposizione, dal momento che ad essere giudicati possono esserlo solo loro e non il pontefice.46 Torna quindi, nel consueto gioco di specchi, il patto che legava papi e imperatori, questi ultimi sottoposti naturalmente alla Chiesa: negli intendimenti di Bonifacio VIII sottoposti alla Chiesa di Roma nella persona del vicario di Cristo in terra. Mi sembra chiaro quindi che le tre iscrizioni, con le due statue eque43 Maffei, La donazione cit., 342-343. 44 A. Potthast, Regesta Pontificum, II, cur. A. Gaz, Berlin 1957, p. 1993, n. 24917. 45 E. Cortese, Il Diritto nella Storia Medievale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995, p. 364. 46 Ibid., pp. 364-365.
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stri dei due protettori ufficiali della chiesa a destra e sinistra dell’atrio, da una parte rivelino quanto ancora il sacco del 1527 fosse presente come ferita non rimarginata; ma mi sembra evidente anche che il complesso costituisca un unico progetto, e che risponda ad una precisa esigenza: quella di esplicitare attraverso un manifesto politico molto forte, la storia di un patto che non può prevedere un secondo sacco di Roma, un secondo affronto alla sede di San Pietro. Ma soprattutto ricorda agli imperatori che la sottomissione alla Chiesa di Roma non è una storia nuova, ma che essa trae le proprie radici fin da Costantino, un patto che vede poi protagonisti Gregorio Magno, propulsore della cristianizzazione presso quelle stesse popolazioni autrici di tanto smacco, un patto confermato da Adriano, padre spirituale di un re - non solo spirituale, ma potente mezzo di consacrazione del potere imperiale –; un patto ricordato tramite la figura di Bonifacio VIII, garante mediante l’istituzione del Giubileo, della salvezza delle anime del gregge cristiano, ma allo stesso tempo assertore convinto della supremazia della Chiesa anche rispetto agli imperatori. Così avvertito il lettore, varcata la soglia di San Pietro, può finalmente affidare la propria anima a Dio. Alle tre iscrizioni e alla loro fama per i contenuti e per i committenti credo si debba legare il progetto epigrafico e non, come ho anticipato in precedenza, ad un fattore di pura casualità cronologica47. A conferma e a coronamento di tale progetto grandioso e delle intenzioni che il progetto epigrafico sottointende, all’interno della Basilica nella navata centrale compare un grande disco di porfido rosso ai piedi di chi entra. Disco che secondo la tradizione sarebbe stato quello sul quale Carlo Magno si sarebbe inginocchiato per ricevere la unzione papale. Il giorno 20 settembre del 164948 viene discusso il riposizionamento eventuale del disco porfiretico all’interno della Basilica e si decide di lasciare la rota porfiretica laddove era stata inserita in passato, ossia nella navata centrale: […] discussum fuit an rotha porphiretica super qua incoronatione Imperatorum in Basilica veteri Sancti Petri solebant fieri … prout in ceremoniali antiquo sit collocanda in pavimento marmoreo quod modo sit in Basilica nova et casu qui collocanda sit quesitum fuit in quo loco an sit circa eam. Fere omnes fuerunt unanimesquod non sit removenda de loco ubi Architectus [Maderno?] eam iam posuit, scilicet in medio Basilica […]49. In questa ottica credo che il programma epigrafico che si apre con 47 48 49
Cfr. supra, nota 34. ARFSP, Arm. 16 A 162, p. 157v. Ivi, Die lune 20 mensis septembris 1649.
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l’iscrizione della facciata di Paolo V Borghese e si conclude intorno alla tomba di Pietro, risponda a una sola e unica necessità: celebrare, ostentare, avvertire e, soprattutto, tornare a conferire alla Chiesa di Roma la sua supremazia seriamente minacciata da due secoli di ripetuti attacchi, manu militari, manu textualis. Sotto questo profilo le epigrafi diventano uno strumento poderoso per ribadire i concetti che ho evocato e, nello stesso tempo, celebrare la fama del pontefice che ha promosso tale programma. Horst Bredekamp leggendo le differenti fasi di costruzione della Basilica di San Pietro attraverso i suoi protagonisti, arriva a scrivere che «l’alternarsi dei periodi di stasi e delle modifiche progettuali non aveva luogo se non nel dispiegarsi di una rivalità tanto frenata quanto accanita. […] Non solo per le sue dimensioni e le sue forme, ma per gli invisibili, caotici processi decisionali che hanno condotto all’aspetto attuale, San Pietro rappresenta un monumento al potere»50. Riflettendo su questo principio e applicando il modello ai lontani principi beneventani e alla loro presenza scritta sulla facciata del Duomo di Benevento e prima ancora in Santa Sofia, viene da chiedersi se il principio della visibilità attraverso l’epigrafe non sia perfettamente corrispondente. E motore di questo principio credo sia proprio quella fama che ogni singolo monumento evoca e consolida per il proprio committente.
50 H. Bredekamp, La fabbrica di San Pietro. Il principio della distruzione produttiva, trad. it. Torino 2005, p. 162.
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International style and medieval Italian music: a Flemish motet in the Ascoli Piceno/Montefortino fragment
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Fame and public reputation provide only fleeting recognition for great men and women unless their deeds and character are recorded in writings that survive throughout the centuries. Those whose stories are not told and retold fade into obscurity. The same fate befalls musical traditions whose few traces make them difficult to reconstruct and enjoy in sound today. The earliest modern histories of fourteenth and early fifteenth-century Italian music gave voice only to the most fully preserved traditions of Trecento polyphony. The few surviving large codices of the so-called Italian ars nova (ca. 1330-1420) are built almost entirely around secular music with texts in Italian that was composed or copied in Florence. Yet at the same time that this Florentine music flourished, other musical traditions were in full bloom throughout the rest of Northern and Central Italy. These other polyphonic musical traditions emphasized sacred music, ceremonial compositions in Latin, and secular pieces (whether newly composed or imported) with French texts. Reconstructing these traditions has proven difficult because they were not carefully preserved as the beautiful Florentine codices were, but were instead often dismembered and reused as flyleaves for manuscripts considered more important, or used as scraps for strengthening the bindings of books or as inexpensive but strong covers for notarial materials and other documents of the State. Such was the fate of one of the more significant recent discoveries in Italian ars nova music, found by Paolo Peretti in the early 1990s1. It is a single parchment bifolio collecting a set of motets, Salve Regina settings, a hymn, and two secular songs with French texts that was reused by the notary Antonio Gentili to protect judicial documents of 1552 to 1554 from
1 P. Peretti, Fonti inedite di polifonia mensurale dei secoli XIV e XV negli archivi di stato di Ascoli Piceno e Macerata, ÂŤQuaderni musicali marchigianiÂť, 3 (1996), pp. 85-124: 88-93.
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the town of Montefortino. This cover, along with the libellus it protected, was later transferred to the Archivio di Stato of Ascoli Piceno where it is now vol. 142 of the Notarile Mandamentale di Montefortino (hereafter AP 142). The damage that resulted from the manuscript’s transformation left much of the leaf completely illegible at the time of Peretti’s description. More recently, the bifolio has been removed from its cover and partially restored, allowing Peretti and Agostino Ziino to craft a more detailed description of the manuscript, including musical transcriptions2. With the clearer view of the fragment that the restoration allowed, a unique rondeau, Je vous aym de cuer, could be transcribed completely (though without its probably defective text). The other French-texted piece, Esperance qui en mon cuer sembat, would also be completely transcribable in a twovoice version with text, but there is no need to since the piece is already well known from eleven other copies of the music or words3. Four Latintexted pieces were also able to be transcribed more-or-less completely as they appear in the source; unfortunately, part of the fragment has been cut off and adjacent pages have been lost, so even after every note has been reconstructed, none of these pieces is complete. This music was brought to the ears of Ascoli Piceno during the Fama conference through performances by the Ascoli Ensemble directed by Zamler-Carhart; the incomplete pieces were either reconstructed or performed as fragments. One of these Latin fragments has a textual canon that is a set of directions (often like a riddle) that tells the performer how to expand the few notes written on the page into a much longer composition. It reads as follows4:
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Canon tenoris, Modus talearum disti<n>guitur in figuris: Primo: ut iacent. Secundo: recte per medium ut sunt figure cantabis de imperfecto maiori, ad<d>endo post vacuas figuras nigras ut iacent
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P. Peretti - A, Ziino, Ancora sul frammento di Montefortino (con trascrizioni musicali di M. Cuthbert), in L’Ars Nova Italiana del Trecento. VIII Convegno internazionale “Beyond 50 Years of Ars Nova Studies at Certaldo: 1959-2009” (12-14 giugno 2009), cur. M. Gozzi - A. Ziino - F. Zimei, Certaldo-Lucca 2010; including a facsimile of the entire source. 3 M. Cuthbert, Esperance and the French Song in Foreign Sources, «Studi Musicali», 36 (2007), pp. 1-19. 4 We thank Emily Zazulia and Lorenzo Calvelli for discussions on this text.
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The text tells the performer to perform the piece twice (except the last two notes written in black), but the second time making each of them half its written length so that it is in imperfect time, major prolation (or modern 6/8). This is a way of distinguishing the two talea, that is, the sections of an composition with a repeating rhythmic pattern (called isorhythm):
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Canon of the tenor, the modus [i.e., mensuration] of the taleae is distinguished by the figures [i.e., notes]: First, as they are. Second: to do it correctly, you will sing the notes half as they are, in imperfect major, adding, after the void figures, the black [figures] as they are.
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Unfortunately since so little of the tenor voice survives, these descriptions are of little help in transcribing the piece – they instead give the parameters for how we might transcribe the work if more of the tenor were to someday emerge in a currently unknown source. Another two pieces resisted identification at the time when Cuthbert provided transcriptions to be published with Peretti and Ziino’s article, but new evidence about the works’ contents and their significance has enabled us to bring back more of the music from these works. Only a single voice of the piece on the verso of folio B survives. It is, unfortunately, on the side of the parchment that was on the outside of the binding. It has therefore suffered so much wear as to become nearly illegible, unlike the recto, which was protected from wear by virtue of facing the notarial document rather than the elements. Exposure of the verso under an ultraviolet lamp revealed enough of the remaining ink to allow us to read the word flandrie, “Flanders.” Mention of Flanders is rare enough in late medieval Italian musical manuscripts to permit identification in other sources. Indeed, a careful search through many surviving motets found a match for this piece in two surviving sources: Nuremberg, Stadtbibliothek, Fragment lat. 9, from Centurio V, 61 (hereafter Nur9) and Strasbourg, Bibliothèque Municipale (olim Bibliothèque de la Ville), MS 222. C.22 (hereafter Stras). Nur9 is a small fragment of Viennese origin containing three motets and one untexted composition titled Bobik blazen which may be a piece for instruments, an unknown Dutch piece (given the incipit Hollaner in another source, or the only surviving work of the music theorist Johannes Olendrinus)5. Stras was a large manuscript from the Upper
5 On Nur9 and other Viennese sources see M. Cuthbert, The Nuremberg and Melk Fragments and the International Ars Nova, «Studi Musicali», 39 (2010), in press.
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Rhine region (Basel/Strasbourg) containing sacred and secular compositions of French, Italian, and German origins that was destroyed by fire in 1870. It survives only in a partial copy, including this motet, that was made by Edmond de Coussemaker and is now located in Brussels6. Nur9 Comes flandrie flos victoris cunctis sistitur huc armonica cum melodia et accipitur [arte] vere tinta face fortuita que perpenditur hic nam conducitur hic manet qui pangitur ut contingat malos que privat refici et sursum trahitur ad intrandum celos figitur Boecius armonicus perfectus accidit ut pecii animo labe delectat cymbalis in quavis mulcens corda studiosorum laudibus divinis tangens corda pax est isto[rum] quolibet astrola debet dominus benedici que sic state sono decorata urbs ludowyci.
Stras Comes flandrie efflos victorie cunctis sistitur huic armonia cum melodia N. arripitur arte non tuita fauce forcuita Que propenditur hinc nam conducitur harmon quo pangitur ut contingat melos quo cor reficitur et sursus trahitur ad intrandum celos igitur Boecii armonia perfecta accidit est ut pretii armon labe dejecta cimbalis in quivis mulcens corda studiosorum laudibus divinis ungatis corda plax est isti isto relevis Nam infra species toni ultra semitonium differunt in ipsis soni penes testimonium volens hoc enucleare per experientiam. Nam sit cantui magis clare melos per tangertiam quolibet ostiblo debet dominus benedici quod sit stante sono decorata sit urbs ludovici
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AP 142 Comes flandrie flos victorie cunctis sistitur hinc armonia cum melodia [et accipitur] arte [vere] tinta face fortuita que perpenditur hinc nam conducitur hermam quo pangitur ut contingat melos quo cor reficitur et sursum trahitur ad intrandum celos Igitur Boecii armonia que perfecta accidit ut (pecii?) armo(rum?) labe delecta cymbalis in quavis mulcens corda studiosorum laudibus divinis tingens corda pars est istorum nam infra speciem toni ultra semitonium differunt in ipsis sonis penes testimonium uolentes hic enuclea[vi] per ex(perienciam) [...] pro (in)gen... [...]libus (aciolo?) debet benedici qu(e?) sic stante sono [...] decorata urbs ludouici.
6 Cossemakerâ&#x20AC;&#x2122;s transcriptions have been published in a facsimile edited by Albert Vander Linden, Le manuscrit musical M.222 C.22 de la Bibliothèque de Strasbourg: XVe siècle, Bruxelles 1977.
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The motet turns out to be not a local composition at all, but instead a piece commemorating a victory of Louis II de Male, count of Flanders, that was celebrated in Bruges7. The text of the triplum in AP 142 is substantially different from the version in Nur9 and quite different from Stras. All three versions of the triplum are compared below, with an English translation of the Ascoli version. To the extent that the text of AP 142 is legible, it can be translated as follows:
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Count of Flanders, the crown of [your] victory is displayed to everyone and harmony goes forth from this place with melody, for it is led from here by a fortuitous torch, which is carefully considered, dipped indeed in art, by which it is composed so that the tune reaches Hermes, whereby the heart is refreshed and taken skyward so as to enter the heavens.
Therefore the harmony of Boethius which falls perfectly so that [...] delighted by the lowering of weapons, soothing the heart of the eager, in any (harmony) with cymbals, filling the hearts with divine praise, it is a part of them. For inferior in beauty [...] the tones beyond the semitone differ in the same sounds. I have explained the evidence to those willing (to listen), in place of [...] must be blessed [...] the distinguished city of Louis.
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Remarkably the triplum in AP 142 is several verses longer than in Nur9, which begs the question of how it would have fitted with the lower voices in the same source, unfortunately lost to us. In light of the text in AP 142, the version previously known from Nur9 now appears to be severely corrupted, whereas AP 142, to the extent that it can be read, preserves a fully coherent poetic and grammatical structure. For example, the first six verses of the poem feature an AABCCB rhyme with five syllables per verse. This form is intact in AP 142 but mangled in Nur9, where the rhyme victoris upsets both the rhyme and the meter by the second verse already. The copyist of Nur9 appears to have had a poor command of Latin. While the poem speaks of broadcasting Louis’ glory from the place of victory out into the world and up to the heavens, the Nur9 copyist repeatedly misunderstands the word hinc ‘from here’ and replaces 7 See Reinhard Strohm, Music in Late Medieval Bruges, Oxford 1990, p. 103; Strohm provides a transcription of the piece based on Nur9 on pp. 201-205.
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it with other words that eliminate the idea of movement away from Louis. The version in Stras appears to be in intermediate stage of preservation. Much of the verse structure is coherent, some of the word differences with AP 142 are indeed possible Latin alternatives without changing the meaning much (e.g. sursus for sursum and even arripitur for accipitur). On the other hand, the text contains a number of nonsense words (e.g. armon, ostiblo). Only in very few cases could the alternative text of Stras be an equal or better representation of the original Latin poetry than AP 142. For example it is perhaps equally sensible to write that the harmony is led outwards fauce ‘by a throat’ as face ‘by a torch,’ though in poetic usage both are conceivable. In any case it is more difficult to make an accurate determination as to the state of corruption of Stras, since, unlike with AP 142 and Nur9, the original manuscript is lost and our knowledge of its contents comes entirely from Coussemaker’s handwritten transcription. Despite his care and skill, it is not impossible that he would have introduced corruptions of his own while transcribing the piece and we cannot know which ones he faithfully copied from the original and which ones he introduced inadvertently. The poem as we can read it in AP 142 as a whole is typical of late fourteenth-century Latin secular motets. Its vocabulary is generally educated and its grammatical construction sophisticated, suggesting an cultivated poet familiar with classical models. Non-classical Latin usage, widespread in most motet texts just a generation earlier8, is almost absent here with the exception of the typical medieval word pecii ‘piece,’ undoubtedly chosen for its rhyme with Boecii. Like earlier motet texts, it is still rhyming poetry rather than the metric poetry that begins to gain ground in the early fifteenth century9. But typically for poetry of the so-called ars subtilior period, it contains many classical and technical references, in this case to Boethius, Hermes and concepts of music theory. Those references, certainly a sign of high culture at the end of the fourteenth century and undoubtedly woven into the text to demonstrate the sophistication of the Flemish court, were almost entirely lost on the scribe of Nur9. He apparently did not recognize the Greek word melos ‘tune’ and replaced with malos, leaving the sentence mangled. He also entirely 8 9
See for example Machaut’s Latin motets. For example, out of Dufay’s thriteen isorhythmic motets, all in Latin verse, four are set to metric poetry (Rite majorem, Nuper rosarum flores, Salve flos, Magnanime gentes), one has metric poetry in only one voice, the contratenor (Ecclesie militantis) and the rest consist of rhyming poetry.
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skipped the verses containing advanced technical musical vocabulary, especially «toni ultra semitonium differunt in ipsis sonis» (the tones beyond the semitone differ in the same sounds), perhaps because he did not understand the words. Aside from technical terms, more educated – but by no means obtuse – vocabulary such as the verb enucleavi ‘I explained’ was also left out. Altogether, the textual differences between AP 142 and Nur9 suggest that the Italian source is much closer than the German source to the Flemish original and that the Italian scribe was for more competent in Latin than the German one. Furthermore, the musical settings strongly suggest that AP 142’s text is closer to what the composer intended. In the last third of the cantus of Nur9 there are long stretches of music without text. These passages are underlaid quasi-syllabically in AP 142 (again, Stras represents an intermediate stage between the two). The music of the three sources differs substantially enough from each other that it warrants its own separate study in the context of other Franco-Flemish and Italian pieces that survive in quite different versions in Italian and Central or Eastern European sources. In general, and in Comes flandrie in particular, the pieces in Italian sources are more decorated than in Germanic, Czech, and Polish sources. For instance, a semibreve D in Nur9 might be rendered as three minims, DCD in AP 142. In the absence of an earlier Flemish source we cannot say how close AP 142 is to the original, but the fact that a poem of such complexity still reads as if it were intact after being copied so far from Flanders suggests that we are in the presence not of a distant transmission of Flemish music to a peripheral zone, but on the contrary, of a reliable transmission to a discriminating recipient. The musical theme of this motet, made even more apparent now that the text in AP 142 has revealed several more verses filled with technical musical vocabulary, places it squarely in the tradition of late-fourteenthcentury motets about music, together with Apollinis eclipsatur, Alma polis religio and Musicalis sciencia. Strohm (1985) attributes the latter to Petrus de Brugis and proposes that he could also be the composer of Comes flandrie. We have not uncovered additional evidence in AP 142 to weigh in one way or another, but we do note the stylistic similarity between the two motets, in particular the use of tight hockets and the general avoidance of dissonance, perhaps a result of Flanders’ proximity to the influence of English music10.
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See the slightly earlier English motet about music, Musicorum collegio.
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The question remains of why a Flemish composition would find its way to the Marche. If Petrus de Brugis is indeed the composer of Comes flandrie, then it ought to be no surprise that his music should be found so far from home: the duplum of the motet Apollinis eclipsatur names him in a short list of musicians «vox quorum mundi climata penetrat» (whose voice penetrates all regions of the world). But even if he is not, a possible element of answer may be found in the singular history of the town of Montefortino as a destination for international pilgrims seeking to consult the Sibilla Appenninica, or Apennine Sibyl11. The Apennine Sibyl, like the more famous oracle at Delphi, was a woman regarded as endowed with prophetic abilities and living at a holy site. The one near Montefortino was reputed to dwell in the Grotta della Sibilla, or Sibyl’s Cave, a cave near the top of the mountain Monte Sibilla, on the outskirts of the town. The presence of an oracle in the Appenine region is already recorded in Roman sources12. Two early fifteenth-century sources bear witness to the Sibyl’s considerable international fame in the late Middle Ages. The first one, Il Guerin Meschino, is a chivalric romance written by Tuscan author Andrea de Barberino around 1410. The work, which is set several centuries earlier, mentions the Apennine Sibyl about fifty times and features characters traveling from overseas to Montefortino in order to consult the oracle. It is of course a work of fiction, but the idea of traveling long distances to consult the Sibyl of Montefortino must have been familiar enough to early fifteenth-century readers to be used as the conventional backdrop of a chivalric narrative. The second source, Le paradis de la Reine Sibylle, is a travel diary written in 1437 by French author Antoine de La Sale, relating his own visit to the Sibyl’s cave in Montefortino in 1420. On the basis of various graffiti he saw carved at the entrance of the cave and transcribed in his book, La Sale claims that the cave had been visited in 1338 by a certain Her Hans wan Bamborg, and again at an unspecified date by a certain Thomas de Pons. Whether or not the date of 1338 and the specific name of the visitors are accurate, La Sale’s account constitutes further evidence of a tradition of 11 12
We thank Gianni Brandozzi for pointing out this connection to the Sibyl. Suetonius (first century AD), De vita caesarum, vita Vitellii, X: «In Appennini quidem iugis etiam pervigilium egit» (A vigil was also held at the top of the Apennine Mountains). Trebellius Pollio (early fifth century AD), Historia augusta, Divus Claudius, X, 4: «Item cum Appennino de se consuleret, responsum huius modi accepit» (Similarly, when he [i.e. Emperor Claudius Gothicus] asked about his future in the Apennine Mountains, he received such a response).
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pilgrims traveling from foreign lands to Montefortino in the fourteenth and early fifteenth century, corroborating the evidence already offered by Il Guerrin Meschino. Although no specific evidence survives of a Flemish visitor (or at least one carrying a Flemish musical manuscript) to Montefortino in the late fourteenth century, the context of a sibyl attracting foreign visitors provides a highly plausible explanation as to why a Flemish motet could have found its way to the Marche. This theory also has the merit of explaining why the motet would have specifically reached the town of Montefortino, rather than any other town in the Marche, especially in the absence of any particular political, cultural or commercial relationship between the Marche and Flanders in the late fourteenth century. The example of the pilgrimage to the Sibyl of Montefortino invites us to keep an open mind to the idea that cultural contact between Northern Europe and Central Italy could occur without the mediation of either Rome or Northern Italy, and moreover as a result of individual behavior rather than through the usual channels of ecclesiastical and diplomatic connections. We may also find it surprising that a motet with such a specifically Flemish political text as Comes Flandrie could have appealed to an audience in Central Italy. The pervasive notion that medieval audiences valued text to the same extent as music, or even more, could lead us to overestimate the importance of this text to an Italian audience. It is, on the contrary, quite possible that the Italian audience of Comes Flandrie was mostly interested in the music and did not care more about the Latin text than a modern audience would. The late Middle Ages offer a number of examples of successful compositions that were appreciated for their musical qualities alone, even in cases where the text is wholly inappropriate13. A case in point is the ballade Par les bons Gedeon et Sanson celebrating the Avignon pope Clement VII which is transmitted in the Boverio fragments (Turin, Biblioteca Nazionale Universitaria, T.III.2) with Clement designated as “antipape:” clearly a piece copied for its music rather than for its message14. 13 We are not the only authors to believe in wider distributions than have previously been considered. The words of A. Ziino, Gli ‘ultramontani’ in Italia e la nascita dello ‘stile internazionale’: un primo bilancio e nuove prospettive in Il mondo cortese di Gentile da Fabriano e l’immaginario musicale, cur. M. Lacchè, Rome 2008, pp. 15-27, support our belief: «A mio parere, però, non essendo possibile ricondurre tutti i frammenti esistenti alle corti del Nord o a Roma e dintorni, dobbiamo ipotizzare e immaginarci un orizzonte geografico e culturale molto più ampio». 14 A. Ziino, Il Codice T.III.2: Studio introduttivo ed edizione in facsimile, Lucca 1994 (Ars Nova, 3), p. 103.
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Returning to the fragment as a whole, the second work that could not be transcribed before high-quality digital images of the source were made is a Marian hymn, Mater digna dei, found on the recto of folio A. The text is related to, but not identical to other hymns with the same incipit. Variations of this text were set later by Ludwig Senfl, Jacobus Vaet, and Gaspar van Weerbeke (printed in Petrucci’s Motetti A)15. Compared to other versions of the hymn, the text here sets fewer lines, even after accounting for the losses created by the damages to the right side of the folio. We can contrast the surviving text of AP 142’s setting with the text used in three later compositions16: AP 142
Weerbeke17
Vaet and Senfl
Mater digna Dei,
Lux et porta diei […] Dux comesque mei. Nata Dei,
Venie via luxque diei Sis tutela rei Duxque comesque mei. Nata Dei,
Veniae via luxque diei Sis tutela rei Duxque comesque mei.
[…] [ … ] alma diei
Miserere mei, Lux alma diei,
Digna coli R [ … ] P[ ... ] Me linquere noli.
Digna coli, Regina poli, Me linquere noli.
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Mater digna Dei, Mater digna Dei,
Vaet: Sponsa mea, Senfl: Sponsa Dei, Miserere mei, Lux alma diei, [Senfl: Dei,] Digna coli, Regina poli, Me linquere noli. Senfl only: Nixa Deum, Defende reum, Mihi dando trophaeum.
15 See for instance no. 11335 in U. Chevalier, Repertorium hymnologicum, II, Louvain 1897. The hymn was known in Italy at least by the mid-fifteenth century as is attested by a manuscript from Northern Italy of Galvano de Padua’s Memoriale de Confessione Gentile, sold at Sotheby’s in 1996. 16 We thank the Archivio di Stato, Ascoli Piceno for providing us with clear ultraviolet images of the source, without which this identification would not have been possible, and Prof. Luigi Morganti of the Istituto di Studi Medioevali “Cecco d’Ascoli” for his assitance in obtaining access to the documents. 17 Weerbeke: Text from Petrucci, Motetti A, opening 55. Vaet: Jacobus Vaet c. 1529-
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Me tibi virgo pia G[…]
p Me tibi virgo pia Mi tibi virgo pia Genitrix commendo Genitrix commendo Maria Maria Iesu fili dei Jesu Christe, Fili Dei vivi Tu miserere mei. Miserere mei. Christus rex venit in pace, Deus homo factus est, Deus propitious, Esto mihi peccatori, Et custos animae meae Nunc et semper et ubique. Amen.
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Although the later setting of Mater digna dei has many more lines of text, the version in AP 142 ends presumably after «Genitrix commendo Maria» (with or without an Amen). The piece on the following verso, «[…] esulum quo tantus», is not textually related to this work, though it shows similar rhythmic complexities. The scribe of folio A seems to have been more interested in these complexities, including isorhythm and coloration, than his collaborator who copied folio B. The layout of the page, with an active upper voice and a slower, lower voice marked “contratenor”, suggests a four-voice piece. Presumably another upper voice and a tenor appeared on the preceding page, which is now lost. The upper voice alternates between the mensuration O or 3/4 with C or 2/4 simultaneously with the contratenor’s consistent C. Instead of the semibreve being equal between the sections in O and C, it is the breve that remains constant, creating passages of hemiola between the two voices. Both of the voices are isorhythmic, consisting of two talea (two repeating rhythmic units) and a single color (that is, without melodic repetition). The isorhythm of the contratenor is particularly obvious since a new talea begins at the beginning of the second staff. The tenor would certainly also have been isorhythmic. Since it is rare that one upper voice is isorhythmic while the other is not (it only happens twice in the motets catalogued by Frank Ll. Harrison), it is quite likely that the whole piece was panisorhythmic18. A 1567, Sämtliche Werke II: Motetten Band 2, Denkmäler der Tonkunst in Österreich, vol. 100, cur. M. Steinhardt, Graz-Wien 1962, pp. 44-48. Senfl: Ludwig Senfl, Zwei Marien-motetten zu fünf Stimmen, Das Chorwerk, heft 62, cur. W. Gerstenberg, Wolfenbüttel 1957, pp. 1-14. 18 F.Ll. Harrison, Motets of French Provenance, Polyphonic Music of the Fourteenth Century, V, Monaco 1968, p. 202.
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transcription of the surviving music, with a reconstruction of the hypothetical text, appears in Example 1 below. Notes given without pitches denote sections which are missing but whose rhythms can be restored through comparison with other surviving isorhythmic sections. Where the C-dot or 6/8 sections actually begin can only be speculated. Their existence is strongly suggested by the pieceâ&#x20AC;&#x2122;s single surviving void-semibreve: a note that only makes sense within the context of perfect prolation such as 6/8 or 9/8.
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Example 1: MATER DIGNA DEI, transcribed
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Returning to the fragment as a whole, it is possible that the manuscript could be of local production or for local use. The inhabitants of Ascoli Piceno possessed musical manuscripts conforming to local tastes since at least the thirteenth or early fourteenth centuries-witness for instance, the notated breviary with the Use of the Friars Minor (Franciscans) of Ascoli Piceno, now Rome, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 205019.
19 Facsimile of f. 112r in H.M. Bannister, Monumenti vaticani di paleografia musicale latina, 2 vols, Leipzig 1913, tavola 86b, online at http://www-cgi.uniregensburg.de/Fakultaeten/Musikwissenschaft/Cantus/Bannister/
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The people of Ascoli almost certainly heard sophisticated polyphonic music of both secular and sacred types. Giovanni Sercambi’s early fifteenth-century Novelle, which takes place in 1374, depicts the musical travels of a group of men, women, and children who perform Mass music daily (with accompaniment on the psaltery) along with Italian ballate and madrigals. After leaving Ascoli while on their way to Fermo, the group is said to have sung Francesco da Firenze’s ballata Vita non è più misera20. Even if we must admit that the trip is fictional, the same reasoning applies as for Il Guerin Meschino: Sercambi would not have made Ascoli a destination if the thought of refined, complicated polyphonic music being performed in that town would have been considered absurd.
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If it seems unlikely that a town as small as Montefortino (or even Ascoli) could have produced sophisticated polyphony in the early fifteenth century, we need only look at the musical patrimony of another, even smaller, town in the neighboring Abruzzi to open up the possibilities. Seven folios from a mid-fifteenth century polyphonic manuscript were recently found in Rocca di Botte, a small village of approximately 500 inhabitants in the province of L’Aquila21. Though it has now been moved to Avezzano, the source was documented in Rocca di Botte since the sixteenth century, and there is no reason to believe it was moved there from a more cosmopolitan center earlier. Other towns have left musical legacies far beyond what we might expect given their populations, political importance, or reputation for learning. Chief among such towns is Cividale del Friuli, which despite its small size was an important seat for liturgical drama22, simple polyphony23, ars nova music24, and, later, high-Renaissance polyphony25.
20 21
F.A. Gallo, Music of the Middle Ages II, Cambridge 1985, p. 70. F. Zimei, Music in Small Italian Villages: A New Source of Fifteenth-Century Polyphony from Rocca di Botte, «Studi Musicali», 36 (2007), pp. 21-63. 22 G. Cattin, Tra Padova e Cividale: nuova fonte per la drammaturgia sacra nel medioevo, «Il Saggiatore musicale», 1 (1994), pp. 7-112. 23 Le Polifonie primitive in Friuli e in Europa. Atti del congresso internazionale Cividale del Friuli, 22-24 agosto 1980, cur. C. Corsi - P. Petrobelli, Rome 1989. 24 M. Cuthbert, Trecento Fragments and Polyphony Beyond the Codex, Ph.D. dissertation, Harvard University, 2006, online at <www.trecento.com/dissertation/>, pp. 230-276. 25 L. Lockwood, Sources of Renaissance Polyphony from Cividale del Friuli: The Manuscripts 53 and 59 of the Museo Archeologico Nazionale, «Il Saggiatore Musicale», 1 (1994), pp. 249-314.
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The survival, even if in fragmentary form, of a musical legacy that may tentatively be connected to a local provenance near Ascoli should spur researchers towards further investigations in smaller archives. A full picture of musical life in late-medieval Italy will not be found by still closer examinations of intact musical sources in large towns alone. Rather we may find them among the many public and ecclesiastical archives of the Marche, wrapped as fragments covering centuries of documents that together with the musical legacy attest to the unique fame and strong vox publica of the region.
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LECTIO MAGISTRALIS DEL PREMIATO 2009
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Un papa davvero preveggente. Innocenzo III e la Conferma della regola nel ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi
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Succede spesso che un monumento famoso sia sepolto nell’aria, nel senso che noi non lo guardiamo davvero per come si mostra, ma attraverso il filtro più o meno opaco della copiosa letteratura critica che l’accompagna: e, tanto più se ad occuparsene siano stati illustri studiosi, sicché, resi sicuri dalla loro autorità, trasmettiamo a catena giudizi e descrizioni. La norma di ricontrollare tutte le fonti e le certezze date per acquisite va rispettata tanto più quando ci troviamo di fronte ad un’opera studiatissima. Come buon esempio intendo analizzare un’unica scena del ciclo francescano nella Basilica Superiore di Assisi*. Se e in quale misura il ciclo fu dipinto da Giotto, è ancora oggi opinione controversa fra gli studiosi. Una certa concordia è invece stata raggiunta sulla data di esecuzione: sotto il pontificato del primo papa francescano, Nicola IV (1288-1292), secondo quanto dichiara un documento compilato poco prima del 13111. Tale data rende ancora più problematica l’attribuzione a Giotto, che avrebbe assunto assai giovane un’impresa di tanta responsabilità. Comunque è ormai sicura la compresenza, nel ciclo francescano, di più compagnie di pittori, che si muovevano di luogo in luogo con i propri pacchi di modelli di visi, gambe e braccia da adattare a seconda del personaggio. Si è potuto così constatare che la misura del volto di Francesco nel
* Lascio allo scritto, concepito per essere raccontato oralmente, il suo tono discorsivo. Per questo limito al massimo le note, facendo presente che citerò anche contributi pubblicati dopo la lieta occasione del premio del 2009. 1 Per il problema della data degli affreschi di Assisi ed il legame con papa Nicola IV mi permetto di rimandare, oltre a D. Cooper e J. Robson, Pope Nicholas IV and the Upper Church at Assisi, «Apollo», 157, n. 492 (2003), pp. 31-35, anche al mio: Gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi: una committenza di papa Niccolò IV?, in Arbor ramosa, Studi per Antonio Rigon, cur. L. Bertazzo - D. Gallo - R. Michetti - A. Tilatti, Padova 2011, pp. 215223, tavv. 1-11.
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ciclo di Assisi varia a seconda che fosse all’opera un cantiere piuttosto che un altro, così come si è potuto constatare che ad Assisi uno stesso modello di volto è impiegato al maschile e al femminile2. Fu nel 1939 che un famoso articolo di Richard Offner, Giotto-non Giotto, rese più consistenti i dubbi già avanzati nell’8003. Attualmente, all’estero, la preponderanza degli studiosi si è schierata con Offner e non ritiene che l’autore del ciclo francescano di Assisi sia Giotto, in Italia è il contrario4. In ogni caso anche i favorevoli sottolineano la genialità del capo cantiere e la grandezza nella composizione dell’intero disegno preparatorio, senza sostenere l’autografia giottesca di ogni centimetro quadrato. La tecnica a fresco (sull’intonaco ancora umido) implica una grande velocità di esecuzione, senza ripensamenti, e i pittori, anche nel Medioevo, stavano attenti al tornaconto economico. Lasciamo la questione in sospeso e gli storici dell’arte giustamente ad occuparsene; l’analisi che mi propongo di svolgere utilizza un’immagine come fonte storica e quindi non è cruciale stabilire la paternità dell’opera. Intendo, come esempio, soffermarmi sulla Conferma della regola (Fig. 1), scena collocata esattamente al centro della parete di destra entrando, della navata: una disposizione intesa a dare massimo rilievo all’evento. L’affresco mostra il pontefice nel gesto della benedizione mentre, attorniato dai prelati della Curia, restituisce a Francesco inginocchiato, insieme ai compagni, il testo della regola che il santo gli ha sottomesso. Questo è quello che l’ignaro osservatore indubbiamente vede. Ma, con un po’ di pazienza, scopriremo che questo è quello che gli si vuole fare vedere: la composizione della scena è infatti estremamente tendenziosa e i numerosi anacronismi sono del tutto consapevoli. L’intero ciclo di Assisi segue, con alcuni aggiornamenti, la Leggenda maggiore di Bonaventura (ministro generale dei francescani dal 1257 al 1274): cioè la biografia di Francesco che nel 1266 divenne l’unica ufficiale permessa e ammessa, con la sparizione pressoché completa delle numerose precedenti, anche di quelle composte con il crisma dell’ufficialità. Secondo Bonaventura, Francesco, insieme ai suoi undici compagni, si sarebbe recato a Roma per chiedere che la «norma di vita» da lui formula-
2 B. Zanardi, Il cantiere di Giotto. Le storie di san Francesco ad Assisi, Milano 1996, pp. 19-65. 3 R. Offner, Giotto, non Giotto, «The Burlington Magazine», 74/1 (1939), pp. 258268; 75/2 (1939), pp. 96-113. 4 B. Zanardi, Giotto e Pietro Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco, Milano 2001.
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ta fosse approvata dal papa in persona. Fu un consenso – è costretto ad ammettere il biografo – concesso con difficoltà e molto prudente, per il quale ci volle il rinforzo da parte del pontefice di un sogno profetico. Innocenzo III confermò soltanto oralmente la proposta di Francesco, promettendo che se in futuro avesse constatato reali progressi e una salda tenuta della piccola comunità, avrebbe concesso «con più sicurezza» una approvazione totale, scritta5. Bonaventura, nella conclusione, forzando tuttavia il suo stesso racconto, informa – è l’unica fonte a registrarlo – che Innocenzo III, approvando, seppure in modo tanto provvisorio, la regola sottoposta al suo giudizio, diede contestualmente a Francesco e compagni il permesso di predicare liberamente («libere») il vangelo («verbum Dei») perché aveva fatto imporre loro delle «piccole corone»:, li aveva fatti tonsurare, rendendo così i postulanti tutti chierici. Ma per capire cosa significhi questo racconto, e, come vedremo, la sorprendente traduzione visiva, dobbiamo dare alcune notizie e porci poi alcune domande. Nato ad Assisi nel 1182 circa, Francesco era figlio del mercante Pietro di Bernardone, abituato a viaggiare. Forse proprio al ritorno dalla fiera della Champagne il padre aveva cominciato a chiamare in modo bene augurante il figlio neonato Francesco, «il francese», battezzato dalla madre Giovanni6. I mercanti del basso Medievo erano capaci di far di conto, di leggere e scrivere, ma tutta la società alla quale appartenevano Francesco e la sua famiglia era molto attiva; e non voleva essere più trattata dalla Chiesa solo come un gregge passivo. La Chiesa invece non poteva permettere che i laici si comportassero da fedeli con la stessa autonomia dimostrata da cittadini. Non voleva che predicassero in pubblico il Vangelo, lo spiegassero e lo traducessero in volgare, temendo errori dottrinali; soprattutto non voleva che si creassero situazioni fuori dal suo controllo, come invece andava succedendo con un fenomeno di moltiplicazione preoccupante. Accadeva così che tanti movimenti spontanei, nati da un sincero anelito ad una più profonda vita cristiana, venissero bollati come eretici. La Chiesa, con il 5 C. Frugoni, Francesco, un vescovo e due pontefici: fonti scritte e iconografia del percorso agiografico da Assisi a Roma, in Francesco a Roma dal signor Papa. Atti del VI Convegno storico (Greccio, 9-10 maggio 2008), cur. A. Cacciotti - M. Melli, Milano 2008, pp. 247-377. 6 Questa notizia l’apprendiamo dal francescano Tommaso da Celano nel primo capitolo della seconda biografia del santo, composta intorno al 1246-47 per volere del ministro generale dell’ordine, Crescenzio da Iesi: Thomae de Celano Memoriale in desiderio animae, in Analecta Franciscana, X, Ad Claras Aquas prope Florentiam, 1926-1941, cap. I, 3-4, pp. 131-132.
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Concilio Laterano IV del 1215, fra i tanti provvedimenti presi, decise di intervenire nel modo più netto ed ufficiale, proibendo la nascita di nuovi ordini religiosi. Volgiamoci un poco più indietro, in una data intorno al 1206, al giovane Francesco, che dopo una lunga e sofferta conversione accompagnata da crisi e ripensamenti, decise di rinunciare alla vita brillante condotta fino a quel momento. Diede tutto ai poveri e pubblicamente e clamorosamente rinunciò alle ricchezze paterne; rimasto interamente nudo, fu amorevolmente soccorso dal buon vescovo di Assisi, Guido7. Pietro di Bernardone infatti, esasperato da una serie di drammatici scontri con il figlio, aveva chiesto l’intervento dei consoli della città per costringere Francesco a rifondere il denaro speso a fini caritatevoli. Francesco però aveva rifiutato il mandato di comparizione perché – disse – non era più sotto la giurisdizione laica, dei consoli; era passato sotto quella ecclesiastica, del vescovo, in quanto viveva da penitente presso la chiesa di San Damiano. I consoli accettarono questa tesi. Il padre allora si appellò al vescovo che seguendo le norme procedurali, chiese a Francesco di comparire per rispondere alle accuse paterne. Questa volta Francesco ubbidì; e davanti al prelato, come si è detto, scambiò il padre naturale con quello celeste. Tutto questo lo apprendiamo dalla bella Leggenda dei tre compagni, una biografia precedente la Leggenda maggiore di Bonaventura di circa vent’anni. Il futuro santo, all’inizio, condusse una vita solitaria, da eremita, poi comprese che la sua strada era quella di esortare i cristiani al messaggio di amore e di pace del Vangelo. La vera svolta fu costituita dall’arrivo, non preventivato, dei compagni, che pose a Francesco il problema di passare da una intensa e solitaria esperienza religiosa ad una esperienza condivisa. E poiché di compagni si trattò e non di seguaci convertiti, Francesco non previde all’inizio alcuna struttura all’interno della comunità. Dopo che Dio gli aveva dato dei fratelli – scrisse Francesco, ormai morente, nel Testamento del 1226 – nessuno gli indicava la via da seguire: in questo intenso ricordo anche il vescovo Guido è dimenticato, che aveva solo sancito una decisione già giunta a maturazione8. Lo stesso Altissimo – scrive sempre Francesco nel Testamento – gli rivelò infatti di vivere «secundum formam sancti evangelii». Francesco non parla di regola. Il testo che Francesco portò a Roma nel
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A. Vauchez, Francesco d’Assisi, Torino 2010, pp. 21-28. Francesco d’Assisi, Scritti, ed. crit. C. Paolazzi, Grottaferrata 2009, pp. 396-397.
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1209, presumibilmente una raccolta di passi evangelici come guida di una condotta di vita, è perduto. Quella che noi chiamiamo prima regola, il cui testo è invece conservato – è in realtà la seconda – presentata nel capitolo generale dei frati nel 1221, suscitò tali eccezioni e riserve, sia da parte dei frati che della Curia romana, da rimanere non bollata, priva del sigillo pontificio di convalida. I primi compagni di Francesco erano stati uomini fuor del comune, capaci di dare un taglio ad ogni consuetudine e sicurezza materiale ed affettiva; persone di fortissima tensione morale, di ampie virtù, di grande impegno religioso. I compagni successivi, divenuti centinaia e centinaia, si sentivano attratti dal fascino di Francesco, forse anche dal successo della fraternità, ma non erano più uomini tutti incamminati sulla via della santità: più normali, umanamente più deboli, non riuscivano ad accettare la povertà totale ed assoluta voluta dal futuro santo, la radicale applicazione del Vangelo alla loro condotta di vita. Francesco dovette ritoccare la regola del 1221 più volte. Dopo una serie di tentativi e di pesanti compromessi, nel 1223 fu approvata una nuova regola, chiamata perciò bollata, che non rispecchiava più i primi propositi del santo. Torniamo agli inizi. Francesco si era recato con i compagni da Innocenzo III nel 1209. Per la memoria storica dei francescani però, era cruciale potere affermare che Innocenzo III avesse davvero confermato, in questo incontro, una vera regola, superando così il fatale divieto del Concilio Laterano IV del 1215, anche se sapevano bene che la nascita ufficiale dell’ordine francescano era stata formalizzata soltanto da papa Onorio III, nel 1223. Teniamo in memoria questa difficoltà che si presentò anche al momento della stesura degli affreschi di Assisi, molti decenni dopo: come abbiamo detto, verso la fine del Duecento. Secondo problema. Sempre al tempo del giovane Francesco esistevano solo preti e monaci, legati (ne traevano il proprio sostentamento) alla propria chiesa e al proprio monastero, e sottomessi al vescovo. Francesco invece era un laico; anche in seguito non volle mai diventare né prete, né monaco. La benevola approvazione del vescovo di Assisi, Guido, cosa poteva concedere alla condotta di vita della piccola fraternità, prima del 1209? Francesco e compagni, a chi chiedeva loro chi fossero, si dichiaravano «penitenti». Sarebbero dovuti rimanere nei confini della diocesi e limitarsi a richiami e ad esortazioni di tipo morale. Non potevano annunciare il Vangelo; non potevano organizzare missioni in terre lontane, entrando in altre diocesi, in altre giurisdizioni di altri vescovi. Il Pontificale Romano nel secolo XII aveva stabilito che prima del conferimento degli ordini ecclesiastici, cioè degli ordini minori (ostiario, lettore, esorcista, accolito), e maggiori (suddiacono, diacono e sacerdote), fosse
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predisposto il rito della chierica o tonsura. Esistevano però due tipi di tonsura, quella ministeriale e quella conversionale: la prima creava il chierico in senso gerarchico, pronto a percorrere le tappe che lo avrebbero portato al sacerdozio, la seconda faceva entrare nell’ordine monacale (non tutti i monaci erano anche sacerdoti)9. Semplificando la questione e i mutamenti avvenuti, si può dire che al tempo di Francesco, una volta ricevuta la tonsura, si apparteneva alla propria chiesa o al proprio monastero, si riceveva cioè un «titulus ordinationis». Come conseguenza del servizio si riceveva il «titolo di sostentamento», il diritto di percepire dal «beneficio» della propria chiesa o monastero il necessario per vivere. Ogni chierico faceva capo al proprio vescovo e la fissità locale, la territorialità, erano un criterio di stabilità disciplinare10. Francesco invece si era presentato davanti ad Innocenzo III da laico, con la ferma intenzione, che poi mantenne, di non diventare mai né prete né monaco. Per questo Bonaventura – oltre mezzo secolo dopo – non solo edulcorò il racconto dell’udienza pontificia, ma per mettere retrospettivamente al riparo il fondatore dell’ordine dall’accusa di eresia, aggiunse di suo l’imposizione della chierica a Francesco e a tutti i suoi compagni, contravvenendo alla verità storica. Nel nostro affresco raffigurante la Conferma della regola, non solo tutti e dodici i postulanti hanno già la tonsura, ma indossano anche il saio e il cordone a tre nodi: costituiscono un ordine ancor prima di averlo chiesto! Con la conferma della regola avvenuta solo nel 1223, la Chiesa si trovò ad accogliere nella propria struttura persone non legate ad alcun vescovo diocesano e prive di «titulus ordinationis» e di «titulus provvisionalis», non legate cioè stabilmente ad alcuna chiesa, che dunque non assicurava loro alcun sostentamento. Questa difficoltà fu aggirata associando i frati alla Chiesa romana, al vescovo di Roma, non al vescovo diocesano, escogitando inoltre per i francescani il nuovo titolo, il «titulus mendicitatis», il diritto cioè di ricorrere alla questua: lo prescrive esplicitamente il capitolo VI della regola bollata: «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia». Tuttavia Bonaventura, descrivendo l’incontro del 1209 di Francesco con Innocenzo III, aveva già parlato apertamente di regola approvata e del permesso di predicare liberamente il Vangelo. Bonaventura era portatore 9 Frugoni, Francesco, un vescovo e due pontefici cit., pp. 291-293. 10 A. Boni, L’ordine dei frati minori nella clericalità delle sue origini,
(1989), pp. 541-586.
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anche di una nuova concezione del pontefice alla quale i francescani e i domenicani erano stati indotti come reazione all’aspra disputa contro l’insediamento degli ordini mendicanti all’università di Parigi, ingaggiata intorno agli anni Cinquanta del Duecento dai maestri secolari, di cui Guglielmo di Sant’Amore era stato l’esponente più battagliero. Secondo il maestro secolare la struttura della Chiesa era già delineata nel Vangelo con i dodici apostoli e i settantadue discepoli cui succedettero rispettivamente i vescovi e i sacerdoti; a loro era affidata la cura delle anime e per questo a loro soltanto spettava il diritto di predicare. Chiunque volesse inserirsi in tale struttura, chiusa e non modificabile, sacra perché voluta da Dio, era un «alienus» e coloro che pretendevano, come i frati, di avere una missione da compiere erano da ritenersi falsi apostoli. L’apostolato e l’itineranza dei frati, il loro invocare un potere pastorale sovraterritoriale, la loro povertà personale, il diritto alla mendicità, un principio del tutto nuovo e avvertito come scandaloso, cozzavano violentemente con lo statuto territoriale, stabile e materiale, assicurato ai sacerdoti, nelle loro chiese, dalla «cura animarum». Sempre secondo Guglielmo di Sant’Amore i frati, per potere predicare, sarebbero dovuti essere incaricati dai vescovi o dai sacerdoti titolari delle singole chiese. Inoltre, poiché per i maestri secolari il potere dei vescovi deriva da Cristo e dagli apostoli, il papa era soltanto il primo fra i confratelli, tutti ugualmente eredi della missione apostolica. Lo scontro parigino si concluse con la sconfitta di Guglielmo di Sant’Amore nel 1256, ma l’opposizione agli ordini mendicanti continuò, con fasi alterne, nei decenni seguenti fino al 1290 circa11. Fu uno scontro violento ed importante sui modi di intendere la struttura della Chiesa che con il pontificato di Innocenzo III aveva acquisito due concetti decisivi: il papa è «vicarius Christi», con un significato eminentemente giuridico, per i poteri delegati al pontefice da Cristo di cui egli è il depositario e che può usare liberamente. La «potestas» di cui dispone il pontefice, come conseguenza dell’essere vicario di Cristo, non può essere se non una «plenitudo potestatis», una pienezza di potere voluta da Dio. I francescani furono perciò ben lieti di dipendere direttamente dal pontefice e non dal vescovo, liberi di predicare nella diocesi senza frontiere che è la Chiesa stessa. Del resto già nella regola bollata veniva precisato che i frati chierici celebrassero l’ufficio «secundum ordinem sanctae Romanae Ecclesiae»12.
11 R. Lambertini - A. Tabarroni, Dopo Francesco: l’eredità difficile, Torino 1989, pp. 51100. Si veda anche R. Lambertini, La povertà pensata. Evoluzione storica della definizione dell’identità minoritica da Bonaventura a Ockham, Modena 2000. 12 Francesco d’Assisi, Scritti cit., Regola bollata, cap. III, pp. 326-327.
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Tutto questo appartiene ad una realtà che Francesco non vide, essendo morto nel 1226, ma che è importante tenere presente per capire il racconto di Bonaventura e la conseguente trasposizione visiva dell’udienza pontificia negli affreschi di Assisi. Torniamo a Roma, ad Innocenzo III e al difficile incontro con Francesco. Per dare soddisfazione alle aspirazioni del proprio gregge e mantenerne il controllo, il pontefice compì una valutazione «politica»: la proposta di Francesco aveva il pregio di non essere in urto con la Chiesa ufficiale (con grande intelligenza, Francesco non predicò mai contro la Chiesa e la sua gerarchia, facendo invece leva sulla dissonanza del proprio esempio silenzioso di radicale vita evangelica). Attraverso Francesco e i suoi compagni poteva essere incanalato e controllato quel bisogno di una diversa vita religiosa che altrimenti non avrebbe avuto sfogo se non nell’eresia. Perciò Innocenzo III non respinse quel giovane male in arnese, anche se non si sbilanciò in un assenso pieno. Gli concesse una possibilità, rimettendo ogni decisione impegnativa al futuro. Noi però possiamo chiederci: come mai lo sparuto gruppetto aveva sentito l’urgenza di andare a Roma e la necessità di ottenere una ulteriore e superiore approvazione per essere rassicurato sull’ortodossia della propria condotta di vita, quando Francesco non aveva avuto ancora alcuna idea di trasformare la «fraternitas» in «religio», in ordine? Francesco e «socii», in quanto penitenti e protetti dal vescovo Guido, sotto la cui giurisdizione ricadevano, che bisogno avevano di un’ulteriore approvazione? La Leggenda dei tre compagni, una biografia non scritta su commissione pontificia o dell’ordine, riferisce un allarmato discorso del vescovo Guido, al quale il futuro santo spesso ricorreva per un confidente consiglio, all’indomani di una missione nella Marca d’Ancona. «Una volta [Guido] gli ebbe a dire: “La vostra vita mi sembra dura e aspra, poiché non possedete nulla a questo mondo”. Rispose il santo: “Messere, se avessimo dei beni, dovremmo anche disporre di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l’amore di Dio quanto l’amore del prossimo: per questo non vogliamo possedere alcun bene materiale a questo mondo”»13. Guido era preoccupato anche per il generoso disegno ecumenico di apostolato della piccola compagnia (le prime mete, Rieti e addirittura la lontanissima Compostella).
13 Legenda trium sociorum, ed. Th. Desbonnets, «Archivum Franciscanum Historicum», 67 (1974), pp. 38-144: cap. IX, 35, p. 115.
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Non potremmo pensare che il vescovo di Assisi fosse inquieto per questi penitenti dei quali troppo spesso non era più in grado di controllare le esortazioni, sconfinanti forse in vere prediche, in commenti al Vangelo, allora del tutto proibiti ai laici? Guido potrebbe essere stato messo in difficoltà anche dai vescovi di altri diocesi, per nulla contenti dell’arrivo di tali predicatori. Inoltre ben presto ai primi compagni laici che conducevano una vita itinerante si era aggiunto un sacerdote, Silvestro, una presenza che molto doveva turbare il vescovo di Assisi. In ogni modo, veniamo a sapere dalla prima biografia di Tommaso da Celano del 1228-29, composta per incarico di Gregorio IX che – come per caso – anche Guido si trovò a Roma nei giorni in cui Francesco si presentò al pontefice. Guido conosceva molto bene l’autorevole cardinale Giovanni di San Paolo che consigliò a Francesco di «normalizzare» il suo proposito, di scegliere la via del monastero o dell’eremo. È troppo azzardare suppore che sia stato il vescovo a portare Francesco a Roma desiderando di vederlo scomparire nel silenzio claustrale? Forse Guido intendeva ottenere dalla Curia un chiarimento riguardo l’operato di Francesco, un chiarimento che lo scaricasse da future accuse di non avere sufficientemente vigilato sui fedeli e sul clero affidatigli. Delle tante tensioni di cui fu segnata l’udienza pontificia di Innocenzo III non è possibile dare conto in questa sede; sono rimaste evidenti tracce non solo nelle numerose biografie francescane precedenti quella di Bonaventura, ma anche in altre coeve al santo ed estranee all’ordine. Il benedettino Ruggero di Wendover ad esempio, morto nel 1236, riportò secondo una trasfigurazione agiografica quell’incontro, ma lo stesso Nicola IV, quando si chiamava Gerolamo d’Ascoli ed era mininistro generale (1274-1279), intervenne ad aggiungere una postilla all’opera di Bonaventura, morto nel 1274, confermando la ruvida accoglienza di Innocenzo III (successivamente pentitosi – aveva spiegato Tommaso da Celano nella seconda biografia – dopo avere capito, con il sogno del Laterano cadente che Francesco sorreggeva impedendone la rovina, il proprio errore). Scrisse Ruggero di Wendover: «Il Papa, dopo aver considerato attentamente da un lato quel frate in abito strano, dal volto disprezzabile, barba lunga, capelli incolti, sopracciglia nere e pendenti, e dall’altro quella petizione che egli presentava, così ardua e impossibile secondo il giudizio comune, lo disprezzò nel cuor suo e gli disse: “Vai, fratello, cercati dei porci, a cui saresti da paragonare più che agli uomini. Allora, ravvóltolati con loro nel fango e, consacrato loro predicatore, consegna ad essi la regola che hai preparato”. Francesco non frappose indugio, ma subito, a capo chino se ne uscì. Faticò non poco a trovare dei porci; ma, quando
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finalmente si imbatté in un branco di essi, si ravvoltolò con loro nel fango fino a tanto che ne fu tutto imbrattato, il corpo e il vestito, dai piedi alla testa. E così ridotto, tornò nel concistoro e rivolto al Papa, disse: “Signore, ho fatto come mi hai comandato; ora, ti prego, esaudisci la mia richiesta”. Il Papa, davanti a questo fatto, fu ripieno di ammirazione. Si dolse di aver disprezzato quell’uomo; ritornato in sé, gli comandò che andasse a lavarsi e poi ritornasse da lui. Francesco corse a lavarsi dal fango e prestamente ritornò alla sua presenza. Allora il Papa, preso da commozione verso di lui, approvò la sua petizione, concesse a lui e ai suoi seguaci l’ufficio della predicazione mediante privilegio della Chiesa romana e, dopo averlo benedetto, lo licenziò»14. Nella Roma del 1209, Francesco – giunto spontaneamente, o citato da Guido – difese con forza la sua particolare e nuova interpretazione di impegno religioso, di vivere «secundum formam sancti Evangelii». La realtà che Bonaventura descrive e promuove nella Leggenda maggiore del 1266 è invece quella del grande successo francescano dei suoi tempi, di un ordine ormai clericalizzato, non quella dell’incerto esordio: per questo Bonaventura afferma che il pontefice aveva ordinato la tonsura, affinché Francesco e i compagni potessero esercitare l’ufficio della predicazione, rendendo anche i compagni laici di Francesco e Francesco stesso, da subito, chierici. La scena corrispondente (Fig. 1), affrescata nella Basilica superiore di Assisi, sottolinea visivamente il potere decisionale e sovrano di Innocenzo III attraverso la tiara – il copricapo extra-liturgico che ostenta, oltre al potere spirituale, quello politico del pontefice al quale rimanda il diadema che circonda la base della tiara stessa. Innocenzo III aveva indossato la tiara già nella scena immediatamente precedente, mentre dormiva durante il profetico Sogno del Laterano cadente (Fig. 2). L’ordine è ormai affermato e pienamente inserito nelle strutture della Chiesa: per questo il pontefice, in quanto capo della Chiesa universale, forte dei suoi poteri, con sua volontaria decisione accoglie i Minori come privilegiati collaboratori. A Roma, nel 1291, Nicola IV, il primo francescano ad essere eletto pontefice, aveva restaurato anche materialmente la basilica del Laterano pericolante. Egli aveva in tal modo saldato il significante e il significato del sogno di Innocenzo III, sostituendosi a Francesco, sia nel provvedere
14 C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, ristampa con prefazione di A. Vauchez, Torino 2010, pp. 253-268, e Frugoni, A proposito della predica di san Francesco agli uccelli, in Come l’orco della fiaba, Studi per Franco Cardini, cur. M. Montesano, Firenze 2010, pp. 407-416.
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materialmente all’edificio in rovina, sia nel sostenere metaforicamente la Chiesa bisognosa di un valido puntello, ponendosene addirittura a capo15. La profezia si era avverata più ancora di quanto Bonaventura avesse osato pensare, perché addirittura il trono pontificio era stato occupato da un francescano, che per l’aggiornamento reale e simbolico del Sogno del Laterano cadente poteva specchiarsi compiaciuto nel fondatore del suo ordine. Anche per questo ad Assisi viene conferito tanto risalto alla scena della Conferma della regola. I prelati che fanno corona ad Innocenzo III evocano un atto istituzionale solenne, un concistoro, come lo definirono alcune fonti. I cardinali indossano vesti liturgiche e non semplici vesti prelatizie, manifestando così lo specifico ministero gerarchico proprio di ciascuno. In primo piano siede un cardinale vescovo, in piedi sono due cardinali diaconi. I prelati indossano la mitria bianca e non ornata, perché sono alla presenza del pontefice. (I due personaggi accanto con la barba potrebbero essere cancellieri o dei laici in funzione di testimoni o i cubicolari, addetti a vegliare il sonno del pontefice). La scena, come tutte quelle del ciclo affrescato, era accompagnata da una scritta esplicativa posta nella cornice in basso, all’altezza dello sguardo dello spettatore16. Tale scritta è oggi quasi del tutto scomparsa. Non così quella del cartiglio (Fig. 3) che Innocenzo III porge a Francesco, leggibilissima, che riserva una grossa sopresa. È infatti copiato l’inizio della Solet annuere di Onorio III con la quale furono definitivamente approvati – con «bulla», ma nel 1223, non intorno al 1209 come il dipinto vorrebbe fare credere – la regola e l’inizio ufficiale dell’ordine:
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[...] talis est17, [r]egula et vita minorum f[ratrum] haec est silicet [domini n]o
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C. Frugoni, La povertà taciuta, in Frugoni - F. Manzari, Immagini di san Francesco in uno Speculum humanae salvationis del Trecento. Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana 55.K.2, Padova 2006, pp. 57-112: 77-93. 16 N. D’Acunto, Le didascalie del ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi, in Le immagini del francescanesimo. Atti del XXXVI Convegno internazionale della Società internazionale di Studi francescani, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2009, pp. 169-193. 17«[…] Dilecti in Domino filii, vestris piis precibus inclinati, ordinis vestri regulam, a bone memorie Innocentio papa predecessore nostro approbatam, annotatam presentibus, auctoritate vobis apostolica confirmamus et presentis scripti patrocinio communimus. Que talis est: regula et vita minorum fratrum haec est […]»: Francesco d’Assisi, Scritti cit., Regola bollata, [prologo], p. 322.
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stri Iesu [Christi] s(an)c(tu)m evang(e)lium obser vare vive(n)do i(n) obedientia si ne proprio et in ca stitate
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Si tratta di una scritta composta con molta cura: la r di regula è stata lasciata in bianco come se dovesse essere rubricata, completata cioè con inchiostro rosso in un secondo tempo, come si usava nella scrittura su pergamena. Con la citazione, nel cartiglio, della regola bollata, si è operata una profonda alterazione storica, che attribuisce a Francesco già nel 1209, con una preveggenza aggiornata alla realtà di quattordici anni dopo, un testo normativo articolato e assai lontano, nel contenuto, dalla forma vitae sottoposta ad Innocenzo III: forma vitae che ancora ampiamente è rispecchiata nel testo della regola non bollata del 1221. Il cartiglio è un consapevole falso – privo certo di connotazioni etiche, estranee alle preoccupazioni dell’epoca – che se da un lato esplicita con decisione che cosa Francesco avesse chiesto al pontefice, dall’altro denuncia come ancora sotto il pontificato di Nicola IV fosse avvertito il problema della conferma della regola, e la necessità di retrodatarla. Nella memoria dei francescani ricostruita e riordinata, da un lato dunque doveva essere cancellato il ricordo del Concilio Laterano IV del 1215 di fondare nuovi ordini, dall’altro doveva essere accantonato il problema delle tante regole che Francesco aveva proposto ai compagni e che si era visto respingere. La regola è una sola, voluta da Francesco fin dalla sua andata da Innocenzo III nel 1209: così si compiacevano o imparavano i frati all’incirca ottant’anni dopo, leggendo nel cartiglio porto da Innocenzo III l’inizio della loro regola, quella del 1223, che con tanto successo ancora seguivano. In conclusione: per capire i testi o le immagini vanno inforcati i medesimi occhiali, purchè siano quelli giusti.
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Fig. 1. - Giotto (?), La conferma della regola da parte di Innocenzo III, 1290 circa, affresco. Assisi, Basilica superiore di San Francesco
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Fig. 2. - Giotto (?) Innocenzo III vede in sogno la basilica del Laterano cadente, sostenuta da san Francesco, 1290 circa, affresco. Assisi, Basilica superiore di San Francesco
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Fig. 3. - Giotto (?), La conferma della regola da parte di Innocenzo III, 1290 circa, affresco, particolare: Il cartiglio tenuto da Innocenzo III. Assisi, Basilica superiore di San Francesco
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a cura di Arianna Bonato
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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ASCOLI PICENO Archivio di Stato, 222 Notarile mandamentale di Montefortino, voll. 142, 214, 216, 217, 218, 219, 222, 223
BOLOGNA
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Archivio di Stato Comune, Capitano del Popolo, Giudici del Capitano del Popolo, 47, 37
CITTAâ&#x20AC;&#x2122; DEL VATICANO
Archivio della Reverenda Fabbrica di San Pietro, 199 Arm. A 3 20, 202 Arm. A 3 21, 203 Arm. 1 A 9, 203, 204 Arm. 16 A 159, 204 Arm. 26 A 178, 200 Arm. 1 B 16, 202 Arm. 26 B 207, 200 Arm. 26 C 218, 204 Arm. 26 C 229, 204
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Biblioteca Apostolica Vaticana Stampe. Cartella San Pietro, n. 6, 201
FIRENZE
Biblioteca Riccardiana Ms. 1910, 125 Ms. 2112 bis, 135
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INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
MÜNCHEN Bayerische Staatsbibliothek Codex latinus Monacensis 4660, 158
NÜRNBERG
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Stadtbibliothek Fragment lat. 9 (olim Centurio V, 61), 215
PRATO
Archivio di Stato Comune, Atti giudiziari 476, 33, 44 Datini, 657.6/107707, 124 Datini, 745.9/111031, 132
STRASBOURG
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Bibliothèque Municipale Ms 222. C.22, 215
STUTTGART
Landesbibliothek H. B. I. (Ascet.) 95, 158
RIETI
Archivio di Stato Archivio della Curia del Podestà di Magliano Sabina, reg. 59, 100 Archivio della Curia del Podestà di Magliano Sabina, reg. 46, 100 Archivio della Curia del Podestà di Magliano Sabina, reg. 58, 100
INDICE DELLE FONTI ARCHIVISTICHE E DEI MANOSCRITTI
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ROMA Archivio di Stato Statuti 822.15, 90 Statuti 472, 90, 91 Statuti 514.10, 90, 95 Statuti 802/1, 90
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SIENA Archivio di Stato Podestà 32, 25, 30, 31, 35, 36, 45
TORINO
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Biblioteca Nazionale Universitaria T.III.2, 221
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
IM E Avvertenza
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Gli autori moderni e contemporanei sono indicizzati per cognome. In corsivo sono indicate le pagine (iniziale e finale) degli autori dei saggi compresi in questi Atti. Autori e personaggi sino al sec. XVI sono indicizzati in forma italiana a partire dal nome, tranne nel caso in cui i nomi di famiglia siano consolidati o entrati nellâ&#x20AC;&#x2122;uso. Alcuni nomi di persona sono stati lasciati nella forma latina che si trova nei documenti. I nomi di frati sono accompagnati dalle sigle degli ordini religiosi di appartenenza. Nellâ&#x20AC;&#x2122;indice sono utilizzate le seguenti abbreviazioni: all.: allievo/a arch.: architetto bad.: badessa card.: cardinale comp.: compositore cron.: cronista f.: figlio/a fam.: famiglia fil.: filosofo giur.: giurista gloss.: glossatore gramm.: grammatico imp.: imperatore inc.: incisore mag.: magister merc.: mercante
mon.: monaco OFM: Ordo fratrum Minorum OP: Ordo Predicatorum OSA: Ordo Sancti Augustini OSB: Ordo Sancti Benedicti OSM: Ordo Sanctae Mariae pol.: politico pers.: personaggio letterario princ.: principe scritt.: scrittore scult.: scultore soc.: societĂ st.: storico v.: vedi vesc.: vescovo
Annibale Barca, 185, 186 Anteo, f. di Terra, 165 Antoine de la Sale, 220 Antoine Girard de Saint-Amand, 162 Antonella, fornaia, 101 Antonino da Firenze, OP, 109 Antonio, pers. in “Il mercante di Venezia”, 139 Antonio Del Vantaggio, 128 Antonius (Antonio Panciera), Kardinal, 62 Anversa (Belgio), 145 Appel C., 177, 178 Aquino, v. Tommaso Aquileia (UD), 62 Arbor A., 75 Arcangeli L., 94 Arcuti S., 92 Ardito C., 101 Argia, f. di Adrasto, 156 Argo (Grecia), 156, 157, 179 Ariani M., 177, 183, 184, 187 Ariosto Ludovico, 139 Artù, re, 186 Asciano (SI), 110 Ascoli Piceno, 90, 96, 211, 214, 217, 222, 225, 226, 227 Asia, 124 Aspra Sabina, v. Casperia Assisi (PG), 231, 233, 234, 235, 236, 237, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 247, - Basilica Superiore, 231, 233, 242, 243, 245, 246, 247 - San Damiano, chiesa, 236 Asti, 42 Avignone (Francia), 124, 127, 130, 132, 221 Aviz, fam., 125 Azzone, giur. e gloss., 14
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Abbolito Simonetti G., 153 Abelardo Pietro, 167 Accursio, giur., 16 Adem (India), 140 Adrasto, re, 156 Adriano I, papa, 199, 205, 207, 209 Africa, 125 Agostino, santo, 106, 107, 175, 184, 214 Aione, duca di Benevento, 197 Airaldi G., 125 Andrea da Barberino, 220 Anonimo Trecentista, 11 Alano di Lilla, mag., 167, 168, 170 Alanus, Bischof, 62 Alba (CN), 63 Alberti Bartolomeo, 130 Alberti Giannozzo, 122 Alberti Iacopo, 130 Alberti Leon Battista, 105, 106, 122, 124 Albertini Matteo, 204, 205 Alberto da Gandino, giur., 8, 14, 43, 108 Alcuino di York, 199, 207 Alessandria d’Egitto, 129, 140 Alessandro V (Pietro di Candia), papa, 51, 61 Alessandro VI (Rodrigo Borgia), papa, 94, 141 Alessi Palazzolo G., 12, 14 Alessio, santo, 83 Aletto, 154, 155, 168 Alexandria, v. Alessandria d’Egitto Alfani G., 110 Alighieri Dante, 163, 164, 175, 182, 183, 186 Alpen, 67 Ambrogi-Franceschi, soc., 143 Ambrogi Tedaldo, 143 Amsterdam (Paesi Bassi), 138, 145 Anagni (FR), 208 Ancona, v. Marca Andrea di Bonanno, 124, 132 Andres S., 89 Angelottus de Roma, clericus, 61 Angiò Roberto, re, 164, 186
Badesio Fabrizio, calligrafo, 200, 202, 203, 204, 205 Bagnoregio (VT), 89, 91 Baldassarre Cossa, 57, 62, 63
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Bertazzo L., 233 Bertrand de Codoène, vesc., 59 Beta S., 30 Bethencourt F., 142 Biliotto M., 110 Biller P., 82 Bindo Piaciti, f. di Francesco Datini, 123 Binfield C., 81 Biondi A., 93 Boari M., 9 Bober R., 6 Boccaccio Giovanni, 45, 149, 165, 166, 167 Boccamazza Giuliano, 100 Bodei R., 9 Boesch Gaiano S., 81 Boezio Severino, 20 Boileau N., 162 Boitani P., 12 Bologna, 37, 40, 57, 60, 112 Bolzoni L., 82 Bonacini P., 30 Bonafemina, v. Buonafemmina Bonaventura, santo, 234, 235, 236, 238, 240, 241, 242, 243 Boncompagno da Signa, 198 Bonfil R., 100 Boni A., 238 Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 205, 208, 209 Bono, duca di Napoli, 191, 193, 194 Bordone, figlio di Chele Bordoni, 109 Bordoni, v. Chele Borello B., 42 Borges J. L., 6 Borsati Francesco, giur., 206, 208 Bosco U., 184 Botti, v. Giovanna, Villana Bottin J., 145 Boudreau C., 127 Boutier J., 113 Brabant, 58 Brambilla E., 113 Branca V., 45, 105, 121, 165 Brandmüller W., 50, 51, 55, 56, 60
IS
IM E
Banzato D., 187 Barbarics Z., 144 Barbaro D., 137 Barcellona (Spagna), 122, 127, 129, 130 Barcia F., 87 Barducci R., 143 Barduccio da Vespignano, 74, 75, 76, 77, 78, 79 Bari, 63 Barlaam, 83 Barone G., 102 Bartolo da Sassoferrato, giur., 10, 29, 35, 36 Bartholomäus von Mailand, 62 Basilea (Svizzera), 55, 61, 216 Bassano da Pessina, membro della soc. Datini, 123 Battista Goioli, marito di Girolama Tosti, 94 Baudrillard J., 73 Bauman Z., 8, 9, 10 Bayonne (Francia), 130 Bec C., 123, 138, 142, 183 Beck H. G., 125 Beirut (Libano), 132 Bellabarba M., 38 Bellafiore, ebrea, 100 Belting H., 83 Bene Vannis, mag., 45 Benedetto Dei, 138, 143 Benedikt XIII (Pedro Martinez de Luna), Papst, 51 Benevento, 192, 193, 197, 210 - Duomo, 194, 210 - Santa Sofia, chiesa, 210 Benini Francesco, 132 Bentivoglio G., 112 Benvenuti A., 71-84, 74, 75, 77, 78, 102 Benvenuti Papi A., 75 Berg D., 52 Bériou N., 82, 108 Berlow R. K., 127 Bernardino da Siena, OFM, 106, 115 Bernardo Silvestre (Bernardo di Tours), 164 Bernini Gian Lorenzo, 200
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Brandozzi G., 220 Braudel F., 8, 45, 126, 127, 129, 133, 138 Bredekamp H., 210 Briegel F., 108 Brogsitter K. O., 183 Brokoff J., 49, 50 Bruges (Belgio), 122, 127, 128, 129, 143, 217 Brunetto Latini, 175 Brussels (Belgio), 216 Buonafemmina, moglie di Pietro di Meo, 25, 26, 30, 36 Burgos (Spagna), 130
261
IS
IM E
Catalogna, 128 Catanei, v. Vannozza Catania, 87 Caterina, 99 Catullo, 170 Cavaciocchi S., 91, 126, 145 Cavaillé J.-P., 21 Cazzetta G., 94 Celeno, pers. in “Eneide”, 170 Cecchi E., 123 Ceo, pers. in “Eneide”, 152, 153, 154, 162 Cerchi, v. Umiliana Ceresa Gastaldo A., 83 Certaldo, v. Paolo Cerutti S., 10 Cacciotti A., 235 Chabot I., 102 Caenegem R. C. Van, 12 Chaiero, v. Cairo Cairo (Egitto), 140 Chalautre (Francia), 167 Caizzi B., 128 Champagne (Francia), 127, 130, 235 Calcante, pers. in “Eneide”, 170 Chele Bordoni, 109 Calcaterra C., 175, 182, 184 Cherubini G., 34, 97 Calibe, pers. in “Eneide”, 155 Cherubini P., 99 Calicut (India), 140 Chevalier U., 222 Calisse C., 21 Chevallier R., 153, 158 Callistrato, giur., 14 Chiarito del Voglia, beato, 75 Calvelli L., 214 Chiesa P., 199 Capistrano (VV), 60 Chiffoleau J., 30 Cambini, fam., 128 Chiurco C., 168 Cammarosano P., 33 Chobham Tommaso, 108 Campagnano (RM), 95 Ciampoli D., 110 Camussone P., 137 Cicerone Marco Tullio, 183, 184 Canaccini F., 35 Ciranni R., 77 Canale A. V., 29 Civitavecchia (RM), 98 Canali L., 152, 155 Claudiano, 158, 170, 176 Capocaccia G., 89 Claudio il Gotico, imp., 220 Cappelli G., 75 Cleante, fil., 186 Caprioli M., 88 Clemente VI (Pierre Roger), papa, 124 Cardini F., 75, 242 Clemente VII (Roberto di Ginevra), Carlo Magno, imp., 186, 199, 205, 207, antipapa, 221 209 Cochin (India), 141 Cartagine, 151 Codoène, v. Bertrand Casagrande C., 43, 64, 88 Cohn S. K. jr., 75, 99 Casperia (RI), 92, 98 Cola da Bisso, 132 Casser, v. Ermengaudus Colochut, v. Calicut Castelnuovo E., 83 Colombini Giovanni, beato, 83
262
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
De Rubeis F., 189-210, 199 Desbonnets T., 240 Dessì R. M., 82 De’ Tolomei Andrea, 127 Deventer (Olanda), 60 De Vivo F., 126 De Winghe Filippo, 206 Didone, 151, 152, 154, 160, 171 Diffie B. W., 125 Di Maggio E., 94 Dino del fu Giunta, 44 Di Pasi Bartolomeo, 144 Di Renzo Villata G., 89 Dole (Francia), 62 Dolfin L., 122 Domascho, v. Damasco Donati C., 10 Donato M. M., 187 Dooley B., 141 Doria G., 126 Douglas M., 9, 19 Doumerc B., 122 Dronke P., 158, 159 Dubuis Pierre, 99 Dursteler E. R., 144 Dwerg H., 60
IM E
Colombo Cristoforo, 140 Colonia (Germania), 127 Colonna Stefano il Vecchio, 186 Comba R., 99 Compostella (Spagna), 240 Conte del Sagrato (Innominato), 162 Cooper D., 233 Corsi C., 226 Corsi D., 75 Corsini Andrea, beato, 75 Cortesâo J., 125 Cortese E., 10, 13, 15, 16, 208 Corti G., 11, 106, 123, 137 Costa P., 113 Costantino, imp., 206, 209 Costantinopoli, 129, 130, 138 Cotrugli Benedetto, 11, 105, 106, 115, 116, 117, 118, 123, 137 Coussemaker, v. De Coussemaker Covini N., 94 Crescenzio da Iesi, OM, 235 Cunincpert, re, 195 Cunczo de Zewola, 62
IS
D’Acunto N., 243 Dal Lago A., 6 Damasco (Siria), 122, 141 Datini, compagnia, 122, 131 Eco U., 8 Datini Francesco, 122, 123, 124, 131, Edgerton S. Y. Jr., 11 132, 141, 132 Egidi P., 92 Davidson N., 88 Egidio Romano, OSA, 97 D’Avray D. L., 82 Egiziaca, v. Maria De Angelis V., 171 Egmond F., 142 Dean P., 88 Emanuele I, re, 125 De Coussemaker E., 216, 218 Emiliani Giudici P., 40 De Gaiffier B., 83 Encelado, pers. in “Eneide”, 152, 153, Deipile, f. di Adrasto, 156 154, 162 Delage C., 6 Enea, pers. in “Eneide”, 151, 152, 154, Delfina di Puymichel, 83 157, 160, 171, 182 Dell’Oro F., 73 Enrico, duca di Lancaster, 179, 186 Del Nero Zanobio, 138 Epstein S. A., 75 De Maddalena A., 126 Erchemperto, mon. e st., 194 De Robertis D., 164 Erebo, 168 De Ronsard Pierre, 161 Eris, 154 De Rossi G. B., 199, 206, 207 Ermelinda, moglie del re Cunincpert, 195
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
263
IS
IM E
Ermengaudus de Casser, 60 - S. Maria del Carmine, basilica, 75 Esiodo, 181 - S. Maria Novella, basilica, 75 Esposito A., 85-102, 94, 97, 99, 100, - S. Maria Regina Coeli, monastero, 75 102, 111 - S. Pier Maggiore, chiesa, 74, 75, 79 Estouteville, v. Guillaume - S. Spirito, basilica, 74, 75, 77, 79 Eteocle, pers. in “Eneide”, 157 - Uffizi, museo, 76, 77 Ettore, pers. in “Eneide”, 156 Flanders, 215, 217, 219, 221 Europa, 122, 144, 221, 226 Fohrmann J., 49 Europe, v. Europa Fornaciari G., 77 Evangelisti P., 115 Fortini L., 97 Fortunati M., 12 Foucault M., 5, 6, 44 Faenza (RA), 76 e v. anche Umiltà Fraher R., 12, 29 Falchetta P., 118 Francesco, santo, 233, 234, 235, 236, Famagosta (Cipro), 133 237, 238, 239, 240, 241, 242, 243, Fanciulli C., 204 244, 245, Fanciullo F., 117 246, 247 Fantozzi Micali O., 74 Francesco Pegolotti Balducci, 114, 115 Farfallini Ventura, intagliatore, 200 Francia, 54, 134, 170, 207 Farr J. R., 90 Franciscus Baldi, 45 Fasoli G., 32, 37, 40 Francoforte (Germania), 145 Favier J., 139 Frangioni L., 123, 127, 128, 130, 131, Federici V., 92 132, 137 Fenster T., 7, 49, 105 Frankreich, v. Francia Fenzi E., 183 Frascati (FR), 94 Feo M., 171, 176, 183, 187 Freedberg D., 83 Fera V., 183, 184 Freud S., 15 Ferentino (FR), 93 Friedrich Deys, 61 Ferrante L., 93 Frugoni C., 231-244, 233, 235, 237, Ferrara, 60 242, 243 Fianu K., 127 Fulgenzio Fabio Planciade, 164 Filarete (Antonio di Pietro Averlino), arch., 203 Filippo Augusto, re di Francia, 170 Gaberto Giovanni Antonio, 204 Fillastre G., 54, 55 Gaffuri L., 82 Filoramo G., 115 Gagliardi I., 78 Finelli R., 19 Gallo D., 233 Finke H., 52 Galvano di Padova, 222 Finuccio di Cambio, 34 Garvo Leone, scult., 204 Finuccius Baldi, 35 Gaspar van Weerbeke, comp., 222 Fiorimanda, moglie di Malapezza, 100, Gauvard C., 127 101 Gaz A., 208 Firenze, 36, 40, 60, 63, 6374, 109, 110, Geertz C., 7 111, 112, 113, 127, 128, 129, 130, Gemma, vedova di Mosè da Roma, 100, 131, 133, 134, 137, 145, 163, 213 101 - S. Maria degli Angioli, monastero, 75 Gennaro, santo, 193
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Graziano, mon., giur., 17 Greffulhe L., 138 Gregor XII (Angelo Correr), Papst, 51, 54 Gregorio Magno, papa, 205, 206, 207, 209 Gregorio II, papa, 205 Gregorio IX (Ugolino di Anagni), papa, 241 Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni), papa, 205 Greif A., 142 Greuter Matthäus, inc., 201 Grimaldi Giacomo, 206 Grohmann A. 91, 100 Guadagno, v. Tangio Gualazzini U., 12 Guglielmo di Sant’Amore, 239 Guicciardini Francesco, 141 Guidi Bruscoli F., 119-146, 138 Guido Carpentarii, 62 Guido, f. di Tommaso Detti, 125 Guido, vesc., 236, 237, 240, 241, 242 Guigueno V., 6 Guillaume d’Estouteville, card., 94 Guillelmus Chanalis, 60 Guillaume Machaut, comp., 218 Guinea, 138
IS
IM E
Genova, 42, 130, 132, 139 Gentile G., 83 Gentili A., 213 Geremek B., 108 Gherardo di Villamagna, 75 Giagnacovo M., 124, 132, 134, 137, 142 Giametta S., 6 Gian Galeazzo, v. Visconti Gianola G., 149-171 Giglioli P. P., 9 Gillman F., 18 Ginevra (Svizzera), 128 Giorgi A., 33 Giorgio, santo, 83 Giotto, 233, 234, 245, 246, 247 Giovanna delle Botti, 75 Giovanni, v. Colombini Giovanni I (Giovanni d’Aviz), re, 124 Giovanni IV “lo scriba”, vesc. di Napoli, 193 Giovanni, card. di San Paolo, 241 Giovanni, evangelista, 76, 108, 117 Giovanni da Vespignano, 74, 75, 76, 79 Giovanni Duns Scoto, OFM, beato, 115 Giovanni di Pagolo Morelli, scritt. e pol., 105, 112, 123 Giove, 156, 165 Giovenale, 181 Girolama Tosti, moglie di Battista Goioli, 94 Giuda, apostolo, 106, 107, 108, 109 Giuliani A., 12 Giuliano, v. Boccamazza Giuliano l’Ospedaliere, santo, 83 Giulio Cesare, 185 Giunone, 155 Giunta, v. Dino Giusti L., 77 Goetz H.-J., 52 Goffman E., 19 Goldthwaite R. A., 128, 131 Goodwins Sands (Costa del Kent, Inghilterra), 139 Gozzi M., 214 Grado Merlo G., 28
Habermas J., 8 Hans wan Bamborg, 220 Hayez J., 126, 142, 145 Hardt H. von der, 56, 65 Hébert M., 127 Heinrich Kuwt, 62 Helmrath J., 50, 52 Hermann Dwerg, 60 Hibbard H., 201 Hildesheim (Germania), 62 Hilka A., 159 Hofmann J. B., 7 Hollnsteiner J., 52
Iarba, re, 152, 154, 157, 171
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Ilari A., 95 Ilario d’Orléans, all. di Abelardo, 167, 170 Ildebrandini, v. Pietro di Giovanni India, 125, 140, 141 Indie, 135 Infelise M., 140, 143, 144 Inghilterra, 134 Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), papa, 15, 39, 231, 234, 235, 237, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 247 Innozenz VII (Giovanni Battista Cybo), Papst, 63 Innsbruck (Austria), 130 Irnerio, giur., 13 Isidoro di Siviglia, 29 Italia, 23, 90, 92, 105, 110, 112, 126, 194, 213, 221, 222, 227, 234 Iudas, v. Giuda
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King E. B., 17 Kirshner J., 113, 144 Kissling H., 125 Klapisch-Zuber C., 32, 42, 88, 97 Konstanz (Germania), 50, 51, 52, 55, 58, 63, 64 Kuehn T., 7, 88
IS
IM E
Lacchè M., 221 Lambertini R., 239 Landau P., 17, 20 Landi S., 113 Landolf Maramaldus, Kardinal, 63, 64 La Penna A., 171 Laura, donna del Petrarca, 176, 183, 187 Lauwers M., 82 Lazio, 90 Lazzarini L., 28 Ledda G., 186 Legendre P., 5 Jacob M. J., 105 Leiden (Paesi Bassi), 59 Jacobson Schutte A., 88 Lemesle B., 14, 39, 105 Jacobus Vaet, comp., 222 Leonardi C., 76, 159 Jacopo da Cessole, 43 Leonardo Tarunda, 63 Jacopo da Varazze, OP, 41, 81 Le Roux M., 145 Jakobus Thebaldini, 63 Lesger C., 145 Jeannin P., 126, 134, 142 Leverotti F., 94 Johannes XIII (Baldassarre Cossa), Lévy J. P., 12 papst, 47, 50, 51, 53, 54, 55, 56, 57, Libia, 152, 153 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67 Limentani Virdis C., 187 Johannes Basyer, 61 Lione (Francia), 128, 130 Johannes de Molino, 59 Lisbona (Portogallo), 123, 125, 128, 135 Johannes, Kardinal, 63 Livia di Francesco Pieraccini, 98 Johannes Olendrinus, 215 Löbmann B., 18 Jordanus, Bischof, 63 Lombardi P., 88 Jordanus, Kardinal, 63 Lombardia, 137 Josaphat, 83 Lombroso C., 19 Londra, 128, 129, 130, 134 Longo U., 80 Kafka F., 20 Lord Smail D., 7, 49, 105 Katharina, Schwester von Hermann Loredan G., 137 Dwerg, 60 Lorsh (Germania), 207 Kellenbenz H., 126 Louis II de Male, 217, 218 Kerscher G., 83 Lowe K. J. P., 88
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Luca, evangelista, 117 Lucca, 37, 40 Luigi d’Ungheria, re, 124 Lunardo da Ca’ Masser, 140
IS
IM E
Mazzi M. S., 88, 91, 99 Mazzoni V., 34 McCusker J. J., 143, 144, 145 Mecca, 141 Mecha, v. Mecca Medici Maria, 161 Maccioni F., 89 Megera, 168 Machiavelli Niccolò, 140, 141 Melis F., 122, 127, 128, 129, 130, 131, Macinghi A., 124 133, 138, 142 MacNair M., 12 Melli M., 235 Macrobio, 154 Melville G., 6 Madelgrima, moglie del gastaldo di Menant F., 110 Sant’Agata de’ Goti, 197 Menozzi D., 83, 115 Maderno Carlo, arch., 201, 203, 205, 209 Menzinger S., 41 Madrid (Spagna), 130 Meo, v. Pietro Maffei D., 206, 208 Meyers W., 159 Magliano Sabina (RI), 98, 100, 101 Michetti R., 233 Magone Barca, 184 Mierau H. J., 47-69, 67 Maire Vigueur J.-C., 28 Miethke J., 50 Malapezza, 100 Miglio M., 88 Malipiero Tommaso, 138 Migliorino F., 3-21, 18, 19, 20, 21, 22, Mammoli D., 100 27, 89, 91, 92, 105 Mansi G. D., 56, 57, 65 Mignanelli Damasco Beltramo, merc., Manoussacas M., 125 122 Mantua, 60 Milanese, v. Tale Manzari F., 243 Milanesi G., 127 Manzoni Alessandro, 162, 163 Milani G., 38, 109 Maramaldo, v. Landolfo Milano, 93, 112, 127, 128, 130, 132, 137 Marcello, v. Nonio Minestrina G., 81 Marche, 220, 221, 227, 240 Minnis A. J., 82 Marchione de’ Marini 132 Misztal H., 73 Marciano, fil., 16 Modena, 30, 37 Margherita da Grosseto, 100 Molho A., 88, 113 Margherita d’Antiochia, santa, 83 Molino Giovanni, vesc., 59 Maria Egiziaca, santa, 83 Mondolfo U. G., 33 Mariani Canova G., 187 Montale, v. Palmieri Marino Giovan Battista, 161, 162 Montaperti (SI), 34 Marliani Lucia, amante di Galeazzo Montefortino (FM), 211, 214, 220, 221, Maria Sforza, 93 226 Marongiu A., 98 Montesano M., 242 Martelli M., 183 Monti G. M., 20 Maspero F., 159 Moos P. von, 5, 6, 20, 21 Matteo, evangelista, 200 Moreschini C., 81 Matteo d’Agrigento, OFM, beato, 115 Morganti L., 222 May G., 17 Mosè da Roma, 100 Mazzei R., 143 Mucciarelli R., 23-46, 28
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
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Müller A. F., 7 Müller H., 50, 52 Muzzarelli M. G., 9, 82, 93
IS
IM E
Pagolo Morelli, v. Giovanni Palermo, 87, 130 Palmieri di Montale, 30 Panciera, v. Antonio Panofsky E., 187 Nada Patrone A. M., 88, 90 Paola, beata, 75 Napoli, 62, 63, 130, 191, 192, 193, 194 Paola, moglie di Salvi di Rustichino, 25, - San Martino, museo, 192 26, 30, 36 - Santa Restituta, basilica, 191 Paolazzi C., 236 Narducci E., 183 Paolino L., 171, 177 Neapel, v. Napoli Paolo V (Camillo Borghese), papa, 200, Nemea, 157 201, 202, 203, 204, 205, 210 Nepita Cosimo, giur., 87 Paolo, 101 Neubauer H.-J., 66 Paolo, apostolo, 117 Nevio, 151 Paolo da Certaldo, 121, 136 Nicäa, Konzils, 50 Paolo da Perugia, 164, 165, 167 Niccolaio di Bonaccorso, 132 Paolo Diacono, mon. e st., 195, 197 Nicola IV (Girolamo Masci di Ascoli), Paratore E., 152 papa, 233, 241, 242, 244 Paravicini Bagliani A., 28 Nietzsche F., 6 Parigi (Francia), 127, 129, 130 Niggl R., 206 - Università, 239 Nikolaus de Hubanco, mag., 60 Parma, 40 Nonio Marcello, gramm., 151 Pasquini E., 173-187, 176, 177, 178, Norimberga (Germania), 131, 137 182, 183 North D. C., 121, 136 Passeri F., 95 Notte, f. di Terra, 165 Pauly M., 51 Pavia, 196 - Musei Civici, 196 Oberto, merc., 42 - Santa Maria Teodote o della Pusterla, Offner R., 234 monastero, 195, 196 Omero, 154, 185 - Seminario Vescovile, 196 Onorio III (Cencio Savelli), papa, 237, Pazzelli R., 102 243 Pecorella C., 12 Orazio, 183 Pegolotti Balducci, v. Francesco Orlandi A., 124 Perec G., 6 Orlandi G., 159 Peretti P., 213, 214, 215 Orsini, fam., 63 Peri A., 99 Ortalli G., 11 Pertile A., 21 Ostia (RM), 63 Pertusi A., 125 Ottaviano Petrucci, 222 Perugia, 37, 91, 164 Ovidio, 155, 156, 158, 161, 165, 180 Peters E., 17 Petrarca Francesco, 171, 173, 175, 176, 177, 178, 180, 181, 182, 183, 184, Pacca V., 171, 177, 178, 182, 185 186, 187 Pacioli Luca, 123 Petronio, 158 Padova, 184 Petrus de Brugis, 219, 220
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Quaglioni D., 100 Queller D. E., 138 Quintiliano, 151, 180 Quinto R., 82 Radoaldo, gastaldo di Sant’Agata de’ Goti, 197 Radulet C. M., 125 Raimondi E., 177 Ramada Curto D., 144 Raniero, miles, 15 Rathmann T., 52, 54, 55, 67 Raveggi L., 110 Raveggi S., 34, 35 Re C., 89 Redon O., 110 Reinert F., 51 Reno, fiume, 131 Renouard Y., 121, 122, 124, 128 Rezasco G., 90 Ridyard S. J., 17 Rieti, 88, 91, 95, 98, 100, 240 Rignano Flaminio (RM), 91 Rigon A., 233 Rizzo D., 42 Rizzo V., 99, 100 Robert U., 15, 92 Robson J., 233 Rocchi A., 124 Rodrigo, pers. in “I Promessi Sposi”, 162 Roma, 55, 60, 62, 67, 73, 89, 93, 96, 97, 99, 100, 101, 102, 111, 112, 128, 130, 131, 185, 193, 202, 206, 207, 208, 209, 210, 221, 234, 236, 238, 240, 241, 242 - S. Agostino, chiesa, 94 - S. Maria Maggiore, basilica, 202 - S. Pietro in Vaticano, basilica, 199, 200, 202, 203, 205, 206, 207, 208, 209, 210 Romano R., 122 Roselli P., 74 Rosoni I., 12 Rossi P., 91 Rossi P. V., 159
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IM E
Petrus Negrandi, 61 Peyronel S., 94 Philibertus de Anailsacio, 61 Philippart G., 81, 82 Pianezzola E., 156 Piasentini S., 108 Piccinni G., 33, 111 Pieper R., 144 Piergiovanni V., 12 Piero Antonio de’ Nobili, 137 Pietro di Giovanni Olivi, OFM, 115 Pierre D’Ailly, Kardinal, 63 Pietro, santo, 200, 202 v. anche Roma Pietro di Bernardone, 235, 236 Pietro di Giovanni Ildebrandini, 37 Pietro di Meo, 25, 26, 27, 30, 31, 35, 36, 43, 44, 45, 46 Pietro Sabino, 206 Pinelli A., 205 Pipino il Breve, re dei Franchi, 207 Pirro L., 91 Pisa, 39, 51, 127 Platania G., 143 Platone, 186 Plinio, 186 Pluto, 168 Pohl W., 191, 194 Poitiers (Francia), 61 Polen, 62 Polinice, 156, 157 Pölnitz G. von, 128 Poloni A., 38, 41 Pompe H., 49 Porret M., 108 Portogallo, 138, 140 Potthast A., 208 Prato, 33, 44 Preto P., 125, 140 Priuli Girolamo, cron. veneziano, 125, 140, 141 Prodi P., 9, 27 Protesilao, 156 Provins (Francia), 167 Puymichel, v. Delfina
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Rossiaud J., 91, 101 Rota Ghibaudi S., 87 Rouchon O., 113 Ruggero II, re, 20 Ruggero di Wendover, OSB, 241 Ruggiero G., 42, 87, 88, 89, 95 Rusconi R., 82 Russo Mailler C., 191, 193, 194, 197 Rustichino, v. Salvi
Senfl Ludwig, comp., 222 Sergi G., 83 Sergio, vesc., 193 Sermoneta (LT), 95 Sernigi Girolamo, merc., 135 Servio, gramm., 153, 165, 170 Sestan E., 32 Settesoldi E., 131 Sforza Galeazzo Maria, 94 Sibilla, 170 Sibilla Apenninica (o Sibilla di Monterfortino), 220, 221 Sicone, princ. di Benevento, 193, 194 Siena, 25, 28, 30, 33, 39, 106, 111, 112, 127 Sigismund, könig, 50, 51, 53 Silio Italico, 158 Silvagni A., 191, 207 Silvestre, v. Bernardo Silvestro, beato, 75 Simonetta S., 9 Simonetti A., 76 Simonetti Abbolito G., 153 Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 94 Shakespeare William, 139 Socrate, 185 Sodi M., 81 Solanio, pers. in “Il mercante di Venezia”, 139 Sonaglini B., 36 Soria (Spagna), 141 Spallanzani M., 124, 131 Sparti A., 93 Stanziani A., 136 Stazio, 156, 157, 158, 170 Stephan von Dole, Bischof, 62 Stefano III, duca di Napoli, 192 Stoldo di Lorenzo, 124 Strasburgo (Francia), 53, 216 Strohm R., 217, 219 Strozzi Filippo, 128 Strozzi Lorenzo, 123, 128 Strozzi Matteo, 134 Strozzi Pinaccio, 134 Supino (FR), 94, 95
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Sacchetti Franco, 36, 74, 79, 80 Saint-Flour, 59 Salerio, pers. in “Il mercante di Venezia”, 139 Saliti Piero, 137 Salutati-Serristori, compagnia, 128 Salvemini G., 32 Salvi di Rustichino, 25, 26, 27, 30, 35, 44 Samaran C., 122 San Pietro in Tuscia (VT), 99 Santagata M., 171, 177 Sant’Agata de’ Goti (BN), 197 Santarelli U., 11 Sanudo Marin, cron. veneziano, 125, 140 Sapori A., 12, 130, 138 Sardella P., 130, 131, 135 Saturno, 187 Sbriccoli M., 8, 37, 38, 39, 108 Schmale F.-J., 52 Schuchard C., 60, 61, 62 Schuchman A. M., 74 Schumann O., 159 Schwerhoff G., 38 Sciano, v. Asciano Scizia, 157 Scott Cuthbert M., 211-227, 214, 215, 226 Scotti Tosini A., 201 Scoto, v. Giovanni Secretan C., 105 Seidel Menchi S., 88 Sella P., 96 Seneca, 158, 180, 183, 184
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Svetonio, 220 Swanson J. A., 20
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Tabacco G., 10 Tabarroni A., 239 Tagete, f. di Terra, 165 Takács I., 51 Tale di Milanese, 44 Tamerlano, 141, 142 Tana (mar d’Azov), 129 Tanburlano, v. Tamerlano Tangio di Guadagno, 33, 34, 46 Tantini, v. Zanobi Tanzini L., 110 Tartaro, f. di Terra, 165 Tarunda, v. Leonardo Tasso Torquato, 187 Tedeschi J. A.. 113 Temperini L., 102 Tenaro, 157 Tenenti A., 122 Teodosio, imp., 185, 187 Teodote, all. della bad. Teodote, 196, 197 Teodote, bad., 195, 196, 197 Terapne, 157 Terni, 91 Terra, madre di Notte, Tartaro, Fama, Tagete e Anteo, 165, 166 Tesifone, pers., 168 Théry J., 14, 39, 105 Thomas de Pons, 220 Tideo, pers. in “Tebaide”, 156 Tilatti A., 233 Tincalla Costanzo, 204 Tito Livio, 185 Tivoli (RM), 92, 95 Todeschini G., 103-118, 6, 43, 93, 100, 105, 106, 108, 109, 110, 111, 114, 115, 117 Tomassetti F., 92 Tommaso da Celano, OFM, 235, 241 Tommaso d’Aquino, santo, OP, 97, 118 Tommaso di Piperata, giur., 13, 29 Tommaso di Ser Giovanni, 132
Tommaso Malipiero, 138 Toneatto V., 108 Toniolo F., 187 Torello da Poppi, beato, 78 Tornabuoni Lorenzo, 138 Torrigio F. M., 202 Toscana, 98, 127 Tosti, v. Girolama Toti O., 94 Toureille V., 108 Tramontana S., 87 Trebellio Pollione, st., 220 Trento, 81, 208 Trevisan J., 137 Triaca A. M., 81 Trivellato F., 112, 142, 144, 146 Troia, 155, 185 Troyes (Francia), 127 Tubal, pers. in “Il mercante di Venezia”, 139 Tucci U., 11, 106, 123, 134, 144, 145 Tupet A.-M., 153, 158, 161, 162 Tuscia, v. Toscana Ulrich von Pfirt, 53 Ungheria, v. Luigi Umiliana dei Cerchi, 74 Umiltà da Faenza, santa, 76, 77 Urban VI (Bartolomeo Prignano), Papst, 63 Valenza (Spagna), 123, 124, 130, 142 Valeri V., 11 Valerio Flacco, 158 Valla Lorenzo, 206 Valladolid, 130 Vallerani M., 14, 26, 27, 38, 39, 43, 44 Vander Linden A., 216 Vannozza Catanei, 94 Varanini G. M., 113 Varrone, 30 Vasco De Gama, 125, 135 Vasoli C., 164 Vauchez A., 73, 80, 236, 242
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DI LUOGO
Walde A., 7 Walsh P. G., 159 Walther H., 160, 163 Weber M., 146 Weingart B., 49 Wickham C., 7, 31, 32, 39, 42 Wilden A., 8 Willems R., 106 Wirth J., 83 Wolfthal D., 106 Wunderlich W., 65
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Vecchi P., 178 Vecchio S., 42, 43, 97 Veggio M., 206 Venere, pianeta, 159, 161 Venezia, 123, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 137, 140, 141,142, 144, 145 Verde A., 138 Verona, 63 Vicenza, 39 Villana delle Botti, 75 Villani G., 36, 40, 74, 76, 79, 113, 126 Villani M., 109, 135 Villanova dâ&#x20AC;&#x2122;Asti (AT), 98 Vincenzo di Beauvais, 109 Vinegia, v. Venezia Virgilio, 149, 152, 153, 154, 155, 156, 163, 164, 166, 167, 170, 171, 180, 182 Visconti Gian Galeazzo, 36, 137 Viterbo, 91, 93, 96, 98, 99 Vitullo J., 106 Voglia, v. Chiarito Volmarus Saack, 62 Volpato A., 77 Voltaire (François-Marie Arouet), 162 Volterra, 61
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Zabarella Francesco, card., 63 Zamler-Carhart S., 211-227, 214 Zanardi B., 234 Zanobi, santo, 78 Zanobi Tantini, 75 Zapperi N., 94 Zazulia E., 214 Ziino A., 214, 215, 221 Ziletti G. B., 13 Zimei F., 214, 226 Zorzi A., 38, 109, 112 Zunkel F., 7 Zypern, 58
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Indice generale
Pag.
V
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Saluto del Sindaco Guido Castelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Rigon, Introduzione ai lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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VII
Francesco Migliorino, “La Grande Hache de l’histoire” Semantica della fama e dell’infamia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3
Roberta Mucciarelli, Bisogna essere molto prudenti con le voci perchè fanno presto a trasformarsi in verità. Qualche considerazione su fama e publica vox nell’Italia comunale . . . .
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23
Heike Johanna Mierau, Zur Bedeutung von publica vox und fama bei der Absetzung Papst Johannes’ XXIII . . . . . . . . . . .
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47
Anna Benvenuti, La fama di santità . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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71
Anna Esposito, Donne e fama tra normativa statutaria e realtà sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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85
Giacomo Todeschini, La reputazione economica come fattore di cittadinanza nell’Italia dei secoli XIV-XV . . . . . . . . . . . . .
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103
Francesco Guidi Bruscoli, Circolazione di notizie e andamento dei mercati nel basso medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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119
IS
Prima giornata
Seconda giornata
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149
Emilio Pasquini, Il Triumphus Fame del Petrarca: varianti testuali e costanti tematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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173
Flavia De Rubeis, Verba volant, scripta manent. Epigrafi e fama . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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189
Michael Scott Cuthbert - Sasha Zamler-Carhart, International style and medieval Italian music: a Flemish motet in the Ascoli Piceno/Montefortino fragment . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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211
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231
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251
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257
IM E
Giovanna M. Gianola, «Procul a Fame palpebris»: la fama come male da Virgilio a Boccaccio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lectio magistralis del Premiato 2009
Chiara Frugoni, Un papa davvero preveggente. Innocenzo III e la Conferma della regola nel ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Indici
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Indice delle fonti archivistiche e dei manoscritti . . . . . . . . . Indice dei nomi di persona e di luogo . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IM E Composto e impaginato nella sede dellâ&#x20AC;&#x2122;Istituto storico italiano per il medio evo
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Finito di stampare nel mese di novembre 2011 dallo Stabilimento Tipografico ÂŤ Pliniana Âť Viale F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (PG)
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