presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo messaggio all’Italia nell’ultimo giorno anche quanti vivono all’estero e quanti il nostro Paese ospita. Un messaggio di fiducia, una fiducia che il mondo ha verso il nostro Paese. “Quella stessa fiducia con cui si guarda, da fuori, verso il nostro Paese deve indurci ad averne di più in noi stessi, per dar corpo alla speranza di un futuro migliore. Conosco le difficoltà e le ferite presenti nelle nostre comunità. Le attese di tanti italiani. Dobbiamo aver fiducia e impegnarci attivamente nel comune interesse. Disponiamo – ha detto Mattarella – di grandi risorse. Di umanità, di ingegno, di capacità di impresa. Tutto questo produce esperienze importanti, buone pratiche di grande rilievo. Ne ho avuto conoscenza diretta visitando i nostri territori”. Nel suo discorso ha quindi ricordato anche i tanti esempi di solidarietà, “coesione sociale” e “cultura della responsabilità” che non mancano di giungere dal territorio. E l’invio: “proviamo a guardare l’Italia dal di fuori, allargando lo sguardo oltre il consueto. In fondo, un po’ come ci vedono dall’estero. Come vedono il nostro bel Paese, proteso nel Mediterraneo e posto, per geografia e per storia, come uno dei punti di incontro dell’Europa con civiltà e culture di altri continenti. Questa condizione ha contribuito a costruire la nostra identità, sinonimo di sapienza, genio, armonia, umanità. È significativo che, nell’anno che si chiude, abbiamo celebrato Leonardo da Vinci e, nell’anno che si apre, celebreremo Raffaello. E subito dopo renderemo omaggio a Dante Alighieri”. Dobbiamo “creare – ha quindi aggiunto – le condizioni che consentano a tutte le risorse di cui disponiamo di emergere e di esprimersi senza ostacoli e difficoltà. Con spirito e atteggiamento di reciproca solidarietà. Insieme”. (R.I.)
Viene, viene la Befana
narra che mentre i tre Re Magi seguivano la stella che li guidava, il cielo improvvisamente si oscurò per una bufera. Per questo bussarono alla prima casa che vi-
dero. Una vecchina di nome Befana, nonostante fosse notte fonda, rispose generosamente alla richiesta di ospitalità. Rifocillò i tre uomini che, comunque, avevano una gran fretta di riprendere il cammino, nonostante il tempo andasse peggiorando e i loro cammelli sembrassero molto provati. Befana non riusciva a capire tutta quella fretta in una nottata come quella, allora l’uomo che aveva una carnagione molto scura e una barba nera e riccia (Baldassarre) cercò di dare una spiegazione plausibile: Stiamo andando a recare doni ad un Bambino, il Salvatore del mondo. Il più anziano (Gaspare), notando lo stupore di quella donna così anziana, la invitò ad unirsi a loro, perché anche lei potesse rendere lode al Re dei re. Befana, consapevole della sua età avanzata, dopo aver pensato qualche istante, declinò l’invito; a questo punto, il più giovane dei tre (Melchiorre) esortò i compagni di viaggio a continuare il cammino. Andati via i tre, Befana mise un grosso ceppo sulle braci ardenti, poi si coricò nel suo letto, al caldo delle coperte, ma nonostante la stanchezza e il tepore che si era creato nella stanza non riusciva a prendere sonno. Com’era possibile che un bambino potesse essere il salvatore del mondo? Pensava…. Si rigirò tutta la notte nel letto, incapace di prendere sonno. Il mattino seguente, al sorgere del sole, pentita per quel diniego, decise che sarebbe partita alla ricerca dei tre uomini. Riempì un grosso sacco di giocattoli, ritrovati chissà dove, dopodichè si mise in cammino: indossava un grosso e grande scialle per proteggersi dal freddo, come bastone aveva preso una robusta scopa di saggina che poteva anche usare contro eventuali animali famelici. Camminando, la vecchia non riuscì a trovare la pista percorsa dei tre Re Magi, ormai coperta dalla neve, così, sfiancata dal freddo e dal peso del sacco, sconfortata, si poggiò ad una gran quercia decisa a morire in quel luogo, se non avesse individuato la strada del ritorno. Certo, Gesù Bambino non avrebbe potuto permettere che le buone intenzioni avessero una fine tragica, così lo spirito buono che albergava in quell’albero animò la scopa che, volando, salvò e riportò la vecchia Befana nella sua casetta, circondata dalla neve. Da quel lontano giorno, Befana continua a viaggiare per il mondo sulla sua benedetta scopa volante, guardando attentamente in faccia ogni bambino che placidamente dorme, nell’intento di trovare Gesù Bambino. Durante il periodo di Natale ed anche dopo, fino al 6 gennaio, lascia doni per ciascun bimbo, sperando sempre che uno di loro sia Gesù Bambino. Chissà se nella nostra epoca telematica, Befana non la si debba richiamare in servizio, rivestendola, magari, con panni nuovi, ma soprattutto per ritrovare un rinnovato modello di solidarietà.
uando Mos Gerila parlava sotto la maschera di plastica, i più piccoli si sedevano sulle sue ginocchia ossute e facevano grandi occhi, cercando di capire cosa fosse nascosto dietro le sottili fessure tagliate sulla maschera vicino ai suoi occhi e alla bocca. Tutti i bambini piangevano disperatamente tra le braccia di MosGerila. Il vecchio se ne sbarazzava bruscamente, e dava loro una borsa con due arance, una cioccolata rossa di Scufița e un libro da colorare. A volte, Mos Gerila aveva più abbondanza e lasciava nella sua borsa un arlecchino pieno di cuffie o un'auto di plastica. Le arance, sbucciate a spirale, venivano assaporate fetta per fetta - "lascia per domani, non mangiare tutto oggi!". Le bucce non venivano gettate, venivano messe sul radiatore, per asciugarle, per annusarne l’odore in casa di Natale. I regali da Mos Gerila quindi, calzini soffici, un libro, un treno, un pigiama, delle arance o delle banane acerbe. L'abete non odorava. Gli alberi di Natale erano di plastica o di abeti rossi economici, con migliaia di aghi che si attaccavano alle frange dei tappeti. Questi venivano ornati con bastoncini di carta colorata e incollati sui rami manualmente con cotone idrofilo per imitare la neve. Quando il Segretario di Stato al Ministero della Cultura inaugurò la statua di Mos Gerila si aspettava di ricevere lettere dei bambini per i regali ma nessuno scrisse. Mandò allora ai bambini ciò che poteva e, soprattutto, ciò che sapeva era necessario: morbidi calzini, un libro, un treno, un pigiama. un orsacchiotto, una palla di gomma, alcuni bastoncini marocchini o una bambola Aradeanca, insomma le solite cose sbiadite. C’erano anche delle banane ma erano verdi. Venivano dall'Africa e maturate sugli armadi in Romania, avvolte tra le pagine del giornale Scânteia. Ogni boccone di banana indugiava a lungo, rimanendo attaccato al palato, in modo che non si potesse dimenticare il sapore fino al Natale successivo. Nessun canto natalizio in città. Dietro le porte chiuse dei palazzi, i rumeni non aspettavano la nascita di Cristo, ma la cottura delle banane. Il miracolo di fare i sarmale con un po’ di carne di maiale portata illecitamente dai parenti dal paese. E il pranzo, quando le scale dell'isolato odoravano di timo, alloro e cozonac al forno sacrificando il prezioso gas della bombola.I n campagna, il Natale sapeva di erba secca e legna bruciata nella stufa. Caglio maturo e basilico posti accanto alle icone. I bambini tornavano dalla strada e attaccavano le ciabatte, con calzini di lana bagnata, sulla stufa e immersi nel calore delle mura dei della casa dei nonni, si riposavano nel sonno quasi protetti da uno spirito invisibile. Qui Mos Gerila con gli scialbi regali non arrivava mai ed il Natale passava come un ricordo.
-
-
-
-
-
storia di grande bellezza e grande amore arriva dal cuore di Napoli. A raccontare l’accaduto è Assunta (nome di fantasia) a Voce di Napoli, una donna di 42 anni, madre di due bambine e vedova da un anno che, ha voluto inviare a Voce di Napoli una lettera di ringraziamento ad un anonimo benefattore. Assunta ieri mattina stava uscendo di casa per recarsi a lavoro quando, aprendo la porta, ha trovato qualcosa di inaspettato: due enormi buste della spesa.
La lettera
Cara redazione di Voce di Napoli, mi chiamo (…) e vi chiedo prima di tutto di restare anonima perché un po’ la mia situazione di difficoltà economica mi fa vergognare però devo ringraziare chi mi aiutata e ho pensato di scrivere a voi su Facebook. Ho 42 anni e abito al centro storico da sempre. Sono nata e cresciuta qui. L’anno scorso, a luglio, ho perso mio marito. Purtroppo era malato. Ho due bambini che sono la mia vita, hanno 10 e 8 anni e tutti e tre insieme cerchiamo di andare avanti da quando siamo rimaste sole. Ieri mattina stavo uscendo per andare a lavorare, erano le nove. Quando ho aperto la porta sul tappetino che ho davanti all’ingresso, ho visto due bustoni pieni di spesa di Natale. Dentro c’è di tutto: la pasta, le uova, formaggio e salumi, legumi, il pesce, la carne, merendine per la colazione, caffè, zucchero, farina. Tutto, ma proprio tutto. Mi sono sentita male quando ho visto tutto quel ben di Dio davanti la mia porta di casa. Per prima cosa ho pensato a un miracolo, ho pensato che era stato mio marito a mandarmi tutte quelle cose. Ovviamente non è possibile. Allora a Napoli deve esserci qualcuno che conosce bene la mia situazione e che ha pensato di farmi un regalo enorme rimanendo anonimo. Non ho trovato niente, nemmeno un bigliettino e le buste non sono di un supermercato, ma quelle più rigide che si comprano così non so nemmeno dove andare per chiedere chi ha comprato queste cose. Però ho pensato di scrivere una lettera per dire grazie a questa persona dal cuore grande perché a noi quella spesa ci serve davvero e per me è una gioia grande poter preparare qualcosa per i miei bambini che non hanno più il papà. Chiunque mi ha fatto questo regalo deve essere per forza un angelo. Le persone belle esistono ancora.
Grazie
ipartiamo e ci dirigiamo a Greci, che è a pochi chilometri da qui. È giunto finalmente il momento di conoscere una comunità che mi intriga molto, quella degli italiani, di origine friulana prevalentemente, con qualche veneto, che vivono tuttora qui, in questo paesino. Che si chiama Greci perché, in un periodo imprecisato della sua storia, sembra sia stato anche una colonia greca, anche se su questo ci sono poche certezze. Forse invece qui c’erano i “greci”, nel senso dei cristiani di rito ortodosso greco, quando la zona era controllata dai turchi. Gli italiani, però, sono certamente italiani e sono gli eredi di una migrazione che risale molto indietro nel tempo, fino agli anni ’80 del 1800. È allora che, dal Friuli che in quegli anni era terra di fame e di miseria nera, per quanto sia difficile da credere, questi uomini si spostarono fin qui, nella Romania che stava nascendo, in questa terra appena strappata ai turchi. Venivano soprattutto da un paio di paesi del pordenonese, Maniago e Poffabro, e arrivarono qui per lavorare in una cava di granito. Quindi per fare un mestiere ingrato e durissimo, spaccare pietre sotto il sole cocente d’estate e morire di freddo d’inverno. Un mestiere di quelli che non duri, troppa polvere nei polmoni per poter campare a lungo, la silicosi è una brutta bestia. Certo, tutti sappiamo che l’Italia è stato un paese di emigranti (o meglio, chi vuole saperlo lo sa). Ma se pensiamo ai nostri nonni che partivano con la valigia di cartone ci viene in mente Ellis Island, ci vengono in mente gli Stati Uniti, e l’Argentina, il Brasile, l’Australia, e più vicino la Svizzera, il Belgio, la Francia… ma la Romania? Chi l’avrebbe mai detto che a quell’epoca ci fosse in quello che ora è il ricco nordest qualcuno talmente disperato da emigrare in Romania? È davvero una storia straordinaria. Una storia che, a saperla capire, dovrebbe insegnarci molto anche sull’oggi. La comunità ora è ridotta ad una settantina di persone, soprattutto anziane, ma nei suoi anni “ruggenti” è arrivata a contare anche 600 persone. In anni recenti, dopo il 1989, l’emigrazione si è ripetuta al contrario. Tanti giovani se ne sono andati, proprio verso quell’Italia che non avevano mai visto ma a cui erano sempre rimasti legati, soprattutto parlandone la lingua, per quanto anche questa, negli anni, si stia naturalmente perdendo. All’inizio parlavano addirittura il dialetto friulano… ma, per chi vuole approfondire, lasciamo che sia Eugenio a raccontare la storia come si deve, molto meglio di come posso fare io:
I friulani di Greci
Poffabro.
Il primo incontro con Otilia, presidente dell’associazione dei Friulani di Greci, per noi avviene in una chiesa, la piccola chiesa bianca di S. Lucia, la chiesa cattolica di Greci. Ci sediamo sulle panche, con il giovane parroco che fa gli onori di casa. Quando tutti abbiamo preso posto Otilia si alza in piedi, inforca gli occhiali, se li aggiusta sul naso e comincia a raccontare la sua storia e quella della sua comunità. Parla un perfetto italiano, con solo un accenno di cadenza tra il veneto e il friulano. I suoi nonni erano uno di Maniago e uno di
«Anche io a volte perdo la pazienza, chiedo scusa per il cattivo esempio di ieri». Così Francesco si è scusato all'Angelus per quanto accaduto nella serata del 31 dicembre in piazza San Pietro
F
ra sostenitori e detrattori, la difesa di don Marco Pozza, parroco del carcere Due Palazzi di Padova, che con il pontefice ha scritto due libri e si prepara a condurre con lui un nuovo programma "Io credo" a febbraio, su Tv2000. «A colpirmi - spiega il sacerdote vicentino - è stata più la richiesta di scusa del fatto in sé: chi, di noi, non ha mai perso anche solo per un attimo la pazienza? Che questo gesto l’abbia fatto il Papa può essere motivo di una curiosità più accesa per alcuni. Per altri, come me, ha un solo significato: abbiamo bisogno di ritrovare il gusto di parole semplici come “grazie, ho sbagliato, ti voglio bene, scusa, mi manchi, arrivo”. È stato un augurio di buon-anno su misura per i dodici mesi a venire. Ne sono certo. Lui è un uomo la cui santità è da lavoriin-corso. Mi affascina la sua umiltà nel non nascondere la miseria della sua storia e, nello stesso tempo, di ostinarsi a cercare il meglio. Per sé, per la Chiesa intera. Un Papa che chiede scusa rappresenta per me un frammento di Paradiso in terra. I potenti, quando sbagliano, cercano le scuse: questo Papa, quando sbaglia, chiede scusa. Le persone serie sanno chiedere scusa, i pagliacci trovano delle scuse. Chiedere scusa, poi, è un fatto di buona educazione. Saperlo fare è un’arte che appartiene a pochi. A Francesco».
M
aria, Giuseppe, Gesù: la Sacra Famiglia di Nazareth, “pregavano, lavoravano, comunicavano. E io mi domando: tu, nella tua famiglia, sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno con il telefonino, mentre stanno chattando? In quella tavola sembra vi sia un silenzio come se fossero a Messa… Ma non comunicano fra di loro”. Lo ha detto Papa Francesco all’Angelus di oggi in cui la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
29 Dicembre 2019, Festa della Santa Famiglia
“Dobbiamo riprendere il dialogo in famiglia: padri, genitori, figli, nonni e fratelli devono comunicare tra loro. Questo è un compito da fare oggi, proprio nella giornata della Sacra Famiglia. La Santa Famiglia possa essere modello delle nostre famiglie, affinché genitori e figli si sostengano a vicenda nell`adesione al Vangelo, fondamento della santità della famiglia. Affidiamo a Maria “Regina della famiglia”, tutte le famiglie del mondo, specialmente quelle provate dalla sofferenza o dal disagio, e invochiamo su di esse la sua materna protezione”.
V
angelo immenso, un volo d’aquila che ci impedisce piccoli pensieri, che opera come uno sfondamento verso l’eterno: verso «l’in principio» (in principio era il Verbo) e il «per sempre». E ci assicura che un’onda immensa viene a battere sui promontori della nostra esistenza (e il Verbo si fece carne), che siamo raggiunti da un flusso che ci alimenta, che non verrà mai meno, a cui possiamo sempre attingere, che in gioco nella nostra vita c’è una forza più grande di noi. Che un frammento di Logos, di Verbo, ha messo la sua tenda in ogni carne, qualcosa di Dio è in ogni uomo. C’è santità e luce in ogni vita. E nessuno potrà più dire: qui finisce la terra, qui comincia il cielo, perché ormai terra e cielo si sono abbracciati. E nessuno potrà dire: qui finisce l’uomo, qui comincia Dio, perché creatore e creatura si sono abbracciati e, almeno in quel neonato, uomo e Dio sono una cosa sola. Almeno a Betlemme. «Gesù è il racconto della tenerezza del Padre» (Evangelii gaudium), per questo penso che la traduzione, libera ma vera, dei primi versetti del Vangelo di Giovanni, possa suonare pressappoco così: «In principio era la tenerezza, e la tenerezza era presso Dio, e la tenerezza era Dio… e la tenerezza carne si è fatta e ha messo la sua tenda in mezzo a noi». Il grande miracolo è che Dio non plasma più l’uomo con polvere del suolo, dall’esterno, come fu in principio, ma si fa lui stesso, teneramente, polvere plasmata, bambino di Betlemme e carne universale. A quanti l’hanno accolto ha dato il potere… Notiamo la parola: il potere, non solo la possibilità o l’opportunità di diventare figli, ma un potere, una energia, una vitalità, una potenza di umanità capace di sconfinare. «Dio non considera i nostri pensieri, ma prende le nostre speranze e attese, e le porta avanti» (Giovanni Vannucci). Nella tenerezza era la vita, e la vita era la luce degli uomini. Una cosa enorme: la vita stessa è luce. La vita vista come una grande parabola che racconta Dio; un Vangelo che ci insegna a sorprendere parabole nella vita, a sorprendere perfino nelle pozzanghere della terra il riflesso del cielo. Ci dà la coscienza che noi stessi siamo parabole, icone di Dio. Che chi ha la sapienza del vivere, ha la sapienza di Dio. Chi ha passato anche un’ora soltanto ad ascoltare e ad addossarsi il pianto di una vita è più vicino al mistero di Dio di chi ha letto tutti i libri e sa tutte le parole. Da Natale, da dove l’infinitamente grande si fa infinitamente piccolo, i cristiani cominciano a contare gli anni, a raccontare la storia. Questo è il nodo vivo del tempo, che segna un prima e un dopo. Attorno ad esso danzano i secoli e tutta la mia vita.
Padre Ermes Ronchi
-
– -
-
–
C. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi. T. E con il tuo spirito.
ATTO PENITENZIALE
C. Fratelli e sorelle, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati. Signore, che sei la pienezza di verità e di grazia, abbi pietà di noi. Signore, pietà. Cristo, che ti sei fatto povero per arricchirci, abbi pietà di noi. Cristo, pietà. Signore, che sei venuto a fare di noi il tuo popolo santo, abbi pietà di noi. Signore, pietà. C. Dio Onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. T. Amen.
Preghiamo: Dio, che in Cristo tuo Figlio hai rivelato a tutti i popoli la sapienza eterna, fa' risplendere su di noi la gloria del nostro Redentore, perché giungiamo alla luce che non ha tramonto. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio... T. .
padre e di avere tutti gli uomini come fratelli, preghiamo. 3. Per tutti noi, perché la nostra vita sia coerente con la nostra dignità di figli di Dio e la nostra condotta permetta anche a chi non crede di vedere in noi un riflesso della luce divina, preghiamo. 4. Per la nostra comunità: sappia sempre vedere negli anziani e nei bambini, nei sani e negli ammalati, in ogni uomo anche se straniero, gli appartenenti ad un'unica razza, quella dei figli di Dio, preghiamo. C. O Padre, che ci hai illuminati con la luce di Gesù e ci hai svelato la nostra dignità, aiutaci a vivere sempre come tuoi figli, e a vedere in ogni persona un nostro fratello. Per Cristo nostro Signore. T
Accogli, Signore, i nostri doni in questo misterioso incontro tra la nostra povertà e la tua grandezza: noi ti offriamo le cose che ci hai dato, e tu donaci in cambio te stesso. Per Cristo nostro Signore.
Fratelli e sorelle, nella gioia del Natale rivolgiamo la nostra preghiera al Padre, perché ci aiuti a ricevere il dono di vita che Gesù ci ha portato con la sua presenza in mezzo a noi. Preghiamo insieme e diciamo: Illuminaci con la tua parola, Signore! 1. Per la Chiesa di Dio: diffonda nel mondo la parola di Gesù che svela agli uomini la dignità di essere figli di Dio, preghiamo. 2. Per tutti i cristiani: perché comprendano e siano riconoscenti per il grande dono di avere Dio per
C. E' veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perchè conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all'amore delle realtà invisibili. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli, ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l'inno della tua gloria: Santo, Santo...
C. Preghiamo Accogli, Signore, i nostri doni in questo misterioso incontro tra la nostra povertà e la tua grandezza: noi ti offriamo le cose che ci hai dato, e tu donaci in cambio te stesso. Per Cristo nostro Signore.