ADESTE NR. 02 ANNO 9° Domenica 12 Gennaio 2020

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PerchÊ il suo culto è associato all'allevamento dei maiali?

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rivolgersi a Giobbe, il Creatore gli ricorda che non è l’uomo la prima delle sue creature, bensì la bestia, anzi le bestie, (è questo il significato del vocabolo ebraico behēmôt, identificato in antico con l’elefante, poi con l’ippopotamo e ora con il bufalo), “che io ho creato al pari di te… Esso è la prima delle opere di Dio” (Gb 40,15-19). Infatti, secondo l’ordine della creazione stabilito nel Libro della Genesi, prima sono creati gli animali e solo alla fine l’uomo (Gen 1,20-28). Di fronte all’esito della sua creazione, il Signore ne restò soddisfatto (“Dio vide che era cosa buona”), e benedì gli animali, esattamente come farà per l’uomo e la donna: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (Gen 1,21-22.28). Poi, sempre secondo la Genesi, il Creatore condusse gli animali all’uomo “per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Gen 2,19). Il Signore ha tanta stima nell’uomo da lui creato, che fa un passo indietro, non gli presenta la creazione già bella e fatta, ma gli chiede di collaborare. Non sarà il Creatore a imporre i nomi agli animali da lui creati, bensì l’uomo: “Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici” (Gen 2,20). L’azione dell’uomo di mettere un nome agli animali va al di là dell’ovvio chiamare un animale “pecora” e l’altro “leone”, uno “cammello” e l’altro “elefante”. Il nome nella cultura orientale è l’essenza stessa dell’essere, è quel che lo distingue e lo raffigura, è la sua stessa realtà. Pertanto imporre il nome, non indica solo qualificare il genere, ma l’identità. Ne sanno qualcosa i pastori del medio oriente. Quello che agli occhi di un occidentale appare semplicemente come un gregge, agli occhi del beduino, è invece un prolungamento della sua vita, quel che gli permette di esistere e per il quale ha rispetto e premura. Per questo, al momento della nascita dell’agnellino, il pastore, come Adamo, impone il nome al nascituro, e ognuno è diverso ai suoi occhi. L’occidentale vede il gregge, il pastore distingue “bianchino” da “batuffolo”, “furbetto” da “testardo”, “luce” da “malizia”… ogni pecora ha il suo nome che la contraddistingue per il comportamento. Così si comprende meglio l’affermazione di Gesù, il pastore ideale, che “chiama le sue pecore, ciascuna per nome” (Gv 10,3) e che è pronto a dare la sua vita per esse (Gv 10,11). L’intima relazione che si crea tra il

pastore e la sua pecora è descritta magistralmente nella Bibbia nella storia che il profeta Natan narrò al re Davide per rimproverarlo del suo delitto (2 Sam 11). Il profeta racconta di un povero che non aveva nulla “se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia” (2 Sam 12,1-3). No, non è un amore esagerato. Allevare un animale è imporgli un nome e trattarlo come un figlio. Quando si legge nel Libro della Genesi che il Signore ha affidato il creato all’uomo affinché lo domini (Gen 1,26), il dominio non ha il significato di sfruttamento o di sopraffazione, ma è l’atteggiamento del pastore che si prende cura del suo bestiame, garantendo il benessere di quel che gli è stato affidato, e collabora all’azione creatrice perché divenga quel che il Creatore ha pensato (“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio”, Rm 8,19). Gli animali sono doni del Signore e l’uomo è il loro custode, questi non vanno maltrattati ma curati, come il pastore con le sue pecore (“fascerò quella ferita e curerò quella malata”, Ez 34,16). Essendo stati creati prima dell’uomo gli animali hanno una storia evolutiva più ricca e per chi ha occhi per vedere, sono maestri di vita e di saggezza (Gesù non esita a invitare i discepoli a imparare dagli “uccelli del cielo”, Mt 6,26), e di fedeltà, come il cane, che insieme all’angelo Raffaele accompagna e segue Tobia nel suo lungo viaggio: “Il giovane partì insieme con l’angelo, e anche il cane li seguì e si avviò con loro; Il cane, che aveva accompagnato lui e Tobia, li seguiva” (Tb 6,1;11,4). L’autore sacro non ha esitato a mettere come fedeli compagni di viaggio di Tobia un angelo e un cane, chiamati entrambi a essere compagni di strada per l’uomo, e Gesù stesso si intenerisce di fronte all’immagine dei “cagnolini che mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt 15,27)


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ichiarata nel 2017 patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO, l’arte del pizzaiuolo napoletano è sicuramente una delle arti più amate dai buongustai italiani e non solo. L’opera realizzata da questi artisti, infatti, è uno dei prodotti alimentari più famosi della cucina italiana. Proprio alla pizza è dedicata la giornata mondiale di oggi, 17 gennaio. La scelta di questa data è da ricercare nelle tradizioni napoletane. Oggi infatti è anche la ricorrenza di Sant’Antonio Abate, considerato protettore dei fornai e dei pizzaioli: anticamente in questo giorno, le famiglie napoletane chiudevano le pizzerie per mezza giornata e si recavano in un ristorante a Capodimonte per accendere insieme un falò propiziatorio.

Così popolare e così amata, la pizza registra dei dati da record per quanto riguarda la produzione in Italia. Secondo ultimi dati rilevati dal Centro Studi Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) la produzione giornaliera in tutto il Paese è di 8 milioni di pizze, due miliardi l’anno. Sono quasi 127 mila le imprese che vendono pizza, tra esercizi di ristorazione, ristoranti-pizzerie e bar-pizzerie. I pizzaioli impiegati nell’attività sono quasi 105 mila, ma superano i 200mila nei fine settimana. La pizza tonda ha la meglio sugli altri formati ed è preferita in abbinamento con delle fritture. Per quanto riguarda invece i gusti scelti dagli italiani, la vetta del podio è occupata dalla classica e tradizionale margherita, che risulta essere la pizza più richiesta. Poi ci sono gli italiani che, volendo rimanere in parte fedeli alla tradizione, ordinano una “margherita più…”; ecco che ne derivano la margherita più prosciutto e funghi (che si piazza al secondo posto della classifica) e la margherita più tonno. Al terzo posto c’è poi la capricciosa, un must della pizza italiana. A seguire poi la pizza con il salame, che negli Stati Uniti è quella più ordinata a domicilio, la pizza bianca e la pizza con prodotti locali. Ognuno di noi, infatti, ha una pizza preferita, quella che, quando siamo seduti in pizzeria, dopo aver letto per filo e per segno gli ingredienti di tutte le pizze che il menù ci offre, rimane sempre e comunque la nostra scelta!


Nel 1897,

Gennaro Lombardi è un immigrato italiano trasferitosi da pochissimo negli Stati Uniti d’America. Lo conoscono già in molti perché ha inaugurato un negozio negli Usa, un piccolo panificio nella Little Italy di New York, dove insieme ad un suo dipendente, Antonio “Totonno” Pero, anche lui immigrato italiano, inizia a produrre “torte al pomodoro” da vendere ai clienti. La loro pizza diventa popolare e Lombardi non ci pensa due volte e in un Paese in cui da sempre vince la meritocrazia e non il lobbismo: apre la prima pizzeria americana. Tieniti forte. Siamo nel 1905 e si chiama semplicemente Lombardi. Sebbene Gennaro fosse influenzato dalle “torte di Napoli”, è costretto ad adattare la pizza agli americani, ai loro standard e alle loro regole. Non è l’ennesimo artista che, pur di fare soldi a palate, rinuncia alla sua unicità. Anzi, crea il capolavoro. Ma prima di arrivarci ci impiegherà un po’. E sbaglierà anche, come tutti. Lombardi sostituisce i forni a legna e la mozzarella di bufala con forni a carbone e fior di latte, e così, per “colpa” sua, inizia l’evoluzione della “torta” americana. Nel 1924, “Totonno” lascia la pizzeria Lombardi e segue le linee metropolitane di New York in espansione fino a Coney Island, a Brooklyn. Lì aprirà Totonno, nel 1924. Nel 1984, il figlio di Gennaro, George, chiude l’originale Lombardi, che riapre solo dieci anni dopo a un isolato di distanza, dove si trova attualmente, al numero 32 di Spring Street, gestito da Gennaro Lombardi III, nipote di Gennaro Lombardi, e dal suo amico di infanzia John Brescio. Purtroppo, questo cambiamento di ubicazione e una pausa di dieci anni non permettono alla “Lombardi’s Pizza di poter essere considerata la più antica pizzeria (ininterrotta) d’America, che risulta Papa’s Tomato Pies a Trenton, nel New Jersey, che però ha aperto nel 1912 e non si è mai fermata. Ma è certamente la prima pizzeria documentata dalla storia. Quella che inventò la pizza a New York. Dunque, ecco com’è arrivata la pizza a New York. E i newyorkesi impazziscono per la pizza. Un amore nato, quindi, più di un secolo fa, quando questo giovane immigrato napoletano aprì la prima pizzeria nella capitale economica degli Usa. Il vizio del panettiere che ama preparare la pizza per i suoi connazionali dal forno a carbone della sua bottega, però, gli ha consentito di creare un impero economico che ancora oggi è gettonatissimo. Da allora, dopo più di cento anni di storia e un cambio di gestione, la pizzeria Lombardi è ancora lì, nel cuore di Little Italy. Ora il forno è di nuovo a carbone e la pizza non è la torta americana. Lì sventola ancora il tricolore col cornicione croccante. Un’altra curiosità. Una simpatica “chicca” sul comportamento tipico degli italiani del dopoguerra. Sì, perché solo nel dopoguerra la pizza arriva finalmente in Italia. “Come i blue jeans e il rock and roll, il resto del mondo, compresi gli italiani, ha preso in considerazione la pizza solo perché era americana”, ha raccontato il critico gastronomico John Mariani, autore di ” How Italian Food Conquered the World. Ed è vero. Inventata a Napoli per la regina, snobbata e ignorata dagli italiani, ma ripresa in considerazione perché adorata in America.


scavato un passaggio nel giardino di casa ed è fuggito a Capodanno. Fino a ieri di lui, Erick, un magnifico esemplare razza collie di 4 anni, non c’era più traccia. L’hanno ritrovato vicino all’obitorio dell’ospedale di Costa, dove si trova la salma del suo padrone, l’architetto Flavio Franco, morto nei giorni scorsi. Una storia straordinaria e commovente, che merita di essere raccontata. FUGA E DISPERAZIONE «Erick era scappato il 1. gennaio dalla nostra casa in centro a Vittorio racconta visibilmente emozionata Laura, figlia di Flavio- Ha vagato tra Cozzuolo, Carpesica, Ogliano, San Fior, Colle Umberto e Anzano. Lo abbiamo cercato giorno e notte trovandolo vicino all’ospedale dove èstato riposto il corpo di mio papà in attesa del funerale che verrà celebrato oggi alle 15.30 nella chiesa di Salsa». «Sono stati giorni tristissimi per tutta la famiglia -racconta- Papà era ricoverato all’hospice e mamma lo assisteva costantemente». Poi l’architetto è mancato improvvisamente. La notizia si era subito sparsa in città dove il professionista era conosciuto e stimato e dove per oltre quarant’anni ha firmato molti progetti in campo urbanistico ed edilizio. Insegnante di disegno alle medie e all’istituto d’arte aveva partecipato attivamente anche alla vita politica come consigliere comunale a sostegno di Gianantonio Da Re, candidato sindaco nel 2014. Franco aveva ricoperto anche degli incarichi all’interno dell’ordine degli architetti di Treviso. LA VIGILIA DI NATALE Il collie ha probabilmente capito che qualcosa non andava quando ha visto l’ambulanza portare via il suo padrone la vigilia di Natale. «Ci siamo accorti della fuga di Erick il primo di gennaio e abbiamo subito segnalato la scomparsa in un gruppo Facebook di Vittorio Veneto. Le segnalazioni sono arrivate subito e ci hanno permesso di ricostruire il suo “itinerario”, tuttavia non riusci-

vamo mai ad arrivare in tempo. Credo fosse spaventato» riprende Laura. Erick è stato avvistato prima in zona duomo, poi a Cozzuolo, Carpesica, Ogliano. Da lì è sceso attraversando il trafficato Menarè per risalire verso Colle Umberto. Poi è stato visto ad Anzano e ieri sera la sua presenza è stata segnalata nei pressi dell’ospedale di Costa. Laura si è subito precipitata sul luogo con la madre e l’altro cane di famiglia, un pastore tedesco. Quando Erick l’ha riconosciuta ed è riuscito a vincere diffidenza e paura, le si è gettato fra le braccia. «Quando l’ho trovato continua Laura- mi sono girata e ho visto alle mie spalle l’obitorio dove era stato portato papà. Mi sono venuti i brividi lungo la schiena. Erick ha fatto tutta questa strada in cinque giorni ed è arrivato fino al luogo dove c’era il suo amato padrone». NOBILI SENTIMENTI Una storia che non può non commuovere anche chi non conosce a fondo gli animali. I cani riescono sempre a meravigliarci con le loro dimostrazioni di affetto e chi ne possiede uno sa quanto importanti possano essere nell’ambito familiare, tanto da essere considerati membri della famiglia a tutti gli effetti. Episodi che fanno riflettere e invitano a meditare su come i nostri amici a quattro zampe riescano a entrare in comunione con i nostri sentimenti, a condividerli e a lasciare un enorme vuoto quando se ne vanno. Basti pensare ai compiti svolti da cani guida, da cani bagnino, da cani impiegati in mille modi per aiutare l’uomo nelle cose di ogni giorno, negli ospedali, nella ricerca di persone sotto le macerie durante gli eventi sismici. La storia che Laura ha voluto condividere insegna che loro sono amici per sempre. E che sono capaci di nobili sentimenti, insegnano ad amare e per un po’ di affetto danno la vita.


I have a drean


ricordo ancora la sera in cui scoprii che Babbo Natale non esisteva… Mio padre aveva uno scrittoio in mogano, che si chiudeva a chiave, dove conservava i suoi documenti. Un pomeriggio di dicembre, passandoci davanti, mi accorsi che era rimasto aperto e non potei non dare una sbirciatina; credevo nascondesse chissà quali segreti. Alla fine mi accorsi che c'era soltanto un cumulo di carte ma sotto alcuni fogli riconobbi una mia lettera, non una lettera qualsiasi ma la lettera che avevo scritto per Babbo Natale. Non capivo come fosse finita lì, visto che l'avevamo spedita insieme e sotto la prima mi resi conto che c'erano anche tutte quelle degli anni passati. Molti dei miei compagni mi avevano già detto che Babbo Natale era soltanto una leggenda ma in quel momento mi sembrò che il mondo mi cadesse addosso. Fu un attimo, sentii i passi di mio padre avvicinarsi e corsi via, avrei voluto parlargli, dirgli tante cose ma feci finta di nulla. Quella sera usciamo insieme, io ero stranamente silenzioso, lui mi chiese più di una volta che cosa avessi ma io trovai sempre delle scuse banali. Mentre eravamo in giro per commissioni, mio padre vide una persona anziana che portava delle buste della spesa, si fermò con l'auto, prese le buste, mettendole nel portabagagli e la accompagnò a casa. Ricordo ancora oggi il sorriso di gratitudine di quell'uomo. Non parlai a mio padre di quella mia scoperta, non ne parlai mai anche quando lo vidi tante e tante volte aiutare gli altri con gesti semplici e delicati perché in quella sera fredda avevo capito che la magia non è un abito rosso o una slitta volante, la vera magia è avere un cuore che sa donare. Sono passati 35 anni da quella notte di dicembre, 7 da quando il suo cuore ha smesso di battere e donare. A quello scrittoio ora ci sono seduto io, sotto vari documenti ogni anno conservo la lettera che mia figlia scrive a Babbo Natale. Il mio sogno più grande è che un giorno lei possa pensare di me ciò che io ho pensato sempre di mio padre. -Massimo Lo Pilato


…..L’integrazione è un lavoro molto difficile (...). Ricevere, accogliere, consolare e subito integrare. Quello che manca è proprio l’integrazione. Ogni Paese allora deve vedere quale numero è capace di accogliere. Non si può accogliere se non c’è possibilità di integrazione».

Capire è mettersi nelle scarpe degli altri «È molto faticoso mettersi nelle scarpe degli altri, perché spesso siamo schiavi del nostro egoismo. A un primo livello possiamo dire che la gente preferisce pensare ai propri problemi senza voler vedere la sofferenza o le difficoltà dell’altro. C’è un altro livello però. Mettersi nelle scarpe degli altri significa avere grande capacità di comprensione, di capire il momento e le situazioni difficili. Faccio un esempio: nel momento del lutto si porgono le condoglianze, si partecipa alla veglia funebre o alla messa, ma sono davvero pochi coloro che si mettono nelle scarpe di quel vedovo o di quella vedova o di quell'orfano. Certo non è facile. Si prova dolore, ma poi tutto finisce lì. Se pensiamo poi alle esistenze che spesso sono fatte di solitudine, allora mettersi nelle scarpe degli altri significa servizio, umiltà, magnanimità, che è anche l’espressione di un bisogno. Io ho bisogno che qualcuno si metta nelle mie scarpe. Perché tutti noi abbiamo bisogno di comprensione, di compagnia e di qualche consiglio. Quante volte ho incontrato persone che, dopo aver cercato conforto in un cristiano, sia esso un laico, un prete, una suora, un vescovo, mi dice: «Sì, mi ha ascoltato, ma non mi ha capito». Capire significa mettersi le scarpe degli altri. E non è facile. Spesso per supplire a questa mancanza di grandezza, di ricchezza e di umanità ci si perde nelle parole. Si parla. Si parla. Si consiglia. Ma quando ci sono solo le parole o troppe parole non c’è questa “grandezza” di mettersi nelle scarpe degli altri».

«Io figlio di migranti» «Non mi sono mai sentito sradicato. In Argentina siamo tutti migranti. Per questo laggiù il dialogo interreligioso è la norma. A scuola c’erano ebrei che arrivavano in maggior parte dalla Russia e musulmani siriani e libanesi, o turchi con il passaporto dell’Impero ottomano. C’era molta fratellanza. Nel Paese c’è un numero limitato di indigeni, la maggior parte della popolazione è di origine italiana, spagnola, polacca, mediorientale, russa, tedesca, croata, slovena. Negli anni a cavallo dei due secoli precedenti il fenomeno migratorio è stato di enorme portata. Mio papà era ventenne quando è arrivato in Argentina e lavorava alla Banca d’Italia, si è sposato là».

Cosa manca a papa Francesco di Buenos Aires «C’è soltanto una cosa che mi manca tanto: la possibilità di uscire e andare per strada. Mi piace andare in visita alle parrocchie e incontrare la gente. Non ho particolare nostalgia. Vi racconto invece un altro aneddoto: i miei nonni e mio papà avrebbero dovuto partire alla fine del 1928, avevano il biglietto per la nave Principessa Mafalda che affondò al largo delle coste del Brasile. Ma non riuscirono a vendere in tempo quello che possedevano e così cambiarono il biglietto e si imbarcarono sulla Giulio Cesare il 1 febbraio del 1929. Per questo sono qui».


marinaio più famoso dei fumetti apparve per la prima volta nella striscia Thimble Theatre, ideata dal disegnatore statunitense Elzie Crisler Segar e pubblicata sul quotidiano King Features. Braccio di ferro (Popeye nella versione originale) fece subito breccia nei cuori di piccoli e grandi lettori, diventando negli anni uno dei personaggi immaginari più popolari di sempre. Guercio, dotato di due poderosi avambracci tatuati entrambi con un'ancora e accompagnato dall'inseparabile pipa, il nuovo eroe dei fumetti non ha una grande cultura ma un cuore generoso. Ogniqualvolta c'è un amico in difficoltà, in special modo l'amata Olivia (magrissima e dalla voce stridula), fa appello alla sua forza fisica che si centuplica grazie a un energetico molto originale: gli spinaci! Alla sua prima apparizione, in realtà, la serie esisteva già da dieci anni e il protagonista era Dante Bertolio (Castor Oyl), fratello maggiore di Olivia, un ometto di piccola statura ma alquanto autoritario e saccente nei modi. Costui, inizialmente, si mette in società con Braccio di ferro aprendo un'agenzia investigativa, salvo poi separarsi e lasciare il ruolo di protagonista al marinaio, il cui nome, anni dopo, sostituì quello originario della striscia. L'enorme successo portò la serie, all'inizio degli anni Trenta, ad arricchirsi di nuovi personaggi. Tra questi l'inseparabile amico Poldo Sbaffini (scroccone e ghiottissimo di hamburger), il rivale Bluto (noto anche come Bruto, marinaio attaccabrighe dalla barba nera che insidia Olivia), il figlio adottivo Pisellino (che riceve via posta in un pacco) e il padre Braccio di legno. Rispetto alla versione italiana più addolcita, il Braccio di ferro originale si presentava spesso come una feroce satira verso la politica e i potenti, mentre i personaggi si esprimevano con un linguaggio più rozzo e con accento sguaiato. Per queste ragioni finì nel mirino della censura, in particolare per le posizioni "abortiste" dell'autore. Nel 1933 arrivò il debutto al cinema nel corto animato "Betty Boop Meets Popeye the Sailor", che lo vedeva affiancato alla celebre Betty, una delle prime eroine sexy dei cartoon. Di qui il personaggio di Segar continuò a esistere parallelamente sia sulla carta stampata - grazie a disegnatori famosi come Bud Sagendorf (assistente di Segar), Bobby London e Hy Eisman - sia sul piccolo che sul grande schermo. Oltre a numerose serie di cartoni animati, nel 1980 ispirò un film diretto da Robert Altman con protagonista un giovanissimo Robin Williams.


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i racconta degli uomini che morivano presto, perché il lavoro in cava fa male ai polmoni. Dei contadini che dovettero rinunciare alla cittadinanza italiana per avere la terra. Di una comunità unita, laboriosa e tranquilla. A Greci, in tutti questi anni, si ricorda solo di un divorzio, lo dice con un certo orgoglio. Adesso, il paese in totale ha circa 3000 abitanti. Non vuole dire quanti anni ha ed è giusto così, è un vezzo che le dobbiamo concedere. Ammette solo di aver passato i settanta. Suo marito è romeno, anche lui ha problemi di salute da parecchio tempo, anche se non ha lavorato in cava. Ha due figlie: una vive negli Stati Uniti e l’altra a Bucarest, dove è presidente del WWF Romania. A Greci c’era una scuola italiana, anni fa, ma ora è diventato un asilo, frequentato da tutti i bambini del paese. Bambini che sono sempre meno, purtroppo. Otilia fino all’anno scorso si occupava di un gruppo folkloristico di bambini, ma ora non più. Fa una piccola pausa, la voce rotta dall’emozione. Mancano i bambini, e mancano anche i soldi. Ma poi la voce torna serena. La vita è così, sembra dire Otilia. Ha le sue regole, che sono regole semplici in fondo. Il tempo è passato e bisogna accettarlo. Girando per Greci la prima cosa che colpisce è che le strade sono quasi tutte sterrate. Fa impressione pensare che, con tutto il granito che è stato estratto in questa zona, neanche una pietra è rimasta qui per pavimentare le strade. Chissà cosa succede d’inverno, ci diciamo parlando tra noi. Qui dormiremo in famiglia, divisi in piccoli gruppetti. Io, con Vanna e Maura, vengo sistemato nella dependance della casa del fratello del sindaco, una bella casa, devo dire. Cecilia dormirà da Otilia, altri dal parroco con la sua perpetua. Ci avviamo verso il parco naturale delle montagne di Macin, dove passeremo il resto del pomeriggio. Le montagne di Macin sono le più antiche in Romania, formatesi per orogenesi ercinica, il processo che ha contribuito alla formazione delle montagne europee in seguito alla collisione continentale avvenuta nel tardo paleozoico, circa 300 milioni di anni fa, che diede origine al supercontinente Pangea. Qui la steppa è interrotta dai boschi di querce, faggi e frassini che punteggiano i pendii delle colline. Nel parco ci sono 1300 specie di piante, su 2000 totali in Romania, e 1000 specie di farfalle. La guida del parco ci fa una breve introduzione in inglese, all’interno del museo, ma Otilia ogni tanto lo corregge: sembra saperne più di lui… Dopo di che ci facciamo una breve passeggiata nel parco, fino a una radura da dove si gode una bella vista. Negli ultimi anni il parco ha vissuto un notevole sviluppo turistico. Sono molti i romeni che vengono qui per apprezzarne la natura, gli itinerari escursionistici e quelli cicloturistici.


scena grandiosa del battesimo di Gesù, con il cielo squarciato, con il volo ad ali aperte dello Spirito sulle acque del Giordano, con la dichiarazione d'amore di Dio, è accaduta anche al mio battesimo e accade ancora a ogni quotidiana ri-

partenza. La Voce, la sola che suona in mezzo all'anima, ripete a ciascuno: tu sei mio figlio, l'amato, in te ho posto il mio compiacimento. Parole che ardono e bruciano: figlio mio, amore mio, gioia mia. Figlio è la prima parola. Figlio è un termine potente sulla terra, potente per il cuore dell'uomo. E per la fede. Dio genera figli secondo la propria specie, e io e tu, noi tutti abbiamo il cromosoma del genitore nelle nostre cellule, il Dna divino in noi. Amato è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima che tu dica «sì», che tu lo sappia o no, ogni giorno, ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è «amato». Di un amore che ti previene, che ti anticipa, che ti avvolge a prescindere da ciò che oggi sarai e farai. Amato, senza se e senza ma. La salvezza deriva dal fatto che Dio mi ama, non dal fatto che io amo lui. E che io sia amato dipende da Dio, non dipende da me! Per fortuna, vorrei dire; o, meglio, per grazia! Ed è questo amore che entra, dilaga, avvolge e trasforma: noi siamo santi perché amati. La terza parola: Mio compiacimento. Termine desueto, inusuale eppure bellissimo, che nel suo nucleo contiene l'idea di piacere. La Voce grida dall'alto del cielo, grida sul mondo e in mezzo al cuore, la gioia di Dio: è bello con te, figlio mio; tu mi piaci; stare con te mi riempie di gioia. La potenza del battesimo è detta con il simbolo vasto delle acque che puliscono, dissetano, rinfrescano, guariscono, fanno germogliare i semi; con lo Spirito che, insieme all'acqua, è la prima di tutte le presenze nella Bibbia, in scena già dal secondo versetto della Genesi: «Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque». Una danza dello Spirito sulle acque è il primo movimento della storia. Da allora lo Spirito e l'acqua sono legati a ogni genesi, a ogni nascita, a ogni battesimo, a ogni vita che sgorga. Noi pensiamo al rito del battesimo come a qualche goccia d'acqua versata sul capo del bambino. La realtà è grandiosa: nella sua radice battezzare significa immergere: «Siamo immersi in un oceano d'amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). Io sono immerso in Dio e Dio è immerso in me; io nella Sua vita, Lui nella mia vita; «stringimi a te, stringiti in me» (G. Testori). Sono dentro Dio, come dentro l'aria che respiro, dentro la luce che mi bacia gli occhi; immerso in una sorgente che non verrà mai meno, inabissato in un grembo vivo che nutre, fa crescere e protegge: battezzato. Padre Ermes Ronchi


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mo nel Giordano, di vivere come fedeli imitatori del tuo Figlio prediletto, in cui il tuo amore si compiace. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. T. .

C. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi. T. E con il tuo spirito.

ATTO PENITENZIALE

C. Fratelli e sorelle, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati. Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro. Signore, pietà. Signore, pietà. Cristo, pietà. Cristo, pietà. Signore, pietà. Signore, pietà C. Dio Onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. T. Amen.

Preghiamo: Padre d'immensa gloria, tu hai consacrato con potenza di Spirito Santo il tuo Verbo fatto uomo, e lo hai stabilito luce del mondo e alleanza di pace per tutti i popoli; concedi a noi che oggi celebriamo il mistero del suo battesi-


ché l’incontro con te ci permetta di affrontare le prove della vita con la consapevolezza di essere dei salvati. Preghiamo. C. O Padre, alle volte anche le nostre preghiere sono inquinate dalla pretesa di far girare il mondo così come lo vogliamo noi. Ma tu sai che nelle nostre parole di oggi c’è l’autenticità di chi spera in te, di chi ti ama, di chi vuole ciò che tu vuoi. Ascoltaci, te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. T

Fratelli e sorelle, uniti nella gioia di chi si sente amato da Dio, nella speranza di una vita compiuta, nell’attesa della manifestazione gloriosa di Cristo, chiediamo al Padre che ascolti le nostre umili preghiere. Preghiamo dicendo: Ascoltaci Signore. 1. Manda il tuo Spirito, o Signore, affinché gli uomini sappiano discernere quali vie portano alla schiavitù del peccato e quali invece alla pienezza dell’incontro con te. Preghiamo. 2. Dacci il coraggio e la forza, Signore, per intessere la nostra vita di opere buone, conformi alla tua volontà e al tuo disegno d’amore sul mondo. Preghiamo. 3. Fa, o Padre, che la Chiesa sappia operare nella storia e aprirti una strada nel deserto del mondo, per collaborare alla realizzazione del tuo Regno. Preghiamo. 4. Tuo Figlio, Signore, si è fatto uomo, povero tra i poveri. Non ha disdegnato la compagnia degli ultimi. Rendi anche noi solidali con i poveri, affinché tutti gli uomini si sentano fratelli. Preghiamo. 5. Padre, infondi in ogni uomo, ed in particolare in chi soffre, la gioia di chi si sente amato, per-

C. È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Nel Battesimo di Cristo al Giordano tu hai operato segni prodigiosi per manifestare il mistero del nuovo lavacro: dal cielo hai fatto udire la tua voce, perché il mondo credesse che il tuo Verbo era in mezzo a noi; con lo Spirito che si posava su di lui come colomba hai consacrato il tuo Servo con unzione sacerdotale, profetica e regale, perché gli uomini riconoscessero in lui il Messia, inviato a portare ai poveri il lieto annunzio. E noi, uniti alle potenze dei cieli, con voce incessante proclamiamo la tua lode: Santo, Santo, Santo

Preghiamo Dio misericordioso, che ci hai nutriti alla tua mensa, concedi a noi tuoi fedeli di ascoltare come discepoli il tuo Cristo, per chiamarci ed essere realmente tuoi figli. Per Cristo nostro Signore. .


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