ADESTE NR. 48 Domenica 01 Dicembre 2019

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La Romania celebra la festa nazionale 1 dicembre del 1918, la Transilvania si univa con il Regno di Romania, dopo l’Assemblea dei 1228 delegati riuniti ad Alba-Iulia (città nel centro del Paese) che si pronunciarono per l’unificazione, e così si concludeva praticamente il processo di unione delle province storiche abitate da una maggioranza romena. Dal 1990, dopo il crollo della dittatura comunista, il 1 Dicembre è stata celebrata la Festa Nazionale della Romania. L’atto politico è stato il risultato della politica estera romena e della partecipazione della Romania alla Prima Guerra Mondiale, tra il 1916 e il 1918, accanto alla Francia, Inghilterra, Russia e agli Stati Uniti. Nel contesto dello smembramento degli imperi multinazionali, ottomano e asburgico, della rivoluzione bolscevica in Russia e della proclamazione del presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson sui diritti delle nazioni, sulle rovine di questi imperi nacquero nuovi stati nazionali. “Avevamo ormai quello che fu chiamato la Grande Romania. Un paese che aveva più che raddoppiato la sua superficie e popolazione e che includeva la maggioranza dei parlanti di lingua romena”, ricordava lo storico Neagu Djuvara. È vero, il territorio e la popolazione della Romania raddoppiarono in seguito all’unione delle province storiche fino a 300 mila km quadri e oltre 14 milioni di abitanti. Gli etnici romeni restavano decisamente maggioritari- il 72% del totale della popolazione- mentre fra le comunità minoritarie, stabilite, nel frattempo, nelle province annesse di recente, le più numerose erano quella dei magiari- circa l’8%- quella dei tedeschi- il 4%- e quella degli ebrei- sempre il 4%. I momenti storici più rilevanti fino al 1918 furono l’unione del 1859 degli stati feduali Moldova e Valacchia, diventati Principati, l’indipendenza della Romania conseguita in seguito alla guerra del 1877-1878 e la sua trasformazione, nel 1881, in Regno. Dopo l’Unione del 1918- evento definito, nella storiografia dell’epoca, ora astrale della Romania- lo stato nazionale unitario subì importanti perdite territoriali in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1940, all’inizio della nuova conflagrazione mondiale e dopo che le sue alleanze tradizionali con le democrazie occidentali, Francia e Gran Bretagna, diventarono caduche, la Romania fu costretta, sotto la pressione simultanea della Berlino nazista e della Mosca stalinista, ma anche a causa delle proprie debolezze, a cedere ai suoi vicini, in parte definitivamente, circa un terzo del suo territorio nazionale. Seguirono 4 anni di guerra e quasi metà secolo di dittatura comunista, i cui orrori oscurarono il momento di grazia della Grande Unione


nacque probabilmente a Pàtara di Licia, in Asia Minore (attuale Turchia), tra il 260 e il 280, da Epifanio e Giovanna che erano cristiani e benestanti. Fu cresciuto cristianamente, quindi, ma perse prematuramente i genitori a causa della peste. Divenne così erede di un ricco patrimonio che impiegò per aiutare i bisognosi. Si narra che Nicola, venuto a conoscenza di un ricco uomo decaduto che voleva avviare le sue tre figlie alla prostituzione perché non poteva degnamente maritarle, abbia preso una buona quantità di denaro, lo abbia avvolto in un panno e, di notte, l’abbia gettato nella casa dell’uomo, che così poté onestamente sposare le figlie. In seguito lasciò la sua città natale e si trasferì a Myra dove venne ordinato sacerdote. Alla morte del vescovo metropolita di Myra, venne acclamato dal popolo come nuovo vescovo. Un’altra leggenda non fa riferimento alle figlie del ricco decaduto, ma narra che Nicola, già vescovo, resuscitò tre bambini che un macellaio malvagio aveva ucciso e messo sotto sale per venderne la carne. Anche per questo episodio S. Nicola è venerato come protettore dei bambini. Imprigionato ed esiliato nel 305 da Diocleziano, fu poi liberato da Costantino nel 313 e riprese l’attività apostolica. Non è certo che sia davvero stato uno dei 318 partecipanti al Concilio di Nizza del 325, durante il quale avrebbe condannato duramente l’arianesimo, difendendo la verità cattolica, ma la leggenda ci tramanda che in un momento d’impeto prese a schiaffi Ario. Gli scritti di S. Andrea di Creta e di S. Giovanni Damasceno ci confermano l’ortodossa fede di Nicola. Nicola si occupò

anche del bene dei suoi concittadini, ottenne dei rifornimenti durante una carestia e ottenne la riduzione delle imposte dall’Imperatore. Morì a Myra il 6 dicembre, presumibilmente nell’anno 343, forse nel monastero di Sion, e già allora si diceva compisse miracoli; tale convinzione si consolidò dopo la sua morte, con il gran numero di leggende che si diffusero ampiamente in Oriente, a Roma e nell’Italia meridionale. Le sue spoglie furono conservate con grande devozione di popolo, nella cattedrale di Myra fino al 1087. Grande è la venerazione a lui tributata dai cristiani ortodossi. Quando Myra cadde in mano musulmana, Bari (al tempo dominio bizantino) e Venezia, che erano dirette rivali nei traffici marittimi con l’Oriente, entrarono in competizione per il trafugamento in Occidente delle reliquie del santo. Una spedizione barese di 62 marinai, tra i quali i sacerdoti Lupo e Grimoldo, partita con tre navi di proprietà degli armatori Dottula, raggiunse Myra e si impadronì delle spoglie di Nicola che giunsero a Bari il 9 maggio 1087 : Nicola di Myra diventa, così, Nicola di Bari. Dopo la collocazione provvisoria in una chiesa cittadina, il 29 settembre 1089, le spoglie di Nicola trovano sistemazione definitiva nella cripta, già pronta, della basilica che si sta innalzando in suo onore. È il Papa in persona, Beato Urbano II (Ottone di Lagery, 1088-1099), a deporle sotto l’altare della cripta. Da allora S. Nicola divenne patrono di Bari e le date del 6 dicembre (giorno della morte del santo) e 9 maggio (giorno dell’arrivo delle reliquie) furono dichiarate festive per la città. S. Nicola è famoso anche al di fuori del mondo cristiano perché la sua figura ha dato origine al mito di Santa Claus (o Klaus), conosciuto in Italia come Babbo Natale.


L'INVENZIONE DI BABBO NATALE Il passaggio da San Nicola a Santa Klaus e Babbo Natale avviene in circa 900 anni. La storia racconta che la leggenda di Babbo Natale è arrivata sulle coste americane sin dalle origini dai Paesi Bassi, perché l'isola di Manhattan era olandese, prima di essere ceduta agli inglese. New York in origine era Nuova Amsterdam. E olandese è la tradizione del Sinterklass: un vescovo, vestito di rosso, con la barba bianca che si cala dai camini per portare i doni ai bambini. Sinterklass significa San Nicola e a lui è dedicata una delle prime chiese di Manhattan nel 1642. L'originale era, dunque, San Nicola poi evolutosi nei vari Sinterklass, Santa Claus e, passando per la fantasia letteraria dello scrittore Washington Irving nel 1809 e di Clemente Clark Moore nel 1822, a Babbo Natale come è da noi conosciuto. Al di là della strumentalizzazione consumistica, San Nicola trasmette ancora oggi un richiamo attualissimo sulla destinazione sociale dei beni. QUELL'OPERAZIONE COMMERCIALE Nel 1931 l'economia mondiale naviga in acque agitate. Crisi di liquidità delle banche, 14 milioni di disoccupati solo negli Usa, crollo di industrie che sembravano inaffondabili, agricoltori sul lastrico. La Coca Cola ha necessità di lanciare una nuova bibita in un contesto poco propenso al consumo. Secondo lo scrittore Nicola Lagioia, l'azienda ridisegna la figura di Santa Claus, cancellando “dai propri messaggi qualunque sfumatura aggressiva o consolatoria”, per focalizzare l'attenzione “sull'illusione di un mondo sospeso in cui una tiepida ma infinita gioia di vivere occupasse ogni spazio disponibile”. La Coca Cola, inoltre, per la prima volta si affaccia sulla grande distribuzione e può essere acquistata in confezioni da sei bottiglie nei supermercati. Punta a catturare l'attenzione di chi orienta gli acquisti: i figli. Occorre educarli al consumo. All'inizio lo fa con la sponsorizzazione dei programmi scolastici, mentre la campagna pubblicitaria vera e propria è affidata a Archie Lee e Haddon Sundblom. I due esperti di marketing devono evitare di rivolgersi direttamente ai bambini, perché la Coca Cola contiene caffeina. “L'espediente – scrive Nicola Lagioia nel libro Babbo Natale (Fazi Editore) – fu quello di arruolare un messaggero, un tramite, un intermediario tra infanzia e mondo degli adulti che fosse in grado di catalizzare, con la sua semplice presenza, l'immaginazione e i desideri dei bambini”. Il Babbo Natale creato fa convivere l'aura di essere soprannaturale con l'estetica dell'uomo comune. Sundblom lavora su un Babbo Natale del 1862 dandogli le sembianze del vicino di casa, un commesso viaggiatore. “Per far sognare la gente – spiega Lagioia – nel modo più sereno e rassicurante possibile bisognava pescare in una fondamentale intersezione tra realtà e mondo immaginario, vale a dire nell'ideale, perennemente in fieri, che una cultura ha di sé stessa”.


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nche il messaggio di quest’anno, per la terza Giornata mondiale, ci ha folgorato: “La speranza dei poveri non sarà mai delusa”. Che fermezza nel condannare il nostro modo di guardare a queste persone: «Giudicati spesso parassiti della società, ai poveri non si perdona neppure la loro povertà»; e le nostre azioni: «Si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre». Anche quest’anno, insieme a tante associazioni e opere di carità in Romania, abbiamo seguito Papa Francesco. La messa, celebrata dal Nunzio Apostolico Miguel Maury Buendia, presso la parrocchia di San Francesco di Assisi a Bucarest, è stata partecipatissima con oltre 200 persone che poi si sono fermate anche al pranzo. Un pranzo ricchissimo, organizzato eccellentemente dagli amici della Papa Giovanni XXIII in collaborazione con la Banca degli alimenti, la Caritas, i frati della Carità, la congregazione Don Orione, i frati Maristi, la comunità di Sant’Egidio, e i nostri amici del movimento. Gli antipasti, la pasta al ragù, lo spezzatino con polenta, le cotolette e le alette di pollo, e i dolci fatti in casa sono stati spolverizzati. A seguire, ci sono stati momenti di gioco per tutti. Alcuni sono rimasti in parrocchia con le persone più anziane, noi e i volontari della Papa Giovanni XXIII (arrivati in 20 apposta dall’Italia per questa Giornata) siamo andati presso l’Opera dei frati Maristi che accoglie 30 bambini abbandonati e abbiamo giocato tutto il pomeriggio. Che giornatona! Che grazia! Come ci ha ricordato Papa Francesco nel suo messaggio, e come ci ha richiamato il Nunzio durante la predica prima di porgerci i saluti del Santo Padre, la strada è semplice: «Basta fermarsi, sorridere, ascoltare». Io mi porto dentro al cuore in modo indelebile questa esperienza: «I poveri ci salvano perché ci permettono di incontrare il volto di Gesù Cristo». È stato evidente per me nel momento del Tatal Nostru, il Padre nostro, durante la Messa: in quel momento tutti, proprio tutti, anziani, senzatetto, bambini, disabili, hanno pregato insieme: si è sentita una voce sola, certa e forte. In quel momento mi sono commossa. Il Padre Nostro è veramente la preghiera del povero, e il povero è l’uomo della fiducia, perché è certo! Accompagnati dal nostro Nunzio, abbiamo vissuto l’esperienza di un popolo certo in cammino.

Simona, Bucarest (Romania) (Comunione e Liberazione)


“Quando fummo bombardati avevo 14 anni ed ero

A r accontar e la sua esperienza al Papa è stato un sopr avvissuto, Yoshiko Kajimoto. “ uno studente di terza media”.

All’epoca mi trovavo a 2,3 chilometri al nord dell’epicentro, e lavoravo nella produzione di parti per le eliche degli aeroplani”, ha esordito Yoshiko: “Nel momento in cui una luce blu ha attraversato la finestra, ho subito pensato a una bomba. Poi la fabbrica è rumorosamente crollata ed io sono svenuto. Sono rinvenuto tra le grida dei miei compagni, ma era buio e non riuscivo a muovermi perché ero sepolto sotto le macerie. Mi sono reso allora conto che un’amica era sepolta sotto di me, quindi l’ho chiamata per vedere se era viva. Ho provato a scappare, ma avevo il piede bloccato da un legno. Quando finalmente sono riuscito a liberarmi, il mio stinco era ferito e sanguinavo abbondantemente. Quando sono uscito, ho visto che tutti gli edifici circostanti erano stati distrutti. Era buio come se fosse già sera e puzzava come di pesce marcio. Presto nel quartiere scoppiò un incendio e i compagni che non potevano camminare furono evacuati su delle barelle. Io stesso ho aiutato portandone una. Lungo la strada, c’erano persone che camminavano fianco a fianco come fantasmi; persone il cui corpo

era così bruciato che non riuscivo a differenziarli tra uomini e donne, i capelli dritti, i volti gonfi, le labbra pendenti, con entrambe le mani tese e con la pelle bruciata che penzolava”. “Nessuno in questo mondo può immaginare una simile scena infernale”, ha commentato Kajimoto: “Nei giorni seguenti i cadaveri iniziarono a marcire e un fumo bianco avvolgeva tutto: Hiroshima era diventata un forno crematorio. Per molto tempo non sono riuscito a rimuovere il cattivo odore dal mio corpo e dai miei vestiti. Tre giorni dopo, sulla strada di casa, ho incontrato per caso mio padre. Mi aveva cercato per tre giorni, e supponeva che fossi morto. Ero realmente felice. Tuttavia, mio padre era stato esposto alle radiazioni e dopo un anno e mezzo cominciò a vomitare sangue e morì. Quando arrivai a casa avevo la febbre alta e mi sanguinavano molto le gengive. Mia madre è morta a causa degli effetti della bomba atomica dopo averne sofferto per venti anni. Due terzi del mio stomaco mi sono stati rimossi a causa del cancro nel 1999. La maggior parte dei miei amici sono morti a causa del cancro. Inoltre, a causa delle radiazioni, 74 anni dopo soffro di leucemia e cancro. Lavoro duro per testimoniare che non dobbiamo mai più usare tali terribili bombe atomiche né permettere che nessuno al mondo debba sopportare tale sofferenza”.


ggi alle 15 ad Agrate Brianza verrà dato l’ultimo saluto a Mino Reitano, mancato a 64 anni dopo una lunga malattia affrontata «in nome della fede». Già, la fede: assieme a famiglia e musica era per lui un punto di riferimento. Mino era un uomo buono e semplice. Che una volta ci disse, a motivare l’enfasi con cui accettava troppe situazioni tv da strapaese: «Vede, sono nato a Sanremo, in un Festival che esportava la nostra musica. Però il mio primo Sanremo fu quando Tenco si uccise. E ci ho pensato, sa, a quanto pesavano strategie industriali, calcoli sull’immagine, critiche che toccano la privacy, fare politica in musica. Tutte cose che mi facevano paura. Però Dio mi ha dato un dono: cantare e scrivere canzoni. Non so neanche guidare… E allora non posso fare altro che spendere questo dono per la gente. Da uomo tranquillo, sempre in buona fede». Queste frasi condite di sano orgoglio («Ho avuto 61 brani in hit parade») dicono bene chi ha voluto essere Reitano. Un cantante popolare mai narcisista, un uomo che nella musica dava voce ai valori dell’Italia che lavora. Uno che grazie alla musica aveva aiutato tutta la famiglia ad uscire dalla miseria. Rinunciando a volte alla misura, vero, ma sempre – va riconosciuto – proponendosi «in punta di piedi». Ed in punta di piedi se n’è andato, dopo aver mostrato con grinta anche la propria sofferenza pur di incitare alla speranza. «Non vedo perché la fede dovrebbe vacillare nei momenti duri. Io sull’esempio di Maria non perderò la speranza. Fate anche voi così, pregate, vogliate bene. Non vi sentirete mai soli». Il resto è comunque professionismo serio: conservatorio, inizi ad Amburgo negli stessi locali dei futuri Beatles, esordio con Battisti, successi popolari ( Avevo un cuore che ti amava tanto, Una chitarra cento illusioni, Era il tempo delle more, Gente di Fiumara, Italia’), brani per Mina e Vanoni (l’immensa Una ragione di più). Ma anche pezzi impegnati ( Il diario di Anna Frank) e capolavori bistrattati, come La mia canzone dell’ultimo Sanremo nel 2002. Oggi autobiografica in modo toccante. «Io non so tante cose… Parlo di tormenti, allegria, luna e della fine, mentre qui è tutto fragile… E allora canto la mia canzone: so dov’è il cuore». Forse è tardi per riconsiderarlo, forse non gli interesserebbe neppure. Ha raggiunto il suo «angelo speciale», la madre mai vista, spendendo le ultime interviste addirittura per chiedere lui, perdono. «Se non mi sono fatto capire ». Durante la malattia ha anche incontrato Benedetto XVI: «Mi ha detto che ho gli occhi buoni…», ricordava commosso. Vero. Da professionisti era impossibile accettarne certe esagerazioni, ma oggi non si può non ricordarne la passione genuina, gli slanci purissimi con cui difendeva il suo cantare la gente normale. Perché la cosa più importante che si possa dire di un uomo, alla fine del viaggio, di Mino Reitano possiamo dirla senza paura di retorica. Era una persona perbene. Oggi ad Agrate Brianza verrà dato l’ultimo saluto al popolare cantante scomparso a 64 anni Colpito da un tumore aveva dichiarato: «Dio mi ha dato molti doni. La malattia non mi fa paura»


I dati anagrafici rispecchiano una realtà. A Bucarest si stava costruendo. Il numero dei carpentieri, imbianchini, lavoratori in pietra e dei fabbricanti di mattoni aumentava. Abbiamo già ricordato l’esempio delle 15 famiglie, per la maggioranza fabbricanti di mattoni, che chiedevano la cittadinanza. Oltre agli artigiani sono comparsi anche gli „architetti” e gli ingegneri stranieri portati sia dalla municipalità per costruire edifici pubblici, sia da privati. Gli architetti italiani conosciuti per le loro particolari realizzazioni hanno contribuito anche alla costruzione di alcuni edifici a Bucarest. G. Bonomelli farà parte del servizio tecnico del Comune della città di Bucarest, costruirà diverse private nel periodo 1855– 187466. Oltre a questi vengono ricordati Giulini, mentre Bolzano era menzionato fin dal 1847 come direttore generale dei ponti e delle strade.

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I documenti d’archivio nel periodo su cui si concentra la nostra ricerca testimoniano la residenza permanente temporanea degli italiani, originari per la maggior parle regioni nord-occidentali della penisola. Nell’ultimo quarto di secolo, come hanno dimostrato le ultime ricerche, l’area geografica dalla quale provenivano gli italiani si era spostata al nord-est ed il loro numero a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento era in aumento, mentre questo periodo è considerato dagli studiosi come l’apogeo della „grande migrazione”.

Abbiamo cercato di dimostrare che nel periodo 1831– 1866 gli italiani soggiornanti a Bucarest avevano professioni e mestieri diversi. Se nei primi decenni hanno prevalso le professioni liberali–insegnanti, medici, farmacisti, pubblicisti, artisti–dopo il 1860 verranno menzionati prevalentemente i commercianti, i piccoli imprenditori, ma soprattutto gli architetti, i costruttori, gli operai nell’edilizia, nella costruzione di strade e ferrovie. Il concetto è felicemente espresso, all’inizio del Novecento, da uno degli italiani la cui famiglia si era stabilita in Romania alcuni decenni prima: „In qualsiasi lavoro difficile, in qualsiasi cosa in cui si incontrava la lotta titanica dell’umanità per il progresso: ferrovie, costruzioni grandiose, impianti elettrici complicati, dal traforo del Sempione alle dighe egizie, dalla ricostruzione delle città svizzere e tedesche fino alla coltura della terra in La Plata, il lavoratore italiano, robusto, fermo, instancabile ci appare come un campione nel lavoro”.


PAPA FRANCESCO HA RICONOSCIUTO IL MIRACOLO ATTRIBUITO A DON OLINTO MARELLA, IL PRETE MENDICANTE DI BOLOGNA, E PRESTO SARÀ DICHIARATO BEATO

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TESTIMONE PROFETICO adre Olinto Marella è morto in odore di santità il 6 settembre del 1969, a 87 anni. Un uomo tanto amato a Bologna quanto poco conosciuto fuori dalla diocesi. Non a caso il regista Pupi Avati ha ammesso di avere proposto un film su di lui alla Rai e di essersi sentito rispondere «ma chi è?». Le foto d’ epoca che lo ritraggono sono la risposta più eloquente alla domanda. Un uomo dall’ aspetto autorevole, anche se con l’ abito un po’ sciupato, la lunga barba bianca, seduto su uno sgabello, nei crocevia del centro storico, col cappello in mano, per la questua quotidiana. Povero tra i poveri, anzi mendicante, nonostante fosse un intellettuale raffinato e professore di filosofia nei più prestigiosi licei cittadini. «La questua è stata la sua icona vivente, il segno profetico della Chiesa dei poveri», continua don Nicolini, che ebbe modo di incontrarlo a Bologna proprio negli anni del concilio Vaticano II. Ma padre Marella, nonostante il suo nome sia legato a doppio filo alla città, non era bolognese. Nativo di Pellestrina, un’ isola dell’ arcipelago veneziano, a Bologna ci era arrivato da esule. Di famiglia benestante, dopo aver scelto la strada del sacerdozio aveva studiato al seminario dell’ Apollinare di Roma insieme ad Angelo Roncalli, il futuro “Papa buono”. Tornato nella sua diocesi, nel 1909 viene sospeso a divinis, accusato di simpatizzare per le idee moderniste. Così lascia la sua terra e comincia a insegnare filosofia in diverse città italiane finché nel 1924 approda a Bologna, ottenendo la cattedra al liceo classico Galvani. Finalmente, un anno dopo, il cardinale Nasalli Rocca lo riabilita alla celebrazione dei sacramenti, togliendogli la sospensione, e lo accoglie in diocesi. Fino al 1948 don Olinto continuerà a insegnare, prima al Galvani e poi al liceo Minghetti, ma la sua prima preoccupazione, da subito, saranno i poveri. I poveri delle periferie, gli esclusi, soprattutto i bambini e i ragazzi, che comincia ad accogliere in casa sua per intensificare poi questa attività negli anni della guerra. ACCANTO AI PICCOLI Nel 1948 fonda la “Città dei Ragazzi” in un vecchio magazzino di via


Piana, che poi s’ ingrandirà trasferendosi a San Lazzaro. Il miracolo che gli viene attribuito riguarda proprio uno dei “suoi” ex ragazzi. Si tratta infatti della guarigione improvvisa di Piero Nobilini che nel 1985, gravemente malato e ormai prossimo alla morte dopo un’ inarrestabile emorragia, si rivolse a lui con la preghiera. Padre Marella gli apparve sul muro di fronte al letto e in pochi istanti si ritrovò guarito. Dopo la morte del fondatore, l’ Opera di padre Marella è stata rilevata dalla Provincia dei Frati Minori dell’ Emilia Romagna e continua ancora oggi nell’ impegno sociale e caritativo attraverso la gestione di centri d’ accoglienza, case famiglia e comunità terapeutiche. Il suo posto, nello stesso angolo della zona del vecchio mercato, è stato preso da padre Gabriele Digani, che continua, giorno dopo giorno, la questua. Testimonia don Nicolini, (il fondatore delle Famiglie della Visitazione, comunità ispirata al carisma di don Giuseppe Dossetti e all’ ordine monastico della Piccola Famiglia dell’ Annunziata ) anche lui figlio di Bologna eppure non bolognese, mantovano di famiglia benestante destinato a diventare notaio e invece folgorato dal Vangelo e dal Vaticano II: «Uno dei ricordi più forti che ho di lui è legato proprio alla sua questua quotidiana», racconta don Nicolini. «Era una sera particolare, c’ era un evento a teatro e l’ occasione era resa ancora più importante dalla partecipazione del nuovo arcivescovo, monsignor Poma. Lo vidi scendere dalla macchina, atteso dalla gente che ci teneva a salutarlo. Ma a un lato dell’ entrata, seduto a terra, col cappello in mano, c’ era padre Marella. L’ arcivescovo va verso di lui, lo alza, lo abbraccia, gli dice qualcosa. Non so cosa gli abbia detto, ma ho avvertito, fortissima, la sua emozione. In quel momento, lui che era il nuovo pastore, chiamato a essere padre della sua diocesi, riconosceva l’ autorevolezza e insieme la grandezza spirituale di un uomo che in questo gli era padre». La stessa autorevolezza che hanno intuito in lui molti bolognesi proprio nell’ umiltà del suo farsi mendicante. Un’ umiltà dignitosa, anzi «da gran signore persino nel modo di vestire, anche se povero», sottolinea ancora don Nicolini. «Io lo vedo nella gloria di Dio insieme a papa Giovanni XXIII, che era statp pure suo compagno di studi», conclude, «uniti nell’ amicizia e vicini nell’ elezione dei poveri come indicazione privilegiata per la Chiesa». ( INDRO MONTANELLI, IL FAMOSO SCRITTORE GORNALISTA, ERA STATO ALLIEVO DI DON MARELLA E LO RICORDO’ IN UN SUO ARTICOLO SUL CORRIERE DELLA SERA …... Fu una sorpresa, tanti anni dopo, scoprire che Marella era diventato don Marella e aveva fondato a Bologna una specie di nomadelfia per i ragazzi abbandonati. (…) Una sorpresa perché in chiesa non l’avevamo mai visto e coi preti non bazzicava. Non volle mai dirmi come e quando si era deciso a quel passo. Quando andai a trovarlo che giù faceva il mendicante per sfamare i suoi orfani, mi riconobbe immediatamente come il suo ‘ragazzaccio’, ma l’unico episodio che ricordò fu il sotterfugio che gli avevo fatto per aiutare quel mio compagno. Forse ignorava che, come giornalista, mi son fatto un certo nome, e comunque non gl’interessava. Per lui ero rimasto il ‘ragazzaccio’…Ritrovandolo vestito di stracci, un autentico barbone, provavo un oscuro senso d’invidia, venato di rancore. Capivo ch’era un uomo felice perché aveva realizzato il suo sogno di vivere per gli altri e questo lo metteva al di sopra e al riparo dalle nostre comuni preoccupazioni e amarezze e paure e miserie..”


l Vangelo va annunciato con la testi-

monianza, non con gli argomenti, con il proselitismo”. Lo ha ribadito il Papa, che visitando la Cittadella della carità della Caritas diocesana di Roma ha tenuto un discorso a braccio, dopo la testimonianza del direttore della Caritas, don Benoni Ambarus, di una volontaria e di un ospite. “Gesù ci ha lasciato un esempio di testimonianza per i prossimi 40 anni”, ha proseguito riferendosi al 40° anniversario della Caritas romana: “Quell’uomo che non era religioso, che pensava di non essere religioso, e che trova sulla strada uno che era ferito dai ladri e lo prende e se ne prende cura”, il riferimento alla parabola del Buon samaritano. “Gesù non dice parole di quest’uomo – ha tatto notare il Papa – dice soltanto che ne ebbe compassione. È patire con”. “Lo prende, lo porta, parla col locandiere, lo cura, dice: ‘Ma io devo andarmene, dopo due o tre giorni torno’, gli da’ due monete, ‘Se c’è qualcosa di più pagherò di più'”, ha proseguito Francesco nel racconto: “Io penso a quel locandiere, a cosa aveva pensato: ‘Questo è un pazzo'”. “È questa la parola che vorrei dirvi: pazzia”, la consegna del Papa: “Pazzia d’amore, pazzia di condividere la propria vulnerabilità”. “Ma questi preti invece di rimanere in chiesa, di dire messa, di stare tranquilli, sono pazzi!”, l’obiezione citata da Francesco: “Sì, sono pazzi. Questo è il programma: pazzi! E pensare al locandiere: che Dio benedica tutti voi e vi accompagni nel cammino della vita”.

Papa Francesco ribadisce oggi “l’incrollabile l’intenzione della Chiesa cattolica” di continuare “a lavorare per ristabilire la piena comunione tra i cristiani d’Oriente e dell’Occidente”. Lo scrive nel suo messaggio autografo al Patriarca ecumenico Bartolomeo I, consegnato oggi dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che guida la delegazione della Santa Sede presente ad Istanbul alla festa del Patriarcato Ecumenico per la celebrazione di Sant’Andrea, nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar. La delegazione ha incontrato il Patriarca e la Commissione sinodale incaricata delle relazioni con la Chiesa cattolica. “È con grande gioia spirituale e in profonda comunione di fede e carità che mi unisco alla preghiera della Chiesa di Costantinopoli nel celebrare la festa del suo santo patrono, l’apostolo Andrea”, scrive il Papa, ricordando che quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario della fondazione della Commissione internazionale congiunta per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, inaugurata dal Patriarca Dimitrios I e da Papa San Giovanni Paolo II durante la sua visita in occasione della festa di Sant’Andrea. “Durante la sua visita al Fanar – prosegue Papa Francesco –, Papa San Giovanni Paolo II ha dichiarato che ‘la domanda che dovremmo porci non è se possiamo ristabilire la piena comunione, ma piuttosto se abbiamo il diritto di rimanere separati’. Questa domanda, che è solo apparentemente retorica, continua a sfidare le nostre Chiese e richiede che tutti i fedeli rispondano con un rinnovamento sia dell’atteggiamento che della condotta”. La ricerca della piena comunione tra cattolici e ortodossi “non si limita al dialogo teologico – sottolinea –, ma si realizza anche attraverso altri canali di vita ecclesiale. Le nostre relazioni sono alimentate soprattutto attraverso autentici gesti di rispetto e stima reciproci”, una vicinanza che “cresce e si intensifica ogni volta che preghiamo gli uni per gli altri” e ogni volta che”cattolici e ortodossi lavorano insieme per proclamare la Buona Novella e nel servire i bisognosi”. “La Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa hanno già intrapreso questo promettente viaggio – osserva –, come testimoniano le nostre iniziative congiunte. Confido inoltre che nei contesti locali rafforzeremo sempre più il dialogo quotidiano sull’amore e sulla vita in progetti condivisi spirituali, pastorali, culturali e caritativi”.


Padre Ermes Ronchi


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*Foglietto preparato da Parrocchia Cattolica Italiana Virtuale Iasi

C. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi. T. E con il tuo spirito.

ATTO PENITENZIALE

C. Per incontrare il Signore Gesù non possiamo esimerci dal riconoscere le nostre colpe, chiedendogli perdono con cuore contrito: Breve pausa di riflessione personale Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro. C. Dio Onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. T. Amen. Signore, pietà. Signore, pietà. Cristo, pietà Cristo, pietà. Signore, pietà. Signore, pietà.

e su Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli; e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore. R.

Andiamo con gioia incontro al Signore. Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore!». Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme! R. È là che salgono le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide. R. (* in Avvento non si dice il Gloria) Chiedete pace per Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti C. Preghiamo: O Dio, Padre amano; sia pace nelle tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi. R. misericordioso, che per riunire i Per i miei fratelli e i miei amipopoli nel tuo regno hai inviato il ci io dirò: «Su di te sia pace!». Per tuo Figlio unigenito, maestro di vela casa del Signore nostro Dio, rità e fonte di riconciliazione, richiederò per te il bene. R. sveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contem- Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani plarti nell'eterna gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo FiFratelli, questo voi farete, consapeglio, che è Dio, e vive e regna con voli del momento: è ormai tempo te, nell'unità dello Spirito Santo, di svegliarvi dal sonno, perché per tutti i secoli dei secoli. adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è . vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci Dal libro del profeta Isaia onestamente, come in pieno giorMessaggio chei Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda no: non in mezzo a orge e ubria-

chezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.

Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».


mo. C. O Padre, ascolta le nostre preghiere. Ravviva in noi il desiderio di incontrarci con tuo figlio Gesù, per ricevere da lui un solido orientamento nella fede e l’impulso a operare nella carità. Te lo chiediamo proprio in nome di Gesù Cristo, nostro Signore. T

C. Accogli, Signore, il pane e il vino, dono della tua benevolenza, e fa' che l'umile espressione della nostra fede sia per noi pegno di salvezza eterna. Per Cristo nostro C. All’inizio di questo nuovo an- Signore. no liturgico chiediamo al Signore di renderci attenti e disponibili alla sua parola, affinché possiamo essere pronti ad accoglierlo quando irromperà nella nostra vita. Preghiamo dicendo: Ascoltaci Signore. 1. Per la santa Chiesa di Dio, perché sappia essere custode ed amplificatrice della parola e del pro- È veramente cosa buona e giusta, getto d’amore di Dio nel mondo. nostro dovere e fonte di salvezza, Preghiamo. rendere grazie sempre e in ogni 2. Perché gli uomini sappiano valo- luogo a te, Signore, Padre santo, rizzare il tempo, senza inseguirlo Dio onnipotente ed eterno, per cercando di riempirlo di cose, Cristo Signore nostro. Al suo primo quanto piuttosto "abitandolo", viavvento nell'umiltà della nostra navendo come eventi di salvezza le tura umana, egli portò a compisituazioni in cui sono immersi. Pre- mento la promessa antica, e ci apri ghiamo. la via dell'eterna salvezza. Verrà di 3. Per coloro che sono "prigionieri" nuovo nello splendore della gloria, della civiltà che cattura le menti e i e ci chiamerà a possedere il regno cuori proponendo come scopo del promesso che ora osiamo sperare vivere le illusioni fugaci del piace- vigilanti nell'attesa. E noi, uniti agli re, della ricchezza, del potere. angeli e alla moltitudine dei cori Preghiamo. celesti, proclamiamo con gioia l'in4. Perché ogni uomo e ogni donna no della tua lode: Santo, Sansappiano riscoprire l’autenticità di to, Santo una fede vissuta, anelando così all’incontro con il Signore risorto, atteso come salvatore della vita. Preghiamo. 5. Per la nostra comunità, perché sappiamo esprimere la nostra vigilanza nell’attesa del Signore con una preghiera pura ed una comunione profonda e sincera. Preghia-

C. La partecipazione a questo sacramento, che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita, ci sostenga, Signore, nel nostro cammino e ci guidi ai beni eterni. Per Cristo nostro Signore.


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