GIOCANDO CON DIO ovvero l'Avventure di Titti Miti

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Maria Letizia Bencini

GIOCANDO CON DIO

ovvero

L’Avventure di Titti Miti AUTOBIOGRAFIA

DI UNA

J. AMBA ED.

Y OGINI


Maria Letizia Bencini

GIOCANDO CON DIO ovvero

L’Avventure di Titti Miti AUTOBIOGRAFIA DI UNA YOGINI

J. AMBA EDIZIONI


Maria Letizia Bencini

GIOCANDO CON DIO ovvero

L’Avventure di Titti Miti AUTOBIOGRAFIA DI UNA YOGINI

Correzione di bozze, Editing, Grafica e Computergrafica a cura di Kalavati Maria Cristina Chiulli Foto di Babaji in copertina di Lisetta Carmi Foto di Babaji di AA.VV.

EDIZIONE DIGITALE e-book ISBN 978-88-86340-56-4

© J. AMBA EDIZIONI Strada Battaglini A 2 - 74015 Martina Franca TA www.j-amba.com j.amba.edizioni@gmail.com


INTRODUZIONE da "Teachings of Babaji", Hairakhandi Samaj, India

Nelle colline del Kumaon ai piedi dell'Himalaya in India, il luogo di nascita o la dimora di molti grandi santi del passato e del presente, lì ha vissuto Shri Hairakhan Wale Baba. A coloro che chiedevano chi fosse, Hairakhan Baba a volte rispondeva che Lui è Shiva Mahavatar Babaji, noto a centinaia di migliaia di persone nel mondo attraverso l'Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda. Un Mahavatar è una manifestazione umana di Dio, non nato da donna. Shri Babaji (Shri è un titolo di rispetto; Baba è un termine usato per un rinunciante, o un santo o un santo Padre) è apparso nel Giugno 1970 in una grotta sacra da migliaia di anni, ai piedi del Monte Kailash nel Kumaon, sulle rive del fiume Gotama Ganga di fronte ad un remoto villaggio chiamato Hairakhan, nel Distretto di Nainital dello Stato dell'Uttar Pradesh. Egli non aveva genitori o famiglia noti, Egli apparve come un giovane di diciotto anni circa, eppure mostrò grande saggezza e poteri divini fin dall'inizio. Ad alcuni abitanti del villaggio di Hairakhan si manifestò come un uomo vecchio con una lunga barba bianca; ad altri come un giovane; altri come un bel ragazzo. Due uomini Gli hanno parlato contemporaneamente, uno ha visto un uomo vecchio con la barba, l'altro ha visto un giovane senza barba. Egli veniva visto in posti diversi nello stesso tempo. Conosceva le Scritture e poteva citarle sia in Sanscrito che in Hindi, eppure non c'è nessuna prova che abbia ricevuto un'istruzione. Babaji restò digiuno pressocchè completo per mesi, in totale due o tre anni, eppure la Sua energia era senza limiti. Verso la fine del Settembre 1970, camminò fino alla cima del Monte Kailash con pochi devoti. Seduto in posizione yoga nel piccolo, vecchio tempio che è lì, stette per quarantacinque giorni senza lasciare la Sua postura, meditando per la maggior parte del tempo, qualche volta parlando, preparando e benedicendo frutta e verdura da dare agli altri, e cominciando ad insegnare il messaggio che ha portato al mondo. Centinaia di persone ven-5-


nero in Ottobre per celebrare la festa religiosa di nove giorni del Novaratri con Lui sulla cima del Monte Kailash. La Sua venuta è stata predetta sia nelle antiche scritture che nelle parole e nelle profezie di un santo Indiano del ventesimo secolo: Mahendra Baba, o Mahendra Maharaj. Da bambino, Mahendra Baba fu curato da una visione di Babaji e della Madre Divina; poi, nel giorno di uno dei suoi successivi compleanni, egli vide di nuovo Babaji, che gli regalò dei dolci. Da ragazzo, appena finite le scuole superiori, Mahendra Baba incontrò Babaji, in una delle Sue precedenti forme umane; Babaji gli insegnò la conoscenza yogica per sei giorni e sei notti. Quando Babaji lo lasciò, Mahendra Baba non sapeva Chi fosse, nè dove ritrovarLo. Dopo aver preso la laurea in filosofia, Mahendra Baba rinunciò al mondo, e andò in cerca di questo guru, camminando a piedi attraverso l'Himalaya in India, Nepal, Tibet e Cina. In seguito passò degli anni nei templi degli Stati Indiani del Gujarat e dell'Uttar Pradesh, e si creò la reputazione di santo. Solo dopo venti anni o più di ricerca e di attesa egli fu guidato ancora verso le colline del Kumaon, dove Babaji gli apparve di nuovo, in una stanza chiusa in un remoto ashram in montagna. Dopo questa apparizione di Babaji nel Suo corpo fisico Mahendra Baba, secondo le istruzioni di Babaji stesso, cominciò la missione di preparare il ritorno nel mondo di Babaji in forma umana. Per molti anni egli girò per l'India predicando che Babaji sarebbe tornato per trasformare il mondo cambiando i cuori e le menti degli uomini. Egli descrisse l'aspetto di Babaji, comprese le ferite sulla gamba destra e sul braccio sinistro; egli disse che Babaji sarebbe venuto nel 1970. Mahendra Baba restaurò vecchi ashram e templi, ne costruì di nuovi, e preparò il canto di adorazione ora usato dai devoti di Shri Babaji. Shri Vishnu Datt Shastriji, famoso studioso di Alwar (Rajastan), discepolo di Mahendra Maharaj, con la sua benedizione acquistò un oceano di conoscenza. Egli scrisse un libro su Babaji intitolato "Sada Shiva Chatamrit", che fu ispirato dalla Madre Divina. In questo libro Shastriji descrisse l'ashram di Hairakhan senza averlo mai visto; dieci anni dopo, quando vi si recò, fu sorpreso nel vedere che ogni cosa era perfettamente reale. Shastriji ha scritto anche molti altri libri, e alcuni studenti hanno redatto la tesi di laurea studiando i suoi testi. Shastriji è l'officiante di tutti gli yagya (antiche cerimonie vediche di offerta al fuoco sacro) e delle fun-6-


zioni sacre che Babaji compieva. Egli è il Saggio: quando Babaji teneva dei discorsi, lui era la Sua voce. Ha seguito Babaji come un'ombra durante gli anni della Sua manifestazione fisica: come lui stesso si è definito, è "l'eterno bambino di Babaji". Mahendra Maharaj diceva ai suoi seguaci che Shri Babaji è stato una manifestazione di Dio fin dai primi tempi in cui l'uomo imparò la religione. Babaji ha insegnato a guru ed altri insegnanti religiosi nella storia, sempre cercando di portare l'uomo verso Dio e verso valori spirituali. Attraverso le epoche Egli è apparso per insegnare, manifestandosi in un corpo già esistente in ogni Sua apparizione, piuttosto che venire al mondo attraverso una nascita umana. Yogananda scrisse della sua esperienza e di quella di altre persone con questo Babaji immortale nel diciannovesimo e nei primi del ventesimo secolo. Ci sono libri scritti in Hindi sulle precedenti manifestazioni di Hairakhan Baba, che rimase in India dal 1800 circa al 1922. Intorno all'anno 1800 Egli apparve agli abitanti dei villaggi vicino ad Hairakhan uscendo da una sfera di luce, e nel 1922, davanti ad un gruppetto di seguaci, scomparve in una sfera di luce. Ci sono molti miracoli registrati, come curare la gente, restituire morti alla vita, nutrire moltitudini con piccole quantità di cibo, cambiare la Sua forma, essere in due o più posti contemporaneamente, nutrire il fuoco sacro con acqua quando il ghee (burro chiarificato) non era disponibile. Ma soprattutto, la gente era attratta da Lui perchè Lo sperimentavano come un Essere divino, saggio, pieno d'amore, molto al di sopra del livello umano. Vennero a Lui abitanti dei villaggi di montagna (istruiti o analfabeti), Occidentali, burocrati e soldati Inglesi, l'intellighentia Indiana, ricchi e poveri, gente di tutte le religioni. Ci sono ancora persone ad Hairakhan e dovunque in India che ricordano il "Vecchio Hairakhan Baba" e che hanno sperimentato questa attuale manifestazione come lo stesso Essere. Ci sono prove di manifestazioni ancora precedenti. Dei monaci Tibetani, venuti da Shri Babaji nel 1972, Lo riconobbero come "Lama Baba" che aveva vissuto in Tibet circa 500 anni prima. Ci sono racconti della Sua apparizione in Nepal, come pure in India e in Tibet. In due o tre occasioni, Babaji disse che Lui era stato uno degli insegnanti di Gesù Cristo. La maggior parte dei seguaci di Shri Babaji Lo sperimenta e Lo adora come una manifestazione di Dio vera e senza età. I grandi e piccoli miraco-7-


Hairakhan Baba, 1800 - 1922

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li che fa quotidianamente nelle vite dei Suoi seguaci, il Suo leggere e rispondere ai loro pensieri prima che venissero espressi, le Sue cure, la Sua guida, i Suoi insegnamenti, sono ad un livello che va oltre perfino la più avanzata abilità umana. I miracoli esteriori e drammatici erano rari: la maggior parte dei Suoi miracoli avveniva nelle menti, nei cuori e nelle vite dei Suoi devoti - miracoli di comprensione, guida, insegnamento e sostegno quando, come e dove fosse necessario. Shri Babaji ha detto che l'umanità è in grave pericolo durante il periodo del Kali Yuga - l'Era del materialismo e del declino della vita spirituale. Egli ha predetto distruzioni diffuse e cambiamenti e morte in questo decennio. Egli ha detto che coloro che veramente adorano Dio (in qualsiasi modo l'uomo Lo conosca) e che ripetono il Suo nome e vivono in armonia con l'Universo saranno salvi, e che si formerà una nuova società umanitaria di persone che saranno focalizzate su Dio. Per focalizzare le menti su Dio, Babaji ha insegnato alla gente a ripetere l'antico mantra OM NAMAHA SHIVAY. È un mantra (parola o frase di grande potere spirituale) Sanscrito completo, fortissimo che ha diversi significati, tra cui "Io prendo rifugio in Dio/Io mi arrendo a Dio". La ripetizione di OM NAMAHA SHIVAY è una via verso l'unità con il Dio Supremo (il nome di Dio usato in questo mantra è il Signore Shiva, una concezione Hindu dell'unico Dio Supremo. Questo mantra è stato usato per millenni ed insegnato da santi e guru in India e in Occidente). La costante ripetizione di un mantra (la ripetizione si chiama japa) focalizza la mente su Dio, apre la propria mente e il proprio cuore a Dio, e ferma o riduce la tendenza innata della mente a pianificare, preoccuparsi costantemente, sognare ad occhi aperti o altrimenti perdere energia in attività realmente inutili. Lo scopo principale della venuta di Shri Babaji in una manifestazione umana in questo momento è quello di riformare i cuori e le menti degli uomini. Egli è venuto per rimuovere la confusione ed il male dall'umanità. Babaji una volta disse: "La mente può essere purificata solo dalla japa. Questa è l'unica medicina per le malattie della mente. Se la vostra mente e il vostro cuore sono impuri, come può Dio abitare nel vostro cuore? L'acqua per pulire il vostro cuore è il Nome di Dio. Perciò insegnate a tutti a ripetere il Nome di Dio dovunque." La mente che generalmente è focalizzata sul Nome di Dio risponde, quando sorge la necessità, spontaneamente nell'adempiere le sue funzioni -9-


velocemente, facilmente e bene. Babaji ha enfatizzato OM NAMAHA SHIVAY, ma in alcune occasioni ha dato anche altri mantra: l'essenza delle Sue istruzioni è "Ripetete il Nome di Dio". Shri Babaji disse che quando la grande distruzione arriverà nel mondo, quelli che sinceramente credono ed adorano Dio e specialmente coloro che ripetono il Suo Nome, saranno salvati dal potere del mantra. "I Nomi di Dio sono più potenti di mille bombe atomiche e all'idrogeno." Sebbene Babaji vivesse in una cultura Hindu e fosse adorato quotidianamente con rituali Hindu, Egli non era attaccato ad alcuna religione particolare. Egli affermava che tutte le religioni possono portare il sincero devoto a Dio. Ad Hairakhan, Shri Babaji è adorato da Hindu, Cristiani, Buddisti, Ebrei, Sikhs, Musulmani - perfino atei si sono ritrovati ad inchinarsi a Lui. Egli spesso ricordava ai Suoi seguaci che tutta l'umanità è una famiglia - la Famiglia di Dio. A quelli che chiedevano della religione, Egli rispondeva: "Seguite la religione che avete nel cuore." Comunque Egli disse molte volte che era venuto a ristabilire i principi del Sanatan Dharma, la Religione Eterna, che è senza età e in cui tutte le religioni affondano le loro radici. Anche prima della Sua riapparizione nel 1970, Babaji insegnò a Mahendra Maharaj a predicare che tutti i devoti di Dio dovrebbero vivere una vita basata sui principi di Verità, Semplicità, e Amore. Questa, Egli disse, è l'essenza di tutte le religioni. È molto difficile nutrire odio, rancore, rabbia, lussuria, gelosia ed egoismo e la violenza che tutto questo genera quando una persona cerca davvero di vivere in verità, semplicità, e amore con tutti. A quelli che andavano ad incontrarLo Egli diceva e ripeteva che il Karma Yoga - il lavoro disinteressato - dedicato a Dio è il migliore, il più semplice, il più remunerativo e rapido modo di arrivare a Dio in questa caotica, confusa era di cambiamento. Nel Suo ashram a Hairakhan il lavoro al mattino e al pomeriggio è una parte vitale del programma della giornata. C'è il tempo della meditazione la mattina presto, dopo il bagno al fiume, ma Babaji insisteva sull'importanza di parecchie ore di karma yoga ogni giorno, lavorando con la costante ripetizione del mantra. "Seguire e dimostrare la via di Verità, Semplicità e Amore è il supremo dovere dell'uomo e lo Yoga più alto. Il lavoro diligente è una qualità di questa Via, perchè la pigrizia è la morte sulla terra. Solo con il lavoro l'uomo - 10 -


può cantare vittoria sul karma (la legge universale di causa ed effetto). Tutti devono sforzarsi di compiere il proprio dovere nel miglior modo possibile e di non evitarlo. Il servizio all'umanità è il primo dovere. Durante questo periodo, la disumanità e la pigrizia sono aumentate, così è importante che lavoriate sodo e che non vi perdiate d'animo. Siate coraggiosi, siate industriosi: lavorate duro ed abbiate coraggio." Sebbene Babaji abbia chiamato a Sé molti Occidentali con sogni, visioni, opuscoli o semplicemente tramite racconti di amici su di Lui, Egli non ha mai cercato di stabilire un grande seguito personale. Il Suo piccolo ashram, su per la riva ventosa di un fiume quattro miglia lontano dalla fine della più vicina strada di campagna, non avrebbe potuto accogliere le migliaia di persone che sono arrivate da altri santi o guru. Ma, sebbene Egli non avesse dato una chiamata generale perchè la gente andasse a vederLo, Egli ha voluto che tutto il mondo ascoltasse il Suo messaggio. Shri Babaji non ha mai richiesto che la gente Lo vedesse o Lo adorasse come una manifestazione di Dio per andare da Lui ed esserne beneficiata. Egli stesso ha detto della Sua forma umana: "Questo corpo non è niente, esso è qui solo per servire la gente." Shri Babaji ha lasciato il Suo corpo mortale il giorno di San Valentino - il 14 Febbraio 1984. Nei primi tempi della Sua missione Egli aveva detto a due o tre devoti che avrebbe lasciato il corpo nel 1984. Prima di venire, Egli disse a Mahendra Maharaj che sarebbe venuto per dare un messaggio all'umanità. È venuto, ha vissuto il Suo messaggio, ha predicato il Suo messaggio; il Suo messaggio è stato pubblicato; e avendo completato la Sua missione, Se ne è andato. Ora Shri Babaji continua la Sua opera non solo dal mondo invisibile attraverso il cuore e la mente degli uomini, ma anche sul piano fisico attraverso la Presenza e l'infinito amore di Shri Muniraji Maharaji, che Egli stesso ha indicato quale guida spirituale e punto di riferimento soprattutto per gli Occidentali quando era ancora nella Sua manifestazione fisica, insegnando a venerarLo come un'incarnazione Divina. Una volta, commentando il fatto che Shri Muniraji era stato invitato a partecipare ad una conferenza spirituale in Austria alla quale avrebbe partecipato anche il Dalai Lama, Shri Babaji disse: "Muniraji può partecipare. Il Dalai Lama non è più grande di Muniraji. Muniraji è l'incarnazione di Guru Dattatreya*. Egli è uno Yogi e spiritualmente è molto, molto alto. Diffondete ovunque questo messaggio - 11 -


tra la gente. Presto si terrà un meeting mondiale qui. La data non è stata ancora fissata, ma verrà presto." (Babaji, Hairakhan, 19 Luglio 1983).

*Dattatreya - il dono di Dio ad Atri: una incarnazione divina di Brahma, Vishnu e Shiva in un solo corpo, nei tempi antichi. Dattatreya fu un grande guru e l'autore di molte sacre scritture, tra cui l'Avadhuta Gita. I Suoi insegnamenti sono inclusi nello Shrimad Bhagavatam.

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Nota dell’Editore

Titti la incontro la prima volta nell’84 a Galeazza, vicino Ferrara. Era l’anno in cui Babaji lasciò il corpo, ad Hairakhan. Non sapevo nulla di tutta questa storia e ci arrivai per caso, portato a forza da un’amica, Uran. Un sabato di fine aprile approdammo in quella specie di folle serraglio-manicomio. Indifferente, il castello ne aveva viste di cotte e di crude e di storie ne avrebbe potute raccontare un sacco, ma così incredibili forse era la prima volta: un Kumbha Mela nostrano di tutti i folli di Dio! Filippo, il castellano, nell’attimo esatto in cui, turisti smarriti, ci si avvicinava timidamente alla scalinata dell’ingresso principale, usciva correndo, con uno strano vestito di seta tutto nero e un turbantone nero luccicante da maragià di guitti. Sembrava scappato fuori dal palcoscenico di Capitan Fracassa. Mi pizzicai. Non era il fantasma del castello. Lambruscotherapy? L’attimo dopo un mastino enorme si attaccava furibondo con un altro cane. Gruppi di indù metropolitani in abiti variopinti correvano di qua e di là con licenza... di esistere senza un senso apparente. “Andiamocene,” sussurrai a Giulia tamburellando l’indice sulla tempia, “questi sono matti.” Eravamo già accanto al Mercedes quando Uran ci raggiunse e ci pregò alle lacrime di restare, almeno per l’Arati della sera. Ci guardammo in faccia dubbiosi.Restammo e fu fatale. Da allora eccoci ancora qui e dieci anni son passati. Quell’Arati fu così speciale, forte, potente, antico e nuovo, che ci legò a doppio filo d’acciaio. Muni Raji fece il resto quando un mese dopo arrivò al castello dall’India. Al suo arrivo la follia centuplicò. Un’energia come un fiume in piena ci coinvolse tutti e ci trovammo uniti da un filo sottile di amore che ci muoveva in un’instancabile catena di lavoro giorno e notte. Fu un’esperienza unica. Più faticavi ogni notte senza dormire per preparare il tempio, e più le energie si alzavano e accadevano cose fantastiche. I vecchi devoti dicevano che era proprio come quando c’era Baba. Indimenticabile sarabanda di tutto quello che da sempre ti eri sognato succedesse: ridere lavorando, uniti, mangiare poveramente la stessa sbobba e faticare senza riconoscimenti, soldi, applausi. Quante amicizie vere si formarono in quei giorni! E Titti fu una di queste. Lei stava lì, centrata, una folle di Dio. Mi ricordava un giovane guerrie- 13 -


ro pellerossa conosciuto qualche vita fa. Titti Miti, sempre sorridente, attiva, i capelli sugli occhi grandi e sgranati in attesa di qualcosa, bella di una bellezza pulita. Legammo, e mi raccontò sprazzi di sé che mi incantarono. All’epoca giravo come un accattone affamato a mendicare storie di Babaji. Per credere. E ognuna mi regalava un’emozione nuova. Gioia. Fiducia. Certezza. Mi forzava il mio muscolone inaridito e mi strizzava fuori lacrime di incredula felicità. Questo voglio passarvi, in queste Storie di un Amore Infinito. Ci rivedemmo, ci riperdemmo, ci ritrovammo per le vie di Delhi, in un ristorante dell’Hans Plaza, alle Sabbie Bianche di Rosignano. Sempre bimba, puledra selvaggia, viandante lucida in fuga perenne dal mondo. Sempre coinvolta in qualcosa di più strano, folle, incomprensibile per me. Ribelle figlia di ricchi, abbandona famiglia, posizione e onori come Francesco d’Assisi e come lui senz’abiti grida alle stelle: “Dio perché non ti mostri?” Molti alla Valle Benedetta salgono alla roulotte dove vive quando non è ad Hairakhan. E lì ricevono il suo darshan, modesto, umile. Canta bhajans accompagnandosi all’armonium e offre al Fuoco sacro. Spacca legna e porta bidoni d’acqua su e giù. Raccoglie erbe mediche e tiene le api. Fa i mercati per sopravvivere. L’unico pensiero: Babaji e il dhuni di Hairakhan. Devota di Francesco, la madre forse generò un’anima affine al santo: o chissà, il suo clone. Chi ci capisce più niente in questo andirivieni di incarnazioni! Parli con uno che ti sembra normale e vien fuori che è l’incarnazione di qualche po’ po’ di santo. Oggi dice che ci son tutti, scesi per godersi il Passaggio alla Nuova Era e aiutare! La sua vita breve, fantastica per la costante presenza di Dio che l’accompagna, può essere una sveglia forte, uno stimolo imperioso per quanti, amanti di Dio, non hanno ancora avuto il coraggio di correre ai Suoi piedi, insieme a Titti, a Gora, a Libero, e a tutti noi, tanti che abbiamo trovato la nostra Verità che si evolve sempre e chissà dove ci porterà. “Perché non mi scrivi un libro della tua vita?” le chiesi goloso dopo il Novaratri a Villa. Lei si schivò ridendo timida. “Deh! E mi ci vedi? Ma io ‘un so miha scrivere!” - 14 -


“Lo racconti al registratore e poi lo batti al computer.” Il mattino dopo me la trovai a casa. “Mi fermo, proviamo: deh, semmai lo butti!” Dopo l’offerta al fuoco in piramide, presi il Sony e lei cominciò a snocciolare la storia della sua vita proprio come l’avrei voluta: spontanea, semplice, piena di ‘deh!’ di ‘boia!’ e le cento interiezioni del parlato livornese. Man mano venivo calamitato, e il mio ragioniere godeva pensando ai dobloni di incasso dalle future vendite di una storia tanto incredibile, ricca, potente. Anche gli altri personaggi del mio teatrino eran contenti alla recita. Buon segno. Babaji mi mandava una storia stuzzicante, moderna, cinematografabile! Il mio regista se la vedeva passar davanti, scena dopo scena. Una storia facile per molti, comprensibile a genitori, figli, a tutti, grande. In due giorni scarsi arrivammo alla fine e poi lei attaccò al computer. La sadhu livornese casualmente sapeva anche usare un Mac. M’aspettavo seguisse pari pari il dialogo del Sony e invece, cuffie alle orecchie, partì per la tangente. Altroché non sapeva scrivere! Quando lessi il primo capitolo restai di stucco. Glielo dissi ridendo e lei ridendo mi rispose che non poteva dare quelle frasacce dette al microfono. C’era in lei l’anima di una scrittrice piena di pudori letterari, di eleganza, di abilità pulita. Per quasi tre mesi da mattina a sera se ne stette accoccolata sul divano del soggiorno seduta in padmasana a scrivere, leggere, tagliare, correggere le sue avventure. Alla fine avevamo in mano qualcosa di grande: la vita di una folle di Dio. Lo leggiamo e rileggiamo e ci appassiona come un thrilling spirituale. Ha ritmo: veloce, conciso, forte. È il suo metronomo interiore, che scandisce allo stesso modo il tempo di ogni attimo della sua vita. Ci sentiamo felici, orgogliosi, grati a Lui di averci permesso di stimolarne la nascita e comunicare un simile martirio. Francesco, Milarepa... Gora e quanti altri, sconosciute anime incapaci di stare in Terra, prese dalla smania ossessiva, totale di tornare a Casa, da Papà, quello vero del Cielo. Come Gora, anche Titti ha avuto un unico grande vero Amante: Dio. Fu Amore che la portò a trovare dentro il suo Shiva, Babaji. TittiBird ha ripreso il volo e ci ha lasciato il suo uovo. A noi schiuderlo e far volare l’angelo di luce che sta dentro perché ne porti a chi ha sete e fame. Grazie. Gian Paolo Barberis - 15 -


Shri Hairakhan Babaji, 1970 -1984

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GIOCANDO CON DIO ovvero

L’Avventure di Titti Miti

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Himalaya

Chissà perché stavo andando proprio in India? Me lo chiedevo, e quando me lo domandavano gli altri, la risposta usciva da sola: “Mi sta chiamando, l’ho sentito in Capraia.” Quante volte avevo sentito quella Voce, e che serenità seguirne le direttive senza inutili domande: queste intuizioni erano le sole certezze della mia vita. Che bello sarebbe stato poter vivere sempre così in quello stato di coscienza. L’angelo che si chiamava Francesco, dolce e silenzioso come al solito, mi portò con la sua moto a Fiumicino. Il cuore gli si stava spezzando, lo sapevo, tutto era ora improvvisamente diverso, non stavamo andando insieme in Sud America. Al contrario, lo stavo lasciando, forse per sempre. Mi accompagnò all’interno delle grandi vetrate, mi dette un bacio e scappò via. Obbligai il mio cuore a star zitto e la mia mente a seguire la trafila burocratica che mi portò nella zona franca dei duty free. “Che lungaggini...” mentre pensavo questo, l’altoparlante ci mise al corrente che la Bangladesh Airlines aveva dodici ore di ritardo. Si seppe poi che un aereo era caduto. Decisi di approfittare dell’acqua calda dei servizi igienici dell’aeroporto per compiere un’accurata toilette. Lavai con piacere i miei lunghi capelli. Avevo infatti trascorso gli ultimi giorni che mi avevano separato dalla grande partenza in un bosco dietro Castiglioncello, dove l’unica acqua disponibile era quella di un argilloso laghetto. Pensai a Francesco. “Dio che essere terribile sono.” Mai mi lasciavo influenzare pensando agli effetti delle mie azioni sulle altre persone. Non mi piaceva prendere esempio dagli altri, tanto meno seguirli nelle loro scelte. Mi sentivo interiormente sola. Libera. Anche se vivevo la vita con amici che amavo, dovevo seguire il mondo dentro di me, la mia ricerca che gli altri non condividevano. Loro si accontentavano di tutt’altre cose. Francesco con la meccanica e con le moto era soddisfatto. Dopo qualche ora di volo si atterrò in Bangladesh, dove avremmo cambiato aereo. Dio mio, l’aeroporto di Dacca rispecchiava la miseria del Paese! Tutto il territorio di quello Stato proverbialmente povero era una distesa d’acqua costellata di rare palafitte. Ci permisero di uscire dall’aeroporto. Il caldo umido e afoso ci appiccicò gli indumenti alla pelle. Mi inoltrai per la - 18 -


stradina con un paio di ragazzi. Dovemmo camminare un bel pezzo prima di trovare un chai shop. Ci sedemmo e ci servirono una brodaglia calda. Mi guardai intorno: non c’era nulla da mangiare. Nessuno mangiava. Solo si beveva quella roba calda. E io che credevo di star conducendo una coraggiosa vita povera. Shiva mi stava facendo vedere che cos’è la povertà! La gente era magrissima e senza energia. Anche quei bambini tutti occhi e pancione. Che desolazione, che impotenza... mio Signore pensaci tu! Riprendemmo l’aereo, un piccolo velivolo, con seggiolini duri e scomodi. All’ora del pranzo passarono con un pentolone di riso e lenticchie, cosa che gradii molto più di quei soliti alimenti incelofanati che sembrano finti. Stavamo volando nella stessa direzione del sole, da est verso ovest, così da rendere lunghissimo quel tramonto, tavolozza di luce e colori sulle vette imbiancate dell’Himalaya. L’eccitazione mi invase, mi fiondai nell’abitacolo del pilota. Volevo una visione panoramica dello spettacolo. Il buchetto dell’oblò non mi bastava di certo. Convinsi quell’uomo a tenermi lì con lui. Ero in paradiso. Mai visto nulla del genere. Che montagne, che colossi, che divinità in quel mare di colori solari. La gioia era incontenibile e presi a ridere. Ancora ridevo quando mi trovai davanti ai doganieri al controllo passaporti. Fuori dall’aeroporto scelsi di seguire un ragazzino, che mi voleva portare al suo Hôtel con un taxi. Feci bene ad andare con Dinesh, perché poi divenimmo amici e il suo aiuto fu in futuro per me importantissimo. Posai nella stanzetta il sacco a pelo di piumino da alta quota corredato da guaina in goratex che Guido aveva voluto assolutamente che comprassi, nonostante fosse costosissimo, perché sosteneva avrebbe potuto salvarmi la vita in situazioni difficili sull’Himalaya. Era tutto il mio bagaglio, a parte il tagliaunghie verso cui avevo un attaccamento spaventoso, una maglietta di ricambio, il coltello, le matite colorate e il chilum che mi ero fatta con la terra d’Italia. L’avevo cotto in un forno realizzato scavando nell’argilla una cavità con due aperture nella quale avevo acceso un fuoco. Il chilum era stato avvicinato piano piano alla fonte di calore e infine immerso nella brace per una notte. Ricordo ancora l’emozione al mattino quando smuovevo la cenere per vedere se il mio sacro oggetto aveva retto alla cottura. Lo presi in mano, integro, con un bel colore e un disegno scuro fatto dal fuoco, mi sembrava - 19 -


addirittura che mi assomigliasse. Era il mio tesoro, di piccole proporzioni, lo tenevo sempre in tasca con me. Uscii dalla Guest House e mi immersi in quella folla colorata e viva. L’architettura, il clima, la gente tranquilla e scalza, gli sherpa, le forti donne, gli odori, tutto mi era familiare, ero a casa finalmente. Mangiai in un posto poverissimo dove mi offrirono una montagna di riso e lenticchie che era assolutamente impossibile finire. Seguendo il principio che il cibo è sacro e ciò che è sul piatto va terminato, riuscii ad ingurgitare l’ultimo boccone era ottimo. Mi guardai intorno e gli altri commensali, scuri di pelle, chiedevano ancora e ancora che gli venisse riempito il piatto. Chi diamine ha messo in giro la voce che da queste parti si muore di fame?! Uscii da quel locale buio e continuai la mia esplorazione. Mi incuriosì una musica che usciva da una casa. Salii i pochi gradini e vidi qualcosa di stranissimo. Degli anziani suonavano campane, mentre uno di loro ondeggiava una luce di fronte ad una specie di sgabuzzino pieno di fiori, riso, frutta, colori. Un odore fortissimo di incenso; appena mi videro con gioia mi chiamarono e stranita e timida mi unii a quella che fu, non lo sapevo, la mia prima puja. Poi si misero a sedere in cerchio e, mentre un paio di vecchi impastavano la ganja con il pollice destro nel palmo della mano sinistra, gli altri iniziarono a suonare e cantare. Mi misero in mano due piattini che urtati fra loro davano un simpatico suono metallico e mi coinvolsero in pieno nel loro rito. Si fumava ganja in un chilum dal largo braciere, si rideva e si cantava il nome di Shiva. Ero proprio arrivata nella terra giusta. Ma perché mandavano via questi altri turisti che si affacciavano attirati dalla musica e me mi tenevano lì con loro? Conobbi nei giorni seguenti un sadhu, un Naga Baba che mi mise al collo una rudraksha, il seme di una pianta sacra, facendomi capire che ora lui mi insegnava qualcosa. Mi portò in giro nella vallata di Kathmandu da un tempietto ad un altro. Mi presentò i suoi amici. Mi diceva che lui era Shiva e io Parvati. Mi invitò ad unirmi a lui che viaggiava l’India a piedi piano piano dall’Himalaya a Capo Kumarin, l’estremità sud del continente. Accettai con piacere, ma gli dissi che prima volevo andare da sola sull’Himalaya. Riflettei: era quello lo Shiva che cercavo? Quello per cui ero partita? O non perdevo l’obbiettivo per cui ero in quella terra d’oriente, il mio obbiettivo: dovevo cercare Shiva, un altro Shiva, e dovevo farlo da sola senza per- 20 -


dere tempo. “Qui tutti hanno il suo nome in bocca, questa è casa sua, ne sento la presenza, se esiste deve venire fuori.” Mi chiedo “Davvero fosse stato lui Shiva? E io Parvati?” Arrivata, trovato? Impossibile! Chissà? A piedi per l’India con Shiva. Fantastico! E io avrei dovuto esser Parvati! Com’è difficile accettarci! Quanto dobbiamo viaggiare per arrivare a noi! Il mio Shiva non era lui. Al bivio decisi di spostarmi a Pokhara, che mi dicevano essere base per un trekking sull’Annapurna Himalaya. Nel minuscolo villaggetto di allora c’era una guest house che ospitava qualche hippy immerso nell’assaggiare droghe, funghetti magici, nel giocare a Back Gammon ecc. Non era il mio posto. Mi incamminai nella campagna sulle rive del magnifico lago, finché trovai una casetta abbandonata. Era fatta con fango e sterco di vacca, tetto di paglia, un soppalco di legno e una grande pianta di ganja sulla porta. Era proprio di mio gusto. Rintracciai il proprietario, che per poche rupie mi permise di usarla come ricovero notturno. Il giorno dopo mi ammalai. Improvvisa mi salì addosso una forte febbre e una diarrea impietosa. Effettivamente avevo sempre bevuto acqua ovunque e si sa che Kathmandu è una delle città più sporche del mondo. Pensai che mi stavo facendo gli anticorpi necessari per vivere ai tropici, ma alla sera persi conoscenza. Mi ripresi non so dopo quanto tempo e mi trovai stesa lì su quel soppalco, unica compagnia il frutto della mia diarrea. Il corpo debolissimo non rispondeva ai miei comandi. Decisi di approfittare di quel momento di lucidità per richiamare tutta la mia volontà e tramite lei le forze. Chiamai la vita da ogni parte del corpo e mi misi a sedere sul giaciglio con in testa un solo pensiero: “Devo stare bene, devo stare bene, devo guarire.” Mi concentrai sui forti dolori di stomaco che provavo, come volessi viverli nella loro intensità, poi buttavo via ogni pensiero di paura che si affacciava alla mente ogni tanto, e piano piano miglioravo. Per lo sforzo e la febbre sudavo, ma l’energia la sentivo, arrivava. Infine mi sentii di nuovo viva e riuscii ad alzarmi. Cercai di ripulire alla meglio e scesi le scalette per gettare i rifiuti all’esterno. Il peggio era passato. Il giorno dopo arrancai al villaggio. Valicando il muretto di pietra che limitava la proprietà della casa trovai un braccialetto per terra in mezzo al sentiero, sembrava che aspettasse me. Avevo desiderato qualcosa da mettere al polso che fosse simbolo di quest’altra iniziazione che avevo affrontato. Qualcosa da guerriero, ed ecco quel braccialetto. - 21 -


“Allora ci sei, ti devi far vedere, ti tiro giù dal cielo, Padre sconsiderato!” Al villaggio mi consigliarono di mangiare yoghurt per guarire del tutto. Lo feci. Mi sentii subito meglio. Mi capitò sotto gli occhi una cartina della zona e lo sguardo cadde su un punto preciso, un nome: Muktinath, tempio di Shiva. Ecco dove troverò il mio Signore. Decisi di dargli l’appuntamento per la prossima luna piena, che sarebbe stata alla fine della settimana. Non c’era tempo da perdere, raccattai le mie cose, poi guardai il favoloso sacco a pelo di Guido e lo ritenni troppo bello per una pellegrina in cerca di Dio. Così resi felicissimo uno sherpa sconosciuto che lo ricevette in regalo. Scalza partii dal villaggio. Scalza mi misi a correre su per i monti. Raccolsi per strada i famosi magic mushroom, funghetti allucinogeni e, sali e scendi in questa bellissima jungla, alla sera arrivai ad un punto di ristoro che era una semplice abitazione nepalese. Chiesi alla madre di famiglia se mi cucinava un riso con i funghi e mi accomodai nella stanzetta che mi avrebbe ospitato quella notte. Il riso era molto e buono e seguendo la mia abitudine ne mangiai fino all’ultimo granello. Molto stanca mi sdraiai sulla branda e... in un attimo uscii dal corpo. Mi trovai seduta sull’armadio e guardavo il mio corpo: la Titti distesa sul letto come morta, ed io ero lassù. Nessuno mi aveva mai parlato di corpo eterico, di viaggi astrali, ero annichilita dalla paura. Unico desiderio: tornare subito lì dentro. Dentro quel corpo! Ma non mi muovevo! Non riuscivo a muovermi solo comandando con la mente come si fa nel regno della materia. Cercavo di dire al mio spirito di tornare subito al suo posto, ma niente da fare, rimanevo lassù seduta. Il terrore era totale. Ad un certo punto, non so come, realizzai che ci si muoveva con la volontà, ma non con la volontà del cervello, con una volontà a sé, che si poteva manifestare solo se mi tranquillizzavo. Un attimo dopo ero serena, et voilà, eccomi rientrata velocissima nel corpo attraverso una fessura, come un accesso al livello dell’ombelico. Oggi posso immaginare che forse c’era qualche angelo invisibile accanto a me, che mi aiutò suggerendomi come muovermi. Chissà, so solo che improvvisamente seppi come fare per tornare nel corpo. Non mi piacque nulla quell’involontaria esperienza e decisi di non esagerare più con i magic mushroom.

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Il Tempio di Shiva

All’alba ripresi la corsa verso il tempio di Shiva. Il freddo era intenso, i piedi nudi affondavano nelle pozze d’acqua ghiacciata. Correre mi scaldava, poi si alzava il sole e il caldo permetteva di rilassarmi e godere il panorama. La catena himalayana si ergeva nella sua potenza, tutta lì, davanti a me piccola piccola. Beata, felice, immersa in quell’energia, in quella natura, quell’attimo era un sogno per me. La sacra vibrazione di quei luoghi mi permeava, l’assorbivo attraverso il respiro dei polmoni e quello della pelle che coprivo solo con uno slip e una canottiera. I piedi volavano di pietra in pietra su e giù per le salite. Passai da Tatopani, meta per molti giovani attratti dalle sorgenti di acqua calda. Non mi fermai, non c’era tempo, e corsi verso il Mustang attraverso boschi di abeti che contrastavano con la jungla tropicale incontrata nei giorni precedenti. Arrivai nell’ampia vallata di un fiume, immensa distesa di sassi bianchi, spazzata dal vento e percorsa a cavallo dai tibetani. Il tragitto era costellato di templi buddisti, con le ruote del Dharma da girare lungo il cammino, le bandiere con i mantra che inviavano le preghiere nel mondo attraverso il forte vento. Spiando dalle porte aperte si scorgevano nel buio i monaci che cantilenavano nenie affascinanti. Che mondo fatato, come ero felice! Peccato che la diarrea avesse ripreso a disturbarmi. Riuscii a contenerla a fatica fino all’arrampicata finale verso il tempio di Muktinath. Quella notte ero andata di corpo continuamente, al mattino mi sentivo debole, ma l’aria frizzante dei 4.000 metri mi dette l’energia necessaria per proseguire. Dovevo andare. Il cammino venne interrotto spessissimo da soste forzate. Gli stimoli intestinali mi accucciavano da un lato eppoi via di nuovo su e ancora su. Ero distrutta, la dissenteria non accennava a smettere ed io dovevo arrivare al mio appuntamento. Quella notte sarebbe stata luna piena, solo un pensiero avevo in mente: “Devo arrivare, devo arrivare.” Mi trascinavo su per la salita che non finiva mai. Sentivo però che quello sforzo fisico e la volontà che necessitava per affrontarlo erano la miglior medicina per quell’indisposizione. “Eccolo, è quello.” C’era una piccola serie di templi, con un ruscelletto - 23 -


che scorreva accanto. Mi diressi verso il primo e lì, di fronte al tempio di Shiva, mi liberai completamente. Emisi tutta l’acqua putrida che mi rimaneva nell’intestino e la malattia finì lì. Mi tirai su e iniziai a cercare: “Adesso Shiva deve venir fuori.” e invece sbucò fuori un vecchio pujari che mi aprì un tempio. Vidi uno yoni-lingam e una statua, non capii bene. Non mi significavano nulla. Rimaneva il gran vuoto, non era quello lo Shiva che cercavo. Lo volevo sentire vivo. Il vecchio se ne andò, rimasi da sola... che delusione terribile. Lo stesso vuoto dentro! Non era successo niente. Niente! Avevo dato il massimo di me. Ero una ragazzina di diciannove anni che in preda alla diarrea si era trascinata in cima all’Himalaya per amore suo e questo Shiva non si era impietosito neanche un po’! M’accasciai vicino al ruscello e mi misi a piangere e poi ad urlare a piena voce nel silenzio dei 4.000 metri: “Se ci sei esci fuori! Non lo vedi che ho dato tutta la vita per te, non lo vedi che non ho nulla, sono solo una povera bimba, non ti faccio pena?” Così gridai e rigridai e alla fine, stanca, impotente, mi zittii e restai ad ascoltare il rumore del ruscello. Niente, solo questo vuoto, questa sensazione angosciante di vuoto e di dubbio. Quindi mi arrivò l’idea. Guardando in alto si vedevano “vicine” le vette degli 8.000 metri. Fra due di queste una sella mi attirò. Avevo letto sulla carta che si chiamava Torong Pass, m. 5.800. Ripresi a parlare con l’invisibile Amato: “Se tu non esisti, io non voglio più vivere, questa vita non ha senso, non è niente, è solo una gran morte. Se Dio non esiste, se Giustizia non esiste, preferisco non vivere questo caos.” Presi la decisione: “Voglio che ti mostri. Lo voglio! Domani salirò su quelle montagne, se ti interessi di me ti farai vedere e mi impedirai di morire fra i ghiacci eterni.” Sconvolta ma felice di aver trovato la soluzione definitiva, me ne scesi alle case più vicine. Mi venivano in mente le parole di mio padre che a tavola parlava di Dio ai figli. Sosteneva che quando si muore ci si fonde con il tutto, con l’impersonale energia creativa divina, il corpo torna ad essere polvere e la coscienza individuale non esiste più. Terribile, non ci potevo credere. Il mondo era così meraviglioso e non poteva finire in un niente così totale. Ma neanche mi convinceva l’insegnamento di mia madre che parlava del Paradiso come meta della vita, in cui si godeva di un’infinita gioia. Avevo pochi anni allora, cinque o sei, ma passavo ore insonni di notte chiedendomi: “Se ora muoio e vado in Paradiso, sarò felice, eppoi sarò felice, - 24 -


eppoi dopo? sarò felice.” ma non poteva andare avanti eternamente, che noia! Come si poteva stare in un tempo senza fine. No, doveva esserci un’altra vita senza tempo. Trovata questa soluzione mi addormentavo soddisfatta. Ed ora finalmente ero sul punto di sapere la verità.

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Oddio, è nato malformato!

Dagli inizi dell’ottocento in famiglia nascevano sempre e solo maschi. Così andava avanti di generazione in generazione finché in quella attuale, come era ormai prassi, nacquero tre bellissimi fratellini. I miei però desideravano molto una figlia e mia madre con la forza della fede credette possibile chiedere un regalo al Signore. In cuor suo pregava lo Spirito Santo di esaudirle questo grande desiderio, caro specialmente a suo marito: una figlia femmina. Una bimba! E il Signore la esaudì. A distanza di quattro anni dall’ultimo figlio, fra la gioia generale e un’ombra di incredulità, nacqui io. Appena mi vide, mio padre fece una battuta rimasta famosa, ma che né io né mia madre abbiamo mai realmente apprezzato: “Oddio è nato malformato!” C’è chi dice che il babbo in quel momento fosse ispirato. Comunque per il battesimo organizzarono una grande festa, con fuochi artificiali e molti ospiti. I miei erano felici e orgogliosi di presentare in società la figlia tanto attesa, che venne chiamata con un nome studiato accuratamente, carico del significato dell’importante evento. Maria Letizia Donata entrò così a far parte di quella felice famiglia e di questa umanità nel settembre del 1961. L’ambiente in cui mi trovavo apparteneva all’alta borghesia, e il nostro tenore elevato. Mio padre si era appena trasferito da Milano alla sua città natale, Livorno, a cui era rimasto sempre molto legato e dove ora era giovane primario di un reparto dell’ospedale. Per mia madre ero una bimba tranquilla e dolce - fin troppo a giudizio del babbo abituato alla vivacità dei ragazzini - dove mi mettevano stavo. Non piangevo, mai mi lamentavo. Ero una pace per la giovane donna indaffarata per la gestione della famiglia e della carriera del marito, completamente dedito alla professione in cui si dimostrava estremamente brillante. Trascorse un anno, e i miei misero di nuovo alla prova la generosità di Dio cercando di mettere al mondo un’altra bambina. Nacque Guido, l’ultimo, il fratello a me più vicino in tutti i sensi, con cui ho mantenuto sempre un legame d’affetto. La prima memoria della mia esistenza viene spesso ricordata in famiglia: avevo un anno, mi mettevano in carrozzina accanto alla grande voliera delle tortore e un giorno mi trovarono che parlavo loro, imitandone l’idioma. - 26 -


Tubavo e mi rispondevano. Il nostro dialogo sembrò ai miei così reale che mio padre si allarmò. Sua figlia non diceva ancora né “Ma” né “Ba”, ma solo “tu... tu... tu...” botta e risposta con le tortore. Fece immediatamente spostare la carrozzina dicendo che la bambina doveva imparare a parlare correttamente e non a comunicare con gli animali, contrariando mia madre che, da vera devota di San Francesco (di cui porta il nome), invece apprezzava questo precoce amore per la natura che sua figlia manifestava. Qualche anno dopo, la compagnia dei quattro fratelli si dimostrò l’ambiente ideale per dar libero sfogo a quell’istinto di giovane guerriero che era l’impronta del mio spirito. Condividevamo giochi spericolati, casette sugli alberi, bande di monelli, in particolare amavo immaginarmi pellerossa e strisciavo per ore sola attorno alla casa, colpendo visi pallidi che spuntavano come funghi dietro ogni cespuglio. Mia madre era fedele seguace del metodo educativo Montessori e la libertà di scalmanarci era pressoché illimitata. Non esisteva gioco pericoloso che ci fosse vietato ed i miei fratelli maggiori me li insegnavano tutti. L’educazione comunque non ci era certamente risparmiata. I miei amavano le regole ed il galateo ed erano orgogliosi di sfoggiare questi cinque bimbi in scala, così vivaci ma a tempo opportuno così educati. Eravamo abituati ad aspettare, anche a lungo, che mio padre si sedesse a capotavola ed iniziasse a mangiare, prima che ci fosse permesso di addentare la prima forchettata di pasta fumante. Poi tutti si portavano via il piatto e aiutavano a sgombrare la cucina, nonostante la servitù non mancasse di certo. Passarono così quegli anni felici, fra giochi in giardino, mattinate a scuola, vacanze in roulotte a Cortina d’Ampezzo. Lo scopo di vita dei miei era diventato la cura di questi cinque figli. Ogni loro sforzo era volto ad offrirci il meglio della vita. Mia madre faceva attenzione che godessimo di molti mesi di mare e altrettanti di montagna. Si dedicava alla nostra educazione culturale con molta cura, senza porre in second’ordine lo sviluppo fisico al quale eravamo tutti incoraggiati. Appena era possibile ci scarrozzava in auto a visitare famosi centri storici, ricchezza d’Italia, illustrandoci, da vera appassionata quale è, tutto ciò che c’era da sapere. Eppoi ci iscriveva a corsi sportivi di ogni tipo, dal tennis alla barca a vela, l’alpinismo, l’equitazione, la scherma. Tutto ciò che desideravamo ci veniva offerto. I cinque fratelli si volevano molto bene e sentivano profondamente l’importanza dell’unione familiare. Non era raro vederci tutti insieme impegnati a scendere dalle cime - 27 -


dei pini marittimi del giardino in corda doppia libera. I più grandi insegnavano ai più piccoli e come eravamo orgogliosi delle capacità atletiche di Claudio, chiamato ‘uomo-scimmia’. E di Roberto che sapeva tutto sulla storia della Terra e dei suoi sassi. Eppoi Enzo che, ancora oggi non so come, ci faceva comunicare da una camera all’altra con un improvvisato telefono o un telegrafo che scriveva i messaggi con la penna Bic attorcigliata su un fil di ferro. Dell’ultimo, Guidino, non dico niente perché tale era l’amore che ci univa che eravamo sempre insieme. Siamo stati ragazzi molto fortunati ed eravamo felici. La femminuccia poi era la più coccolata e se ne apprezzava il carattere mite. Ero una bambina responsabile, servizievole, brava a scuola, esempio di ubbidienza. Ero il quotidiano metro di confronto che il babbo e la mamma portavano ai miei fratelli: “Fate come la Titti - questo fu il soprannome che mi fu dato alla nascita da Enzo - studiate come la Titti, ubbidite come fa la Titti.” Figlia unigenita tanto amata, pensavo di essere una bambina perfetta, così come descrivevano con orgoglio i genitori ai loro amici. Inizialmente apprezzai molto la considerazione degli adulti, ma poi cominciai a vivere come una specie di ossessione questo esempio di “bene” che impersonavo, e me ne liberai volentieri alla prima occasione, alla porta dell’adolescenza. Capitò che, basandosi sulla totale fiducia di cui godevo presso i genitori, fu deciso di mandarmi, come premio per l’esame di terza media superato brillantemente, sola con Guidino nell’abituale campeggio di Cortina. Che pacchia! La mamma ci aveva dato diecimila lire, quando sarebbero finite sarebbe arrivato il resto della famiglia.

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Chilum

Questo fu l’inizio, la prima avventura. Quei soldi non ebbero mai fine. Ci divertimmo come pazzi, godemmo il gusto di fare tutto ciò che è sempre stato vietato ai ragazzini. Non abbiamo mai dormito la notte, ma sempre per principio gozzovigliato coi più grandi. Ho incominciato a fumare un pacchetto di Marlboro al giorno, che mi valse il soprannome di “De Fumis”. Rubavo nei supermercati da bere e da mangiare per tutti (naturalmente anche le sigarette venivano “prese in prestito” - così si diceva per essere raffinati) e, peggio che mai, insegnavo anche agli amici le tecniche più ricercate per vivere “gratis”. Chissà da dove mi veniva tutta questa voglia di rompere le regole. Era un gioco divertentissimo. Un po’ una sfida al mondo dei “grandi” e un po’ un mostrar a me stessa il coraggio di cui ero dotata. Un giorno, in un bel pomeriggio di sole, stravaccati su un prato verde alla base di quelle rosse Dolomiti, il ruscello che scorreva lì sotto nel bosco, ecco comparire il Chilum... Quel sacro oggetto, il fratello chilum che mi accompagnò in quegli anni. Quell’essenza che veniva fumata con la speciale pipa mai mi fu presentata come droga, ma come sostanza magica, di antico culto, che dava la possibilità di affacciarsi al mondo sottile che ordina la natura. La chiave di quella porta che separa i due mondi. In quegli stessi giorni scoprii anche altre cose che fanno parte della vita: vidi ad esempio che fra ragazzini e ragazzine c’era attrazione, succedevano strane cose. Questa scoperta però mi interessava molto meno del fumo e di quella condivisione di avventure e rischi di cui ogni giorno era una miniera. Arrivarono i genitori e finì così questo primo assaggio di libertà. Il secondo e definitivo incontro con il chilum avvenne qualche mese dopo, quando feci la prima brucia e saltai la lezione del ginnasio a cui ero stata iscritta come si conviene a una figlia di buona famiglia. Andai nell’unico parco della città con l’intenzione di mettermi in pari con i compiti arretrati, studiando nel verde, sotto l’amato sole. Venni invece distratta da un gruppo scalmanato di adolescenti che giocavano con l’attrezzatura con cui veniva annaffiato il prato. Lotte furibonde con gli schizzi d’acqua, risate e botte, io facevo finta di niente con aria di superiorità, finché non mi arrivò - 29 -


addosso un’ondata devastante sui libri e sul quaderno. Era una dichiarazione di guerra: mi tolsi i pantaloni e gli indumenti ingombranti e mi buttai nel mucchio. Dopo poco tutti avevano seguito l’esempio, per conservare qualcosa di asciutto e, selvaggi semi nudi, ci divertimmo come pazzi. Quando fummo soddisfatti ci sedemmo in cerchio ed eccolo spuntare fra noi: il chilum. Iniziò così il rito guidato dal più anziano, capelli biondi lunghi, aria serafica, appena tornato dall’India. La preghiera recitata per l’occasione, che ai miei orecchi suonava molto simile ad un grido di guerra, si rivolgeva a Shiva. Udito questo nome un’altra scossa elettrica percorse il mio corpo, ancora più forte di quella che mi colpì alla prima apparizione del chilum. “Shiva”, quel suono mi fece battere il cuore. Shiva! Una rivelazione! Era tutto per me. Iniziò così una storia d’amore con quella parola, con quel mantra di cui percepivo con chiarezza il potere. Cominciò ad esser parte essenziale della mia vita, parola di rito quotidiano, che suscitava in me grandi emozioni e si faceva motore dei miei impulsi vitali. Ero assetata di quei riti, della condivisione di emozioni con quella tribù di giovani creativi e amanti della vita. C’era qualcosa dietro... Era molto importante fumare come una preghiera, chiamare dentro di me lo Spirito. Gli chiedevo di svuotarmi la testa da tutti i pensieri, dalle paure inconsce, dal rumore che avevo in mente e che mi dava molto fastidio. Ormai facevo il liceo classico, così gli stessi studi e il pensiero illuminista e razionale che il babbo ci insegnava in famiglia dicevano che mai si dà retta all’istinto, all’ispirazione. Tutto va pensato, ponderato e razionalizzato, quando poi la mente dà il suo consenso allora si può agire. Sempre teleguidati dalla mente razionale. In realtà mi vivevo il mondo mentale come un peso opprimente che mi soggiogava, mentre una parte di me era convinta che quella fosse la via giusta, che mi avrebbe portata sana e salva alla meta della mia vita. Ma in fin dei conti sentivo solo la mente ingombra. Allora non andavo a scuola, scappavo, andavo sul mare, cercavo di fare il silenzio nella mente, sforzandomi di concentrarmi sul suono delle onde che si infrangevano sulla scogliera, il vento. E non ci riuscivo, sentivo sempre tutti questi pensieri rumorosi nella testa, rumorosi e despoti, comandavano loro. Tutto iniziò così. In famiglia cominciai a sentirmi stretta. I genitori, quando arrivammo all’età dell’adolescenza, negli anni caotici del post sessantotto, in risposta - 30 -


alle nostre prime ribellioni dettero una bella sterzata all’educazione libertaria. Non tanto nei confronti dei fratelli che, godendo del privilegio di esser maschi, anche a dodici anni potevano inforcare la bicicletta e fare il giro dell’Isola d’Elba per esempio. Fu proprio nei miei confronti invece che l’educazione si fece molto all’antica, severa, secondo valori di cui non capivo il significato: ne soffrivo solo i limiti. Non mancava certo l’affetto, ma le disposizioni erano troppo restrittive, troppa era la protezione per il mio istinto selvaggio, che dovevo reprimere per la maggior parte del tempo. Dicevano apertamente che mi tenevano come si tiene un prezioso tesoro sotto una campana di cristallo. Ed io mi sentivo proprio così, mi sentivo morire. Non riuscivo ad esprimermi. Tutta la mia vita era quello che riuscivo a fare quando mi trovavo fuori di casa, protetta da qualche enorme bugia. Era tempo di avventura, nottate insonni di fantasia sfrenata, richiamo del Grande Spirito, immersioni totali nella natura, fuochi, barche rubate per l’occasione e grandi remate notturne, la luna piena, il fumo, lunghe conversazioni sul senso della vita. Tutto questo intercalato con il college di Oxford, le feste di società, le amicizie per bene, i purosangue montati col cap, le crociere col Rotary dove ero la signorina B. figlia del Professore, straconosciuto chirurgo di fama. Non volevo la signorina dell’alta società, volevo essere una specie di pellerossa, uno spirito libero, galoppante in cerca della Verità. L’abbondanza materiale non mi ha mai affascinato, forse anche perché ho avuto la fortuna di sguazzarci fin dalla nascita. Mi fosse mancata, forse l’avrei cercata come molti altri. In famiglia non mi sentivo più felice. I problemi erano molti e pesanti. Mia madre combatteva quotidianamente con i postumi di quel suo lontano incidente automobilistico, le cui conseguenze non volevano lasciarla. Mio padre, sempre assente, era immerso nella professione che pretendeva il sacrificio totale della sua vita personale. I miei fratelli, come tutti gli adolescenti, iniziarono a dare un sacco di problemi: chi non studiava, chi scappava con la barca, chi aveva difficoltà nevrotiche a confrontarsi con gli altri membri della famiglia, chi prendeva una brutta piega, insomma come in molte famiglie. E il risultato era che in quella casa, una grande villa la cui conduzione richiedeva un bell’impegno, non c’era mai pace. Urla e scenate erano all’ordine del giorno. Il caos sociale, che incideva non poco, l’egoismo adolescenziale e la paura che dirigeva le azioni degli adulti portavano ad una - 31 -


lancinante nevrosi. Entrando in casa sapevi già che ti aspettavano urla e strepiti, mai serenità e soddisfazione. Dio mio che sete di pace! In più quei “maledetti comunisti”. Secondo mio padre eravamo, mio fratello minore ed io, manipolati dai rossi per distruggere l’istituzione della famiglia. Non veniva gradito che si frequentassero amici figli di sindacalisti o di genitori troppo moderni, oppure se scioperavano a scuola o se avevano l’aria hippy. Esisteva il terrore della droga e dell’invasione russa, che i miei pensavano fossero frutto della stessa mente nemica. Eppoi ero una fanciulla! Guai ad uscire con un ragazzo, e mai la sera. Non sopportavo come non avessero fiducia in me, specie sotto quest’aspetto in cui mi sentivo così forte e non influenzabile. Sapevo di essere una persona determinata nelle scelte, che attuavo secondo i valori umani fondamentali quali l’altruismo, la correttezza, il coraggio. OK, fumavo marijuana e vestivo un po’ trasandata, ma quale fedeltà nelle amicizie, che amore per la Terra, che amore per la conoscenza! Non meritavo di essere tenuta così in cattività senza godere di alcuna fiducia. Di una cosa ero certa: il mio desiderio non era godermi la vita, ma sapere perché esiste la vita. Perché vivere in questo alternarsi continuo e senza senso di gioia e dolore, felicità e sofferenza, emozioni queste che a quindici anni si vivono con un’intensità tale che solo un coetaneo capisce. La vita era una ininterrotta aspirazione alla felicità, corredata da una miriade di continue delusioni. I rapporti fra i membri della famiglia sembravano non migliorare mai, sembrava non esserci soluzione. Mi salvavano solo i risultati scolastici che erano buoni e il corretto comportamento nella conduzione della comune vita quotidiana - di questa educazione al lavoro compiuto con senso del dovere oggi sono molto grata - all’occorrenza cucinavo, apparecchiavo e sparecchiavo la tavola, lavoravo in giardino, ecc. Mi avevano insegnato che tutto ciò era mio dovere, essendo l’unica figlia in famiglia. Dovevo anche aiutare mia madre, che aveva quell’handicap al braccio destro che le rendeva molto faticoso ogni più semplice lavoretto. Trovavo il tempo fra un compito e l’altro, va bene, lo dovevo fare, ma nel complesso che noia e tristezza quella vita. Guardando nell’album familiare l’espressione che predomina sul mio viso in quegli anni dell’adolescenza è di sconsolata tristezza, mascherata da una specie di sorriso d’obbligo per i rapporti sociali.

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Il Signore mi libera

Arrivarono così i diciotto anni, con il desiderio di andarmene di casa per poter condurre io stessa la mia vita, di cui dovevo ancora scoprire il significato. Non volevo però esaudirlo perché mi sentivo responsabile della famiglia ed in particolare dei miei genitori. Scappare di casa era come un sogno inattuabile che cullavo in un angolo della fantasia. In realtà non volevo assolutamente farlo. Non ero una persona che poteva, con leggerezza, disinteressarsi delle conseguenze di un simile gesto. Non mi sentivo di poter procurare un dolore così per egoismo. Mi avvicinavo dunque a quel fatidico giorno della maggiore età e non avevo ancora deciso nulla. E fu lì che arrivò il Signore con la Sua organizzazione perfetta. Infatti preparò tutto. Una cara amica mi disse che il suo ragazzo tedesco aveva deciso di dare l’esame di anatomia in Germania, dove sarebbe stato più facile che a Pisa, e che quindi era in cerca di un amico che vivesse per un anno in casa sua. Karl avrebbe pagato tutte le spese, in cambio una persona di fiducia avrebbe dovuto tenere la casa vissuta e aperta, prendendosi cura di tutte le cose che lasciava lì. La casetta si trovava sul mare a venti chilometri da Livorno. Così trovai questa casa bell’e pronta ad accogliermi, anzi mi si pregava di andarci, tutto pagato, tutto organizzato. Il buon Dio fece poi accadere un evento che fu caso unico nella mia vita ma che, nella sua drammaticità, fece scattare la molla, la scintilla che scatenò l’incendio. Successe così: la mia compagna di scuola trotzkista aveva dimenticato sotto il banco un mucchietto di volantini. Sapendo della fatica che costava la stampa di quella propaganda politica a quei ragazzi che passavano le nottate al ciclostile, presi con me i fogli, certa che il bidello li avrebbe buttati. Da parte mia il disinteresse per la politica era totale, non ci capivo niente, troppo intellettuale per me, fu un gesto solo di amicizia. Mio padre aveva il terrore dei comunisti, e non solo lui. Consapevole di questo presi i volantini e me li portai a casa pensando che avrei raccontato la verità. Non mi illudevo che ci avrebbero creduto, visto che dicevo tante bugie per nascondere la mia segreta vita ribelle. Si era creata una situazione di repressione totale, mancava la fiducia da entrambe le parti. - 33 -


Così con coraggio misi i volantini sulla scrivania della mia camera, nascosti con disinvoltura da un libro appoggiato sopra. Tornai la sera e trovai un tremendo litigio in atto. Mio padre furioso, mia madre altrettanto, urla e strilli e accadde ciò che non era mai successo prima: mio padre mi mise le mani addosso urlando che aveva il nemico in casa. Una scena folle, di quelle che colorano ogni tanto la quotidianità di ognuno di noi, che avrà avuto le radici nella stanchezza ormai perenne del babbo o in chissà quali altre problematiche. Fatto sta che il giorno dopo andai a scuola con il labbro spaccato e un occhio nero. In queste condizioni mi vide la professoressa di latino, di sinistra, socialista, e in quanto tale non molto apprezzata nell’ambiente del Classico. Aveva molta stima di me, così, appena mi vide, mi consigliò di andare dalla signora D. ispettrice di polizia femminile che, in quel contesto storico di fine anni settanta, aveva fra gli altri il compito di riportare in famiglia le ragazze scappate di casa. Nell’ambiente dei giovani tutti la conoscevano ed era il chiaro nemico da scapolare nei momenti drammatici di liberazione di tutti quei “figli imprigionati nelle famiglie”. Invece la professoressa mi disse di andare da lei a consigliarmi e di raccontarle i miei problemi perché si trattava di una persona in gamba. Avevo appena compiuto i diciotto anni, potei perciò interrompere la lezione e mi recai dall’ispettrice così su due piedi, senza appuntamento. Avemmo un colloquio di una mezz’oretta, durante il quale la signora D. rimase positivamente impressionata dal senso di responsabilità che mostravo e fu proprio lei a suggerirmi che la cosa migliore per me sarebbe stata andarmene via di casa! Occorreva che mi separassi per un periodo dalla famiglia perché, conoscendo queste situazioni, diceva che era deleterio mantenerle: “Non portano progresso né ai genitori né ai figli, parlerò io con tuo padre e ti troverò un lavoro.” Le raccontai dell’opportunità della casa che mi era capitata qualche giorno prima e lei, contenta, mi chiese di presentarle il mio amico tedesco proprietario dell’alloggio. Tornai così il giorno seguente con Karl, che si rivelò di suo gradimento, e lì per lì decidemmo il da farsi per l’indomani. Andai a casa, preparai le valigie. Intuivo che stavo seguendo una volontà superiore che era il mio stesso desiderio vitale, ma non mi sentivo affatto tranquilla con la coscienza. Abbandonare la famiglia è una cosa che non si fa, ma era per me come una questione di vita o di morte. - 34 -


Preparai l’ultimo caffè a mio padre che riposava e, piano piano, col cuore in gola, chiusi il cancello dietro di me. Karl mi aspettava fuori e mi portò nella sua casetta. Un posticino da sogno per me. Tutto quello che desideravo c’era: il soppalco di legno e grandi stuoie, era arredata in stile indiano, con un’attrezzatura da favola per sentire la musica. Il mio piccolo giradischi aveva fatto una finaccia sotto i piedi di mio padre, così ora sapevo ben apprezzare quelle casse alte un metro e le bobine che davano musica per dodici ore consecutive. Venivano esauditi tutti i miei desideri in un attimo. Al colmo della gioia mi piazzai lì, mentre la signora D. telefonava a mio padre comunicandogli il mio allontanamento protetto dalla sua autorità. Figuratevi il dolore e l’umiliazione che dovette affrontare in quel momento il mio babbo. Fu un tradimento per lui, per il suo amore di padre e per il suo onore. La vita a volte si maschera con un volto di ingiustizia ed è veramente crudele. Questo enorme sacrificio imposto ai miei genitori fu per me al contrario fonte di felicità e base per il mio futuro. Chi aveva torto, di chi era lo sbaglio? Ognuno stava facendo del proprio meglio secondo criteri e desideri personali. La volontà divina, che coordina le azioni umane da perfetta regista, aveva posto la sua firma negli avvenimenti. Se non avessi trovato una casa, se l’ispettrice di polizia non mi avesse incoraggiato (ispirata chissà come) ad abbandonare il mio ruolo di figlia di buona famiglia, come avrei potuto iniziare a vivere da sola e dare così libero sfogo alla ricerca della mia anima?

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Libera

Era il settembre 1979. Iniziai a vivere libera. Mi scoppiò addosso tutta la gioia che avevo accumulato in qualche nascosta cassaforte ed in preda all’idealismo feci il primo grande gesto: presi le chiavi di casa e le volai in mare, che era lì di fronte, con un pensiero: “Adesso questa casa è di tutti.” Non conoscevo ancora gli ashram, ma lo spirito voleva essere lo stesso e mi attenni a questo principio fermamente, nonostante a volte abbia comportato qualche sforzo di volontà nella scelta fra i desideri egoistici e l’ideale da seguire. La notizia dell’avvenimento si diffuse in un batter d’occhio e tutta la tribù venne a trovarmi e a godere di quel nuovo spazio di libertà. Ballavamo notti intere immersi nella gioia di esserci, ci chiamavamo fratelli, ci sentivamo figli di Shiva. Regnava il rispetto reciproco e la voglia di scatenare le energie vitali, fra la natura e i concerti rock, i bagni in mare sotto le stelle e le notti fredde sui monti mangiando erbe e funghi, magari anche un po’ allucinogeni. Non avevo lasciato la scuola. Per una questione di orgoglio volevo dimostrare alla famiglia che, anche se avevo fatto questa scelta, avrei potuto finire gli studi. Il liceo si trovava in città a venti chilometri dalla mia nuova residenza. Così, non avendo i soldi per l’autobus, facevo l’autostop sull’Aurelia e ogni giorno scambiavo due parole con qualcuno di nuovo e ascoltavo mille opinioni, mille consigli, e nuove idee. Mi mantenevo con tanti piccoli lavoretti improvvisati, come le pulizie degli appartamenti o la cucitura delle vele per le imbarcazioni da regata. Una volta mi capitò anche di fare la modella per un’artista sudamericana. Quello che mi mancava per vivere - non prendevo più niente “in prestito”, perché ormai da maggiorenne i rischi legali sarebbero stati reali - lo chiedevo agli amici e all’occorrenza cercavo anche un piccolo obolo per strada. Fu un periodo di grandi benedizioni, tutto filava liscio come l’olio. I ragazzi pure si dimostrarono responsabili ed animati dalle migliori intenzioni: mai mi mancò niente dalla casetta, al contrario trovavo sempre qualcosa in più. Aprivo la credenza e trovavo pasta o caffè che non avevo mai com- 36 -


prato, facevo le pulizie e scoprivo denaro nascosto sotto un vaso o dentro un cassetto che aspettava solo di essere trovato. Ero felice che l’ideale di una vita comunitaria, guidata da rispetto e stima reciproca, stesse diventando reale. Apprezzavo tantissimo quella vita in semplicità vissuta giorno per giorno, in cui l’indomani era sempre una sorpresa. Ecco una cosa di cui non potevo fare a meno: la serenità che nasce vivendo intensamente ogni attimo, liberi dal pensiero del futuro e del passato, ringraziando per tutto quello di cui la vita ci fa costantemente dono. Ogni quotidiana esperienza portava ad una progressiva crescita di consapevolezza e ad un pezzettino in più di verità. Per mancanza di fondi divenni obbligatoriamente vegetariana: la carne costa, le patate molto meno. Da analisi del sangue fatte un anno prima risultavo anemica. E sì che in famiglia mangiavamo carne a pranzo e a cena! Nonostante mi sentissi sanissima, ugualmente decisi di ripetere le analisi, a causa della nuova dieta piena di carenze. Che sorpresa quando vidi che l’anemia era scomparsa! Questa fu la prima crepa alla mia fede nella medicina tradizionale - di medicine alternative se ne sapeva ancora poco. Seguendo i consigli di un’amica sconvolta dall’idea che non fossi ancora mai andata dal ginecologo, decisi di fare un altro controllo medico. Così compii anche questo dovere e andai da un anziano collega di mio padre. Portai con me il calendario delle date del mio periodo mensile, che poi tanto mensile non era: lo tenevo con scrupolosa attenzione, secondo le istruzioni di mia madre. In quattro anni si intercalavano tempi di dodici giorni, settanta, trentacinque e via dicendo con un’irregolarità impressionante e poi, dal giorno della mia libertà, improvvisamente si poteva leggere: ventotto, ventotto, ventotto... Il dottore mi guardò negli occhi e mi disse serio in viso: “Qualunque cosa tu abbia fatto questo giorno, è stata la miglior cosa della tua vita.” “Dottore non volevo dirglielo: sono scappata di casa.” “Ebbene, professionalmente posso affermare che questo calendario ti dà ragione.”

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