Malti Maria Gabriele Wosien
Messaggio dall’Himalaya
Babaji Shiva Mahavatar
J. Amba Edizioni
Malti Maria Gabriele Wosien Collana Babaji Mahavatar
Messaggio dall’Himalaya Babaji Shiva Mahavatar Esperienze dal 1800 ad oggi La Danza di Shiva Babaji racconta del Saggio Vasishtha
J. Amba Edizioni
Messaggio dall’Himalaya Babaji Shiva Mahavatar
di Malti Maria Gabriele Wosien Foto b/n di Janki Rani Lisetta Carmi e AA.VV. Foto a colori in copertina di Kalavati: Il Kumaon Kailash e il fiume Gautama Ganga
Edizione e grafica a cura di Kalavati Maria Cristina Chiulli Titolo Originale: Babadschi, Botschaft vom Himalaya © Copyright 1978 Gertraud Reichel Verlag, Weilersbach, Germania 1a Edizione Italiana: © Copyright 1981 Alkaest, Genova 2a Edizione Italiana: © Copyright 1994 J. Amba Edizioni, Milano ISBN 978-88-86340-07-6 Bhole Baba ki Jai! “ Viva il Baba semplice come un bambino ! “ Egli è alto, giovane, radioso ...
3a Edizione Italiana © Copyright 2010
J. Amba Edizioni libro elettronico e-book ISBN 978-88-86340-57-1
Strada Battaglini A 2 - 74015 Martina Franca TA Italia - tel. +39 333 4681236 www.j-amba.com j.amba.edizioni@gmail.com
SADASHIVA AVATAR
Incontro
Bhole Baba Ki Jai! Bhole Baba Ki Jai! Queste grida di gioia salgono dal fiume e si odono sempre più chiaramente. Babaji, come ogni sera, ritorna dal suo bagno circondato dai fedeli e seguito da molti curiosi che osservano lo spettacolo e ripetono a gran voce l’annuncio: “Viva il Baba semplice come un bambino!” Sono le cinque: il caldo della giornata è finito. Una grande commozione pervade le persone in attesa: ognuno vuole essere il primo a toccare i piedi del venerato maestro o almeno arrivare all’orlo della sua veste, ognuno spera di venire in contatto con lui. Molti vedono il leggendario avatar (incarnazione divina) per la prima volta. Egli è alto, giovane, radioso; in un istante raggiunge il palco eretto per lui sotto una tenda colorata, batte le mani, ride fragorosamente. All’improvviso il suo viso cambia e assume un’espressione seria, quasi oscura. Uno della folla zittisce il pubblico, la gente comincia a sedersi, gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Babaji si è di nuovo alzato, con passo leggero si avvicina ai fanciulli e li fa sedere in file ordinate iniziando una lezione improvvisata: Om Namaha Shivaya. Om Na-ma-ha Shi-va-ya: Om, Io mi offro a Shiva, sia fatta la tua volontà, o Signore, Amen. Babaji si prende cura che i fanciulli pronuncino chiaramente le sillabe: con voci sottili essi ripetono la preghiera in coro, prima indistintamente, poi più chiaramente, e alla fine con ritmo preciso. I piccoli discoli sono trasformati e mi ricordano gli angeli di un quadro di Raffaello. Con gli occhi sgranati essi fissano un po’ timidamente l’alta e luminosa figura che sta di fronte a loro con il bastone, dall’aspetto dell’Angelo del Signore. La lezione finisce in dieci minuti e Babaji ritorna al suo trono.
Nel frattempo si è formata una lunga coda di devoti in attesa. Sono venuti da lontano per portare il loro amore al santo dell’Himalaya e per offrirgli il loro dono. Chi viene a lui si china e si inginocchia per toccargli i piedi, offre i regali che ha portato e si ritira rispettosamente. La devozione profonda e il modo riverente e umile con il quale questa gente si avvicina al venerato maestro è uno spettacolo commovente. Alcuni vengono con una richiesta di aiuto o per consiglio, a tutti Babaji dona la sua benedizione: alza la mano destra imponendola leggermente sulla testa della persona, chinandosi su di lei amorevolmente. Ora le ghirlande di fiori e le montagne di frutta che sono state offerte vengono distribuite tra i presenti. Attraverso il tocco della mano di Babaji questi doni hanno cambiato natura e sono perciò arricchiti della preziosa sostanza divina. Babaji dall’alto getta frutta e dolci fra la folla seduta ai suoi piedi e ognuno vorrebbe afferrare qualcuno di questi prasad. Questo lancio di doni da parte di Babaji gode di una speciale popolarità. “ Ma che tipo di santo è chi si comporta in modo così irrispettoso nel tempio? ” aveva chiesto un abitante del villaggio quella mattina osservando dubbioso. “ Egli è Bhole Baba ”, cercò di spiegare un devoto, “ Egli è il Signore, semplice come un bambino. ” Ci sono precisamente 1008 nomi, o maschere del Dio Shiva, per mezzo delle quali Egli è conosciuto, e Bhole Nath, il Signore della Semplicità, è una delle sue manifestazioni personificate. Perciò dietro il suo comportamento da fanciullo, Egli maschera la profonda serietà del suo Essere. Kashi Vishwanath Bhagwan è il titolo con il quale i suoi discepoli lo onorano: Kashi è il vecchio nome di Benares, la città sacra dell’India e la sede del tempio centrale di Shiva; Vishwanath Bhagwan significa Signore dell’Universo e si riferisce alla divina essenza del suo essere. All’improvviso si è fatto buio, le piccole luci colorate vengono accese e le ghirlande di fiori, appese ai pali della tenda, vengono poste a decorazione del palco. Babaji, frattanto, si è ritirato nel kutir, la sua piccola stanza privata. La folla dei devoti sta aspettando l’Arati, l’adorazione della sera. Si comincia il Kirtan - il canto degli inni religiosi, e la recitazione del sacro
mantra Om Namaha Shivaya. Il canto è accompagnato da un harmonium, tamburi e percussioni. Durante gli intervalli, immediato si alza nella folla movimento e confusione. Alcuni che sono appena arrivati spingono per arrivare ai primi posti già straripanti; qualcuno sta passando sopra la mia testa un bambino che strilla, e io mi sveglio dall’introspezione nella quale mi ero perduta. È tornata la quiete. Babaji è di nuovo al suo posto, con le gambe piegate, le mani sulle ginocchia, la testa inclinata leggermente in avanti, gli occhi abbassati. L’Arati inizia. La divina adorazione all’alba e al tramonto è la parte più sacra della giornata. Alla divinità che si adora vengono offerti fuoco, acqua, incenso e fiori, accompagnati da canti sacri e gesti rituali dei fedeli. Il fuoco, simbolo del potere divino, è potere purificante e immagine perfetta dell’illuminato; l’acqua viene offerta come elisir di vita. Durante questa cerimonia Babaji, che è adorato quale avatar, rende manifesta la sua essenziale qualità trascendente: vestita di bianco, la sua figura sembra non fisica, quasi dissolta nella profonda quiete che emana da lui e appare come sollevato nell’aria. I suoi occhi sono spalancati e guardano tranquillamente dentro il fuoco sacrificale, per l’intensa luce interiore il suo corpo è traslucente. Io guardo le facce di chi mi siede accanto: tutti sopportano il peso di una vita dura, ma la sincerità della loro devozione dà morbidezza ai lineamenti e la luce splende anche nei loro occhi. Non ricordo di essere mai stata testimone di una cerimonia più profondamente commovente di questa celebrazione del mistero della luce. L’adorazione serale finisce circa alle dieci con il suo improvvisato programma di canti religiosi, danze invocative dei devoti e il darshan per tutti i fedeli. Man mano la serata si trasforma in una festa popolare piena di colori vivaci che dà ragione al detto indiano: “non c’è guru senza colore”. Appena Babaji si alza per ritirarsi per la notte, tutti i presenti si disperdono nel buio. Ora c’è molta quiete. Il cielo stellato emana la sua pace sulla pianura. Alcune figure avvolte in coperte e accovacciate sotto la luce di una lampada a olio ascoltano le storie di un discepolo. Li raggiungo e mi siedo...
Durante questa cerimonia Babaji, che è adorato quale avatar, rende manifesta la sua essenziale qualità trascendente: vestita di bianco, la sua figura sembra non fisica, quasi dissolta nella profonda quiete che emana da lui e appare come sollevato nell’aria.
Della Filosofia Hindu
Gli Hindu (1) credono che dietro le svariate manifestazioni della vita ci sia un’unica energia di base e considerano loro primo dovere ritrovare questa unità, nascosta sotto le varie maschere con le quali la vita si manifesta. Questa energia unitaria può essere sperimentata nella vita umana come in quella cosmica. La mitologia dà a questa energia nomi e forme umane e animali. La pluralità della manifestazione divina è basata su una trinità: il potere creativo è venerato sotto le sembianze del dio Brahma, il potere conservativo sotto quelle di Vishnu, e il potere che dissolve tutto ciò che esiste e lo trasforma è di Shiva, terza persona della trinità. Brahma, Vishnu e Shiva hanno ciascuno la loro contro-parte femminile Shakti, cioè la forza con cui si manifestano. Dai tempi Vedici ogni divinità possiede doppio aspetto, benigno e violento. In accordo con questa ambivalenza della manifestazione divina, nella creazione tutti i poteri e le forme si incontrano in maniera antagonista dividendo una identità intrinseca. Secondo la tradizione, la manifestazione di tutti i mondi ed esseri rivela una legge immutabile e infinita, fuori del tempo, il Sanatana Dharma, identica alla verità assoluta e immanente in tutto il creato. Ogni deviazione da questa legge porta alla decadenza, alla malattia e al caos. L’evoluzione del cosmo, della terra e di tutta la vita si svolge in cicli giganteschi, i mahayuga, ognuno dei quali misura centinaia di migliaia di anni. Duemila di questi mahayuga, o 8.640.000 anni, sono un kalpa, o eone, un giorno e una notte di Brahma, il divino creatore. La porzione più piccola di tempo, o yuga, comprende quattro eoni, che sono brevi periodi in declino del Sanatana Dharma, la legge eterna, base di tutta la vita. Questa decadenza della legge divina e della perfezione della vita inizia dopo il primo eone, l’età della verità, il satya yuga, e finisce con il kali yuga, o età buia, nella quale solo un quarto di tutta la verità è ancora effettivo. Secondo un classico della mitologia Hindu, la società umana entra nel kali yuga quando: “La proprietà conferisce dignità, la ricchezza diventa l’unica sorgente di virtù, la passione l’unico legame dell’unione
tra marito e moglie, la falsità la sorgente del successo nella vita, il godimento dei sensi l’unico piacere e l’esteriorità unica forma di religiosità”. La deviazione dalla norma e la non attuazione della legge divina conducono ad una dissoluzione del processo creativo e a una distruzione generale del creato sulla terra. Questa dissoluzione nella mitologia è l’opera di Shiva e della sua divina consorte Mahakali. Ma, in questo periodo della notte cosmica nel quale stiamo vivendo, il seme di un mondo che rinascerà nella sua originale perfezione è già stato piantato. Shiva, il potere che dissolve e trasforma, è di nuovo tutt’uno con Brahma, il potere della creazione. Entro questa grande intelaiatura anche l’uomo ha il suo spazio, poiché secondo le Upanishad l’uomo con il suo atman, o il sé personale, è identificato con l’Essere Divino, il Paramatman, o l’universale stesso. Come manifestazione divina egli è implicato in maya, il velo che avvolge per l’uomo la realtà in sé, con la quale egli identifica se stesso. Ogni cosa transitoria è considerata irreale e soltanto il trascendente e l’atemporale è ritenuto reale. Essere legati alla irrealtà come fosse reale è considerata l’origine di tutta la sofferenza. Sofferenza qui è intesa non come colpa originale, ma come ignoranza della vera natura delle cose. Il tema centrale della filosofia Hindu e della vita religiosa è perciò la conquista della sofferenza attraverso la conoscenza della verità e della legge divina come struttura immanente di tutto ciò che è manifestato. La realizzazione della verità conduce alla liberazione dal ciclo infinito di causa ed effetto. Il pensiero indiano ha seguito la via dell’introspezione per la conquista teorica e pratica della realtà esterna attraverso l’osservazione e l’analisi dei processi spirituali, che sono maturati nell’esperienza profonda della vita religiosa. Gli asceti e i saggi indiani si considerano esseri da laboratorio e in se stessi sperimentano. La metamorfosi dell’uomo in una nuova coscienza, conduce alla definitiva soluzione dei problemi umani. In questi laboratori viventi avvengono trasmutazioni e trasformazioni chimiche degli elementi organici necessari alla formazione di un corpo spirituale o “divino”. Questi processi di trasformazione sono compiuti al servizio della materia, divina Madre dell’universo. Per la maggioranza dell’umanità
questi sperimentatori - yogi, sono la dimostrazione del divino incarnato, e specchio di ciascuno. L’Essere più alto, che è al di là di tutto quanto noi identifichiamo col mondo, è allo stesso tempo la sorgente dell’essere nell’uomo e del sacro in sé. Lo scopo di questa trasmutazione è la stabilizzazione di uno stato di coscienza non più turbato dall’illusione e dal dubbio. Con l’acquisizione di questa coscienza, l’uomo vede ogni cosa che gli si presenta, positiva o negativa, con imparzialità, tutto vede come forma della divinità in manifestazione: la sostanza divina della vita, permeando tutto l’universo e vivendo in ogni essere creato, è vissuta da questo punto di coscienza senza i limiti illusori della divisione. Secondo le Upanishad e i Purana il desiderio dell’uomo di adempiere alle sue più profonde aspirazioni viene realizzato solo con l’aiuto della incarnazione divina. La biografia di questi realizzati e illuminati deve essere letta come un simbolo e una personificazione delle leggi cosmiche.
Avatar, o Incarnazione Divina
Il concetto dell’Avatar (3), pilastro della teologia hindu, gioca un ruolo particolare nella ricorrente e periodica così detta “fine del mondo”. I grandi avatar sono rari. Essi appaiono sempre per brevi periodi durante momenti di crisi della storia del mondo, per curare il corpo del pianeta dal cancro che minaccia di disintegrare le sue strutture con un intervento decisivo. L’apparizione di un redentore in forma umana è stata spesso paragonata ad un nuotatore che, per poter salvare un uomo che sta annegando, si deve tuffare nella stessa acqua. Il fenomeno della divinità che passa dal trascendente al manifesto non è un unico evento storico, al contrario, la ricorrente incarnazione del divino è un tema centrale entro il gioco senza fine del processo cosmico di evoluzione. L’apparizione di un avatar ha sempre dato un profondo impulso allo sviluppo del mondo e un nuovo orientamento alla conoscenza umana. Gli insegnamenti e gli eventi significativi connessi con la sua apparizione sono rintracciabili nelle scritture tradizionali, nei grandi poemi epici, nei Purana, Shastra e Upanishad, e spesso vivono migliaia di anni dopo, nella tradizione orale. Infatti la discesa della divinità sulla terra è un avvenimento normale e se ne è già parlato in innumerevoli miti. La Bhagavad Gita dà la formulazione più chiara di questo concetto dell’avatar, dice che il divino si autogenera nell’avatar, quando l’uomo non rispetta più la legge divina: “Ogni volta che la spiritualità decade e l’ingiustizia predomina, allora, o Arjuna, Io mi manifesto; per proteggere i giusti, per distruggere i malvagi e per ristabilire il regno di Dio, in ogni epoca nasco per gli esseri mortali.” (4) Ramakrishna, il grande santo del 19° secolo, paragona gli avatar alle onde dell’infinito oceano divino: “Come un mare senza confini, l’energia divina vive dentro lo spirito e la materia. Questa energia infinita prende concrete forme durante una particolare epoca storica e così appare il Grande Essere come uomo... L’avatar è sempre lo stesso: egli
proietta se stesso nel mare della vita, emerge in un luogo ed è chiamato Krishna, si immerge di nuovo e appare in altro luogo come Cristo.” (5) L’avatar è il modello perfetto per la rinascita spirituale dell’uomo. L’insegnamento della dottrina dell’avatar dà la possibilità all’uomo di trascendere la realtà terrena e di stabilizzare la legge divina sulla terra. Il fenomeno della discesa è strettamente collegato con l’ascesa dell’uomo. In questo modo, la filosofia hindu rivela due aspetti della formazione divina: “Una è la discesa, la nascita divina nel genere umano, quando la divinità mostra se stessa in forma e natura umana: questo è l’avatar eterno. L’altra è un’ascesi, la nascita dell’uomo nella divinità: l’uomo sale al divino e diventa uno solo con Lui, oltre il ciclo della rinascita karmica.” (6) La differenza tra l’uomo divino e il dio umano è che l’avatar è completamente cosciente della sua identità con Brahman, e al contrario l’uomo, pur essendo creato della stessa sostanza divina, non ne è cosciente perché è legato alla percezione dei sensi. Ciò che permette all’uomo di sentire e percepire il significato di un avatar è la presenza in lui stesso dell’immanente divino: “l’uguale percepisce l’uguale”. L’avatar, la cui apparizione risponde all’attesa profondamente radicata in tutti i più intimi ed antichi desideri degli uomini, è però riconosciuto solo da pochi dei suoi contemporanei. Cristo, per esempio, fu ritenuto da molti del suo tempo il figlio del falegname di Nazareth, e i sacerdoti giudaici ortodossi lo considerarono soprattutto elemento di disturbo pericoloso alla loro stabilità; anche Krishna, uno dei molti principi del suo tempo, rivelò il suo potere divino solo a pochi dei suoi contemporanei. Adi Shankara (7), VIII° sec. d.C., uno dei più grandi maestri di Vedanta, ha commentato ampiamente il fenomeno dell’avatar. Egli dice: “L’ignorante pensa che io mi sia manifestato proprio ora, come fossi stato nascosto fino ad ora, eppure Io sono il Signore sempre luminoso. Io non sono manifesto a tutti, sono manifesto ai pochi che mi sanno credere; perché Io sono coperto dal velo di yoga maya.” (8) Gli scritti tradizionali religiosi sottolineano che è solo l’ignoranza della sua intrinseca divinità che rende l’uomo cieco. In rare occasioni l’avatar si rivela come Ishvara, il Signore della creazione, dissolvendo il
velo di maya, e permettendo così la visione spirituale al fedele. La trasfigurazione del Signore dalla forma umana a quella divina è l’esperienza che dà al discepolo l’illuminazione. “E dopo sei giorni Gesù prese Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li portò in un’alta montagna sperduta. E si trasfigurò davanti a loro: e il suo viso splendette come il sole, e la sua veste era bianca come la luce.” (9) “E quando fu appeso alla croce il venerdì alla sesta ora del giorno scese una profonda oscurità su tutta la terra. E il mio Signore stette nel mezzo della grotta, le diede luce e disse, ‘Giovanni, per la gente giù a Gerusalemme io sono stato crocifisso e trafitto dalle lance e deriso e mi hanno dato aceto e fiele da bere. Ma a te io sto parlando, e tu ascolta cosa dico: Io misi nella tua mente l’idea di venire su questa montagna, così puoi udire cose che un discepolo deve imparare dal suo maestro e un uomo da Dio.’ E quando ebbe detto questo mi mostrò una croce luminosa e intorno alla Croce una grande folla, che non aveva una forma... E io vidi il Signore sulla Croce, senza forma eccetto una voce; non certo la voce che conoscevo, ma una voce dolce e gentile e veramente voce di Dio... La moltitudine intorno alla Croce che non ha forma è la natura inferiore: non tutte le membra di colui che venne giù si sono raccolte insieme. Ma quando la natura umana è raccolta e la razza che segue obbedisce alla mia voce, allora colui che mi ascolta sarà unito con questa razza e non sarà più a lungo ciò che è ora, ma sarà sopra di loro, come sono io ora. Io non sono ciò che sono, fintanto che tu stesso non ti chiami ‘mio’... La prima cosa che devi conoscere è il logos; poi puoi conoscere il Signore, e per terzo l’uomo e ciò che ha sofferto.” (10) “Ecco, in me vivendo come una cosa sola, o Arjuna, ammira l’intero universo, mobile e immobile, e ogni altra cosa che vorresti vedere... Poiché non mi puoi vedere con occhi mortali, io ti dò la vista divina. Guarda ora la gloria della mia sovranità...! C’erano innumerevoli facce, occhi, bocche e meravigliose cerimonie mistiche con ornamenti, splendenti e fiammeggianti armi celestiali.
Incoronato con pesanti ghirlande, abbigliato con vesti lucenti, unto con unguenti divini, egli si mostrava come il risplendente, il meraviglioso, l’infinito, l’onnipresente. Mille fuochi che fiammeggiano insieme sarebbero solo un debole riflesso della radiosità del Dio Signore. In quella visione Arjuna vide l’universo, con le sue innumerevoli forme, tutte riunite in Uno, il Supremo.” (11) L’istante del mutamento di coscienza lo testimoniano i devoti di Babaji (12) nelle loro esperienze, come un momento di altissima iniziazione e come uno straordinario atto di grazia del divino: il credente partecipa alla visione di qualcosa che appare essere “totalmente altro”, ma più simile a sé che non se stesso. Il vedente s’immerge in ciò che contempla divenendo tutt’uno con l’origine.
L’Avatar nello Shivaismo
Nel dramma della creazione i jñani, yogi e siddha, cioè saggi, asceti e uomini dotati di poteri soprannaturali, hanno parte importante; ma è l’avatar che dà l’impulso decisivo all’evoluzione della conoscenza umana. La maggior parte degli avatar sono mortali; come Krishna e Cristo, essi lasciano i loro corpi alla fine della loro missione sulla terra; pochi, i Purnavatar, che incarnano il divino nella sua piena potenza, sono immortali. La tradizione dice di loro che non sono nati e che non possono avere una morte fisica, ma che sono presenti sempre e ovunque. Essi si manifestano in particolari periodi rimanendo altrimenti nascosti al mondo. Tutti i purnavatar sono incarnazioni di Shiva, come Hanuman, Baba Goraknath e Babaji. In tutte le epoche di grande transizione fra i periodi creativi, il compito supremo della dissoluzione della vita manifesta è nelle mani dell’Essere Infinito. Il Purnavatar o Mahavatar (14) appare sempre quando il grado di decadenza della legge divina è al di là del potere di integrazione dell’avatar stesso, per prendere parte come attore umano alla messinscena del suo teatro trasformatore del tutto, dal più sottile al più concreto, in un processo inarrestabile in cui il creato è riassorbito al punto iniziale. Il supremo potere è riferito dal Sanatana Dharma come Samba Sada Shiva, il Dio eterno Shiva che è un tutt’uno con la Sua Shakti, o potere creativo Amba, la Madre dell’universo. Shiva, essendo il principio della trasformazione, è anche il Signore della creazione: Colui che finisce è anche Colui che inizia, cioè Egli è più che un elemento funzionale dentro una triade; essendo Shiva Rudra è il Distruttore, essendo Sada Shiva Egli è l’eterno Contenitore dell’equilibrio, ed essendo Maheshwara, il grande Dio dell’origine, governa i processi di dissoluzione, mantenimento e creazione. In ultima analisi, non esiste né creazione né distruzione, ma solamente un eterno processo di trasformazione. La mitologia usa l’immagine di Shiva-distruttore, unico testimone
della tombale notte cosmica, sacrificante al fuoco della sua stessa luce l’universo con tutti i suoi mondi: “Quando non c’è né buio, né notte, né giorno, né essere, né nonessere, resta solo Shiva.” (15)
Nell’iconografia Shiva è ritratto come il danzatore solitario cosmico;
nella sua coreografia tutti gli esseri, tutti i mondi; nelle sue figure ritmiche l’eterno flusso della sua energia divina: “Quando la luna è sparita nelle acque, le montagne sono spezzate, la luce del sole è sbiadita, il genere umano perito, le stelle cadute e la terra sprofonda nelle onde di un oceano gigantesco, Shiva rimane solo, danzando il pralaya tandava - la danza della dissoluzione di tutti i mondi.” (16) Shiva, il Brahman del Vedanta, è la divina origine nella quale perfino gli dei, come aspetti del Suo potere creativo, sono riassorbiti e dal quale riemergono nuovamente; questi dei, dal punto di vista della psicologia, sono le strutture della vita interiore dell’uomo. La grande varietà della manifestazione divina nella materia è simbolizzata in mitologia da 1008 nomi, o aspetti di Shiva, contenuti tutti nell’unità del Suo Essere (17). Queste manifestazioni parziali si manifestano in cinque forme: creazione, mantenimento, dissoluzione, occultamento e grazia illuminante. L’alienazione (allontanamento dell’essere dall’origine) come anche il riassorbimento nel divino sono processi infiniti, che includono il così detto male come principio appartenente al mondo della dualità. La venerazione del terribile come del meraviglioso nel divino è una parte essenziale della visione hinduista. Shiva, come distruttore delle illusioni del mondo, pretende dall’uomo la capacità di sopportare la visione del divino sotto le forme più orride senza esserne atterriti e farsene travolgere. Ecco perché Ramakrishna era solito dire ai suoi discepoli: “Venera il terribile, spingi te stesso nella morte, non nella vita.” Riconoscere che il demone e il dio sono un’unità bipolare è una iniziazione altissima; quando si è capito questo, subentra la calma della certezza che nulla accade che non sia una Sua forma. Shiva, prototipo dello yogi, è ritratto nell’iconografia al di là del tempo in intoccabile solitudine seduto sulla cima innevata del Kailash, immerso nella visione della profondità infinita del Suo Essere. La rappresentazione artistica di Babaji come Swayambhu, Divino Essere autocreato, lo mostra nella posa di uno yogi che medita sul Kailash, centro del mondo e punto di transizione al divino; lo mostra anche come il Signore dei tre guna: rajas, tamas e sattva, elementi base che danno forme a tutto ciò che è creato; essi sono simbolizzati da tre cerchi concentrici.
è il fuoco, il sole e la luna i Suoi occhi, le quattro direzioni dello spazio le Sue orecchie, i Veda la Sua voce, il vento che soffia nel mondo il Suo respiro, la terra i Suoi piedi. Egli è l’Essere interiore di tutte le cose.” (18) Secondo il grado di evoluzione spirituale dell’uomo, Shiva può mostrarsi come l’alter ego divino; e l’abbondanza dei miti ne è testimonianza, come nei poemi epici Mahabharata e Ramayana, o nelle esperienze, visioni e sogni dei credenti. Shiva si rivela anche come conoscenza, nata dalle più profonde interiorità dell’uomo quando il divino è sperimentato come Io nel processo di rivelazione interiore; ma anche può essere vissuto come altro sotto forma di maestro o guru. Come guru divino, Shiva è incarnato in Babaji, che dall’inizio del 19° secolo è venerato come Baba Hairakhan, dopo l’apparizione ai piedi dell’Himalaya vicino al piccolo paese dallo stesso nome. Al mondo occidentale Babaji è stato presentato, alla metà del nostro secolo, come Mahavatar Babaji, attraverso la pubblicazione del libro di Paramhansa Yogananda ‘Autobiografia di uno Yogi’.
Babaji medita sulla cima del Kumaon Kailash Babaji è anche rappresentato come Signore dei cinque elementi: etere, aria, fuoco, acqua e terra. La vibrazione del suono OM, che inizia la creazione, separando Shiva e Shakti, è rappresentata dalla figura di Babaji, emanante luce sul mondo dal Suo cuore. Shiva unisce in sé la assoluta calma e l’energia dinamica, manifestate nelle infinite varietà della vita. Essendo l’Essere cosmico, “la Sua fronte
Un viaggio leggero, colto e affascinante nel mondo di Shiva e le sue ultime apparizioni umane: Babaji Mahavatar, il Deus exmachina che beve il veleno del mondo: Shiva, Jahvé, Unità suprema di Maschile e Femminile, il Padre-Madre universale. Le testimonianze dal 1800 fino ad oggi, la storia, i luoghi, la pratica spirituale e il rapporto tra Maestro e discepolo, la mitologia, lo Shivaismo e la Religione Universale: il Divino si fa uomo per portare l’umanità ad un livello più alto di coscienza. Infine, lo stesso Babaji racconta le storie del saggio Vasishta: la danza di Shiva, il continuo infinito presente, l’universo oltre il tempo assume i toni della favola. Maria Gabriele Wosien è nata a Berlino nel 1940; attualmente vive a Monaco. Dal 1974 al 1983 ha viaggiato molto in India come discepola di Babaji di Hairakhan. Ha frequentato la scuola di Rudolf Steiner in Germania e si è laureata in Filosofia a Londra con una tesi sulle Fiabe Russe. Ha compiuto studi sulla mitologia e la danza sacra, pubblicando diversi libri sull’argomento in Germania e in Inghilterra. Insegna Danza Sacra in diversi Paesi Europei.
© J. Amba Edizioni ISBN 978-88-86340-57-1
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