L ibero
om AriA CALdA
Babaji Cosmico Joker
J. AmbA ed.
om AriA CALdA bAbAJi CosmiCo Joker di Libero (Giuseppe Libero Mangieri) Prefazione del prof. Bernardino del Boca Nota di Jai Datt Gian Paolo Barberis Foto di Lisetta Karmi e G. Libero Mangieri Grafica e Computergrafica di Kalavati M. Cristina Chiulli
1a edizione maggio 1994 Edizione Digitale e-book
ISBN 978-88-86340-49-6 Š Copyright
J. Amba edizioni Strada Battaglini A 2 74015 Martina Franca TA www.j-amba.com j.amba.edizioni@gmail.com
introduzione da “Teachings of Babaji”, Hairakhandi Samaj, India
Nelle colline del Kumaon ai piedi dell’Himalaya in India, luogo di nascita o dimora di molti grandi santi del passato e del presente, lì ha vissuto Shri Hairakhan Wale Baba. A coloro che chiedevano chi fosse, Hairakhan Baba a volte rispondeva di essere Shiva Mahavatar Babaji, noto a centinaia di migliaia di persone nel mondo attraverso l’Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda. Un Mahavatar è una manifestazione umana di Dio, non nato da donna. Shri Babaji (Shri è un titolo di rispetto; Baba è un termine usato per un rinunciante, o un santo o un santo Padre) è apparso nel Giugno 1970 in una grotta sacra da migliaia di anni, ai piedi del Monte Kailash nel Kumaon, sulle rive del fiume Gotama Ganga di fronte ad un remoto villaggio chiamato Hairakhan, nel Distretto di Nainital dello Stato dell’Uttar Pradesh. Non aveva genitori o famiglia noti, Egli apparve come un giovane di diciotto anni circa, eppure mostrò grande saggezza e poteri divini fin dall’inizio. Ad alcuni abitanti del villaggio di Hairakhan si manifestò come un uomo vecchio con una lunga barba bianca; ad altri come un giovane; ad altri come un bel ragazzo. Due uomini Gli hanno parlato contemporaneamente, uno ha visto un uomo vecchio con la barba, l’altro ha visto un giovane senza barba. Egli veniva visto in posti diversi nello stesso tempo. Conosceva le Scritture e poteva citarle sia in Sanscrito che in Hindi, eppure non c’è nessuna prova che abbia ricevuto un’istruzione. Babaji restò in digiuno pressoché completo per mesi, in totale due o tre anni, eppure la Sua energia era senza limiti. Verso la fine del Settembre 1970, camminò fino alla cima del Monte Kailash con pochi devoti. Seduto in posizione yoga nel piccolo, vecchio tempio che è lì, stette per quarantacinque gior-3-
Shri Babaji è apparso nel Giugno 1970 in una grotta sacra da migliaia di anni, ai piedi del Monte Kailash nel Kumaon...
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ni senza lasciare la Sua postura, meditando per la maggior parte del tempo, qualche volta parlando, preparando e benedicendo frutta e verdura da dare agli altri, e cominciando ad insegnare il messaggio che ha portato al mondo. Centinaia di persone vennero in Ottobre per celebrare la festa religiosa di nove giorni del Novaratri con Lui sulla cima del Monte Kailash. La Sua venuta è stata predetta sia nelle antiche scritture che nelle parole e nelle profezie di un santo Indiano del ventesimo secolo: Mahendra Baba, o Mahendra Maharaj. Da bambino, Mahendra Baba fu curato da una visione di Babaji e della Madre Divina; poi, nel giorno di uno dei suoi successivi compleanni, egli vide di nuovo Babaji, che gli regalò dei dolci. Da ragazzo, appena finite le scuole superiori, Mahendra Baba incontrò Babaji, in una delle Sue precedenti forme umane; Babaji gli insegnò la conoscenza yogica per sei giorni e sei notti. Quando Babaji lo lasciò, Mahendra Baba non sapeva Chi fosse, né dove ritrovarlo. Dopo aver preso la laurea in filosofia, Mahendra Baba rinunciò al mondo, e andò in cerca di questo Guru, camminando a piedi attraverso l’Himalaya in India, Nepal, Tibet e Cina. In seguito passò degli anni nei templi degli Stati Indiani del Gujarat e dell’Uttar Pradesh, e si creò la reputazione di santo. Solo dopo venti anni o più di ricerca e di attesa egli fu guidato ancora verso le colline del Kumaon, dove Babaji gli apparve di nuovo, in una stanza chiusa in un remoto ashram in montagna. Dopo questa apparizione di Babaji nel Suo corpo fisico, Mahendra Baba, secondo le istruzioni di Babaji stesso, cominciò la missione di preparare il ritorno nel mondo di Babaji in forma umana. Per molti anni egli girò per l’India predicando che Babaji sarebbe tornato per trasformare il mondo cambiando i cuori e le menti degli uomini. Egli descrisse l’aspetto di Babaji, comprese le ferite sulla gamba destra e sul braccio sinistro; egli disse che Babaji sarebbe venuto nel 1970. Mahendra Baba restaurò vecchi ashram e templi, ne costruì di nuovi, e preparò il canto di adorazione ora usato dai devoti di Shri Babaji. -5-
Shri Vishnu Datt Shastriji, famoso studioso di Alwar (Rajasthan), discepolo di Mahendra Maharaj, con la sua benedizione acquistò un oceano di conoscenza. Egli scrisse un libro su Babaji intitolato “Sada Shiva Charitamrit”, che fu ispirato dalla Madre Divina. In questo libro Shastriji descrisse l’ashram di Hairakhan senza averlo mai visto; dieci anni dopo, quando vi si recò, fu sorpreso nel vedere che ogni cosa era perfettamente reale. Shastriji scrisse anche molti altri libri, e alcuni studenti hanno redatto la tesi di laurea studiando i suoi testi. Shastriji era l’officiante di tutti gli yagya (antiche cerimonie vediche di offerta al fuoco sacro) e delle funzioni sacre che Babaji compiva. Egli era il Saggio: quando Babaji teneva dei discorsi, lui era la Sua voce. Ha seguito Babaji come un’ombra durante gli anni della Sua manifestazione fisica: come lui stesso si definì, è “l’eterno bambino di Babaji”. Mahendra Maharaj diceva ai suoi seguaci che Shri Babaji è stato una manifestazione di Dio fin dai primi tempi in cui l’uomo imparò la religione. Babaji ha insegnato a guru ed altri maestri religiosi nella storia, sempre cercando di portare l’uomo verso Dio e verso valori spirituali. Attraverso le epoche Egli è apparso per insegnare, manifestandosi in un corpo già esistente in ogni Sua apparizione, piuttosto che venire al mondo attraverso una nascita umana. Yogananda scrisse della sua esperienza e di quella di altre persone con questo Babaji immortale nel diciannovesimo e nei primi del ventesimo secolo. Ci sono libri scritti in Hindi sulle precedenti manifestazioni di Hairakhan Baba, che rimase in India dal 1800 circa al 1922. Intorno all’anno 1800 Egli apparve agli abitanti dei villaggi vicino a Hairakhan uscendo da una sfera di luce, e nel 1922, davanti ad un gruppetto di seguaci, scomparve in una sfera di luce. Ci sono molti miracoli registrati, come curare la gente, restituire morti alla vita, nutrire moltitudini con piccole quantità di cibo, cambiare la Sua forma, essere in due o più posti contemporaneamente, nutrire il fuoco sacro con acqua quando il ghee (burro chiarificato) non era disponibile. Ma soprattutto, la -6-
... Ci sono ancora persone a Hairakhan e dovunque in India che ricordano il “Vecchio Hairakhan Baba� e hanno sperimentato questa attuale manifestazione come lo stesso Essere ... -7-
gente era attratta da Lui perché Lo sperimentava come un Essere divino, saggio, pieno d’amore, molto al di sopra del livello umano. Vennero a Lui abitanti dei villaggi di montagna (istruiti o analfabeti), Occidentali, burocrati e soldati Inglesi, l’intellighentia Indiana, ricchi e poveri, gente di tutte le religioni. Ci sono ancora persone a Hairakhan e dovunque in India che ricordano il “Vecchio Hairakhan Baba” e che hanno sperimentato questa attuale manifestazione come lo stesso Essere. Ci sono prove di manifestazioni ancora precedenti. Dei monaci Tibetani, venuti da Shri Babaji nel 1972, Lo riconobbero come “Lama Baba” che aveva vissuto in Tibet circa 500 anni prima. Ci sono racconti della Sua apparizione in Nepal, come pure in India e in Tibet. In due o tre occasioni, Babaji disse che Lui era stato uno degli insegnanti di Gesù Cristo. La maggior parte dei seguaci di Shri Babaji Lo sperimenta e Lo adora come una manifestazione di Dio vera e senza età. I grandi e piccoli miracoli che compie quotidianamente nelle vite dei Suoi seguaci, il Suo leggere e rispondere ai loro pensieri prima che vengano espressi, le Sue cure, la Sua guida, i Suoi insegnamenti, sono ad un livello che va oltre perfino la più avanzata abilità umana. I miracoli esteriori e drammatici sono rari: la maggior parte dei Suoi miracoli avviene nelle menti, nei cuori e nelle vite dei Suoi devoti - miracoli di comprensione, guida, insegnamento e sostegno quando, come e dove fosse necessario. Shri Babaji ha detto che l’umanità è in grave pericolo durante il periodo del Kali Yuga - l’Era del materialismo e del declino della vita spirituale. Egli ha predetto distruzioni diffuse, cambiamenti e morte in questo decennio. Egli ha detto che coloro che veramente adorano Dio (in qualsiasi modo l’uomo Lo conosca), ripetono il Suo Nome e vivono in armonia con l’Universo saranno salvi, e che si formerà una nuova società umanitaria di persone che saranno focalizzate su Dio. Per focalizzare le menti su Dio, Babaji ha insegnato alla gente a ripetere l’antico mantra OM NAMAH SHIVAY. È un mantra (parola o frase di grande potere spirituale) Sanscrito completo, fortissimo, che ha diversi -8-
significati, tra cui “Io prendo rifugio in Dio, Io mi arrendo a Dio”. La ripetizione di OM NAMAH SHIVAY è una via verso l’unità con il Dio Supremo (il Nome di Dio usato in questo mantra è il Signore Shiva, una concezione Hindu dell’unico Dio Supremo. Questo mantra è stato usato per millenni ed insegnato da santi e guru in India e in Occidente). La costante ripetizione di un mantra (o japa) focalizza la mente su Dio, apre la mente e il cuore a Dio, e ferma o riduce la tendenza innata della mente a pianificare, preoccuparsi costantemente, sognare ad occhi aperti o altrimenti perdere energia in attività realmente inutili. Lo scopo principale della venuta di Shri Babaji in una manifestazione umana in questo momento è quello di riformare i cuori e le menti degli uomini. Egli è venuto per rimuovere la confusione ed il male dall’umanità. Babaji una volta disse: “La mente può essere purificata solo dalla japa. Questa è l’unica medicina per le malattie della mente. Se la mente e il cuore sono impuri, come può Dio abitare nel vostro cuore? L’acqua per pulire il vostro cuore è il Nome di Dio. Perciò insegnate a tutti a ripetere il Nome di Dio dovunque”. La mente che generalmente è focalizzata sul Nome di Dio, quando sorge la necessità risponde spontaneamente nell’adempiere le sue funzioni velocemente, facilmente e bene. Babaji ha enfatizzato OM NAMAH SHIVAY, ma in alcune occasioni ha dato anche altri mantra: l’essenza delle Sue istruzioni è: “Ripetete il Nome di Dio”. Shri Babaji disse che quando la grande distruzione arriverà nel mondo, quelli che sinceramente credono ed adorano Dio e specialmente coloro che ripetono il Suo Nome, saranno salvati dal potere del mantra. “I Nomi di Dio sono più potenti di mille bombe atomiche e all’idrogeno.”. Sebbene Babaji vivesse in una cultura Hindu e fosse adorato quotidianamente con rituali Hindu, Egli non era attaccato ad alcuna religione particolare. Egli affermava che tutte le religioni possono portare il sincero devoto a Dio. A Hairakhan, Shri Babaji è adorato da Hindu, Cristiani, Buddisti, Ebrei, Sikhs, Musulmani - perfino atei si -9-
sono ritrovati ad inchinarsi a Lui. Egli spesso ricordava ai Suoi seguaci che tutta l’umanità è una famiglia - la Famiglia di Dio. A quelli che chiedevano della religione, Egli rispondeva: “Seguite la religione che avete nel cuore.”. Comunque Egli disse molte volte che era venuto a ristabilire i principi del Sanatan Dharma, la Religione Eterna, che è senza età e in cui tutte le religioni affondano le loro radici. Anche prima della Sua riapparizione nel 1970, Babaji insegnò a Mahendra Maharaj a predicare che tutti i devoti di Dio dovrebbero vivere una vita basata sui principi di Verità, Semplicità, e Amore. Questa, Egli disse, è l’essenza di tutte le religioni. È molto difficile nutrire odio, rancore, rabbia, lussuria, gelosia ed egoismo e la violenza che tutto questo genera quando una persona cerca davvero di vivere in verità, semplicità, e amore con tutti. A quelli che andavano ad incontrarlo Egli diceva e ripeteva che il Karma Yoga - il lavoro disinteressato - dedicato a Dio è il migliore, il più semplice, il più remunerativo e rapido modo di arrivare a Dio in questa caotica, confusa era di cambiamento. Nel Suo ashram a Hairakhan il lavoro al mattino e al pomeriggio è una parte vitale del programma della giornata. C’è il tempo della meditazione la mattina presto, dopo il bagno al fiume, ma Babaji insisteva sull’importanza di parecchie ore di karma yoga ogni giorno, e in queste ore bisogna lavorare con la costante ripetizione del mantra. “Seguire e dimostrare la via di Verità, Semplicità e Amore è il supremo dovere dell’uomo e lo Yoga più alto. Il lavoro diligente è una qualità di questa Via, perché la pigrizia è la morte sulla terra. Solo con il lavoro l’uomo può cantare vittoria sul karma (la legge universale di causa ed effetto). Tutti devono sforzarsi di compiere il proprio dovere nel miglior modo possibile e di non evitarlo. Il servizio all’umanità è il primo dovere. Durante questo periodo, la disumanità e la pigrizia sono aumentate, così è importante che lavoriate sodo e che non vi perdiate d’animo. Siate coraggiosi, siate industriosi: lavorate duro ed abbiate coraggio.”. Sebbene Babaji abbia chiamato a Sé molti Occidentali con - 10 -
sogni, visioni o semplicemente tramite racconti di amici su di Lui, Egli non ha mai cercato di stabilire un grande seguito personale. Il Suo piccolo ashram, su per la riva ventosa di un fiume quattro miglia lontano dalla fine della più vicina strada di campagna, non avrebbe potuto accogliere le migliaia di persone che sono arrivate da altri santi o guru. Ma, sebbene Egli non avesse dato una chiamata generale perché la gente andasse a vederlo, Egli ha voluto che tutto il mondo ascoltasse il Suo messaggio. Shri Babaji non ha mai richiesto che la gente Lo vedesse o Lo adorasse come una manifestazione di Dio per andare da Lui ed esserne beneficiata. Egli stesso ha detto della Sua forma umana: “Questo corpo non è niente, esso è qui solo per servire la gente”. Shri Babaji ha lasciato il Suo corpo mortale il giorno di San Valentino - il 14 Febbraio 1984. Nei primi tempi della Sua missione Egli aveva detto a due o tre devoti che avrebbe lasciato il corpo nel 1984. Prima di venire, Egli disse a Mahendra Maharaj che sarebbe venuto per dare un messaggio all’umanità. È venuto, ha vissuto il Suo messaggio, ha predicato il Suo messaggio; il Suo messaggio è stato pubblicato, e, avendo completato la Sua missione, Se n’è andato. Ora Shri Babaji continua la Sua opera non solo dal mondo invisibile attraverso il cuore e la mente degli uomini, ma anche sul piano fisico attraverso la Presenza e l’infinito amore di Shri Muniraji Maharaj, che Egli stesso ha indicato quale guida spirituale e punto di riferimento soprattutto per gli Occidentali quando era ancora nella Sua manifestazione fisica, insegnando a venerarlo come un’Incarnazione divina. Una volta, commentando il fatto che Shri Muniraji era stato invitato a partecipare ad una conferenza spirituale in Austria alla quale avrebbe partecipato anche il Dalai Lama, Shri Babaji disse: “Muniraji può partecipare. Il Dalai Lama non è più grande di Muniraji. Muniraji è l’incarnazione di Guru Dattatreya*. Egli è uno Yogi e spiritualmente è molto, molto alto. Diffondete ovunque questo messaggio tra la gente. Presto si terrà un mee- 11 -
ting mondiale qui. La data non è stata ancora fissata, ma verrà presto.”. (Hairakhan, 19 Luglio 1983)
* DATTATREYA - ‘Il dono di Dio ad Atri’, Incarnazione molto antica di Brahma, Vishnu e Shiva nello stesso corpo. Grande Guru ed autore di sacre scritture, i Suoi insegnamenti sono raccolti nell’Avadhuta Gita ed inclusi nello Srimad Bhagavatam.
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Prefazione
Questo libro rappresenta un’interessante testimonianza di come un individuo ha potuto vivere vicino ad un Avatar del Dio Shiva, il Distruttore, fino ad assistere alla Sua morte. Queste testimonianze di come agiva Babaji di Hairakhan sono di grande importanza perché provano come il compito di un Avatar, Colui la cui coscienza è identica all’Assoluto, sia quello di influire sull’inconscio collettivo di tutta l’umanità. Così questo libro ha un valore storico e permette di conoscere come agiva l’Avatar di Shiva, il Propizio, che rappresenta l’aspetto benefico di un dio più antico, Rudra, il dio vedico degli elementi urlanti della natura, malefici e benefici ad un tempo. L’esperienza dell’Autore ci fa vedere il carattere di Babaji, Essere consapevole della Sua potenza, che fece dare al dio Shiva l’appellativo di Ugradeva, il dio dell’orgogliosa possanza. Il compito di un Avatar di Shiva è quello di preparare i tempi difficili e rivoluzionari che stanno per arrivare e di prepararci a superare il Kali Yuga. Da circa 5.000 anni stiamo cadendo nel Kali Yuga, il Quarto Yuga, l’era oscura recente, che ha avuto inizio con la morte di Krishna, ottava incarnazione del dio Vishnu, cioè il 18 febbraio 3.102 a. C. , l’anno della guerra descritta nel Mahabharata. Durante il Kali Yuga una parte dell’umanità deve risalire la china mediante la spiritualità per permettere la preparazione del Nuovo Piano di Coscienza. Questa testimonianza umana, descritta con semplicità e calore, è un documento per far meglio conoscere Babaji e il Suo modo di agire. Vivere vicino ad un Avatar di Shiva non è stata una cosa semplice, ma prova che ogni individuo ha la possibilità di agire per Dio, se supera il suo egoismo e le sue paure, per accettare la divinità che sta in tutte le cose e in ogni essere. Bernardino del Boca - 13 -
Nota dell’editore Babaji si aprì come un fiore e in quel tempo di primavera attirò a Sé da tutto l’universo le Sue api, le Sue farfalle, uccelli e calabroni e vespe e coccinelle assetate di Lui, il Divino Maestro. Ora che il tempo vecchio è agli sgoccioli e il nuovo è alle porte, ora la Sua energia ci guida attraverso la trasformazione verso la resurrezione nella carne. Una ad una recupera le Sue pecore smarrite nel mondo: le chiama, le sveglia, le riporta a Lui, in mille e mille storie fantastiche, grandi, incredibili. Questo è il miracolo vero d’Amore. Lui ti dice: ci sono, ti amo e ti voglio! E ognuno può raccontarti la sua e incantarti e farti piangere e ridere di gioia. Questa è la storia di libero. Libero ti acchiappa, ti porta a casa sua, nel suo angolo del trullo sul tappeto di lana fucsia dove gli pare che sia sempre Natale, e lì come un nonno abitudinario ti racconta ancora e ancora le storie più buffe e toccanti della sua avventura con Baba, come se null’altro avesse vissuto in tutta la vita. “Ti ho mai raccontato di quando Baba …” “Sì, Libero, otto volte! Ma raccontamelo ancora…” e ogni volta rido e mi commuovo come la prima volta. Flashato dalla Sua luce, ora non vede che luce. E ti fa ridere alle lacrime quando diretto, spontaneo, semplice, ti spara lì brandelli comici di un viaggio mistico cominciato a Hairakhan e mai finito, che va molto oltre lo scritto! “A Creta ho scritto un libro su Babaji! Mi son divertito da pazzi!” Davanti al camino del soggiorno ci declama il suo poema. Ridiamo alle lacrime. Poi ci lavora sopra per mesi con la pignoleria di un archeologo, ed eccolo. Dopo dieci anni di lenta incubazione, ora le storie dei devoti sgorgano dal cuore in modo naturale, spontaneo. Chi ha conosciuto Babaji di Hairakhan in persona, ha ricevuto una benedizione unica che lo ha segnato per sempre. Ora, a distan- 14 -
za di anni, ciascuno frugandosi in tasca si ritrova qualcosa dentro che non credeva di avere e non può non distribuirlo. Il seme è diventato un albero e dà i primi frutti, aspri e dolci, ingenui ma sinceri. Potessimo raccogliere tutte le infinite storie che ciascuno dei chiamati si nasconde dentro, avremmo un miliardesimo della bellezza e della luce d’amore del Divino come si manifestò. E sarebbero sufficienti a tesserci dentro una corazza di fede e certezza indistruttibile. Sarebbe uno scudo antiatomico tale da resistere ad ogni attacco, da vincere tutte le torture dell’incertezza e le minacce del dubbio. Una lima per segare le gabbie della mente e gli intellettualismi mistici. Un biglietto per la libertà. Lasciamoci andare liberi in queste storie vere che ci portano alla nostra Verità! E godiamocele come bambini che sanno ancora credere all’impossibile! Per questo ci piace raccogliere e diffondere questi piccoli vangeli, queste storie che, divertendoci e appassionandoci, ci costruiscono attorno poco a poco un guscio smagliante di fede intoccabile nel Divino. Fiducia per me è sapere che tutto è ok. Che non dobbiamo aver paura di nulla perché tutto è sotto controllo: il Suo, e se sei con Lui, Lui è un tipo affidabile al cento per cento, dirige l’orchestra degli eventi e tutto, anche la cosa più triste ha un senso. E ti porta a Dio! Fiducia è affidarsi e lasciarsi portare in volo con Lui. Senza paura, verso Casa! Grazie Libero, che hai lasciato per un attimo i tuoi libroni noiosi e le tue vecchie monete lise e ci hai guidato per mano dentro un pezzo gigantesco della tua vita: al tuo incontro con Lui, il Cosmico Joker. Jai Datt Gian Paolo Barberis
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Babaji
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A mio padre e a mia madre che mi hanno fatto conoscere l’amore, a mia moglie Theonimfi e ai miei figli Ariadni ed Angelo che me lo fanno riscoprire ogni giorno
Premessa
Nell’estate del ‘93 ero a Creta, libero da impegni di lavoro, ma accompagnato da uno stimolo che era già sopravvenuto in Italia, dare sostanza ad un progetto che accarezzavo da tempo e cioè scrivere la mia storia con Babaji. Appena arrivato in Grecia iniziai immediatamente a buttare giù quanto avevo vissuto, guidato in questo dai miei diari indiani. Il compito non fu dei più improbi, dal momento che quelle righe, che stavano scritte dentro di me, premevano per uscire, e soprattutto alcune che avevo rimosse e che mi hanno aperto ad una nuova consapevolezza. In pratica è stato come una specie di viaggio a ritroso nel tempo, ma con la maturità della mia età. Devo dire che quel che si preannunciava come un impegno è stato in realtà un grosso divertimento e spero che quei ‘dieci lettori’ di manzoniana memoria che riusciranno a leggere fino in fondo questo mio racconto, si divertano. Il mio augurio è che un po’ dell’energia che mi ha sostenuto, un po’ di quella grande gioia che mi ha animato, un po’ di quell’amore che mi è stato donato, arrivi anche ad essi e che ne vengano investiti in modo da poter dire come posso dire io ora: Sono un uomo felice, grazie Babaji !!! Libero Cisternino, 8 febbraio 1994 - 17 -
om AriA CALdA
bAbAJi CosmiCo Joker - 18 -
Paolo Il 6 maggio del 1980 Enzo, che era stato in India, rientrò a Salerno. Corsi subito a casa sua animato da una grande dose di curiosità di ascoltare le sue avventure. Egli mi apparve euforico, oltre che abbronzato, e descrisse con grande calore la sua esperienza - coinvolgente la definì, illustrandone alcuni momenti attraverso splendide diapositive. In evidenza in ogni immagine v’era sempre la stessa figura: un uomo affascinante, dai lunghi capelli corvini, slanciato ma anche insolitamente provvisto di evidenti rotondità addominali; fu questo particolare che mi suscitò immediata simpatia a causa della mia pancetta da statale: tra me e Lui s’instaurò una sorta di solidarietà ‘addominale’. Questo fu il mio primo incontro con Babaji, breve quasi banale, ma un seme era stato gettato che si sarebbe schiuso un anno e mezzo più tardi. Nell’ottobre del 1981 mi recai con degli amici in Puglia, nella Valle d’Itria, dov’era da poco sorto un ashram di Babaji, il primo in Italia. Più che l’interesse spirituale fu il desiderio di visitare la località a spingermi al viaggio, dal momento che m’era stata descritta ricca di bellezze naturali ed unica per la presenza dei trulli: antiche costruzioni dai muri spessi e dal tetto conico. Giungemmo di sera nei pressi di Cisternino e, chiedendo in giro, apprendemmo che il centro esisteva ma non era funzionante, per cui qualcuno c’indirizzò a casa di Janki, che n’era fondatrice e leader. Isolata nella campagna, la dimora, su cui insistevano i caratteristici coni, sembrava disabitata: porte e finestre chiuse, nessuna luce, silenzio. Riflettemmo sul da farsi: forse l’ora era inopportuna e Janki riposava, pertanto la buona creanza avrebbe voluto che non s’importunasse la dormiente. Qualcuno, però, sostenne che l’aver compiuto un tragitto considerevole ci dava qualche buona ragione per insistere. Il brusio che derivò dalle nostre riflessioni ebbe effetto anche se involontario: - 19 -
all’improvviso dall’interno dell’abitazione una voce femminile pronunziò sommessamente: “Chi è” ? La domanda era semplice, ma non sapemmo cosa dire, dal momento che non sarebbero serviti i nostri nomi, ignoti all’interlocutrice. Mi venne spontaneo rispondere: “Ci manda Babaji”. L’uscio fu parzialmente aperto e n’emerse una testa canuta, illuminata dalla tenue luce di una candela; occhi grandi e curiosi si fermarono su ciascuno di noi; l’ispezione non ebbe un risultato positivo, la porta non venne aperta. “Cosa volete” ? La mia amica Kali, con la gentilezza di cui era capace, ma con decisione, affermò: “Alcuni amici ci hanno parlato della comunità e siamo venuti a visitarla”. “L’ashram è chiuso ed io non posso aprirlo a quest’ora”. “È possibile essere ospitati da qualche parte, veniamo da Salerno, siamo stanchi, abbiamo affrontato un lungo viaggio e non conosciamo anima viva”. “Qui non c’è posto e ho anche la mamma ammalata”. “Puoi indicarci dove andare” ? “Potete provare a casa di Paolo: abita in un piccolo trullo vicino l’ashram”. Dopo un veloce scambio di saluti ci dirigemmo verso la nuova destinazione: la raggiungemmo dopo alcuni giri a vuoto, confusi dal fitto buio e dall’omogeneità dei tratturi. L’accoglienza fu calorosa: Paolo c’invitò ad entrare dedicandoci tutta la sua attenzione; fra noi s’instaurò subito un senso d’umana solidarietà. Dopo una frugale cena ci sedemmo su una stuoia, mentre il nostro anfitrione ravvivava il fuoco nel camino. Il tempo aveva avuto un repentino cambiamento: la temperatura s’era abbassata e il vento soffiava costante e minaccioso, intrufolandosi dalla soglia della porta. Il calore della fiamma, più potente degli spifferi, col suo dolce tepore, invase le mem- 20 -
bra; un bicchiere di buon vino accrebbe la nostra disponibilità ad ascoltare ciò che Paolo, su nostra richiesta, aveva da raccontare. Gli chiesi, per prima cosa, di spiegarci chi fosse Babaji. “Non un semplice guru, ma il maestro dei maestri, la divinità incarnata, colui che non è mai nato, ma che si manifesta con un semplice atto della sua volontà...”. Le affermazioni erano così incredibili e perentorie da lasciarmi indifferente. “... Babaji è da sempre sulla terra, col compito di aiutare l’Umanità; nella sua precedente incarnazione compì miracoli, oggi il suo lavoro è più ampio, ma realizzato su un livello più sottile...Quando ci si affida a Lui avvengono, senza che ce ne accorgiamo, dei cambiamenti anche radicali, acquisiamo consapevolezza, la nostra vita compie un salto di qualità...”. Quest’aspetto era interessante: poter imprimere un nuovo corso alla vita, di cui non ero particolarmente soddisfatto, sarebbe stato certamente un fatto straordinario! “... Uno dei mezzi con cui si esprime è il lila, letteralmente significa gioco, ma in realtà è qualcosa di ben più ampio: è un modo divertente d’insegnare...”. Ho sempre avuto una particolare inclinazione a vedere il lato buffo della vita e di conseguenza a riderne e anche a ridere di me, pertanto m’incuriosiva molto poter conoscere un maestro che insegnava divertendo. “... Succedono strane cose quando Gli sei vicino: a volte lo osservi e sai che è proprio Lui, ma nello stesso tempo potresti giurare che è diverso nel volto, nel corpo... Una volta, mentre stava camminando, Lo vidi percorrere un tratto di 50 metri in un attimo... non so come spiegarlo, un momento era in un punto ed un secondo dopo aveva percorso una distanza incredibile... i miei occhi erano fissi su di lui, non avevo le traveggole...”. Il calore con cui narrava, oltre al modo estremamente accattivante, mi catturarono. L’atmosfera accogliente, la situazione familiare, mi rievocarono sapori e colori della mia prima infanzia, l’immagine della mia minuta quanto misteriosa bisnonna, - 21 -
col suo bagaglio inesauribile di favole che la rendevano, alla mia visione, più simile ad una strega che ad un essere umano. “... il Maestro a volte fa dei doni incredibili....”. Non ascoltavo più, ero partito per un’altra dimensione... il guru bisavola si trasformò in una sorta di folletto con poteri astrali, un’entità che poteva avere il predominio sulla materia, un sorta di Babbo Natale con la sua scorta di doni particolarissimi e disponibili per tutti. In un attimo furono cancellati anni di pigrizia stratificata, di repulsione per il volo, d’irrazionale paura per l’immensa India, continente che situavo in un luogo remoto e non esplorato del mio animo. Ricordai, all’improvviso, le parole di una Cassandra che qualche anno prima aveva profetizzato: “Tutti coloro che ho massaggiato sono andati in India”. Un sorriso denigratorio era rimbalzato sulle mie gote, ma le membra, finalmente in pace, avevano suggerito una risposta diplomatica: “ È impossibile”! Ed ora, invece... Alla fine del racconto Paolo invitò chi lo avesse voluto a seguirlo: il mese successivo sarebbe volato in India. Che occasione meravigliosa! Avevo una guida, una spalla cui aggrapparmi, una mano che mi avrebbe sorretto, una lingua che avrebbe parlato per me: era deciso, sarei andato! Paolo si dimostrò premuroso, dichiarò la sua disponibilità a procurarmi un ‘very cheap ticket’, ciliegina finale, viste le mie disastrose finanze. Partiamo! Dopo un mese rividi Paolo all’aeroporto di Fiumicino. Ero così emozionato per l’imminente avventura che, appena lo adocchiai da lontano, abbandonando ogni pudore, mi precipitai verso di lui e saltandogli addosso lo baciai. Imbarazzato da quell’eccessiva effusione mi presentò la sua amica, un’americana che ci avrebbe accompagnato in India. - 22 -
La fila al ‘check in’ fu tutt’altro che gradevole, stucchevolmente monotona; consumare un mare d’energia per mostrare un biglietto e ricevere un visto sul passaporto è noioso ma, stranamente, richiese una concentrazione che annullò qualsiasi pensiero deviante. L’attesa nella sala d’imbarco fu carica di tensione: la mente era fissa sullo scopo, sull’emozione che di lì a poco avrei provato e che immaginavo vivida ma non sospettavo, come fu, diarroica. Mi guardai intorno, la saletta era stracolma: quasi tutti giovani, capelli lunghi, jeans, giacche dai colori vivaci, cianfrusaglie varie al collo, alle caviglie, perfino dei campanelli che si attivavano ad ogni minimo movimento. In mezzo a quella confusione spiccavano dei bei capelli corvini, dei seni appuntiti, solidi e meravigliosamente ingombranti, terga lunari e gambe da olimpiadi. L’attenzione venne immediatamente catturata, mi proiettai in una dimensione d’estasiante oblio, una sorta di astrazione che m’era consueta e che a volte - quella non fu un’eccezione - mi procurava qualche problema. Quando venne annunciata la partenza seguii, come un serpente incantato, la teoria umana diretta verso il tubo metallico. Gli occhi spalancati e mobilissimi ancora scrutavano quelle meraviglie femminili che mi si palesavano, quando un senso di vuoto rimbalzò dallo stomaco alla testa, annunciandomi che per la prima volta l’uomo, cioè io, volava. La paura iniziò ad invadermi: mi sforzai di mantenere un dignitoso controllo, di reprimere ogni indesiderabile reazione, ma mi resi conto che non avrei potuto resistere a lungo: otto ore di viaggio apparivano lunghe da trascorrere! Dovevo affidarmi alla guida, il cui consiglio sarebbe stato se non risolutore, almeno rassicurante. La ricerca non durò molto, trecento persone possono essere una piccola folla, ma scorrono velocemente quando sono tutte concentrate e schierate negli appositi sedili; per ben quattro volte rifeci il percorso ma il naso da Cyrano del mio Virgilio, elemento inconfondibile di un corpo slanciato ed aggraziato, non caracollava da alcun volto. Non era possibile... forse l’effet- 23 -
to dell’altitudine mi aveva provocato una forma di allucinazione. Quando finalmente decisi d’informarmi ricevetti uno shock: la vendita eccessiva di biglietti aveva impedito la partenza di alcuni viaggiatori, fra cui la mia ormai ex guida. In un attimo di assoluta lucidità, situazione tipica di chi è sull’orlo del collasso mentale, realizzai che mi dirigevo India e non certamente a piedi; in un posto che non conoscevo, dal momento che non avevo ritenuto opportuno trascrivere l’indirizzo della mia meta; alla ricerca apparente di un guru di cui mi ricordavo solo vagamente il nome: Baba. La tragica chiarezza della riflessione m’infuse un’emozione di puro terrore, il mio stomaco incominciò a premere provocando due reazioni improvvise e contrapposte, due stimoli batterono, all’unisono, alle rispettive vie d’uscita ricevendo una risposta negativa; l’assalto riprendeva incessante mentre le porte delle toilettes erano chiuse ed io disperandomi mi piegai in due con le braccia strette all’addome, esibendomi in una sorta di danza tribale. Quando finalmente, attraverso un minuscolo rettangolo di luce, riuscii a intravedere l’agognata meta, mi precipitai sullo sfortunato che ne veniva fuori, scaraventandolo a terra e, con un’armoniosa quanto incredibile coordinazione, richiusi la porta, abbassai i pantaloni e mi assisi laddove un momento prima avevo vomitato un pasticcio d’innominabili schifezze! Sabina Sabina, Sabina!! magica parola, sinonimo di rifugio e di speranza! Come mi sembrò tranquillo il porto delle tue labbra! e misteriosamente accattivante il tuo sguardo! Che aria confortante emanavano quelle due sode poppe che dondolavano ad ogni minima vibrazione! E com’era satura di guai aggiuntivi la tua conoscenza! All’uscita dal bagno la stanchezza mentale e fisica mi proiettò verso il più vicino sedile libero, da dove giunse l’invito: “Vuoi sniffare”? - 24 -
Una spruzzata di polvere bianca risaltava nel cavo della mano aperta. “Come“ ? “Se ti va puoi aspirare”. Uno sguardo fugace ed allo stesso tempo discreto, mi permise d’esaminare con celerità, ma con chirurgica attenzione, il luogo di provenienza di quel cinguettio: l’impressione immediata fu la promessa dell’Eden. “Ma certo, sicuro, ti ringrazio, ne avevo proprio voglia”! Prima di piegare il busto e di assumere la posizione richiesta per l’inusuale quanto incomprensibile operazione, ammansii, in un attimo, la mia mente che, come un puledro selvaggio, galoppava verso una dimensione di panico; la calma forzata si trasformò nel caleidoscopico mare di una remota baia di Creta: accogliente, invitante e soprattutto sicura. Una mano sistemò prontamente il cespuglio incolto dei miei capelli, l’altra si preoccupò di stirare, quasi a puntino, la sahariana che, come un esploratore, avevo scelto quale compagna di viaggio; una gomma schifosissima - ma utile qualche attimo prima per aiutare a ridimensionare l’eccitazione sovrumana e soprattutto per restituire all’alito una parvenza d’umanità - era stata prontamente collocata sulla parte poco visibile del sedile anteriore. Cercai d’offrire, alla mia possibile auspicabile partner, il meglio che un corpo non proprio attraente, ma forse interessante, poteva esprimere. “Ti ringrazio per il medicinale, ho un accenno d’emicrania e sicuramente mi permetterà di calmarlo“. Era l’espressione di un sempliciotto pieno di ingenuità, con un’ampia dose d’ignoranza per alcune manifestazioni della vita che, più che incomprensibili, non aveva assolutamente esplorate. “È una bella definizione quella di medicinale per la coca”. “Non capisco, cos’è ‘sta ‘coca’ ? C’entra qualcosa con la cocacola” ? Non afferrai il motivo di quell’irrefrenabile sghignazzare che - 25 -
invase la mia compagna; era comunque una manifestazione di simpatia: un ponte era stato abbassato dal castello da espugnare. “Sei simpatico, come ti chiami? Io Sabina”. “Libero”. “Oh! che bel nome: dove vai” ? “Non lo so”. Sembrava che avesse una predisposizione per il riso, anche se non continuavo a non afferrare i motivi del mio inconsapevole umorismo. “Ma come, sei su un aereo che ha una destinazione ben precisa e non sai dove vai, forse ti sei perso...”. Avevo un’interlocutrice, un argomento, una trama da sviluppare: il tempo volava e m’immersi nei suoi occhi meravigliosamente verdi che mi proiettarono in una dimensione astratta, dimenticando così la fobia d’essere a non poca distanza dall’adorata Terra. C’erano tutti i presupposti per una piacevole storia, soprattutto considerando la circostanza che Sabina era sola e s’offrì di aiutarmi nella ricerca del mio guru, obbiettivo che non era ancora venuto meno. Col passar del tempo emersero dal profondo del mio animo tensioni e stimoli sconosciuti che imploravano, anzi pretendevano, di venire fuori; il corpo fu invaso da uno strano quanto insolito ardore; la mente, completamente soggiogata, godette del privilegio di una lucidità inspiegabile. Le antenne interiori vennero completamente spiegate, sentii l’esigenza di muovermi: il sedile era diventato un luogo circoscritto. Andai ad esplorare quell’ambiente curioso che è la pancia di un aereo, tenendo sempre un occhio puntato sulla mia Sabina. Riconobbi due volti familiari: un vecchio compagno di scuola ed un collega di lavoro. L’eccitazione dell’incontro immise altra adrenalina nelle vene. Ormai blateravo e sghignazzavo mentre la sagoma dell’aereo fendeva l’aria a 900 km l’ora, avvicinandosi finalmente alla destinazione. India India, che terra meravigliosa che prometti d’essere! - 26 -
Tourist Camp Qual è la prima impressione che colpisce un turista italiano che, per la prima volta, va a Parigi, uno scandinavo che giunge a Bruxelles o un tedesco che sbarca in Inghilterra? Una sensazione di novità e di familiarità nello stesso tempo, dal momento che le peculiarità originali di ciascun popolo possono essere riconducibili ad un’unica matrice culturale. Un europeo, alla pari dello statunitense nella sua patria, applica uno identico schema mentale in qualsiasi regione di quell’unica comunità che è destinata ad essere l’Europa; sa, in definitiva, cosa chiedere e cosa attendersi in ogni circostanza, la qual cosa gli permette di sentirsi comunque e dovunque a suo agio. L’India, al contrario, si presenta al primo impatto - confermato a pieno da una conoscenza più approfondita - come una dimensione in cui le costruzioni mentali, che animano la vita di un borghese, vengono stravolte. L’ambiente fisico, le persone, gli animali, la natura - che qui si mostra in un’apoteosi senza eguali - non sono solo diversi ma appaiono costruiti di un’argilla differente, così da risultare quasi incomprensibili. La notte era trascorsa senza che avvertissi la minima esigenza di riposarmi, lo scricchiolio costante proveniente da diversi punti della colonna vertebrale, accompagnato da stridori alle giunture, mi annunciava la protesta di un corpo ch’era stato messo insolitamente a dura prova, mentre anni di consuetudine l’avevano temprato ad una sorta di pigrizia epicurea. La lucidità notturna aveva lasciato il posto ad una parziale confusione. Dopo le formalità di rito, aggrappato timidamente alla delicata mano della mia Sabina, ebbi il primo incontro con l’ignoto, appena usciti dall’aeroporto. Una caterva di antiquati ‘treruote’ si dispiegava fino all’orizzonte: fu una visione fugace perché una marea di abbronzatissime figure umane ci piombò letteralmente addosso. Fummo travolti da mani che cercavano di strapparci i bagagli, che ci palpavano, che ci frugavano quasi - 27 -
dentro le tasche, bloccando ogni nostro movimento. Nello stesso tempo la nostra visuale venne occupata da tanti volti uniti, quasi a formare un’unica immagine, mentre da miriadi di bocche venivano sputate saliva e parole, in uno stentato inglese: “Cheap, cheap, it’s cheap, I’m very cheap”. “Where are you going”? “Come, come on”! “Go, go”! La situazione era farsesca: trattenuti da persone che c’invitavano a muoverci. Un senso d’insofferenza per quella costrizione indesiderata m’ispirò una reazione bellicosa, che venne temperata, per fortuna, dalla riflessione che le persone che ci stavano davanti non sembravano godere di alcun privilegio sociale: gli abiti sdruciti, i piedi nudi ed il tono dimesso della voce, non incitavano alla violenza, ma invitavano al rispetto: in fondo stavano solo facendo il loro lavoro. Finalmente Sabina operò una scelta, sbagliata come si vedrà. Seguimmo un uomo vestito a puntino, tra i pochi con sandali, autista di un lussuoso taxi. La mia sirena concordò il prezzo, 50 rupie e la destinazione: ‘Tourist Camp’. Sulla strada che congiunge l’aeroporto al centro di Delhi è possibile osservare solo un campionario parziale della cornucopia di ‘novità’ che l’occhio può cogliere in questo continente alieno. Gli alberi, numerosi, alti e imponenti, ospitavano un’incredibile quantità di scimmie e di corvi; ai margini della carreggiata migliaia di bovini godevano una libertà piena, intenti a muovere lingue di una lunghezza insolita, quasi un ‘pendant’ della coda, utilizzate a mo’ di scope, mentre frugavano fra tappeti d’immondizie sparse dovunque. Si percepivano un’incredibile varietà di colori, che violentavano quasi, ma erano soprattutto i serici sari delle donne, che si muovevano con una grazia ed una dignità arcaiche, ad offrire una visione variegata ed allegra della realtà. Non mi fu possibile posare uno sguardo più approfondito sulla vita che brulicava tutt’intorno, dal momento che il tassista, come se fosse stato alla guida di un ‘otto volante’, colpiva - 28 -
buche, marciapiedi, sassi alla stessa stregua di obbiettivi da centrare, mentre la folla pazzesca di uomini sulle bici, che ci affiancava, veniva pericolosamente sfiorata, con grande gioia del nostro uomo che manifestava con fierezza, le sue capacità di guida. Dopo i vuoti d’aria dell’ aeroplano, i contraccolpi che seguivano ad ogni scossone, mi procurarono conati di vomito che, per fortuna, restarono tali. Una brusca fermata mi catapultò contro il vetro: un bozzo leggero emerse immediatamente dal cespuglio dei miei capelli, insieme ad un’imprecazione. Il tassista annunciò, con enfasi affettata, che eravamo giunti a destinazione. Aprì gentilmente le portiere e c’invitò a scendere davanti ad un edificio imponente, lindo, dalla gradevole architettura ma stranamente senz’anima viva e con finestre e porte chiuse. Aveva scelto un bel posto la mia fata per il nostro imminente incontro notturno! Ella iniziò immediatamente una vivace discussione col tassista che, animandosi, finì per assumere i toni di una vera lite con conseguenti reciproche invettive. Non capivo ciò che stava succedendo, e non era solo una questione di lingua; il palese ardore era un chiaro segno d’incomprensione, ma non afferravo nulla di quel dialogo animato, finché Sabina non si girò ed esplose: “Questo cornuto afferma che l’edificio che ci sta davanti è la nostra destinazione”. “Mi sembra bello, cos’è che non va”? “Ma Libero, dove hai la testa? Non vedi che è la sede di un patronato scolastico”? “Va be’, si è sbagliato, nulla di male, ma che bisogno c’è d’esprimersi così violentemente? Fallo muovere!”. “Vuole altre 50 rupie “! Non sono mai stato bravo a manifestare i miei sentimenti col linguaggio tipico di alcune figure del suburbio; grazie all’educazione cattolica ho ricevuto un controllo quasi assoluto su quel genere di manifestazioni verbali. Ma in quella occasione emerse un insolito campionario di parolacce, che venne portato a - 29 -
conoscenza del tassista, accompagnato da una gestualità ampia, efficace, parlante, in una parola partenopea. La reazione non si fece attendere: dalla bocca sdentata dell’uomo emerse un sorriso che si trasformò subito in uno sghignazzamento irrefrenabile senza ritegno, coinvolse Sabina e rimbalzò sul mio spirito sempre pronto ad accogliere qualunque buona occasione per ridere. L’atto ci rese complici, impedendo la continuazione della farsa e nello stesso tempo fu il segnale per la capitolazione: le tasche divennero più leggere! Baba Il ‘Tourist camp’ non era come speravo: una costruzione ad un solo piano, quadrata, costituita da una serie di celle affiancate intorno ad una corte comune. L’interno della nostra matrimoniale poteva definirsi più misero che sobrio: il letto, due sedie, qualche chiodo al muro e un baule tarlato costituivano ‘l’arredamento’. Su un lato della parete, proprio di fronte al letto, c’era una finestra di dimensioni ridotte, un pertugio praticamente, chiusa da due sbarre incrociate, che lasciava poco spazio alla ventilazione: l’umidità al 70% e la temperatura che in quel periodo si aggirava intorno ai 28 gradi, rendevano l’aria decisamente pesante. A ciò si aggiungeva un lezzo intenso, diffuso, indecifrabile, proveniente da un vicino ristorante. Successivamente, dal momento che lo ritrovai praticamente in tutta la città, dovetti concludere che era proprio la caratteristica olfattiva del centro di Delhi. Anche se il prezzo era più che abbordabile, per le tasche di un impiegato statale, in un primo momento ritenni la scelta poco felice, ma ad un successivo esame, soprattutto nel confronto con i tuguri o i letti all’aperto della Old Delhi, dovetti constatare d’essere in una reggia. Per lo meno l’acqua era a portata di mano e le toilettes avevano un minimo d’intimità. La sporcizia, però, era elemento costante e probabilmente inevitabile: scarafaggi, pulci e cimici emergevano a iosa da ogni fessu- 30 -
ra, circostanza che mi rese impossibile qualunque tentativo di riposo. Anche la mia compagna, pur avvezza alla situazione per altre precedenti esperienze, ebbe dei moti di repulsione. Decidemmo, pertanto, che sarebbe stato opportuno esplorare la città vecchia. Si aggregarono Rita e Maurizio, due simpatici Italiani conosciuti sull’aereo, che avevamo rincontrati in loco. Unendo le nostre risorse economiche noleggiammo un ‘treruote’ scoperto, con relativo driver e ci demmo all’avventura. Quando il mezzo iniziò la sua corsa venni avvolto da una piacevole sensazione di calore, causata dall’aria calda che mi carezzava: com’era piacevole! soprattutto confrontandola col rigore invernale dell’Italia che avevo appena lasciata. Mi rilassai talmente, cullandomi in quell’emozione, che abbassai tutte le mie razionali difese e, senza preavviso, senza averlo cercato mi si presentò un vago ricordo del motivo che mi aveva spinto in India. Avevo fatto di tutto per tenerlo ben nascosto, dopo aver incontrato la mia seconda splendida guida, che si preannunziava come un obbiettivo sicuramente più desiderabile, ma ora affiorò quasi con veemenza: cercavo un guru! Contemporaneamente venni assillato anche da altre questioni: perché lo cercavo? cosa desideravo da lui? non bastava, per la mia ricerca interiore, la mia cultura religiosa? ma qual era questa cultura? in che modo vivevo il messaggio cristiano? M’immersi in una dimensione inesplorata, sempre accantonata, iniziai a rivivere momenti della mia vita... la mia infanzia era stata vissuta nell’accettazione dell’esistenza di Gesù, della Madonna e di qualche Santo. Naturalmente non avevo coscienza di quel che essi rappresentassero, vivendoli alla stregua di personaggi fiabeschi. Nella pubertà mi raccontarono che Gesù, morto sulla croce, aveva sofferto per colpa di tutti e quindi anche mia, ma non capivo quale fosse stata la mia parte in tutto questo: che c’entravo io con una vicenda accaduta 2000 anni prima della mia nascita? Crescendo incominciai a frequentare i salesiani: non era un sodalizio spirituale, negli ampi locali del- 31 -
l’istituto di Vietri sul Mare trovavo strutture e compagni di gioco e in sovrappiù qualche preghiera sempre stentatamente recitata. Trasferitomi in città mi allontanai dai ‘preti’ avvicinandomi alle sezioni del PCI di Salerno, dove allargai la cerchia delle mie conoscenze, imparando ad esprimermi, nel senso che riuscii a mettere insieme due parole che avessero un senso davanti ad una platea. Durante gli anni della contestazione, il famoso ‘68, emerse una mia innata vena ludica: tendenzialmente teso verso l’ottimismo ed il buon umore cercavo sempre di approfittare di ogni minima occasione per trasformare un discorso, un’azione, in qualcosa che procurasse a me e a chi mi stava vicino qualche sorriso, sdrammatizzando le circostanze serie della vita. Durante il periodo universitario m’impegnai, per la prima volta seriamente, nello studio; il piacere di approfondire i classici oltre alla gioia immensa di respirare il profumo dei siti archeologici, m’offrì l’occasione d’esplorare un mondo fuori di me, ma anche fuori del tempo, che ispirava rispetto e curiosità. A 30 anni avevo un lavoro piacevole, una vita abbastanza piena, ma anche un vuoto interiore che spesso mi procurava vertigini e frustrazioni. Della cultura cattolica m’era rimasto quel poco che avevo acquisito, ma che non avevo più ‘frequentato’, ma di Dio, che non è una forma di cultura, ma l’esperienza da vivere nella sua totalità, nemmeno l’ombra.Fu questa la ragione vera del mio viaggio: cercare di colmare quel vuoto. Emerso da quei pensieri, mi venne spontaneo chiedere all’autista: “Uhè, giovane, sai dove ‘sta’ Baba”? Perplesso non rispose, per cui ripetei: “Dove sta Baba? Baba... Baba”! L’accenno del capo e la forte animazione del corpo accompagnati da un sorriso ampio, mi comunicarono che ero stato capito, forse ero sulla strada giusta. L’improvvisa conversione della rotta di marcia diede ancor più risalto alla prima impressione: l’uomo evidentemente aveva capito e sapeva dove andare. - 32 -
Una debole protesta dei miei compagni rientrò immediatamente: “In fondo - dissi - non ci stiamo dirigendo verso una direzione precisa: un posto vale l’altro”. Il ritmo cadenzato del reperto archeologico acquisì, all’improvviso, nuovo vigore; la carretta si trasformò in bolide e i metri incominciarono a diventare chilometri, fatto normale in una grande metropoli come Delhi. Dopo un po’ le costruzioni divennero più rade, la carreggiata si trasformò in una sorta di deposito di polvere e gli scossoni richiamarono alla mente due stimoli contrapposti, la voglia di vomitare e il desiderio di mangiare: abbandonammo anche la periferia, inoltrandoci in una piana solitaria. Altre proteste delle mie vittime, questa volta espresse in modo piuttosto energico, mi costrinsero a cercare di fermare il veicolo. Numerosi inviti urlati si persero nell’aria, un po’ per il rumore assordante del motore, un po’ per una possibile sordità dell’autista, che allora non sospettavo voluta. Alla fine stampai, in modo energico, cinque dita sulle costole del nostro Lauda. Il gesto sortì effetto immediato, come potei notare dalla forma assunta dalla schiena: un arco acuto. Mi sovvenne il ricordo di come, talvolta, nell’aprire l’uscio la maniglia mi restava in mano. L’uso, involontariamente eccessivo, della forza provocava qualche reazione indesiderata. Vidi la smorfia di sofferenza sul volto del poveraccio e solo allora mi accorsi come quel corpo smunto fosse vestito solo di una pellicola di pelle molto sottile: non mi sarei meravigliato se, poco prima, quello che, nell’intenzione era stato solo un invito all’attenzione, si fosse trasformato in qualche contusione per quelle povere ossa. “Baba, Baba here”! gridò, indicando una direzione imprecisabile davanti a noi. Mi sentivo in colpa, convinsi gli altri a desistere, ormai la meta era vicina. Giungemmo, poco dopo, in una radura spoglia, davanti ad un isolato mandir, che dominava un timido corso d’acqua. Eravamo giunti a destinazione, finalmente! Furono immediatamente pagate 100 rupie di - 33 -
sovrappiù e l’uomo, rincuorato da quel guadagno inatteso, con insolita solerzia se la svignò. Visibilmente eccitato mi precipitai a varcare l’ingresso del tempio che mostrava visibili segni di abbandono. Il pavimento era costellato di buche, e il corpo dell’edificio non sembrava in condizioni migliori: nell’interno, da vari pertugi, s’insinuavano raggi di sole che lo illuminavano a giorno, rendendone ancora più evidenti le disastrate condizioni. Le chiese in Italia hanno un aspetto decisamente migliore; non credevo che in India il senso di sporcizia fosse presente anche nei templi. Le facce dubbiose dei miei amici mi comunicarono strane sensazioni. Fu Maurizio a esprimersi: “Libero che dici, non vedi che questo tempio è abbandonato” ? L’evidenza era palese, ma la fiducia nel prossimo e il desiderio di trovarmi davanti al guru, richiesero un appello alla condanna che era stata già emanata: l’autista era un imbroglione, e lì non c’era anima viva. Un sordo rumore rimbombò alle spalle dell’edificio: mi precipitai a cercare le mie ragioni. Un volto fisso, vacuo, decisamente interrogativo mi si parò davanti, evidentemente il bovino si chiedeva cosa volesse quello scocciatore che interrompeva il suo pasto. Poco distante un uomo riposava all’ombra di un albero, occupazione dalla quale fu decisamente interrotto: gli chiesi se sapesse dove si trovava Baba. Dovevo mostrare un’involontaria inclinazione verso l’umorismo, perché si replicò la situazione di qualche ora prima, l’uomo incominciò a contorcersi su se stesso e ad emettere dei sibili acuti: era evidentemente in preda ad una crisi d’allegria. Ripetei la domanda. Questa volta, serioso, proiettò l’indice della mano destra verso il cielo, e giù altre risa. Sabina fu la prima a vedere la buffa scena e l’espressione del mio viso su cui era stampata la sconfitta più totale. Sbottò: “Sono stanca di te, del tuo guru e di questa stramaledetta ricerca. Ho fame, sono incazzata e se continua così fra qualche ora non avrò più una lira a furia di pagare i taxi. Me ne vado”! - 34 -
Alle parole seguirono i fatti: si allontanò. Non solo non avevo trovato il guru, ora anche la mia Circe mi abbandonava. Rita e Maurizio erano una coppia ben affiatata: fiorentini entrambi ma figli di meridionali, nel confortarmi manifestarono una sensibilità piena di affetto. Fu impresa ardua ritornare al centro: quel disgraziato ci aveva lasciati in un posto lontano e poco battuto. Sabina era praticamente scomparsa per cui arguimmo che avesse trovato, in poco tempo, un mezzo di locomozione, anche se non riuscimmo a capirne il modo. Un whisky? La sera, al rientro, Sabina era distesa sul letto con lo sguardo vacuo, pensierosa. Dovevo riguadagnare punti altrimenti la situazione sarebbe diventata irrecuperabile. “Scusami”. “E di che” ? La risposta prometteva bene: continuai. “Dei guai che ti sto procurando... anche se involontariamente”. “Ho le mie colpe, oggi sono stata troppo precipitosa nel giudicarti. Del resto anch’io ho i miei problemi, che credevo di aver lasciati a Bologna, mentre invece sono qui con me e ben presenti”. Ho sempre avuto l’innata qualità d’ispirare fiducia, invitando il mio interlocutore al dialogo sincero e profondo. Una situazione di tale intimità poteva aprire la strada ad incontri ‘ravvicinati’, oppure era premessa al sorgere di un sentimento di vera amicizia. Sabina mi si aprì. Abbandonata la famiglia a 16 anni, da allora aveva sopravvissuto alla giornata: ospite di amici, a volte di comunità, era sostanzialmente delusa dalla vita, delusa nei rapporti sentimentali; a 28 anni si trovava praticamente sola, senza lavoro e senza una casa. Il viaggio in India rappresentava una pausa prima di affrontare decisioni ormai non più rinviabili che avrebbero dovuto imprimere un nuovo corso alla sua vita. - 35 -
“Una volta qualcuno mi disse che le sofferenze non finiscono mai. Gli risposi che ogni momento è buono per cambiare idea”. Non era vero, inventavo al momento, la fantasia è un dono che m’è stato concesso in misura sorprendente, ma il fine era buono, cercavo di rincuorarla. Ottenni un risultato: la tensione si sciolse e Sabina sorrise. “Allora l’hai trovato il tuo guru” ? “Non me ne parlare. Oggi ho fatto il giro turistico di Delhi, visitando una decina di templi, anche se un risultato l’ho ottenuto”. “Ah davvero! e quale” ? “Ho messo di buon umore almeno una quarantina di persone...”. Il volto le s’illuminò. “... Non comprendo, appena chiedo notizie di Baba tutti si mettono a ridere. Eppure il nome è giusto me lo ricordo bene. Forse non è molto conosciuto”. Gli occhi le brillarono, con un movimento felino si alzò e inserì una cassetta nel suo stereo portatile; gli amati Rolling Stones ci dichiararono di non poter avere ‘ satisfaction’. “A proposito, come hai fatto a scomparire così velocemente? Io e gli altri abbiamo dovuto attendere un’ora prima di rientrare”. “L’autista, quell’imbroglione che ci aveva portati nel falso tempio”. “Ma come è possibile? era schizzato via come un siluro”. “Sì certo, ma una buca di troppo gli aveva fatta saltare una gomma. L’ho beccato proprio mentre stava per ripartire”. Con una decisione improvvisa quanto inaspettata, Sabina abbassò gli shorts e si distese sul letto. Uno slip trasparente mi mostrò un invitante triangolo nero, ma la T shirt ancora ricopriva la parte superiore. “Sai Libero, sei proprio simpatico...”. Un controllo finto, quasi inglese, che non era altro che una - 36 -
forma d’insicurezza, m’impedì di precipitare sul quel mare procelloso; nello stesso tempo un gonfiore doloroso emerse dal centro delle gambe: la mia temperatura interiore aveva valicato ogni limite. “Vuoi un po’ di whisky? Ne ho di veramente buono”. Non avevo mai bevuto una goccia di alcool in vita mia, il solo odore mi procurava l’emicrania. Quando qualche volta avevo assaggiato un po’ di vino ‘di quello buono’, come affermava mio padre, m’ero dovuto adagiare a smaltire la sbornia. “Sicuro! è una delle mie bevande preferite”. Ho sempre amato il cinema, per qualche tempo mi sono immedesimato in quei personaggi da ‘macho’ interpretati da J. Dean o M. Brando. Ho anche provato invidia per i cow-boy che dopo terribili scazzottate che avrebbero fatto la gioia di una troupe di dentisti, finivano immancabilmente al bar, non dico senza un’ombra di sangue, ma senza un granello di polvere, ad ingurgitare ettolitri di alcool puro senza risentirne minimamente. Scartai il bicchiere che Sabina mi offriva ed incollai le labbra direttamente al collo della bottiglia... Shopping in Janpath Migliaia di aghi premevano su ogni particella di pelle della mia testa, come un esercito di stantuffi infilzavano a ritmo cadenzato ogni superficie disponibile. Un tentativo di presa di coscienza attraverso il sollevamento delle palpebre non ebbe un esito dei più felici: la netta quadrata architettura dell’ ambiente mi si presentò senza forma, priva di contorni, con dei colori pallidi. Con un grande sforzo di volontà riuscii ad alzarmi e mi diressi, barcollante, verso i bagni, dove innaffiai abbondantemente la testa. Dopo qualche minuto il dolore si attenuò diventando sopportabile. Scorsi Sabina in un angolo della corte vicino ad un chai fumante: la raggiunsi. “Stai proprio male” ? - 37 -
“Sono stato meglio”! “Vuoi un’aspirina? Ne ho una bella scorta”. Rifiutai. Ritengo che quando un male arriva vuole dire che lo chiamiamo e ce lo meritiamo, per cui occorre sopportarlo. Nel corso della vita sono stato torturato, ad intervalli regolari, da emicranie; ho sempre cercato di ignorarle con grande sforzo ma non senza conseguenze. Quando ero in lotta col dolore dovevo chiudermi in casa: ero impresentabile. “Uhm... non credo... di ricordare bene ciò che è successo... stanotte”. “Non c’è molto da raccontare... Hai staccato la bocca dalla bottiglia dopo avere ingurgitato una buona metà del liquido che conteneva, poi hai vomitato, anzi sono stati, per fortuna, solo dei tentativi: il tuo stomaco doveva essere vuoto. Infine ti sei addormentato, immediatamente!”. Quell’ ‘immediatamente’ venne sottolineato, con un tono d’evidente rimprovero. Un senso di fastidio, proveniente dalle parti basse, diede amara conferma a quella tragica affermazione: ero andato in bianco!!! La via dell’avventura si stava rivelando costellata di un’insolito quanto nuovo campionario di espressioni dialettali, poco adatto ai circoli parrocchiali; erano parole che inviavo al mio infantile esibizionismo. Da mesi cercavo sbocco alla mia repressione ed ora che s’era presentata l’occasione... che bastava solo coglierla... m’ero esibito in una carnevalata inutile, quanto deleteria. “Sto andando a Janpath Lane, il centro commerciale. Un amico m’ha incaricato di comprare un po’ di merce da rivendere in Italia, guadagno qualcosa. Ti va di venire” ? La prospettiva di rimanere un’intera giornata al ‘Tourist Camp’, a rimuginare sulla mia cretinaggine, avendo come unica compagna l’emicrania, mi fece aderire immediatamente all’invito di Sabina. Del resto cercavo ancora il mio guru e solo chiedendo avrei potuto trovarlo. Le rare volte che ho avuto una relazione sentimentale di una - 38 -
certa durata, ho sempre manifestato una forma di paziente interesse per quella che sembra essere una necessità di vita della donna: lo shopping. Mi rendevo conto di quanto fosse un’attività intimamente soddisfacente e sommamente necessaria per una donna; avevo anche formulato un motto: ‘Una donna che non compra è come un pene che non eiacula.’ Sabina si rivelò straordinariamente vanitosa. Sembrava che comprasse per se stessa ogni minimo ciondolo, guardava attentamente quelle miriadi di stoffe coloratissime e con sicurezza si dirigeva verso l’oggetto prescelto, per una osservazione più particolareggiata; le dita strofinavano con vigore i tessuti per tastarne la consistenza e la qualità. A volte li annusava addirittura. La merce che superava l’esame era quindi portata dal commerciante col quale iniziava un vero battibecco. La capacità di mercanteggiare i prezzi assume qui, più che altrove, una forma di liricità ermetica, di quelle che esprime concetti profondi ed ampi in due parole. Osservavo quel fitto dialogo dall’esterno, simile ad un duello di scherma in cui nessuno dei contendenti crolla spacciato, perché la naturale conclusione è sempre il compresso onorevole. La curiosità ed anche il divertimento dei primi momenti lasciarono ben presto il passo all’impazienza ed alla noia, sentimenti accuratamente celati, per non compromettere quella che definivo la resa dei conti, che di lì a poco avremmo avuto nella nostra camera. Dopo un giro massacrante, verso le 14, l’energia di Sabina accusò un calo e richiese un urgente approvvigionamento. Ci precipitammo in una specie di ristorante dove mangiai quasi niente: lo sconvolgimento della notte precedente era ancora in corso e le spezie abbondanti di cui sono ricchi i piatti indiani da me sempre ributtate - fornivano la motivazione più solida a quella dieta che avrei voluto iniziare ma che per un motivo o per un altro, immancabilmente rinviavo. In quella situazione la dovevo forzatamente mantenere: il cibo indiano mi risultava immangiabile. - 39 -
Manali Dopo pranzo Sabina mi condusse in un luogo fuori mano per un ‘servizio’ come lo definì. Ci fermammo davanti ad un edificio decrepito, immerso in un insolito silenzio, rotto solo da uno stereo che sputava un vecchio successo dei Pink Floid, ‘Atom Heart Mother’. Seguendo la musica entrammo in un ambiente dove sette persone vestite di nero erano adagiate su dei luridi materassi, immersi in un’atmosfera insolitamente pacata, nell’aria si sentiva un penetrante quanto indecifrabile odore caramelloso. Il nostro arrivo provocò un po’ d’eccitazione e dei saluti calorosi: la mia compagna si rianimò, profondendo ampi sorrisi, quindi iniziò un animato dialogo con uno di essi. Mi distesi su una poltrona, e mi guardai intorno: sulle pareti spiccavano alcune immagini di divinità del pantheon locale, una in particolare mi colpì per la stranezza della sua rappresentazione. Si trattava di un personaggio femminile, con una capigliatura ampia e selvaggia, che mostrava una lingua insolitamente lunga. Ai lati sei braccia stringevano le teste recise di altrettanti nemici, mentre le estremità inferiori insistevano su un cumulo di teschi: seppi, successivamente, che era l’immagine della dea Kali, aspetto orrifico e combattivo dello stesso Shiva, una delle rappresentazioni di Dio nella trimurti indiana, insieme a Brama e Vishnu. Il dialogo fra i due finì con uno scambio: Sabina fece sparire nelle sue tasche un cubo di indecifrabile roba nera, dopo aver offerto una manciata di rupie. I due, quindi, mi si avvicinarono e fatte le presentazioni di rito, la mia ninfa annunciò che l’amico forse conosceva l’hindirizzo del guru. Balzai in piedi e vivamente interessato chiesi: “Allora è vero, sai dov’è Baba”? Sorridendo mi rispose: “Guarda che baba in hindi significa padre ed è attributo comune. Praticamente tutte le persone sono dei baba”. Mi resi conto delle motivazioni alle risate che in quei due - 40 -
giorni mi avevano accolto ogni qual volta chiedevo: ‘Scusi sa dov’è il padre?’ “Ma se baba è un nome comune, come fai a sapere qual è il guru che sto cercando”? “In India ci sono due Baba che possono giustificare un viaggio dall’Europa, il primo è Sai Baba, il santo dei miracoli, ma, per incontrarlo avresti dovuto andare a Puttaparti nel sud dell’India. Credo, invece che tu stia cercando Hairakhan Baba, meglio conosciuto come Babaji, che vive ad Hairakhan, ad appena otto ore di bus da qui”. Il nome completo mi risultò subito familiare, fra l’altro avevo già udito la parola Hairakhan: ero sulla strada giusta, circostanza confermata dal successivo approfondimento. Paki - tale era il nome del mio interlocutore - mi parlò di alcuni amici comuni che erano dal guru, fra cui Shani, un vecchio conoscente della provincia di Salerno. Non c’erano più dubbi: avevo l’indirizzo! Un sentimento di gratitudine emerse dal profondo del mio animo: ci scambiammo notizie ed esperienze. Seppi che erano in India da due anni e vivevano spacciando un tipo particolare di hascisc chiamato ‘manali’, come il luogo di provenienza. Mi convinsero a comprarne un po’ per farne dono gradito agli amici di Hairakhan: in un impeto di generosità ne acquistai 5 etti. Infine m’invitarono a fumarne un po’. M’era capitato, a volte, di trovarmi a casa di amici dove girava qualche spinello, senza che ciò mi procurasse disagio, dal momento che l’assimilazione di questa droga non trasformava in mostri o in criminali i consumatori. Anzi l’unica conseguenza che procurava era una sorta di allegria. Dal momento che io ero sempre di buon umore non ho mai ritenuto di dover fumare per acquisire uno stato d’animo che m’era già familiare. L’unica cosa che m’infastidiva, e non poco, era l’effetto del fumo sui miei polmoni e sulla trachea: tosse ed irritazione. Ero perciò tentato di rifiutare ma la situazione richiedeva una riflessione ponderata ed una conseguente lucida decisione. Sabina evidentemente apprezzava quel fumo per averlo acquistato - 41 -
era confluito nelle sua borsa qualche minuto prima -; un rifiuto da parte mia avrebbe forse potuto avere delle conseguenze non piacevoli sull’agognato incontro notturno. Del resto erano le 16 e mancava qualche ora prima che mi fosse consentito di dare un po’ di sfogo alla mia ansia sessuale: avevo tutto il tempo per smaltire un’eventuale ‘sbornia di allegria’; fra l’altro non mi constava che potesse influenzare negativamente un rapporto sessuale. In definitiva, tirate le somme, era meglio fumare. Ci mettemmo seduti in circolo ed un oggetto conico ebbe l’attenzione degli astanti. Credevo che venisse ‘rollata’ una sigaretta, mentre invece la mistura abbondante di tabacco e manali fu mischiata ben bene ed inserita nel buco più ampio di quella specie di pipa. La novità mi mise in leggera fibrillazione: in Italia non avevo mai assistito ad una storia del genere, probabilmente era una variante culturale del posto. Mi fu spiegato che il chilum, nome dell’oggetto, doveva essere ospitato fra le due mani serrate a mo’ di conchiglia, con la parte inferiore inserita nella fessura risparmiata fra le due mani, dove venivano accostate le labbra e quindi aspirare. Mi fu chiarito che l’intermediazione delle mani era una precauzione igienica dal momento che in India si potevano contrarre malattie di ogni tipo dal semplice contatto. L’osservazione ad un’ attenzione igienica contrastava fortemente con la sporcizia ed il disordine che sembravano una caratteristica di quell’ambiente. Dal momento che ero l’ospite mi porsero il chilum invitandomi al primo tiro, dopo avere disegnato con esso un largo giro circolare, accompagnato da alcune parole in hindi che mi risultarono incomprensibili; mi fu spiegato che era un rituale che serviva a dare maggior vigore all’effetto desiderato. Una fiamma vigorosa causata dall’accensione simultanea di tre svedesi fu avvicinata alla mistura e subito aspirai con impegno, profondendo un’energia insolita, due, tre, quattro volte per essere sicuro che venisse accesa bene. L’ardore impiegato, causato in parte da una predisposizione naturale, in parte dal desiderio di non sfigurare davanti alla mia amica, venne apprezzato viva- 42 -
mente dalla compagnia: sembrava che fosse decisamente insolito. Nuvole di fumo, dopo aver depositato il loro messaggio all’interno del mio corpo, si formarono al suo esterno con un’ampiezza assolutamente ineguagliata dagli altri. Feci immediatamente un controllo delle mie facoltà mentali, per verificare eventuali indesiderabili effetti: la risposta fu confortante, mi sentivo sobrio e lucido. Un altro chilum fu preparato e servito, come prima, all’ospite. Rassicurato lo accesi senza alcun problema e così un terzo, un quarto, fino a che dopo il settimo, un brontolio proveniente dallo stomaco annunciò che non c’era più spazio nei polmoni, confermato da frequenti colpi di tosse che investirono tutta la combriccola. La stanza s’era trasformata in un’unica ampia nube e a stento riuscivo ancora a decifrare il colore degli occhi di Sabina: sembrava d’essere fra una schiera di nuvole. L’esigenza di non porre anzitempo termine alla nostra esistenza per asfissia, ci consigliò un precipitoso saluto ed un’altrettanto veloce fuga. Sabina era stanca ed esternò il desiderio di ritornare al Tourist Camp: ci dirigemmo subito, e a piedi, verso il vicino ineluttabile luogo di delizie. Sorridente stringevo la sua mano, comunicando amore e richiedendo corrispondenza, che venne celere e calorosa. I nostri arti iniziarono una conversazione animata, accentuata dagli occhi che sembravano emanare bagliori e saette. La gioia si trasmise alle mie gambe che accennarono dei comici passi di danza facendola divertire, poi esclamò: “Sei incredibile Libero, non ho mai visto una persona che aspirasse il chilum con tanta forza senza risentirne immediatamente!” Ero fiero del complimento anche se un campanello d’allarme iniziò, inspiegabilmente, a trillare. “Ma perché, il manali è più forte di uno spinello”? “Non è più forte...”, mi tranquillizzai. “...è più efficace e duraturo”. Di nuovo si manifestò una leggera tensione. “Che intendi per: è più efficace! fammi un esempio. Se dovessi fare un paragone fra uno spinello ed un chilum in - 43 -
che rapporto li porresti”? Pensò un po’ e disse: “Uno a dieci”. “Cioè uno spinello è dieci volte più forte di un chilum”. “No Libero, proprio non hai capito è tutto il contrario. Anzi con la foga che hai impiegato credo che per te, fumare un chilum sia stato un po’ come aspirare quindici spinelli. Insomma con un calcolo approssimativo è come se tu stasera avessi fumato cento spinelli in una sola volta”. Gocce di sudore m’imperlarono la fronte, le mani divennero insensibili. “Ma non avverto niente, può darsi che non abbia effetto. Ma... non credo affatto, poi l’effetto non è proprio immediato, infatti solo ora incomincio ad avvertire qualcosa”. Le gambe si fecero pesanti, lo stomaco protestò nuovamente con un brontolio sordo e prolungato; avevo difficoltà a seguire il passo di Sabina. Pensando a ciò che mi riproponevo di li a poco sbottai: “Credi che possa avere qualche conseguenza sull’energia sessuale? e poi quanto dura, più di un’ora” ? “Di solito fumare il manali fa salire la kundalini, cioè l’energia primordiale che normalmente stagna nelle parti basse e ciò naturalmente non favorisce un buon rapporto sessuale. È come se tu volessi andare in due parti opposte, semplicemente non puoi, a meno che non ti spezzi in due. Sulla durata non posso giurare, ma ho sentito di persone che hanno avuto un flash per più di 24 ore”. Nel 1971 ero ad Amsterdam e con la foga e l’ingenuità dei miei 19 anni ingoiai una pasticca nera che mi diede un compagno di viaggio. Era un acido, di quelli proprio terribili, l’esito fu devastante. Una paranoia pazzesca mi attanagliò per 48 ore. Nel parco centrale di quella città v’era una filantropica istituzione; ex drogati, usciti dal tunnel della tossicodipendenza, si prodigavano per aiutare chi si trovava nei guai: nelle mani di quelle persone affidai la mia alienazione. Di quella esperienza mi sovvennero due momenti: il senso di pazzia totale che mi - 44 -
invase, poi una corsa altrettanto folle per il parco. Percorsi con scioltezza degna di un campione olimpico almeno una ventina di km sospinto dall’energia chimica della pasticca, accompagnato da due numi tutelari che mi sorvegliavano, impedendomi di causarmi qualche danno. In più occasioni riuscirono ad evitare a quel corpo pazzo e quasi nudo, d’immergersi nell’acqua gelida di un laghetto che abbelliva l’ambiente. Se non fosse stata tragico l’episodio avrebbe potuto essere divertente: quella coppia di angeli ansimava con evidenza; le loro energie venivano strapazzate, due lunghe lingue vennero mostrate, evidente segnale che essi cercavano disperatamente nuova linfa per i poveri polmoni esausti. Le parole di Sabina m’evocarono immediatamente questo episodio, e con esso apparvero ansie e fobie che non mi avevano mai abbandonato; partii per un viaggio, e che viaggio... Ero seduto sul letto quando un senso di fastidio e di bruciore sorse ben distinto al centro del capo. Comunicai a Sabina la strana sensazione, che subito intervenne: “Sei fortunato Libero, il fumo sta salendo per il canale spirituale; il settimo chakra, il più vicino alla dimensione astrale, si sta aprendo. Sei proprio fortunato, stai per partire per un viaggio astrale”. Non sapevo che cavolo significasse la parola astrale, poi non avevo alcuna intenzione di allontanarmi da quel luogo, che prometteva di regalarmi delle emozioni forti e agognate: volevo rimanere lì!!! All’improvviso, allo stesso modo di un tappo di champagne che, una volta tolta ogni costrizione, la pressione scaraventa lontano, così avvertii un botto sordo e chiaro, mi sembrò che un pezzo di cervello venisse catapultato lontano dalla sua sede, dando la stura alle più incredibili sensazioni che abbia mai provato. Ero in una specie di tunnel completamente buio e stretto, di una lunghezza interminabile. Mentre cercavo di capire dove mi trovavo venni proiettato, attraverso un’apertura apparsa improvvisamente, in un ambiente solare, dove avvertii la sen- 45 -
sazione che non avevo più un corpo, non distinguevo mani né piedi né testa: io ero lì, ma non il mio corpo. Fu l’ultimo barlume di consapevolezza. Divenni uno sguardo, un punto di osservazione sull’universo, anzi su un’altra dimensione dell’universo. Ero luce, solo luce fra miriadi di altri bagliori dai colori incredibilmente lucenti, fluttuavo in una dimensione in cui i principi di spazio e tempo erano inesistenti. Un suono... OM OM OM..., continuo, a volte opprimente, invadeva, come una ragnatela, tutto ciò che era. Il balletto dei balenii veniva accompagnato, sottolineato, accentuato dal suono. Ogni movimento era suono, ogni colore era suono. In certi momenti sembrava più acuto ed allora le miriadi di luci esplodevano letteralmente trasformandosi ognuna in una specie di vulcano che eruttava altri innumerevoli chiarori. Anch’io esplodevo e m’espandevo, mi riconoscevo in un universo di altre luci, il suono s’insinuava nel mio sé trasformato in universo, ne prendeva possesso. Io ero il sé, Il sé era ormai il suono, il sé era l’universo, il sé era dovunque, il sé era... No. Vado dal mio Guru! “Libero, Libero svegliati”! Da uno squarcio in qualche punto indecifrabile del mio animo, avvertii una voce familiare che cercava di rintracciarmi in quella dimensione dove m’ero smarrito. “Dai, svegliati! muoviti! è finito tutto”. Un barlume di consapevolezza riuscì ad aprirsi uno spiraglio nel cubo nero in cui ero ancora prigioniero: ricordai chi ero. Lentamente ripresi confidenza con i mezzi d’espressione, tentai di parlare, ma riuscii ad emettere solo un brontolio indecifrabile: “Oh...Uh...”. Era come se stessi rinascendo, per cui dovevo riappropriarmi degli strumenti di comunicazione. Sentii qualcuno gridare: “Sabina, Rita, venite”. Feci un altro sforzo: “Oh... ghe... or zono...”. - 46 -
Chiedevo l’ora ma non per curiosità: il ritorno alla consapevolezza mi aveva riportato esattamente allo stesso punto da dove ero partito: il letto e Sabina pronta per il nostro incontro. Un volta, un’occasionale compagna, presa da un impeto di rabbia, mi apostrofò: ‘Tu il cervello ce l’hai in mezzo alle gambe’! In una circostanza come quella del mio risveglio, non avrei potuto darle torto. “Che dici? Non capisco”! Il povero Maurizio cercava di rianimarmi. “Che ore sono”? Fu Rita questa volta a rispondermi: “Le otto”. Mancava un po’ di tempo all’ora x, avevo ancora la possibilità di concludere: la speranza ampliò le mie capacità di comprensione, e riuscii, dopo un notevole sforzo, ad aprire le palpebre: una luce intensa mi ferì: “Per piacere spegnete quella lampadina”! “Ma non c’è alcuna lampada, sono solo i raggi del sole”. Era stata Sabina, con una voce stanca, ad intervenire. Qualcosa non quadrava; come era possibile che il sole brillava se erano le otto? Esternai il mio dubbio. Al che Maurizio mi diede una risposta esauriente. “Sei da 14 ore in questo stato. Hai trascorso una notte decisamente inusuale: parole parole, un fiume di parole, qualche volta degli urli, accompagnate da convulsioni, fino alle 6 di stamattina. Poi ti sei come spento”. “Oh...ma cosa... dicevo”? “Il campionario non era ampio e soprattutto senza senso, le uniche parole comprensibili erano: guru, baba, Sabina”. Provai ad alzarmi e muovermi, ma due pezzi di legno avevano evidentemente sostituito le mie gambe. Ansimavo; anche le facoltà percettive non erano completamente ristabilite. Osservavo i miei amici e mi sembrava che i loro capelli emanassero un riflesso luminescente, vedevo nell’aria scintille colorate. Sabina disse: “Parto! Nel pomeriggio ho la prenotazione per un treno che - 47 -
mi porterà a Goa. Ti va di venire” ? “No. Vado dal mio guru”! Ero io, proprio io ad aver pronunciato quelle parole? Non me n’ero reso conto, mi sembrava che qualcuno si fosse insinuato dentro di me e parlasse ed agisse in mia vece. “Libero, guarda che Goa è una magnifica località sul mare, c’è acqua pulita, una natura meravigliosa e la vita costa nulla. Potresti rimetterti in forze e poi andare dal tuo guru”. “No, no, stasera parto per Hairakhan “. Avevo sciupato anche la prova di appello, ma in fondo sentivo di aver fatto la scelta giusta. Prima di partire ci scambiammo indirizzi e promesse di rivederci in Italia. La sera, aiutato da Rita e Maurizio, mi recai a Kashmir Gate, la stazione dei bus diretti al nord; ero ancora in uno stato di confusione mentale, per cui essi pregarono l’autista di sorvegliarmi ed eventualmente aiutarmi. Alle 22 il bus si mosse. Quando salutai i miei amici fui invaso da un senso di tristezza, accentuato dalla solitudine e dal paesaggio quasi lunare che iniziò a scorrere davanti ai miei occhi. Quella notte non dormii, con la mente che riandava in continuazione, come un disco incantato, alle recenti occasioni perdute ed al senso di frustrazione e d’impotenza che mi procuravano. Ma nello stesso tempo, inaspettatamente, un brivido di piacere riuscì a penetrare in quel deserto di malinconia e con esso un pacato ottimismo sorse da una regione remota del mio animo: il futuro si preannunziava e con esso un sentimento di misteriosa speranza. Prem Baba Otto ore più tardi venni depositato, alla lettera, in un angolo della stazione secondaria di Haldwani, cittadina dello stato dell’Uttar Pradesh, a ridosso dell’ Himalaya. L’autista del bus, dopo essersi assicurato sulle mie condizioni, mi spiegò di attendere perché in breve tempo sarebbe transitato il bus per - 48 -
Damside, luogo non lontano, da dove poi partiva un sentiero che mi avrebbe condotto alla meta. Il posto era insolitamente deserto, fra l’altro avvertii subito un sensibile calo di temperatura: il freddo non era pungente ma infastidiva le giunture che incominciarono a dolermi. Non stavo proprio bene, sia a livello psichico che fisico, e non poteva essere diversamente con quel che m’era capitato. In tre notti avevo totalizzato circa 10 ore di sonno quindi, considerate le mie abitudini, dovevo recuperarne 14. Inoltre ogni notte mi aveva recato un dono tutt’altro che piacevole e cioè, nell’ordine: una dose di coca; una sbronza colossale; uno stratosferico trip di hascisc. Avvertivo, inoltre, una generale debolezza originata dagl’intrugli che avevo ingurgitato in quei giorni, pieni di spezie piccanti e senza consistenza vitaminica. M’ero riempito anche di scodelle colme di ottimo latte ma questo mi aveva provocato solo una fastidiosa diarrea che in quelle condizioni di salute, di stato d’animo e di sporcizia, era l’ultima cosa che desideravo. In definitiva in tre giorni avevo ingoiato 1 kg circa di qualcosa di solido, nutrimento abbondantemente consumato dall’inatteso e defatigante sciupio d’energie cui ero andato incontro. Il risultato era ben visibile: il rigonfiamento addominale era scomparso ma sotto gli occhi erano apparse delle borse scure e spesse che proclamavano la mia spossatezza. Quest’esperienza mi aveva portato a comprendere una cosa che per me era tragica: io e il cibo indiano viaggiavamo su due binari diversi! Il desiderio di riuscire a nutrirmi in un modo decente era ormai una necessità inderogabile, ma non avevo assolutamente idea di come potessi soddisfarlo, dal momento che nelle comuni pietanze indiane non riconoscevo nulla che mi fosse culturalmente familiare e che potesse trasmettere un senso di gustoso piacere al palato e di benessere allo stomaco. Iniziai a guardarmi intorno alla ricerca di una soluzione, quando un assordante schiamazzo di ferraglia attirò la mia attenzione: un bus era rumorosamente in arrivo. Si fermò giu- 49 -
sto davanti a me: i passeggeri ne discesero per una sosta. Erano quasi tutti occidentali che emanavano una vibrazione di allegria, capelli lunghi, facce abbronzate, camicie coloratissime, chitarre, dolak, conce, campanelli, e qualche armonium, intonavano un canto ritmato e melodioso. Ebbi l’impressione di una comitiva di ‘figli dei fiori’ al seguito di un gruppo rock in tournée. Quel bailamme mi rincuorò ed un sollievo ancora più marcato mi venne dalla vista di una sagoma familiare: un amico di vecchia data di Cava dei Tirreni. Gli corsi incontro con entusiasmo e gioia. Mi riconobbe e immediatamente mi freddò: “Libero anche tu qua, che sei venuto a fare? perché non te ne torni a casa”? Uno degli elementi che caratterizzò l’antica civiltà greca fu la filossenia. Uno straniero, che sbarcava in una città, era accolto con grande cortesia: l’ospite era sacro. Un popolo che mostrava tanta amabilità per gli stranieri, doveva maggiormente avere sensibilità per i propri cittadini. Ho sempre ritenuto che da Cuma in giù, quella che una volta era la Magna Grecia, fosse vivamente presente un sentimento abbastanza simile, che si allargava necessariamente alla sfera dei rapporti interpersonali. La delusione insieme all’incomprensibilità di quell’affermazione che rinnegava millenni di consuetudine, mi provocò stupore, innescando una sorta di rabbia interiore che stava per sbottare in un: ‘ma va’ fa ‘n culo!!’ quando la mia attenzione fu improvvisamente catturata da un uomo dallo sguardo magnetico che mostrava 50 anni ma, come seppi successivamente, era più che settantenne. La barba bianca risaltava sul volto color carbone, un longhi copriva una parte delle gambe snelle, lasciando in mostra un busto senza un’ombra di adipe; sul capo una fascia ne tratteneva i lunghi capelli bianchi. Mi chiamò senza manifestare alcun movimento, anzi è più esatto dire che mi attirò col semplice sguardo Mi avvicinai ammaliato e, dopo aver ricevuto un confortante sorriso, mi cinse le spalle col sottile ma nervoso braccio invitandomi a salire sull’automezzo dove sedemmo affiancati. La - 50 -
Prem Baba
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vita mi sorrise nuovamente: nel suo sguardo c’era una sensazione di pace che coinvolgeva e che mi generò un eccitante sospetto. Avevo qualche volta provato ad immaginarmi le fattezze del mio guru: un volto non più giovane, con tratti regolari e con una barba lunga. Credetti, pertanto di riconoscerlo in lui, ma mi sbagliavo, era un vecchio devoto di Hairakhan Baba, si chiamava Prem Baba. Il bus si mosse e per un’ora rimasi seduto vicino al mio nuovo amico, intrecciando un dialogo muto in cui da una parte veniva espressa pace ed un sentimento di amorevole solidarietà, dall’altra un senso d’immensa riconoscenza. Durante il tragitto seppi che Hairakhan Baba, o semplicemente Baba, oppure Babaji come era universalmente conosciuto, aveva affrontato un lungo viaggio di tre settimane nelle regioni del nord ed ora ritornava alla sua residenza, insieme alla cospicua corte di devoti, che usualmente lo accompagnava nelle sue visite. Ma non era lì, viaggiava separatamente e sarebbe rientrato nel pomeriggio ad Hairakhan, dopo una breve sosta ad Haldwani. L’aria fresca del mattino, erano le 7 circa, impregnava il mio volto, donando ai sensi stanchi e confusi una pausa a quella sensazione generale di torpore che mi attanagliava. Ero intimamente contento, nonostante una visione di mare, di due corpi intrecciati, il mio e quello di Sabina, mi balzava alla mente viva e fastidiosa. Cavallo Pazzo Damside era solo un punto di sosta, un luogo inesistente sulla mappa, ma una tappa necessaria. Scendemmo dal bus e ci avviammo per un sentiero stretto e tortuoso. Confortato dallo sguardo paterno di Prem Baba, camminavo con scioltezza e senza timore; la ricca vegetazione pre-himalayana, il verde deciso degli alberi, la larghezza insolita delle foglie, il profumo dolce e penetrante della Natura, gli acuti stridii di uccelli sco- 52 -
nosciuti, lo scrosciare di un fiume che s’indovinava vicino ma ancora invisibile, mi riempirono di felicità: ero prossimo alla meta, avevo incontrato una guida e conosciuto amici con cui confrontarmi. Un fiotto di gioia m’investì in modo così dirompente che sentii la necessità di riversarne parte sul vecchio: lo sollevai letteralmente da terra e lo presi a cavalcioni! M’era saltato in mente che alla sua età la fatica del cammino lo potesse provare, per cui mi proposi di dare un po’ di sollievo alla sua presunta stanchezza. Successivamente mi venne chiarito che Prem Baba era solito fare delle ascese su cime alte e dure, senza risentirne, lasciando ad una rispettosa distanza giovani sicuramente più dotati. La situazione venne recepita con simpatia sia dal diretto interessato che dalla comitiva. Dopo un po’ il vecchio mi fece segno che desiderava scendere. Credetti che fosse stufo, invece volle sistemarsi direttamente sulle spalle coi piedi penzoloni. La nuova posizione dandomi più libertà di movimenti mi spronò: iniziai una specie di galoppo; il cavaliere, divertito, estrasse una tromba da un sacco ed accompagnò i miei passi con degli acuti striduli: mi divertivo come un matto, intorno gli amici si sbellicavano dalle risate. Dopo un po’ mi sentii stremato, le gambe non reggevano più, stavo quasi per cascare quando, per fortuna, giungemmo ad un punto di sosta, su un picco prospiciente il fiume, dove depositai il mio carico. Riacquistata libertà di movimenti Prem Baba riunì un gruppo di una decina di persone in un cerchio e sbottò: “Chilum Banao”. Le parole non erano chiare ma il senso si: un chilum gigantesco si materializzò nelle sue mani dentro al quale venne immessa un’abbondante mistura di tabacco ed hascisc. Subito dopo infiammò quella pipa ed emersero dai suoi polmoni delle nuvole così ampie da far sembrare palloncini di gomma quelle emanate da me due giorni prima. Doveva essere un maestro in quell’arte. M’invitò. Non pensai: il rifiuto venne immediato e deciso. Non era il caso di avere un’altra esperienza catastrofica. La sua benevolenza nei miei confronti mi spinse a regalargli il - 53 -
pacco di manali che avevo con me: lo accettò con indifferenza. Devo anche annotare che un po’ mi meravigliava quell’abuso di droga, ma mi venne chiaramente spiegato che era una scelta individuale non favorita assolutamente da Baba. Subito dopo ci dirigemmo verso un’arcaica cabina a manovella sorretta da due fili d’acciaio che consentiva il passaggio a piccoli gruppi sull’altra sponda del Gotama Ganga, così era chiamato il fiume. Tre itinerari conducevano ad Hairakhan. Il primo, utilizzato quando le acque erano in piena, attraversava i monti; il secondo molto comodo, era diretto: quando il letto del fiume era quasi in secca consentiva di arrivare alla meta a bordo di un track; il terzo, scelto in quella stagione dell’anno, costeggiava le sponde del corso d’acqua ed in alcuni punti, dove il livello e la corrente lo permettevano, s’insinuava nello stesso. Prem Baba mi stette vicino per tutto il tragitto, indicandomi i punti più attraenti, mostrandomi la fauna ricchissima e vivace che riempiva il fiume; due volte m’invitò ad immergermi laddove si formava un’insenatura in cui l’acqua mi accolse col suo calore e vigore. Babaji Dopo quattr’ore circa mi apparve uno squarcio di paradiso. Il corso d’acqua attraversando una vasta valle, fra due catene di monti, si divideva in tre lingue riempiendone quasi tutto lo spazio. Sulla sinistra notai, su un poggio rialzato, delle costruzioni coniche affiancate. Sulla destra, una lunga scala immetteva su un lato di una collina dalla quale emergevano solo in parte - dal momento che erano nascosti per lo più dalla stessa alcuni edifici. Tutt’intorno apparivano di tanto in tanto delle terrazze ampie e coltivate nelle macchie verdi di quella giungla. Alcuni rivoli scorrevano rapidi e sottili, da entrambi i lati della valle, per ampi tratti, confluendo al corso principale. Nel cielo tre aquile volteggianti annunciarono la loro regale presenza. - 54 -
All’arrivo fui invaso da un sentimento di grande eccitazione, ma non ebbi il tempo di guardarmi intorno perché era l’ora del pasto e tutti, dopo l’estenuante salita, si diressero con solerzia al luogo del rifornimento, separato da centotto gradini. L’ultimo sforzo aprì un ampio buco nello stomaco che reclamava di poter riprendere le vecchie abitudini. Un’ampia scodella con tre diverse indecifrabili pietanze mi venne presentata; l’afferrai con speranza, ma il rifiuto fu immediato e totale. Pazienza, qualche banana calmò i morsi della fame. Mentre ci rifocillavamo alcune conce, improvvisamente, squassarono l’aria; delle campane rintronarono la loro melodia, intorno fu un solo eccitato brusio; anche la natura partecipò: il vento che soffiava con insistenza si quietò e mi sembrò che tutto ciò che era visibile, alberi, pietre, aria, acqua, animali avesse all’improvviso acquistato consapevolezza e fosse in attesa di un evento straordinario. Vi fu un confluire generale alla base della collina, dove naturalmente mi diressi anch’io e seppi che finalmente Babaji era vicino!! In lontananza scorsi un gruppo di persone che dalla mia prospettiva assomigliavano ad una macchia di colore in movimento che divenne decifrabile man mano che la distanza diminuiva. L’attenzione fu quindi catturata subito da un uomo assiso su un asinello, avvolto completamente da un candido panno che lasciava scoperto solo il volto sul quale, anche a quella distanza, si notava un insolito sorriso che sembrava abbracciare tutta la valle. Quando fu quasi vicino qualcuno gli corse incontro ma la maggior parte restò ferma, assorta, quasi senza respirare, finché un urlo possente squassò all’improvviso quella quiete: ‘BHOLE BABA KI!!’, in coro tutti risposero ‘JAI!!’ L’urlo si ripetè più volte fin quando il guru non fu di fronte a noi: allora tutti s’inginocchiarono. La mia infelice postazione, alle spalle di tutti, m’impediva d’osservare bene per cui, appena si prostrarono, colsi l’occasione per scivolare immediatamente innanzi, parandomi di fronte a lui: due occhi scurissimi, di una profondità sconcertante mi scrutarono abbagliandomi: le palpebre - 55 -
... si notava un insolito sorriso che sembrava abbracciare tutta la valle...
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s’inumidirono, le ginocchia si piegarono, un impulso, provocato da un’emozione indescrivibile, mi spinse a cercare i suoi piedi sui quali poggiai il mio capo. Una chiarore improvviso mi pervase insieme ad un senso di pace totale; sarei rimasto in quella posizione per il resto dei miei giorni, se un altro impulso non mi avesse fatto alzare lo sguardo fissandolo su di lui: mi apparve un volto solare, giovane, ma nello stesso tempo indefinibilmente vecchio. Mi chiese: “Di dove sei” ? ed io: “Kali mi manda”. Quando ripetè la domanda ammutolii, quindi scivolò via. Rimasi interdetto per un po’, cercando di analizzare ciò che era successo. Come avevamo comunicato? in quale lingua? ma avevamo parlato? non ne fui certo. Poi mi chiesi come mai mi fossi prostrato ai suoi piedi, in quella posizione umiliante; al solo pensarci, al solo immaginare le reazioni dei miei amici o dei miei parenti mi assalì un senso di vergogna, però... però era stato piacevole. Infine analizzai la mia risposta. Nel 1978, con una decisione precisa e salda, lasciai la mia famiglia per cercarmi uno spazio tutto mio. Avevo acquisito un minimo di autonomia economica per cui affittai una casa. Una delle amiche vere che in quel periodo avvicinai fu Annamaria, una docente universitaria, di una quindicina d’anni più anziana. La sua notevole cultura, insieme ad un carattere tutt’altro che pacato, mi spinsero spesso a cercarla per incontri dialettici di una profondità sconcertante. Affilavamo le sciabole delle nostre lingue e spesso duellavamo fino allo sfinimento. La sua energia e la mia parziale accondiscendenza, al di là delle ragioni che ognuno aveva, la ponevano quasi sempre in una posizione di superiorità. Quelle discussioni mi laceravano, ma mi maturavano. Annamaria giunse in India da Babaji qualche mese prima di me. Ritornò cambiata ma non doma; il guru come è consuetudine non rara - le aveva dato un nome: Kali. Il più adatto ad esprimere la natura combattiva di quell’anima. A - 57 -
lei facevo riferimento nella mia risposta al guru, ma senza saperne perché. Per la verità un’altra spiegazione c’era e solo qualche tempo più tardi l’intesi. Kali è anche l’aspetto di Dio come Madre Divina: nel mio viaggio da Babaji c’era stato sicuramente un deciso, potente intervento divino... Dopo aver cercato invano di raccapezzarmi, e prima di addentrarmi, sfinendomi, in ragionamenti che forse potevano essere utili, ma che in quel momento non avevano senso, decisi che era meglio dormirci sopra, tanto più che non avendo praticamente mangiato, avrei almeno riacquistato forze col riposo. Cullato da quella sensazione di prodigiosa calma che ancora mi pervadeva mi recai al dormitorio dove mi buttai su una brandina. Fai il mundan o vai via L’ashram era governato da regole precise fra cui la più dura, per quel che mi riguardava, era la sveglia mattutina alle 3,30, seguita da un bagno nelle acque del fiume che erano veramente gelide dal momento che provenivano dalle falde dell’Himalaya. La giornata veniva poi scandita da momenti di preghiera, di lavoro e di riposo e scorreva, nei suoi ritmi, apparentemente identica tutti i giorni, dal momento che, al di là di ogni regola, la presenza del Maestro movimentava in ogni momento prassi e persone. Alle 4 si svolgeva il suggestivo rito del fuoco cui non tutti erano ammessi, quindi intorno alle 7 si partecipava ad una delle due funzioni quotidiane, ( l’altra si svolgeva 12 ore più tardi circa) definita arati. Subito dopo, in prosecuzione alla cerimonia, v’era l’incontro generale o darshan, col Maestro. Il resto della giornata era occupato dal Karma Yoga, una forma di lavoro disinteressato dedicato a Dio, dai pasti e dal riposo. Al risveglio mi sentii rinvigorito e felice e dopo un chai fumante anche ristorato. L’improvviso suono contemporaneo di campane, dolak, conce, annunciò che si avvicinava l’ora dell’arati serale, per cui mi recai, come tutti, al tempio. - 58 -