7 minute read
Carlo Montalbetti Il fiume favoloso
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
Il Pio Albergo Trivulzio
MARIA CRISTINA CANTÙ
Parlamentare della Repubblica italiana
Ero una giovane di grandi speranze e come tutti i giovani, o almeno gran parte di essi, credevo di poter cambiare il mondo, marginalizzare le ingiustizie, tutelare i più fragili e stroncare quello che sembrava essere un malcostume diffuso che all’epoca aveva preso il nome di Tangentopoli e non ho trovato di meglio che occuparmene in prima persona, andando a “portare il mio contributo” a quello che allora come oggi si trovava al centro della scena di criticità assistenziali: il Pio Albergo Trivulzio. Forte di una storia pluricentenaria, nato da una visione di lungimiranza e da un gesto di grande generosità, era assurto alle cronache come luogo di malcostume.
In qualche modo mi ero ripromessa di riuscire a raddrizzarne la rotta senza troppi riguardi per gli ostacoli che mi avrebbero posto nel raggiugere i miei obiettivi di migliorare qualità e quantità dell’assistenza e cura agli anziani non autosufficienti, in chiave universalistica per tutti i bisogni sanitari e socio sanitari, dimostrando concretamente che non disperdendo risorse pubbliche e donazioni private è possibile ridurre il costo sociale di chi necessita di essere istituzionalizzato secondo canoni di sicurezza e umanizzazione delle cure.
Così, nell’agosto del ’92 è cominciata la mia personale “missione” al pat.
Arrivavo da un luogo bellissimo, la Monteggia di Laveno, e volevo trasformare inconsapevolmente in un luogo di altrettanto benessere una struttura per i più bisognosi di attenzioni e cure che, per certi versi, aveva delle potenzialità straordinarie e, per altri, viveva nel passato. Ho dovuto acclimatarmi ai ritmi frenetici della città e debbo ringraziare di aver avuto sempre al mio fianco una famiglia che mi ha sostenuta nel mio sogno.
Per giunta, l’essere andata ad abitare nel vecchio Palazzo del Principe Tolomeo mi ha fatto credere di dover effettivamente riportare quell’Istituzione all’onore etico e valoriale, oltre che gestionale e di servizio, che meritava. Dopo soli 5 anni avevo scalato un po’ di posizioni e nel ’97 mi trovai a svolgere le funzioni di Segretario Generale.
Quando ho visto i conti dell’Ente sono rabbrividita: al pareggio di bilancio mancavano, vado a memoria, oltre 8 miliardi di vecchie lire, ma l’ingenuità e la forza della gioventù hanno fatto sì che non mi perdessi d’animo e cominciai con ruvidezza, ma contando sulla condivisione delle mie idee da parte della stragrande maggioranza del personale, sindacati compresi a tagliare quelle “rendite di posizione” che avevano contribuito al dissesto, raggiungendo livelli di partecipazione tali che coniugarono riequilibrio gestionale, potenziamento quanti-qualitativo dell’assistenza e orgoglio di appartenenza. Orgoglio e senso di appartenenza che, senza aumento quantitativo di personale né tantomeno dismettendo posti letto e funzioni o esternalizzando alcunché, ma ottimizzando servizi innovativi a elevata intensità di assistenza e cura – che, a onor del vero era stati pensati e introdotti dalla gestione precedente non certo immune da opacità, dispersione di risorse pubbliche e “carenze” valoriali –, consentì di consolidare la prospettiva di prevenzione delle fragilità geriatriche e della loro riabilitazione per quanto possibile oltre che di protezione delle cronicità.
Nel giro di un anno e mezzo presentai al consiglio di amministrazione un bilancio con un avanzo di gestione di oltre 8 miliardi, assistenza medica, infermieristica continuativa nelle 24 ore, con un assenteismo sotto la fisiologicità: tutto il personale aveva contribuito a ravvivare il sogno del Principe Tolomeo.
Effettuato il risanamento gestionale era in programma il completamento dell’ammodernamento strutturale, destinando gli avanzi di gestione a questo nobile principio e alla riduzione delle rette.
Non solo così non fu, non solo non ricevetti nessun apprezzamento ma in qualche modo mi isolarono e fu così che compresi fino in fondo quanto fosse difficile cambiare il mondo!
Non bastava avere le competenze, la sensibilità, l’etica, i valori ma bisognava saper “prevenire” le variabili politiche che ti circondano, che sono molte più di quante ci si possa immaginare: piccolo “cabotaggio” che però se non riesce a dettare la linea, è sicuramente in grado di fermarne l’azione. Per questa ragione decisi di “impratichirmi” facendo un po’ di politica attiva per cercare di comprendere le logiche e i veti incrociati di forze contrapposte che molto spesso non riferiscono ai vertici le vere motivazioni per cui le decisioni sono adottate, non solo in totale spregio dell’interesse pubblico, ma talvolta anche neppure nell’interesse dei proponenti.
Ma sono un’inguaribile ottimista e fatte un po’ di “esperienze”, sempre con il Pio Albergo Trivulzio nel cuore, ci sono tornata nel settembre 2015 e anche lì ho cercato di raddrizzarne la rotta sebbene non fosse in una condizione disperata come quella trovata vent’anni prima.
Mi sono resa conto che in teoria per poter cambiare le cose bisognava poter arrivare là dove si scrivono le norme e fu per questo che inconsciamente, ma con l’altruismo e la dedizione che mi alimentano, ho accettato di candidarmi per una corsa che per molti versi parrebbe non avere chance di arrivare all’agognato cambiamento.
L’aver sentito in questi mesi che il Pio Albergo Trivulzio è ritornato agli onori della cronaca per presunte carenze nella prevenzione, assistenza e cura mi ha trafitto il cuore.
Lo so che la pandemia di cui siamo stati vittime è un unicum e che, per molti versi, alcuni suoi aspetti non erano prevedibili e sicuramente sono stati commessi errori, ma le profonde parole del Papa «Pensavamo di rimanere sani in un mondo malato» ci debbono far riflettere per rivedere le nostre sicurezze, tra cui il senso di appartenenza e di servizio per la comunità, indispensabili per ridare eticità al lavoro.
Mi riprometto in qualche modo, sedimentate le polemiche, di comprendere cosa effettivamente sia accaduto in quel luogo “magico” che dovrebbe rappresentare la somma di generosità, dedizione e tutela dell’età geriatrica dei milanesi e, per quanto ne sarò capace e mi sarà data l’opportunità, di aiutare a riportarlo a modello di riferimento.
Altrimenti avrò totalmente mancato l’obiettivo di ridare a Milano quel patrimonio di generosità in un sistema di welfare evoluto e integrato che in primis deve essere rappresentato da chi ci lavora, consapevoli che il lavoro di assistenza e cura è prima di tutto essere al servizio dei più fragili e più bisognosi.
Mi auguro che l’eredità della pandemia che abbiamo vissuto ci faccia almeno riscoprire la solidarietà e l’etica valoriale, nella consapevolezza che qualcosa negli ultimi anni non ha proprio funzionato, tra cui il senso di appartenenza che sembra sia stato smarrito. Vedo Milano.
La vedo in televisione con la piazza del Duomo deserta. Due o tre persone in prospettiva lontana che si rapportano con la costruzione bianca, enorme. Una montagna che è al centro della pulsazione della città, copiata dalle stalattiti delle grotte, con guglie di cristallo appuntite.
Il Duomo veglia, non dorme mai. Nel vuoto le persone appaiono ancora più piccole, lontane. Vivono la piazza nella sua ampiezza e guardano nell’aria come smarrite, annoiate. Un misterioso senso di inquietudine dilata lo spazio. Milano ferma è una utopia, quella dei quadri di de Chirico, vuoti. La gente non si parla.
Il Duomo parla. Ogni statua sembra scendere al dialogo. Abbiamo bisogno di capire questa divina lezione che risale ogni parete. Non siamo più abituati a dialogare con il silenzio, con la lettura dei racconti biblici, biografici, delle tante persone chiuse nel marmo. Ci sfugge il significato delle sovrapposte statue che ci portano alle vette. Eppure tutti, affiancando il Duomo ed entrandovi, guardiamo in alto, selezionando le scritte, le immagini, e l’innumerevole fogliame stilizzato che ci addentra nel bosco della vita. Il Duomo, dominio della città spirituale protetta da secoli dalla Madonnina è guardato come la grande montagna di pizzo bianco. Incompreso.
La periferia della città brulica di mercati. La gente si affanna a chiedere verdura, a rovistare tra i banchi. Si lamenta: siamo fermi, hanno chiuso il posto di lavoro. Milano senza lavoro scalpita, non perde il ritmo, la gente cammina veloce. Anziani e giovani hanno sacchi e borse piene di vettovaglie e alimenti. Passano bus semivuoti e sui marciapiedi camminano nonni e bambini.
Milano non ha vento, l’aria è ferma e un pò grigia. Oggi si esce, si va in gita metropolitana. Ormai la città non è più solo centrale, è una città con tanti borghi satelliti. Ha guadagnato il verde periferico. Ci vuole almeno un’ora di metro per attraversarla, un’altra ora per andare in una città esterna. Questa grande Milano, non ancora sufficientemente grande da inglobare la Brianza, mostra i volti nuovi delle zone sconosciute. Manca ancora la cultura delle periferie, dove puoi trovare la famosa chiesetta medioevale ricca di affreschi, la villa padronale restaurata, il castello di caccia, o il nuovo centro artistico nell’ex fabbricato industriale.
Una Milano in espansione che vuole la gente proiettata a espandersi, e una popolazione in espansione che trova difficile misurare le dimensioni metropolitane.
Milano in espansione verticale. Vi era la Torre Velasca, il Grattacielo Pirelli, la Torre Branca al Parco Sempione, la Terrazza Martini. Adesso vi è CityLife. Nessuno sale a dominare la città. Negli uffici si lavora.
Milano, Covid 19
FLORIANA SPALLA
Ricercatrice specializzata in scagliola