LETTER TO MILAN

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Il Pio Albergo Trivulzio MARIA CRISTINA CANTÙ Parlamentare della Repubblica italiana

Ero una giovane di grandi speranze e come tutti i giovani, o almeno gran parte di essi, credevo di poter cambiare il mondo, marginalizzare le ingiustizie, tutelare i più fragili e stroncare quello che sembrava essere un malcostume diffuso che all’epoca aveva preso il nome di Tangentopoli e non ho trovato di meglio che occuparmene in prima persona, andando a “portare il mio contributo” a quello che allora come oggi si trovava al centro della scena di criticità assistenziali: il Pio Albergo Trivulzio. Forte di una storia pluricentenaria, nato da una visione di lungimiranza e da un gesto di grande generosità, era assurto alle cronache come luogo di malcostume. In qualche modo mi ero ripromessa di riuscire a raddrizzarne la rotta senza troppi riguardi per gli ostacoli che mi avrebbero posto nel raggiugere i miei obiettivi di migliorare qualità e quantità dell’assistenza e cura agli anziani non autosufficienti, in chiave universalistica per tutti i bisogni sanitari e socio sanitari, dimostrando concretamente che non disperdendo risorse pubbliche e donazioni private è possibile ridurre il costo sociale di chi necessita di essere istituzionalizzato secondo canoni di sicurezza e umanizzazione delle cure.

letto e funzioni o esternalizzando alcunché, ma ottimizzando servizi innovativi a elevata intensità di assistenza e cura – che, a onor del vero era stati pensati e introdotti dalla gestione precedente non certo immune da opacità, dispersione di risorse pubbliche e “carenze” valoriali –, consentì di consolidare la prospettiva di prevenzione delle fragilità geriatriche e della loro riabilitazione per quanto possibile oltre che di protezione delle cronicità. Nel giro di un anno e mezzo presentai al consiglio di amministrazione un bilancio con un avanzo di gestione di oltre 8 miliardi, assistenza medica, infermieristica continuativa nelle 24 ore, con un assenteismo sotto la fisiologicità: tutto il personale aveva contribuito a ravvivare il sogno del Principe Tolomeo. Effettuato il risanamento gestionale era in programma il completamento dell’ammodernamento strutturale, destinando gli avanzi di gestione a questo nobile principio e alla riduzione delle rette. Non solo così non fu, non solo non ricevetti nessun apprezzamento ma in qualche modo mi isolarono e fu così che compresi fino in fondo quanto fosse difficile cambiare il mondo!

Così, nell’agosto del ’92 è cominciata la mia personale “missione” al pat. Arrivavo da un luogo bellissimo, la Monteggia di Laveno, e volevo trasformare inconsapevolmente in un luogo di altrettanto benessere una struttura per i più bisognosi di attenzioni e cure che, per certi versi, aveva delle potenzialità straordinarie e, per altri, viveva nel passato. Ho dovuto acclimatarmi ai ritmi frenetici della città e debbo ringraziare di aver avuto sempre al mio fianco una famiglia che mi ha sostenuta nel mio sogno. Per giunta, l’essere andata ad abitare nel vecchio Palazzo del Principe Tolomeo mi ha fatto credere di dover effettivamente riportare quell’Istituzione all’onore etico e valoriale, oltre che gestionale e di servizio, che meritava. Dopo soli 5 anni avevo scalato un po’ di posizioni e nel ’97 mi trovai a svolgere le funzioni di Segretario Generale. Quando ho visto i conti dell’Ente sono rabbrividita: al pareggio di bilancio mancavano, vado a memoria, oltre 8 miliardi di vecchie lire, ma l’ingenuità e la forza della gioventù hanno fatto sì che non mi perdessi d’animo e cominciai con ruvidezza, ma contando sulla condivisione delle mie idee da parte della stragrande maggioranza del personale, sindacati compresi a tagliare quelle “rendite di posizione” che avevano contribuito al dissesto, raggiungendo livelli di partecipazione tali che coniugarono riequilibrio gestionale, potenziamento quanti-qualitativo dell’assistenza e orgoglio di appartenenza. Orgoglio e senso di appartenenza che, senza aumento quantitativo di personale né tantomeno dismettendo posti 36 | Lettera a Milano

Non bastava avere le competenze, la sensibilità, l’etica, i valori ma bisognava saper “prevenire” le variabili politiche che ti circondano, che sono molte più di quante ci si possa immaginare: piccolo “cabotaggio” che però se non riesce a dettare la linea, è sicuramente in grado di fermarne l’azione. Per questa ragione decisi di “impratichirmi” facendo un po’ di politica attiva per cercare di comprendere le logiche e i veti incrociati di forze contrapposte che molto spesso non riferiscono ai vertici le vere motivazioni per cui le decisioni sono adottate, non solo in totale spregio dell’interesse pubblico, ma talvolta anche neppure nell’interesse dei proponenti. Ma sono un’inguaribile ottimista e fatte un po’ di “esperienze”, sempre con il Pio Albergo Trivulzio nel cuore, ci sono tornata nel settembre 2015 e anche lì ho cercato di raddrizzarne la rotta sebbene non fosse in una condizione disperata come quella trovata vent’anni prima. Mi sono resa conto che in teoria per poter cambiare le cose bisognava poter arrivare là dove si scrivono le norme e fu per questo che inconsciamente, ma con l’altruismo e la dedizione che mi alimentano, ho accettato di candidarmi per una corsa che per molti versi parrebbe non avere chance di arrivare all’agognato cambiamento. L’aver sentito in questi mesi che il Pio Albergo Trivulzio è ritornato agli onori della cronaca per presunte carenze nella prevenzione, assistenza e cura mi ha trafitto il cuore. Lettera a Milano | 37


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