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Flavio Caroli Milano
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
Grattacieli strani, contorti, sfidano le leggi gravitazionali. Sono rifugi costosissimi, esibizioni di potere, non adatti alla gente comune.
Qui le distanze sono verticali, irraggiungibili con le scale. Si misurano in piani di ascensore. Milano europea, Milano mondiale. Anche questa nuova Milano vista da terra è una utopia. Una bella scenografia dalle pareti riflettenti il verde e le montagne.
Ora passa una sola persona, con una mascherina sul volto… Siamo tutti a casa. Alla sera i condomini sono pieni di luci. Domani non si lavorerà. Covid 19.
«No non siamo saliti, e poi siamo rimasti bloccati in casa». Strane situazioni, di chi non si muove più.
Un piccione cammina, cammina lungo il marciapiede del condominio, unico abitante in cerca di briciole. Balconi milanesi che fioriscono di giallo, osservati, unico sfogo di chi non esce da casa. Balconi che vivono la giornata, immagazzinati di mobiletti, scope, attrezzi, pattumiere e parabole.
Balconi che nella giornata di sole si popolano come le spiagge al mare, e in quelle di pioggia si popolano di visi dietro i vetri.
Milano silente, muta. L’operosa Milano trattiene a fatica la irrequeta voglia di fare, di andare, di costruire.
Passano giorni. Soli a pregare davanti allo schermo. A credere, senza momentanea eucarestia che la vita c’è, ed è vera.
Milano delle ricette inviate, degli inviti a cena virtuali, dei soccorsi impossibilitati a soccorrere.
Sirene di autoambulanze, appelli, solitudini, malattie, decessi.
Bombardamenti di informazioni che portano alla depressione di un popolo attivo, insuperabile per creatività, ingegno, capacità di risorse proprie. Popolo millenario, vaccinato dalle guerre e dalle pestilenze, dalle carestie e dai cataclismi, popolo che non si arrende all’invisibilità. Milano dei parchi vuoti dove ostinatamente gli alberi fioriscono ancora, gemmano e si rivestono di foglie. Non sono virtuali, non sono alberi finti. Sono ancora popolati da uccellini, insetti, vermi, che non vediamo. In lontananza salgono al cielo le costruzioni di CityLife. Ridotta copia dei grattaceli mondiali che spazzano l’atmosfera come i pettini nei capelli.
Piccole esibizioni di potere umano guardati dai monti innevati.
«La nonna mi diceva…», trapasso delle esperienze degli anziani, capaci di fronteggiare gli eventi, come risorti, a custodia dei nipoti, dei figli. Bocciato. Frenato. Scomparso. Tutto è denaro, esperienze sorpassate, abitudini differenti. Scienza e tecnica. Geneticamente modificato.
Non danno statistiche delle nascite. Quanti nuovi percorreranno l’avventura della vita? Quanti boschi, foreste, animali, acque, campi, si rigenereranno, a dispetto delle distruzioni.
Quanta vita, vitalità, voglia di fare è ancora accesa, come un tizzone, entro questa metropoli, unica al mondo, come compressa ma non sopita, come tranquilla ma non dormiente, come imbrigliata entro le case ma sempre reattiva ai richiami solidali. “Milan, col cœur in man…”
Torre Velasca, Milano, 2013, olio su tela, 156×153 cm.
A fronte: Velasca da Palazzo Richard Ginory, Milano, 2016, olio su tela, 115×171 cm.
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Alle pagine seguenti: Velasca gialla, Milano, 2017, olio su tela, 141×107 cm.
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Milano, entrata e uscita
NICOLA VITALE
Poeta, saggista e pittore
Tempo fa, nei momenti di sconforto, prendevo l’auto e di notte mi avventuravo nel piccolo quartiere a ridosso della ferrovia, limitrofo al “villaggio dei giornalisti” (la cosìddetta “Maggiolina”). Lì ho passato dai sette ai dodici anni, un tempo lunghissimo in quella fase di preadolescenza. Anni dove le cose si fissano dentro come marchi inalterabili. Un quartierino felice senza negozi, senza traffico, regno dei piccoli in bicicletta. Villette, giardini privati con fontanelle che da via Dario Papa si articolavano tra via Torelli e via Corti, Bescapé, fino a via Lepanto, contro la ferrovia come limite invalicabile di un mondo esterno ed estraneo.
Una sacca di quiete, involucro protettivo della nostra immaginazione. Quel luogo privilegiato è rimasto la bolla senza tempo, la boccia con paesaggio e neve. Il non esserci più tornato per trent’anni, lo aveva conservato intatto.
Ci andavo di notte, proprio perché il giorno non cancellasse quel pulviscolo che hanno tutti i ricordi più radicati. Nelle penombre, senza avere il coraggio di uscire dall’auto, tutto era rimasto uguale, ancora lì le facce del nostro passaggio scalmanato, incredibilmente privo di presagi di futuro.
In quei giri notturni non so bene cosa cercassi, forse la nostalgia di un sogno intatto, forse il segreto del passaggio, dell’uscita dal tempo opprimente dell’età di mezzo. Se un’entrata c’era (ed era lì tra quelle strade), ci sarebbe dovuta essere anche un’uscita, per uscire dalla sfera di vetro con neve e rientrare nel mondo, magicamente risolto. Quello che allora era il mondo reale, non so perché mi sfuggiva ogni anno di più. Trasferiti in centro tra Sant’Ambrogio e San Lorenzo, paradossalmente non erano le magnifiche basiliche i miei luoghi di allora, ma la “Super Pista” di San Babila, nella stazione della metropolitana, dove si provavano i bolidi elettrici scala 1:24. Si preparavano le vetture, si trapanavano i telai per alleggerirli, si riavvolgevano i motori truccatissimi, si assottigliavano e ungevano le ruote per aderenza in curva. Ci passavo anche più di una volta al giorno tra una lezione privata e l’altra: il mio destino nomade dopo il trasloco.
A Sant’Ambrogio, poco più in là, rimaneva, da un tempo immemorabile la cripta dei santi scheletri eleganti, che ridevano eternamente, (almeno questo mi sembrava con raccapriccio). Quindi, procedendo in quella direzione, via San Vittore: il Museo della Scienza e della Tecnica, vero itinerario del mondo, realtà mitica della tecnica, prima che diventasse un accessorio dell’utile. Ho continuato ad andarci in quel museo, ispirazione per riscoprire una realtà, là di nuovo precipitata nella sua essenza, che invece la città perdeva di giorno in giorno come se si svuotasse nel nulla.
Poi, i luoghi milanesi sono cresciuti con i primi baffi da diciassettenne, con le prime amicizie, i primi amori: la Cineteca San Marco che proiettava serie dei grandi registi tra nuvole di fumo. La Scala, dove, senza premeditazione si saliva al volo sul loggione con cinquecento lire. Le scoperte erano tutte al chiuso, tra le mura di teatri, sale da concerto, aule scolastiche, come quelle di Villa Simonetta in via Silicone, accanto al Cimitero Monumentale, appena ristrutturata, dove studiavo musica.
Milano così legata agli affetti che scorrevano, era dentro le case degli amici dove si faceva tardi, a volte l’alba. Dove si scoprivano le edizioni dei quartetti di Schumann, delle sonate di Brahms, delle sinfonie di Mahler. Via Lanzone con il grande terrazzo e il pergolato, casa di Raffaele dove ho passato la metà del tempo di quegli anni privilegiati. Ma dall’altro lato la città era sempre più sfuggente, difficile, senza un comprensibile passato, si rimpiccioliva sempre di più, per concentrarsi in luoghi circoscritti, dove cercare di addensare tutti i ricordi e le aspettative di un futuro che, come una combinazione, faceva fatica a venire: laborioso arrabattarsi per passare di là, in quella strettoia che è la ricerca di sé.
In questi passaggi tra me e il mondo, la parentesi universitaria: Ca’ Granda, il magnifico edificio cinquecentesco, sede antica dell’Ospedale Maggiore che ospitava gli ultimi bagliori di una luce intellettuale che si spegneva.
Mi sono spesso chiesto cosa respingeva la mia adesione alle cose? Perché non mi ci ritrovavo? Non mi affascinava nulla che fosse lì bell’è fatto con pretese di senso che non aveva. Ho compreso, dopo essere ripassato troppe volte di notte nel quartiere tra le villette di quella periferia che si allungava la domenica verso Monza, che le case, gli edifici delle fabbriche, le chiese, i monumenti della città, sono diventati un involucro indifferente al sorprendente artificio delle contese, delle evasioni metafisiche, delle autoconvinzioni di una realtà assente. Facendo finta di nulla non ci si accorge che la città è sparita. Milano come Roma, Venezia, forse anche Torino, Bologna e sicuramente Firenze, sono i musei antropologici sulle lapidi del passato, dove ci chiediamo cosa fare per evitare la noia del momento.
Connessi e volati via sulla rete, in altri luoghi momentanei. Ritornati per aprire bottega, preoccupati dei turisti che ritardano. Eppure queste città, che hanno smesso di invecchiare, devono rispecchiare qualcosa che forse è già lì ma non vediamo, come un ritorno in una zona franca, in cui si creda tutti insieme che qualcosa (e in questo caso la città), Milano «esiste».