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Monica Colpi Lucciole milanesi

Quando parlo di questo, tra l’altro mi dicono: «Attento, in periferia c’è più malavita». Può essere, ma io sono certo, per averlo sperimentato, che c’è anche più vita. Vita e malavita sono destinate a convivere in eterno ovunque e la giusta proporzione non può deciderla solo la pubblica amministrazione a tavolino. Per cui, cara Milano, quello che posso fare io per te è tornare quanto prima dove tu mi avevi messo sicuramente non a caso. Come ha fatto il mio amico Vittorio Feltri che dopo aver assaporato per anni i tuoi profumi più famosi ha deciso di stabilirsi in un vecchio palazzotto fuori mano. Guarda caso, ma non è un caso, in zona Loreto. Beato lui, e beato Loreto. Il fatto è, signori miei, che i milanesi doc, quelli con il pedigree, sono tutti interisti. Prendete i sindaci, primi cittadini per definizione. Beppe Sala non si perde una partita dell’Inter. Tognoli è interista («mio padre aveva giocato nelle giovanili dell’Internazionale», ha addirittura ricordato in un’intervista recente). Pisapia, interista. Pillitteri, interista. Borghini, interista. Sarà perché sono quelli di sinistra? Magari dall’altra parte, non fosse altro che per fedeltà berlusconiana, funziona diversamente? Macché: Formentini è interista pure lui; quanto alla Moratti, con quel cognome, non aveva scelta. Solo Albertini ha rappresentato un’eccezione. Uno su otto, andiamo malissimo.

Del resto, se ci spostiamo sugli intellettuali non va tanto meglio. Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi… l’intera linea lombarda della poesia ha sempre militato dalla parte neroazzurra. Stefano Boeri, architetto principe, è presidente della Triennale e di un Inter club degli architetti (ci mancava solo quello). Massimo Vitta Zelman, patron di Skira, è interistissimo, e come lui Sergio Scalpelli, che a lungo ha diretto la Casa della Cultura.

Bene, avrete capito che io, invece, sono milanista, e quindi che questa è la testimonianza di un esponente della minoranza. Me la merito, dopo tanto silenzio, quasi clandestino. Destino di uno che ha perfino scelto di lavorare alla Pirelli, vivendo il passaggio dalla famiglia che ha dato il nome all’azienda, molto milanista, a Marco Tronchetti, così interista da mettere il logo per 25 anni su quelle maglie nerazzurre.

E però, signori miei interisti, anche se il tifo ci divide così solennemente, che stadio formidabile che condividiamo. Bellissimo, con quei suoi anelli che lo circondavano, invenzione orgogliosa degli anni del Dopoguerra. E sono certo che, mutate le partite, abbiamo le stesse esperienze. Io ci andavo le prime volte negli anni Sessanta con il nonno (il papà di mia mamma, abruzzese, arrivato qui nel Ventennio, ecco perché milanista: perché foresto, non “doc”). All’epoca era tutto più semplice: «È mio nipote, diceva ai custodi», e via, si entrava. Non c’era il tabellone, non il tifo organizzato, il linguaggio dei tifosi era colorito oltre il lecito («Mamma, accostare il nome di Dio a un animale è una bestemmia?», chiesi un lunedì dopo un Milan-Roma finito 3-1, dove un tifoso romanista aveva rumorosamente sfogato la sua delusione per la sconfitta prendendosela abbondantemente col buon Dio. Avevo sette anni, la mamma non fu contenta della domanda).

Nello stadio a due anelli il rumore del pallone si sentiva ancora bene, un po’ come oggi in tempo di pandemia. Pochi anni dopo, quando ormai allo stadio ci andavo con gli amici, era già tutto diverso. Metropolitana rossa fino a Lotto e poi via a scarpinare lungo il viale Caprilli, venti minuti buoni a ripassare le formazioni, a respingere i bagarini («Poppolari, dischtinti», con l’accento forte del sud e l’aria sicura del mestiere) perché noi il biglietto l’avevamo già, comperato con l’anticipo delle occasioni. E comun-

Milanesi con il pedigree

ANDREA KERBAKER

Scrittore

que non c’era tempo, bisognava affrettarsi: con i posti non numerati chi tardi arrivava male alloggiava. In quella lunga marcia c’era sempre il momento in cui si alzavano gli occhi allo stadio, che compariva là in fondo: mamma, quanto è bello, così imponente. E poi dentro, il primo tifo organizzato con i suoi eccessi presi pari pari dalla violenza politica, ma anche le sue invenzioni felici. Ricordo il felice stupore della prima volta in cui sentii il coretto «Devi morire» indirizzato a un giocatore della Lazio rimasto a terra.

E la partita della stella, anno Settantotto, due ore prima allo stadio per prendere posti decenti. Nei “distinti”, nonostante il costo: i popolari erano esauriti, e la festa irrinunciabile. Siamo studenti liceali, immersi nei problemi di quegli anni controversi. Inganniamo l’attesa parlandone tra noi. Poco prima dell’inizio, il nostro vicino ci guarda: «Se volevate parlare di filosofia, potevate restarvene a casa». Lo stadio vuole partecipazione totale, militanza.

E noi faremo anche discorsi profondi, ma militanti siamo: quando andiamo in serie B rinnoviamo la tessera, perché il vero tifoso si vede quando si perde, se si vince è troppo facile. E andiamo su nei popolari, belli gremiti anche allora: sarà anche vero che i maggiorenti della città sono tutti interisti, ma noi siamo comunque tanti, e più veraci, appassionati, vorresti vederli quelli là al nostro posto, mica sarebbero capaci di tanto affetto. E restiamo abbonati anche quando arriva il Berlusca, e tutti a pigliarci in giro per la storia dei giocatori che si presentano al raduno in elicottero come i marines in Vietnam, ma poi piano piano si scopre che quei signori si chiamano Baresi o Maldini, che all’epoca è solo il giovanissimo figlio di Cesare, ma che in breve ribalterà la situazione, e al padre diranno: «Lei è il papà di Paolo?» (In fondo è capitato anche a Kirk Douglas con Michael, e ne era molto fiero). Lo stadio nel frattempo mette su il terzo anello, che non è che ci convinca tanto con quelle travone eccessive, ma chissenefrega, quello che conta è che quel Milan è finalmente uno squadrone, e lo stadio resta magnifico, soprattutto la notte, quando ci sono le partite di Coppa. Ci andiamo con la Vespa, adesso: l’avvicinamento è mille volte più rapido, ma la massa scura illuminata all’interno dai riflettori rimane ancora e sempre un’emozione. Tanto più che sappiamo che pochi minuti dopo (con i posti numerati, se Dio vuole, sono finiti i grandi anticipi) quelle luci saranno puntate su gente che si chiama Gullit o van Basten. Ce l’abbiamo fatta: nell’89 andiamo tutti al Camp Nou di Barcellona per la finale della Coppa dei Campioni, 80.000 milanisti (ma non erano tutti interisti?) che la notte ballano sulle Ramblas. E saltano: «Chi non salta nerazzurro è, è». Balleremo e salteremo tante altre volte, a San Siro e ad Atene, al Meazza e all’Old Trafford.

Quante partite, quante memorie, che emozioni. Ancora adesso, che la metropolitana arriva in bocca allo stadio e i malefici tornelli hanno sostituito gli ingressi semplici di un tempo, quando ci entro penso che San Siro è un luogo magico. E il fatto che gli sciagurati padroni di Milan e Inter lo vogliano buttare giù mi pare una folle mancanza di rispetto del nostro passato, specchio dell’insensibilità tipica del presente, dove il dio quattrino omnia vincit. Ma non c’è denaro che possa giustificare la rimozione delle glorie e dei sentimenti. Signori stranieri che ormai governate le nostre squadre, andate un attimo a riguardare le targhe che stanno orgogliose all’ingresso del settore rosso, quello che un giorno si chiamava “Tribuna centrale numerata”. Quelle targhe parlano di un luogo che ha regalato emozioni all’intera città. Chi abbatte le emozioni, soprattutto per denaro, non riuscirà a crearne altre. Fateci un pensiero. E magari anche le nostre autorità locali potrebbero avere qualcosa da dire.

La Milano degli anni Sessanta e Settanta

MAURO BERSANI

Saggista, responsabile area letteratura Einaudi

Cara Milano, ci conosciamo da sessantaquattro anni ed è naturale che in tutto questo tempo siamo molto cambiati entrambi. È cambiato anche il mio rapporto con te. Intanto perché a metà percorso o poco dopo sono passato a un regime di bigamia regolamentata e ho diviso la mia vita fra te e Torino. E non è la stessa cosa vedersi tutti i giorni o solo nei fine settimana. Poi il rapporto è cambiato perché, invecchiando, i tuoi luoghi si sono caricati di ricordi: sei rimasta una città viva ma sei anche diventata archeologia sentimentale. E molti pezzi di questo sito archeologico sono spariti man mano diventando pura memoria.

Sono cresciuto in via Melchiorre Gioia, a due passi dalla famosa via Gluck, e in effetti, ho vissuto da bambino le trasformazioni descritte nella canzone di Celentano. Sotto casa mia scorreva la Martesana, interrata negli anni Sessanta. Proprio di fronte, dal lato opposto del Naviglio, c’era una carbonaia dove, quando ancora andavo in prima elementare, vedevo arrivare e ripartire carretti tirati da vecchi cavalli. E anche se non li vedevo direttamente, il loro passaggio, quando attraversavo l’incrocio di viale Lunigiana, era inequivocabile all’occhio e all’olfatto. E quando frequentavo il campo di calcio dell’oratorio di Santa Maria Goretti, verso Greco, mi è capitato di giocare con un gregge di pecore che brucava nel prato limitrofo. Negli stessi anni ho vissuto l’emozione di accompagnare mia madre nei primi supermercati e di prendere la metropolitana poco dopo l’inaugurazione della prima linea. Passato e futuro hanno convissuto per un ristrettissimo giro di anni ed essere stato testimone di questo periodo così contraddittorio mi è sempre parso, non so bene perché, un privilegio. Sicuramente è stato un imprinting importante per la formazione mentale.

Ma più che l’infanzia, è l’adolescenza ad accumulare i luoghi del ricordo, sia perché il ragazzo ha più mobilità di un bambino, sia perché le sue esperienze sono più intense. E dunque è la zona di Brera che mi è rimasta appiccicata come luogo dell’anima. Di allora è rimasta la mia scuola media, tra via Solferino e via San Marco, ed è rimasto soprattutto il palazzo del Corriere della Sera, dove mio padre lavorava come correttore di bozze. Entrare in quel tempio, quando mio padre mi portava in visita nel suo ufficio, passando tra vecchie linotype e rotative in movimento, significava vedere da vicino un mondo pieno di fascino: macchine e uomini producevano insieme carta stampata, che avevo subito imparato a frequentare e ad amare, a considerare un indispensabile bisogno primario. Sempre in via Solferino c’era la sede del Cral del Corriere. Alla sera alcuni di questi locali erano adibiti a Circolo degli scacchi e del bridge per i dipendenti del giornale. E per i loro familiari. L’emozione di uscire la sera con mio padre (e di tornare tardi) per andare a giocare a scacchi o a bridge, quando avevo solo tredici o quattordici anni, è ancora qualcosa di indimenticabile. Anche quando, come bridgista, sono diventato bravino e frequentavo altri circoli e altri tornei, mi è sempre piaciuto fare ritorno in quei locali di via Solferino, che erano stati la mia prima palestra di giochi adulti e di vita notturna.

Nel corso degli anni Settanta la mia vita notturna si è fatta più intensa e più varia, ma gravitava sempre, tendenzialmente, in zona Brera. Di quel periodo ci sono ancora, miracolosamente scampati a eccessive trasformazioni, alcuni ristoranti che frequentavo allora, come Grand’Italia e La Libera di via Palermo. In via Palermo non c’è più lo sferisterio della pelota (ne è rimasta solo l’insegna). Quante serate con gli amici a scommettere sui giocatori baschi che si accanivano a ribattere la palla sul muro con mosse di estrema eleganza! Ma lo spettacolo era anche offerto dal pubblico: era uno dei pochi posti dove, nei commenti, nelle battute, nelle invettive, si sentisse ancora parlare prevalentemente milanese.

Si diceva che molte partite erano truccate ed è possibile: al totalizzatore giravano dei bei soldi e non mancava qualche allibratore clandestino. Ma per noi ragazzi, in fondo, contava poco. Era bello scommettere, era bello stare in quel luogo affollato, vociante, con personaggi che sembravano usciti dai libri di Umberto Simonetta o dalle sue canzoni scritte con Giorgio Gaber.

Un altro luogo della zona che c’è ancora solo come nome è Moscatelli, il minuscolo bar di corso Garibaldi tenuto dall’omonimo proprietario, burbero ma simpatico e con uno stile d’altri tempi (anche per i suoi indimenticabili farfallini), negli ultimi anni progressivamente e tristemente letargico. Trovarsi da Moscatelli a bere un bicchiere a qualsiasi ora era un classico, un rito sostituito dai locali alla moda della “Milano da bere”.

E poi, luogo fra i luoghi delle mie serate e della mia formazione culturale: l’Obraz Cinestudio, una cineteca in largo La Foppa nella cui saletta ho assorbito la passione per il cinema. Cicli mitici, da quello su Buster Keaton a quello su Bresson. E un giornaletto mensile: Zuppa d’anatra, a cui collaborava anche un mio compagno d’università, Alberto Crespi, poi famoso conduttore radiofonico di Hollywood Party.

Ma è normale, e direi anche salutare, che i luoghi di una città spariscano o cambino funzione. Quello che è cambiato di Milano, e che sarebbe auspicabile tornasse almeno in parte, è l’anima integrativa e interclassista. Ripensando alla Milano dei miei anni giovanili, ricordo soprattutto il milanese parlato dagli immigrati del Sud. Un dialetto a volte preciso e splendido, come quello del nostro vicino di pianerottolo in Melchiorre Gioia, il signor Pappagallo, un pugliese immigrato da piccolo che governava le nasali del milanese come se fosse stato un nipote del Tessa. Era proprietario di una piccola tipografia e uomo di gran cuore, come ebbe a dimostrarci quando, nel 1965, mio fratello morì in un incidente di bicicletta e lui accompagnò mio padre nel viaggio notturno in Svizzera per riconoscere la salma.

Ma allora, nei rapporti tra vicini di casa, la solidarietà era cosa normale. Altre volte il milanese degli immigrati era invece approssimativo, a volte mancante, a volte ipercorretto. D’altronde la macchietta di Porcaro e Abatantuono del “milanes centpeccent” è solo un’iperbole di un uso del dialetto che avveniva realmente nei bar, nei tavoli da biliardo, nelle scommesse della pelota o agli ippodromi di San Siro. Dove milanesi

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