LETTER TO MILAN

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Milanesi con il pedigree ANDREA KERBAKER Scrittore

Quando parlo di questo, tra l’altro mi dicono: «Attento, in periferia c’è più malavita». Può essere, ma io sono certo, per averlo sperimentato, che c’è anche più vita. Vita e malavita sono destinate a convivere in eterno ovunque e la giusta proporzione non può deciderla solo la pubblica amministrazione a tavolino. Per cui, cara Milano, quello che posso fare io per te è tornare quanto prima dove tu mi avevi messo sicuramente non a caso. Come ha fatto il mio amico Vittorio Feltri che dopo aver assaporato per anni i tuoi profumi più famosi ha deciso di stabilirsi in un vecchio palazzotto fuori mano. Guarda caso, ma non è un caso, in zona Loreto. Beato lui, e beato Loreto.

Il fatto è, signori miei, che i milanesi doc, quelli con il pedigree, sono tutti interisti. Prendete i sindaci, primi cittadini per definizione. Beppe Sala non si perde una partita dell’Inter. Tognoli è interista («mio padre aveva giocato nelle giovanili dell’Internazionale», ha addirittura ricordato in un’intervista recente). Pisapia, interista. Pillitteri, interista. Borghini, interista. Sarà perché sono quelli di sinistra? Magari dall’altra parte, non fosse altro che per fedeltà berlusconiana, funziona diversamente? Macché: Formentini è interista pure lui; quanto alla Moratti, con quel cognome, non aveva scelta. Solo Albertini ha rappresentato un’eccezione. Uno su otto, andiamo malissimo. Del resto, se ci spostiamo sugli intellettuali non va tanto meglio. Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi… l’intera linea lombarda della poesia ha sempre militato dalla parte neroazzurra. Stefano Boeri, architetto principe, è presidente della Triennale e di un Inter club degli architetti (ci mancava solo quello). Massimo Vitta Zelman, patron di Skira, è interistissimo, e come lui Sergio Scalpelli, che a lungo ha diretto la Casa della Cultura. Bene, avrete capito che io, invece, sono milanista, e quindi che questa è la testimonianza di un esponente della minoranza. Me la merito, dopo tanto silenzio, quasi clandestino. Destino di uno che ha perfino scelto di lavorare alla Pirelli, vivendo il passaggio dalla famiglia che ha dato il nome all’azienda, molto milanista, a Marco Tronchetti, così interista da mettere il logo per 25 anni su quelle maglie nerazzurre. E però, signori miei interisti, anche se il tifo ci divide così solennemente, che stadio formidabile che condividiamo. Bellissimo, con quei suoi anelli che lo circondavano, invenzione orgogliosa degli anni del Dopoguerra. E sono certo che, mutate le partite, abbiamo le stesse esperienze. Io ci andavo le prime volte negli anni Sessanta con il nonno (il papà di mia mamma, abruzzese, arrivato qui nel Ventennio, ecco perché milanista: perché foresto, non “doc”). All’epoca era tutto più semplice: «È mio nipote, diceva ai custodi», e via, si entrava. Non c’era il tabellone, non il tifo organizzato, il linguaggio dei tifosi era colorito oltre il lecito («Mamma, accostare il nome di Dio a un animale è una bestemmia?», chiesi un lunedì dopo un Milan-Roma finito 3-1, dove un tifoso romanista aveva rumorosamente sfogato la sua delusione per la sconfitta prendendosela abbondantemente col buon Dio. Avevo sette anni, la mamma non fu contenta della domanda). Nello stadio a due anelli il rumore del pallone si sentiva ancora bene, un po’ come oggi in tempo di pandemia. Pochi anni dopo, quando ormai allo stadio ci andavo con gli amici, era già tutto diverso. Metropolitana rossa fino a Lotto e poi via a scarpinare lungo il viale Caprilli, venti minuti buoni a ripassare le formazioni, a respingere i bagarini («Poppolari, dischtinti», con l’accento forte del sud e l’aria sicura del mestiere) perché noi il biglietto l’avevamo già, comperato con l’anticipo delle occasioni. E comun-

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