LETTERA A MILANO
A nostro figlio Giovanni
LETTERA A MILANO a cur a di Lorenzo Valentino O pe r e di Ma r ina P r e v it a li dal progetto
DIALOGHI DI MILANO
INDICE
LETTERE Lorenzo Valentino Monica Colpi Alessandro Sallusti Andrea Kerbaker Mauro Bersani Carlo Montalbetti Flavio Caroli Franco Guidi Alessandra Redaelli Jacopo Fo Tomaso Kemeny Maria Cristina Cantù Floriana Spalla Nicola Vitale Davide Oldani Gianni Maimeri Luca Formenton Lorenzo Maffioli Ambrogio Borsani Vincenzo Trione Manuela Bertoli Maria Grazia Mazzocchi Agostino Picicco Milo De Angelis Andrée Ruth Shammah Alberto Pellegatta Sergio Ubbiali Diana Bracco Giancarlo Pontiggia Jacopo Etro Lorenzo Viganò Giovanni Gastel Carlo Sini 4 | Lettera a Milano
Presentazione Lucciole milanesi Cara Milano Milanesi con il pedigree La Milano degli anni Sessanta e Settanta Il fiume favoloso Milano Diventare grandi a Milano Come ti sei fatta bella... Sono cresciuto a risotto e racconti nella capitale immorale d’Italia Lettera a Milano Il Pio Albergo Trivulzio Milano, Covid 19 Milano, entrata e uscita Ciao Milano Sono nato in una Milano grigia Sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita La Milan dei ghisa, della scighera e dei tram Ventisei indirizzi a Milano Milanona Senza troppo rumore Milano la Magna Legata al mio cuore Ti do del tu Guardare oltre le nuvole Mettiti di profilo, Milano Tu Milano e l’intraprendente verifica del possibile A Milano O mia città A te, luogo di nascita, di crescita, di vita «Si muore un po’ per poter vivere» Adorabile città mia Milano
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Manfredi Catella Alessandro Mendini Maurizio Cucchi Quirino Principe Giuliana Nuvoli Lino Volpe Massimo Donà Carlo Galante Salvatore Veca Vittorio Lingiardi Roberto Carcano James Bradburne Giuseppe Frangi Michele De Lucchi Nicoletta Mondadori Stefano Zecchi Vivian Lamarque Angelo Crespi Elio Franzini
Milano, modello di sostenibilità, digitalizzazione e inclusione Di Milano mi interessa più la rappresentazione che la realtà È sempre più la tua lingua, la tua parola, che mi entra dentro Carissima Milano, sono arrivato a te per amore... Bisogna conoscere la tua storia, per amarti Milano, città d’accoglienza Milano: grande fucina di esperienze e relazioni La periferia al contrario... Il cortile del Filarete Ascoltare il paesaggio nel chiuso di una stanza Attorno alla Richard Brera, uno dei luoghi “mitici” di Milano Lettera di Testori a un ragazzo di Milano La tua predisposizione al cambiamento Altrove, solo nella memoria Al numero sette di via Festa del Perdono “Milàn brüta bèla” La bellezza suprema che non ti aspetti Lettera sulla città
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TESTI CRITICI Flaminio Gualdoni Urban Sceneries 187 Maurizio Cucchi Il gioco dinamico della città 189 Stefano Zuffi Intorno alla Torre Velasca 191 MARINA PREVITALI – DIALOGHI DI MILANO (Works 2011-2018) CONFERENZE Immagini di città Collezionismo e mercato dell’arte Arte e Natale a Milano Comporre Milano Comicità e opera “La lettura” del quotidiano Fatti di lettere Milano tra arte e architettura Milano da abitare Scene teatrali e architetture metropolitane Il cuore sportivo di Milano La Triennale di Milano Appendice Ringraziamenti
F. Gualdoni G. Iannaccone, M. Di Marzio, A. Addamiano S. Zuffi F. Del Corno, M. Cucchi, G. Manzoni R. Brivio, E. Beruschi G. Colin, G. Schiavi I. Bossi Fedrigotti E. Pontiggia, N. Colombo U. La Pietra, F. Gualdoni I. Rota E. Beccalossi, G. Lodetti, F. Bernini S. Boeri, L. Baroncelli
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Presentazione LORENZO VALENTINO Gallerista, pubblicista, saggista
Milano città dentro. In continuità col progetto Dialoghi di Milano, realizzato nel 2018-19 e ispirato all’idea platonica del “Bene e del Bello”, intendiamo qui presentare un corpo di lettere dedicate alla polis di Milano, scritte da personalità rappresentative dei diversi ambiti professionali. Il carattere dei loro interventi, nella specificità del linguaggio differenziato per sensibilità, visione e gruppo di appartenenza, getterà nuova luce sul “non ancora detto” che la città dissimula nella sua corale essenza di grande madre accogliente. La scelta degli autori non ha seguito criteri propriamente oggettivi, pertanto la platea delle voci narranti, pur se qualificate nel loro genere, non può dirsi esaustiva del principio di rappresentatività. In questa raccolta di lettere la città viene presentata con accenti per nulla apocalittici, nonostante la crisi pandemica; la sua voce è singolare plurale: ironica, appassionata, fatalista, malinconica, intraprendente, profetica, camaleontica, umanissima, ecc. Segni personali, indicativi di una condizione, di uno status esistenziale in dialogo con altre parti sensibili, coralmente impegnati a produrre un universo di senso che non tradisce lo spirito di una narrazione condivisa: è il fascino paradigmatico della “scrittura collettiva”. Una letteratura di destini temporalmente determinata che esemplifica la storia complessa della polis coniugata al presente.
come naturale foggia culturale. L’invisibilità di questo Bene, sottratto alla forma dell’entità, crea una struttura di plusvalenze che il corpo cittadino dissimula come supplemento sostituito all’originaria forza collettiva assente, col risultato che la differenza appare, nel sistema delle significazioni, come ciò che rimane sempre al di là dell’immanenza visibile. In conclusione, quest’opera collettiva di scrittura si è svolta secondo una linea plurale di intersezione narrativa che nella sua circolarità ha reso possibile manifestare l’intima trascendenza del volto cittadino, aperto alla finitezza dell’altro, nella prossimità complice di una parola etica che ha accolto le differenti testimonianze riferendole a un contesto di verità storicamente determinato. Un grazie di cuore ai relatori che hanno partecipato di persona al progetto Dialoghi di Milano, all’artista Marina Previtali e ai suoi lavori sulla complessa e stratificata realtà cittadina, ai singoli autori richiamati dalla fascinazione di scrivere una “Lettera a Milano” e agli editori, nelle figure poliedriche e lungimiranti di Vera Minazzi e Sante Bagnoli.
È la Milano dei quartieri, dai contorni spazialmente estesi e punteggiati da intime suggestioni, legate in parte al paesaggio interiore dei ricordi. Periferie brulicanti di vita, sempre in movimento, colorate di umanità ma prive di una propria connotazione identitaria in contrapposizione al centro urbano oramai disamorato della socialità. Questa frattura socialmente non commisurata impone l’urgenza di un centro abitativo dialogante con le periferie a raggio crescente, per raccogliere suggestioni e sfide capaci di contenere le spinte centrifughe e produrre decisioni, senza esclusione dell’altro, nel processo di rigenerazione urbana. È la Milano che s’immedesima organicamente con i propri luoghi simbolo: il conservatorio Giuseppe Verdi, sede di sperimentazione musicale e relazioni sinergiche con la poesia, la pittura e l’architettura; l’Accademia di Brera, cuore artistico della città; la magia di San Siro e le nuove torri, che hanno ridisegnato lo skyline di Milano del terzo millennio, con il “torracchione” della Velasca come contraltare. Milano scrigno che serba preziose testimonianze di scrittura; traccia esteriore che oggettiva la fisicità dell’esistenza (volti, ambienti, organismi pulsanti) e, al contempo, segno di ri-memorazione interiore che accresce potentemente la sua presenza creativa per il tramite di forze socialmente orientate. Compresenza di energie produttive che aprono l’orizzonte sociale alle relazioni di senso e arricchiscono la sfera del linguaggio urbano nelle sue molteplici manifestazioni espressive. Eccedenza ideativa che la città indossa 6 | Lettera a Milano
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A fronte: Torre Velasca, Milano, 2017, olio su tela, 151×111 cm. 8 | Lettera a Milano
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Lucciole milanesi MONICA COLPI Astrofisica
A Milano la luna sorge sopra i profili dei palazzi, a volte opaca a volte brillante, a spicchio o a palla. Mancano invece le stelle: nulla che mi permetta di percepire dalla città la mia appartenenza al cosmo. Ma in questi giorni di lockdown, gironzolando verso sera e nei dintorni di casa è diventato un gioco osservare le tante finestre illuminate. Sono le mie lucciole milanesi che raccontano storie di casa. Amo la loro luce calda perché circondata dal buio delle strade come lo sono le stelle immerse nel buio cosmico. La luce di tutte queste lucciole si diffonde nel cielo che si tinge di chiaro e le stelle diventano pallide al punto di svanire. Eppure vi è un luogo, o meglio vi era un luogo, nella mia giovinezza, dal quale si poteva osservare il cielo, ma da una prospettiva diversa. Lo avevamo chiamato, Gabriele e io, kfa, ovvero il Kapannino For Astrophysics per emulare con un pizzico di ironia il Center For Astrophysics (cfa) di Harvard, scambiando una C con una K per evitare erronee e troppo fantasiose associazioni. Il kfa era una palazzina prefabbricata a due piani che si trovava nel cortile del Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano, in via Celoria. Agli inizi fungeva da deposito per la strumentazione dismessa dai laboratori. Ma nel tempo fu trasformata in kfa, ovvero nel centro studi di Astrofisica di Milano! Mi consideravo fortunata: stavo al primo piano perché i teorici stavano lì. Davvero molto fortunata perché il piano terra occupato dagli sperimentali era ancora più triste. In inverno faceva freddo nel mio piccolo ufficio. La finestra di ferro non si chiudeva bene e nelle rare giornate di vento si spalancava senza avvertirmi. Avevo cercato di arredarlo con un minimo di cura rubando alcuni fascicolatori color beige che stavano al piano terra e scambiandoli con quelli color grigio-ferro disseminati un po’ ovunque. Li avevo posti ai lati di una scrivania beige e sopra c’era un bellissimo cubo, il Macintosh 128K. Alle pareti, una stampa di Miró – L’oro dell’azzurro – con i colori del cielo e delle stelle portava allegria. Avevamo al primo piano una biblioteca tutta per noi, grigia e con le ante a scorrimento di vetro impolverate, zeppa di volumi di The Astrophysical Journal, la rivista più prestigiosa che arrivava puntualmente ogni mese insieme a Nature. Ogni tanto passava a trovarci Beppo Occhialini. Aveva scoperto insieme a Patrick M.S. Blackett e in seguito con Cecil Frank Powell il positrone e mesone π, particelle che gironzolano fra i raggi cosmici la cui scoperta è stata fondamentale per risalire alla natura delle interazioni forte e debole che danno luce alle stelle. Due scoperte da Nobel ma solo per Blackett e Powell perché Beppo aveva sempre sofferto del clima creato dal regime fascista e in seguito sostenuto idee di sinistra, molto di sinistra, ed era il tempo della Guerra fredda. Beppo era un signore piccolo e un po’ curvo, dallo sguardo penetrante e dall’intelligenza acuta, raffinata, pungente. Veniva a trovare Laura e Aldo, i miei mentori. Noi eravamo i piccoli appartenenti alla terza generazione e lo temevamo moltissimo per paura di essere smascherati dal grande fisico, quale Beppo era. In questo luogo, Gabriele, Alberto, Franca e io, insieme a molti altri amici di avventura, stavamo benone perché studiavamo, pensavamo al cielo per ore e ore e lavoravamo con passione ed entusiasmo. Il tempo delle grandi scoperte – dei quasar, delle pulsar e della radiazione cosmica di fondo – era passato ma c’era comunque ogni giorno una scoperta inattesa. Il mio compito era quello di trovare un nuovo processo fisico per fare emettere più luce ai 10 | Lettera a Milano
buchi neri super-massicci immersi fra le polveri interstellari delle grandi galassie. Gabriele, invece, doveva indagare la natura di quei getti di luce potentissimi emessi da alcuni quasar e Alberto, che veniva da Pavia, doveva capire se le galassie, nell’atto di collidere e accoppiarsi, avessero trascinato al loro centro buchi neri per farli diventare sorgenti di onde ancora da scoprire: le onde della tessitura dello spaziotempo. Poi c’era Peppo, il Peppo con la P che ci calava nella realtà astronomica facendoci vedere le bellissime fotografie in bianco e nero dell’ammasso di galassie nella costellazione della Vergine, prese con il telescopio di Monte Palomar. Peppo provava una profonda sensazione di bellezza nel vedere tutte quelle galassie, bellezza che trasmetteva a tutti noi, incantati dalle loro forme così eleganti. Imparavamo da lui il mestiere di osservare da remoto il cielo, raccogliendo i dati che venivano dai grandi telescopi. Cresceva in noi il sentimento, intenso, di appartenenza al cosmo, costellato da centinaia di miliardi di galassie con le loro stelle e i loro pianeti. Anche Foglia, il cane di Peppo, tutto nero, magrino e simpaticissimo sembrava partecipare al gioco: era il nostro cane astronomo! Insomma, il kfa era la nostra piccola casa, la casa delle idee e del cielo altrimenti invisibile. Oggi il kfa non c’è più. Al suo posto si trova un edificio altissimo: ospita il nuovo Dipartimento di Scienze dell’Informazione e io sono andata via. Ma il kfa è stato sicuramente un luogo del cuore e tutto milanese. Milano è una città che ha un suo fascino nascosto: i chiostri interni di alcuni palazzi e le sue chiese romaniche dall’eleganza sobria. Quando vivevo negli Stati Uniti, a Cornell, mi mancavano molto questi luoghi del silenzio. Mi mancava il soffermarmi per alcuni minuti, come faccio spesso anche oggi, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, alla ricerca della quiete. Ma forse il luogo di Milano che ho amato di più è stato uno studio di via Leopardi. Lì ogni giorno, per molti anni, un signore elegante con il suo farfallino e il sorriso dolce e insieme ironico andava al lavoro: lo zio Fausto, o meglio Tato – scultore. Spesso veniva a trovare la nonna a Rovereto ed era gran festa quando arrivava perché portava aria di città e non solo. Papà con la sua Lancia Flavia ci portava qualche volta a Milano per andare a trovare gli zii Melotti e Pollini. Ero piccola e ricordo che questo studio, un vero studio d’artista, era zeppo di fili che volavano leggeri, piume, palline, campanelle, spicchi di luna e pendoli che oscillavano su e giù. A volte lo zio li componeva per creare contrappunti musicali così che mille suoni potessero echeggiare fra i vuoti e i pieni di una narrazione scultorea vibrante, lieve e leggera, dove regnava l’armonia. A volte, invece, li combinava per creare storie dal sapore greco come “Orfeo dimentico”, “Pasiphae e il Minotauro”, “Il canto di Femio”. Poesia. A volte immaginava universi geometrici dove ellissi, le ellissi di Keplero, creavano giochi d’ombra. Ho visto una luna in viaggio su un carro dialogare in allegria con triangoli e cerchi o cullarsi in cielo sopra le dune arancio del deserto. Più in là, un Sole guardava con sguardo benevolo la Terra racchiusa in una scatola, quasi volesse trattenerla a sé per l’eternità affinché non potesse vagare errabonda fra le stelle del cosmo. Un filo verticale sosteneva una retta anch’essa filiforme che terminava con un ricciolo: lo zio Tato aveva chiamato questa scultura Scultura C (infinito), come se volesse imbrigliare l’infinito che scivola lungo una linea avvoltolanLettera a Milano | 11
Cara Milano ALESSANDRO SALLUSTI Giornalista, scrittore
dolo all’insù: un sottile gioco fra convergenze e divergenze. Ma spostando lo sguardo verso il fondo, lo studio si era trasformato in un luogo dove dimorava la sola geometria, una geometria nuda. Poi, sparsi qua e là si trovavano vasi giganti dai colori stupefacenti che potevi abbracciare, vasi a forma di gallo o di luna, korai, visi stilizzati di donne avvolti in drappi dalla forma barocca e piccole sculture, cavallini e cavalieri di reminiscenza minoica. Era un vero incanto, come era dolce il sentirmi coccolata da uno zio, uno zio sapiente che sapeva essere fanciullo. Milano cara, mi hai regalato due luoghi del cuore. Oggi sei una lucciola immersa in un mondo interconnesso e aggrovigliato, serbatoio di infinite storie, mondo che curiosamente si può esplorare anche restando a casa. Vi è infatti un luogo un po’ speciale, un quai Branly in miniatura che con il pensiero mi porta verso Oriente in terre lontane dove Apsaras danzano sulle pareti dei templi dalle geometrie bizzarre, immerse in una natura fiabesca. È un interno di via Melchiorre Gioia dove si trova un signore gentile di nome Mario, viaggiatore e mercante. Era appena arrivato da Bali un grande baule zeppo di cose, quando mi chiamò, e fra quelle cose si trovava un vero, antico teatro delle ombre – wayang kulit — dove principi dai nomi stravaganti e guerrieri valorosi narrano storie millenarie arrivate sulle sponde dell’isola di Java dall’India antica. Raccontano di come Rama, settimo avatara di Vispu, protettore del Dharma, dell’ordine cosmico che sostiene il mondo, avesse lottato contro il crudele Ravana per liberare Sita, la sposa, con l’aiuto di un esercito di scimmie! Un’epopea fantasiosa della lotta fra il male e il bene, fra armonia presente nell’universo e caos nefasto. Il fatto curioso è che questo teatro delle ombre si trova oggi nella mia casa e che una lucciola può rivelare a chi osa o desidera sbirciare dentro: Duryodhana, Déwa Ruci… insieme a Gadyon l’elefante, Garuda l’uccello e Macon la tigre a occhi di sogliola vi accolgono danzando al suono di gamelan per portarvi in terre lontane.In questi giorni un po’ strani, gironzolando per la città continuo a cercare lucciole con il naso all’insù, guardando il Dritto, lo Storto e il Curvo. Alle luci del tramonto, le Tre Torri, bellissime, si tingono di arancione e blu, si intravedono le luci di mille lampadari dei palazzi intorno e si sente il suono dell’acqua delle fontane. Il Dritto, lo Storto e il Curvo come ogni torre invitano ad alzare lo sguardo verso il futuro, incerto come lo è sempre stato. Respiri il vento nuovo, il soffio di una rinascita, di una Fenice che dalle ceneri di una pandemia ricostruisce il mondo, oggi lacerato da profonde diseguaglianze e che corre veloce più dei nostri pensieri. C’è spazio attorno alle Tre Torri e così si vede spesso lo spicchio di Luna sorgere ai bordi dell’orizzonte cittadino, la grande lucciola che mi proietta nel futuro. Chissà, forse ci saranno lampare anche lassù e storie di casa quando l’uomo costruirà le prime capanne spaziali. Mi specchio nella Luna e vedo una Milano capace di reinventarsi, partecipando alle sfide che il pianeta Terra, puntino blu nel cosmo immenso, continuerà a presentarci.
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Mi hai accolto quarant’anni fa, non venivo da lontano – sono di Como – e non avevo la valigia di cartone. Avevo però un sogno e una certezza: i sogni si realizzano a Milano. Ne avevo avuto la prova qualche anno prima quando – appena ragazzo – battevo le piste di atletica inseguendo il sogno di diventare un campione. E fu una sera di giugno del 1973 che all’esordio sulla storica e magica pista dell’Arena ottenni il tempo minimo per accedere ai campionati italiani prima e alla Nazionale poi. Lo ritenni un segno del destino e trovai quindi automatico tornare a Milano quando, anni dopo, il sogno del campione di atletica lasciò il posto a quello del giornalista. Non conoscevo Milano e non potendo, per motivi economici, scegliere dove accamparmi mi lasciai scegliere, di questa città ci si può fidare. Mi scelse il mondo di piazzale Loreto e dintorni, via Porpora e quella via Uberti dove entrai con il mio grande amore in un bilocale di quaranta metri quadrati che mi sembravano una reggia. A due passi c’era il luogo – piazzale Loreto – dove la storia aveva lasciato un paio di segni indelebili; poco più avanti, in direzione opposta, dopo Casoretto, la stazione di Lambrate ogni giorno scaricava quel poco che restava della classe operaia del vecchio quartiere industriale. Porpora e Uberti erano una casba umana e architettonica. Ricordo i palazzotti a due o tre piani, una volta ricche residenze fuori porta della nascente borghesia, poi alberghetti a una stella dove consumare mezz’ora d’amore a pagamento; ricordo i palazzi monumentali di inizio Novecento incastonati tra orribili ecomostri degli anni Cinquanta e Sessanta. A occhio nudo, camminando per strada, avrei saputo dire chi abitasse nei primi e chi nei secondi, tanto uomini e donne, in quegli anni di trasformazione sociale, si adeguavano nel loro vestire e incedere all’architettura che abitavano. E poi le botteghe e le trattorie, che già stavano scomparendo da un centro pronto in rampa di lancio destinazione “Milano da bere”. E poi quelle prostitute gentili sotto casa che se invece di chiamare i vigili, come facevano regolarmente alcune vecchie beghine, le salutavi con un sorriso ti tenevano libero il posto auto quando la sera rincasavi sul tardi. «Sei andato a Milano per fare carriera e ti ritrovi con le prostitute», diceva inorridita mia madre; «Signora, beato lui», le ribattevano col sorriso i miei amici comaschi presenti alla scena. Questa è stata la mia prima Milano, ne sono seguite altre più belle e prestigiose. Ma il primo quartiere è come la prima donna, il primo amore: dà emozioni irripetibili e ricordi profondi. Forse, come cantato da Roberto Vecchioni con la sua Luci a San Siro, non rimpiango Loreto ma solo i miei vent’anni: «Milano scusa, stavo scherzando…». O forse no, non c’è nulla su cui scherzare. Ora che l’ascensore sociale mi ha portato ai piani alti della città mi chiedo se l’attico sia davvero l’habitat che cercavo o se invece abbia più senso stare in luoghi a me più naturali. Lettera a Milano | 13
Milanesi con il pedigree ANDREA KERBAKER Scrittore
Quando parlo di questo, tra l’altro mi dicono: «Attento, in periferia c’è più malavita». Può essere, ma io sono certo, per averlo sperimentato, che c’è anche più vita. Vita e malavita sono destinate a convivere in eterno ovunque e la giusta proporzione non può deciderla solo la pubblica amministrazione a tavolino. Per cui, cara Milano, quello che posso fare io per te è tornare quanto prima dove tu mi avevi messo sicuramente non a caso. Come ha fatto il mio amico Vittorio Feltri che dopo aver assaporato per anni i tuoi profumi più famosi ha deciso di stabilirsi in un vecchio palazzotto fuori mano. Guarda caso, ma non è un caso, in zona Loreto. Beato lui, e beato Loreto.
Il fatto è, signori miei, che i milanesi doc, quelli con il pedigree, sono tutti interisti. Prendete i sindaci, primi cittadini per definizione. Beppe Sala non si perde una partita dell’Inter. Tognoli è interista («mio padre aveva giocato nelle giovanili dell’Internazionale», ha addirittura ricordato in un’intervista recente). Pisapia, interista. Pillitteri, interista. Borghini, interista. Sarà perché sono quelli di sinistra? Magari dall’altra parte, non fosse altro che per fedeltà berlusconiana, funziona diversamente? Macché: Formentini è interista pure lui; quanto alla Moratti, con quel cognome, non aveva scelta. Solo Albertini ha rappresentato un’eccezione. Uno su otto, andiamo malissimo. Del resto, se ci spostiamo sugli intellettuali non va tanto meglio. Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi… l’intera linea lombarda della poesia ha sempre militato dalla parte neroazzurra. Stefano Boeri, architetto principe, è presidente della Triennale e di un Inter club degli architetti (ci mancava solo quello). Massimo Vitta Zelman, patron di Skira, è interistissimo, e come lui Sergio Scalpelli, che a lungo ha diretto la Casa della Cultura. Bene, avrete capito che io, invece, sono milanista, e quindi che questa è la testimonianza di un esponente della minoranza. Me la merito, dopo tanto silenzio, quasi clandestino. Destino di uno che ha perfino scelto di lavorare alla Pirelli, vivendo il passaggio dalla famiglia che ha dato il nome all’azienda, molto milanista, a Marco Tronchetti, così interista da mettere il logo per 25 anni su quelle maglie nerazzurre. E però, signori miei interisti, anche se il tifo ci divide così solennemente, che stadio formidabile che condividiamo. Bellissimo, con quei suoi anelli che lo circondavano, invenzione orgogliosa degli anni del Dopoguerra. E sono certo che, mutate le partite, abbiamo le stesse esperienze. Io ci andavo le prime volte negli anni Sessanta con il nonno (il papà di mia mamma, abruzzese, arrivato qui nel Ventennio, ecco perché milanista: perché foresto, non “doc”). All’epoca era tutto più semplice: «È mio nipote, diceva ai custodi», e via, si entrava. Non c’era il tabellone, non il tifo organizzato, il linguaggio dei tifosi era colorito oltre il lecito («Mamma, accostare il nome di Dio a un animale è una bestemmia?», chiesi un lunedì dopo un Milan-Roma finito 3-1, dove un tifoso romanista aveva rumorosamente sfogato la sua delusione per la sconfitta prendendosela abbondantemente col buon Dio. Avevo sette anni, la mamma non fu contenta della domanda). Nello stadio a due anelli il rumore del pallone si sentiva ancora bene, un po’ come oggi in tempo di pandemia. Pochi anni dopo, quando ormai allo stadio ci andavo con gli amici, era già tutto diverso. Metropolitana rossa fino a Lotto e poi via a scarpinare lungo il viale Caprilli, venti minuti buoni a ripassare le formazioni, a respingere i bagarini («Poppolari, dischtinti», con l’accento forte del sud e l’aria sicura del mestiere) perché noi il biglietto l’avevamo già, comperato con l’anticipo delle occasioni. E comun-
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que non c’era tempo, bisognava affrettarsi: con i posti non numerati chi tardi arrivava male alloggiava. In quella lunga marcia c’era sempre il momento in cui si alzavano gli occhi allo stadio, che compariva là in fondo: mamma, quanto è bello, così imponente. E poi dentro, il primo tifo organizzato con i suoi eccessi presi pari pari dalla violenza politica, ma anche le sue invenzioni felici. Ricordo il felice stupore della prima volta in cui sentii il coretto «Devi morire» indirizzato a un giocatore della Lazio rimasto a terra.
mi pare una folle mancanza di rispetto del nostro passato, specchio dell’insensibilità tipica del presente, dove il dio quattrino omnia vincit. Ma non c’è denaro che possa giustificare la rimozione delle glorie e dei sentimenti. Signori stranieri che ormai governate le nostre squadre, andate un attimo a riguardare le targhe che stanno orgogliose all’ingresso del settore rosso, quello che un giorno si chiamava “Tribuna centrale numerata”. Quelle targhe parlano di un luogo che ha regalato emozioni all’intera città. Chi abbatte le emozioni, soprattutto per denaro, non riuscirà a crearne altre. Fateci un pensiero. E magari anche le nostre autorità locali potrebbero avere qualcosa da dire.
E la partita della stella, anno Settantotto, due ore prima allo stadio per prendere posti decenti. Nei “distinti”, nonostante il costo: i popolari erano esauriti, e la festa irrinunciabile. Siamo studenti liceali, immersi nei problemi di quegli anni controversi. Inganniamo l’attesa parlandone tra noi. Poco prima dell’inizio, il nostro vicino ci guarda: «Se volevate parlare di filosofia, potevate restarvene a casa». Lo stadio vuole partecipazione totale, militanza. E noi faremo anche discorsi profondi, ma militanti siamo: quando andiamo in serie B rinnoviamo la tessera, perché il vero tifoso si vede quando si perde, se si vince è troppo facile. E andiamo su nei popolari, belli gremiti anche allora: sarà anche vero che i maggiorenti della città sono tutti interisti, ma noi siamo comunque tanti, e più veraci, appassionati, vorresti vederli quelli là al nostro posto, mica sarebbero capaci di tanto affetto. E restiamo abbonati anche quando arriva il Berlusca, e tutti a pigliarci in giro per la storia dei giocatori che si presentano al raduno in elicottero come i marines in Vietnam, ma poi piano piano si scopre che quei signori si chiamano Baresi o Maldini, che all’epoca è solo il giovanissimo figlio di Cesare, ma che in breve ribalterà la situazione, e al padre diranno: «Lei è il papà di Paolo?» (In fondo è capitato anche a Kirk Douglas con Michael, e ne era molto fiero). Lo stadio nel frattempo mette su il terzo anello, che non è che ci convinca tanto con quelle travone eccessive, ma chissenefrega, quello che conta è che quel Milan è finalmente uno squadrone, e lo stadio resta magnifico, soprattutto la notte, quando ci sono le partite di Coppa. Ci andiamo con la Vespa, adesso: l’avvicinamento è mille volte più rapido, ma la massa scura illuminata all’interno dai riflettori rimane ancora e sempre un’emozione. Tanto più che sappiamo che pochi minuti dopo (con i posti numerati, se Dio vuole, sono finiti i grandi anticipi) quelle luci saranno puntate su gente che si chiama Gullit o van Basten. Ce l’abbiamo fatta: nell’89 andiamo tutti al Camp Nou di Barcellona per la finale della Coppa dei Campioni, 80.000 milanisti (ma non erano tutti interisti?) che la notte ballano sulle Ramblas. E saltano: «Chi non salta nerazzurro è, è». Balleremo e salteremo tante altre volte, a San Siro e ad Atene, al Meazza e all’Old Trafford. Quante partite, quante memorie, che emozioni. Ancora adesso, che la metropolitana arriva in bocca allo stadio e i malefici tornelli hanno sostituito gli ingressi semplici di un tempo, quando ci entro penso che San Siro è un luogo magico. E il fatto che gli sciagurati padroni di Milan e Inter lo vogliano buttare giù 16 | Lettera a Milano
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La Milano degli anni Sessanta e Settanta MAURO BERSANI Saggista, responsabile area letteratura Einaudi
Cara Milano, ci conosciamo da sessantaquattro anni ed è naturale che in tutto questo tempo siamo molto cambiati entrambi. È cambiato anche il mio rapporto con te. Intanto perché a metà percorso o poco dopo sono passato a un regime di bigamia regolamentata e ho diviso la mia vita fra te e Torino. E non è la stessa cosa vedersi tutti i giorni o solo nei fine settimana. Poi il rapporto è cambiato perché, invecchiando, i tuoi luoghi si sono caricati di ricordi: sei rimasta una città viva ma sei anche diventata archeologia sentimentale. E molti pezzi di questo sito archeologico sono spariti man mano diventando pura memoria. Sono cresciuto in via Melchiorre Gioia, a due passi dalla famosa via Gluck, e in effetti, ho vissuto da bambino le trasformazioni descritte nella canzone di Celentano. Sotto casa mia scorreva la Martesana, interrata negli anni Sessanta. Proprio di fronte, dal lato opposto del Naviglio, c’era una carbonaia dove, quando ancora andavo in prima elementare, vedevo arrivare e ripartire carretti tirati da vecchi cavalli. E anche se non li vedevo direttamente, il loro passaggio, quando attraversavo l’incrocio di viale Lunigiana, era inequivocabile all’occhio e all’olfatto. E quando frequentavo il campo di calcio dell’oratorio di Santa Maria Goretti, verso Greco, mi è capitato di giocare con un gregge di pecore che brucava nel prato limitrofo. Negli stessi anni ho vissuto l’emozione di accompagnare mia madre nei primi supermercati e di prendere la metropolitana poco dopo l’inaugurazione della prima linea. Passato e futuro hanno convissuto per un ristrettissimo giro di anni ed essere stato testimone di questo periodo così contraddittorio mi è sempre parso, non so bene perché, un privilegio. Sicuramente è stato un imprinting importante per la formazione mentale. Ma più che l’infanzia, è l’adolescenza ad accumulare i luoghi del ricordo, sia perché il ragazzo ha più mobilità di un bambino, sia perché le sue esperienze sono più intense. E dunque è la zona di Brera che mi è rimasta appiccicata come luogo dell’anima. Di allora è rimasta la mia scuola media, tra via Solferino e via San Marco, ed è rimasto soprattutto il palazzo del Corriere della Sera, dove mio padre lavorava come correttore di bozze. Entrare in quel tempio, quando mio padre mi portava in visita nel suo ufficio, passando tra vecchie linotype e rotative in movimento, significava vedere da vicino un mondo pieno di fascino: macchine e uomini producevano insieme carta stampata, che avevo subito imparato a frequentare e ad amare, a considerare un indispensabile bisogno primario. Sempre in via Solferino c’era la sede del Cral del Corriere. Alla sera alcuni di questi locali erano adibiti a Circolo degli scacchi e del bridge per i dipendenti del giornale. E per i loro familiari. L’emozione di uscire la sera con mio padre (e di tornare tardi) per andare a giocare a scacchi o a bridge, quando avevo solo tredici o quattordici anni, è ancora qualcosa di indimenticabile. Anche quando, come bridgista, sono diventato bravino e frequentavo altri circoli e altri tornei, mi è sempre piaciuto fare ritorno in quei locali di via Solferino, che erano stati la mia prima palestra di giochi adulti e di vita notturna. Nel corso degli anni Settanta la mia vita notturna si è fatta più intensa e più varia, ma gravitava sempre, tendenzialmente, in zona Brera. Di quel periodo ci sono ancora, miracolosamente scampati a eccessive 18 | Lettera a Milano
trasformazioni, alcuni ristoranti che frequentavo allora, come Grand’Italia e La Libera di via Palermo. In via Palermo non c’è più lo sferisterio della pelota (ne è rimasta solo l’insegna). Quante serate con gli amici a scommettere sui giocatori baschi che si accanivano a ribattere la palla sul muro con mosse di estrema eleganza! Ma lo spettacolo era anche offerto dal pubblico: era uno dei pochi posti dove, nei commenti, nelle battute, nelle invettive, si sentisse ancora parlare prevalentemente milanese. Si diceva che molte partite erano truccate ed è possibile: al totalizzatore giravano dei bei soldi e non mancava qualche allibratore clandestino. Ma per noi ragazzi, in fondo, contava poco. Era bello scommettere, era bello stare in quel luogo affollato, vociante, con personaggi che sembravano usciti dai libri di Umberto Simonetta o dalle sue canzoni scritte con Giorgio Gaber. Un altro luogo della zona che c’è ancora solo come nome è Moscatelli, il minuscolo bar di corso Garibaldi tenuto dall’omonimo proprietario, burbero ma simpatico e con uno stile d’altri tempi (anche per i suoi indimenticabili farfallini), negli ultimi anni progressivamente e tristemente letargico. Trovarsi da Moscatelli a bere un bicchiere a qualsiasi ora era un classico, un rito sostituito dai locali alla moda della “Milano da bere”. E poi, luogo fra i luoghi delle mie serate e della mia formazione culturale: l’Obraz Cinestudio, una cineteca in largo La Foppa nella cui saletta ho assorbito la passione per il cinema. Cicli mitici, da quello su Buster Keaton a quello su Bresson. E un giornaletto mensile: Zuppa d’anatra, a cui collaborava anche un mio compagno d’università, Alberto Crespi, poi famoso conduttore radiofonico di Hollywood Party. Ma è normale, e direi anche salutare, che i luoghi di una città spariscano o cambino funzione. Quello che è cambiato di Milano, e che sarebbe auspicabile tornasse almeno in parte, è l’anima integrativa e interclassista. Ripensando alla Milano dei miei anni giovanili, ricordo soprattutto il milanese parlato dagli immigrati del Sud. Un dialetto a volte preciso e splendido, come quello del nostro vicino di pianerottolo in Melchiorre Gioia, il signor Pappagallo, un pugliese immigrato da piccolo che governava le nasali del milanese come se fosse stato un nipote del Tessa. Era proprietario di una piccola tipografia e uomo di gran cuore, come ebbe a dimostrarci quando, nel 1965, mio fratello morì in un incidente di bicicletta e lui accompagnò mio padre nel viaggio notturno in Svizzera per riconoscere la salma. Ma allora, nei rapporti tra vicini di casa, la solidarietà era cosa normale. Altre volte il milanese degli immigrati era invece approssimativo, a volte mancante, a volte ipercorretto. D’altronde la macchietta di Porcaro e Abatantuono del “milanes centpeccent” è solo un’iperbole di un uso del dialetto che avveniva realmente nei bar, nei tavoli da biliardo, nelle scommesse della pelota o agli ippodromi di San Siro. Dove milanesi Lettera a Milano | 19
Il fiume favoloso CARLO MONTALBETTI Direttore Comieco
indigeni e milanesi immigrati parlavano insieme, giocavano insieme, facevano amicizie, si sposavano. A Torino, come poi ho potuto constatare, non era successo niente del genere. I “napuli” (che poi erano quasi tutti calabresi) da una parte e i torinesi dall’altra, senza luoghi in comune, senza una lingua in comune. La Milano degli anni Sessanta e Settanta di cui ho nostalgia, al di là di un cinema o di un ristorante che non c’è più, è quella dell’integrazione e della mescolanza fra gente di diversa provenienza. Cara Milano, da questo punto di vista mi piacerebbe proprio rivederti come ti ho vissuto cinquant’anni fa. Ce la farai a darmi questa soddisfazione?
323 passi separano il luogo dove sono nato e dalla casa in cui vivo. Abito in corso Buenos Aires dal 1952, qui stanno le mie radici, e di questa strada voglio parlare perché parlando di lei – sì, al femminile, perché la sento così mutevole ma determinata come una donna – si parla di Milano. «Milano, un America senza crudeltà» scriveva Guido Piovene in Viaggio in Italia (1957) e chi più di corso Buenos Aires ha un’aria così “yankee”? Già Ernest Hemingway nella primavera del 1918, per ritrovare un po’ di calore di casa, scappava dall’ospedale militare per passeggiare in corso Buenos Aires. E qui, dove oggi si trova il teatro Elfo Puccini, si esibì alla fine dell’800 Buffalo Bill con il suo circo di pellerossa. In questa rambla lunga un poco più di un miglio si può trovare di tutto: negozi, teatri, empori, night club, hotel, ristoranti e centri benessere. In sintesi un grande centro commerciale a cielo aperto dove qua e là non mancano piccole gemme di architettura (su tutte il grattacielino di Piero Bottoni). Il mio stradone, con i marciapiedi arriva a 28 metri di larghezza, da sempre cerniera tra centro e periferia, e la frontiera tra questi due mondi è Porta Venezia. E quello che attrae e stordisce, camminando a ogni ora, è la valanga umana che si muove da un capo all’altro della strada, una massa di persone di ogni età, sesso e provenienza. Se immaginassimo di imbandierare il Corso con le bandiere delle etnie che ogni giorno lo attraversano, avremmo una immagine di quanto Milano è città-mondo (da ricordare che in città risiede il più alto numero di consolati del pianeta). Corso Buenos Aires non è minimalista, è pieno di oggetti, insegne, striscioni, orologi pubblici (qui sono proporzionalmente il maggior numero cittadino), e colori (venite a vedere la casa “sudamericana” al n° 25) che cozzano tra loro ma come per miracolo poi trovano, come Milano sa fare, il modo di convivere. Corso Buenos Aires è trasformista: nei momenti di maggior traffico e confusione il Corso si presenta come un grande Big Mac pronto per essere divorato in fretta, mentre la sera, tutto illuminata, la strada si trasforma in un luna park. E la vita di quartiere? C’è, ma si addensa nelle vie laterali, più borghese in via Morgagni, più pop in Benedetto Marcello da cui è possibile in pochi passi raggiungere la stazione Centrale.
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Milano FLAVIO CAROLI Accademico, storico dell’arte, critico d’arte
Una vita di quartiere ricca di umanità (fate un salto al campo bocce di via Morgagni) e di chiese (sono 3 le parrocchie e quella di S. Francesca Romana è la più popolata in Italia), ma che ha poco da spartire con corso Buenos Aires dove la vita scorre come sul fiume, impetuosa e cangiante. Con l’ arrivo del coronavirus anche corso Buenos Aires, come tutta la città, ha cambiato drasticamente abitudini e prospettiva. Nel silenzio delle giornate, dove si sentono per la prima volta distintamente il cinguettio degli uccelli e il gracchiare delle cornacchie, è emersa la sua seconda natura, quella che sta da sempre nel suo nome, “Arie Buone”, ed è quella che ci indica il futuro. Sono settimane che il traffico di umanità e mezzi è scomparso, o si affaccia raramente, e ci siamo convinti che questo serpentone di asfalto sia l’inizio di un grande fiume che porta dritto, e in poche decine di minuti a piedi, al cuore della città. Da piazza Argentina si può vedere il molo d’attracco del nostro “fiume favoloso”: è la torre Velasca che svetta nitida e guerriera. Ora, con l’aria più pulita e senza il polveroso rumore del traffico è possibile immaginare la trasformazione di corso Buenos Aires nel primo miglio verde della città dove camminare, pedalare e usare i mezzi pubblici, e le vetture elettriche saranno le modalità per muoversi, fare comunità continuando a commerciare e fare affari.
Se si appoggia una patata sulla terra, dopo un po’ ci si accorge che la patata ha messo radici. Senza semina, senza cure, senza niente. È ciò che a me accadde con Milano. Arrivai 46 anni fa, chiamato dal Corriere della Sera. A quei tempi, mi muovevo fra Bologna (dove ricoprivo un incarico di insegnamento all’Università) e Roma, dove avevo appena chiuso un periodo di perfezionamento con una borsa di studio. Non avevo idea di quanto il soggiorno milanese mi sarebbe piaciuto e di quanto sarebbe durato. Dopo qualche mese, con qualche sorpresa, mi resi conto della novità: avevo messo radici. Stavo bene. Il clima umano mi piaceva. E la prova del nove era inconfutabile: riuscivo a immaginare il mio futuro solo in questa città. Per un po’ resistette l’idea di avere una base anche a Londra. Ma poi cadde anche quella. Mi sono chiesto a lungo il perché del naturale amore per Milano. E alla fine sono giunto alla conclusione che il motivo è molto semplice. Milano non è affatto la piccola New York affannosa e violenta che veniva raccontata dai luoghi comuni dei tempi (cinema, giornalismo e via dicendo), e non era neppure la metropoli “alienata” di un film che pure ho amato, come La Notte di Michelangelo Antonioni. Milano è una città borghese di respiro abbastanza ampio e tollerante, assai meno aggressiva di molte “piccole capitali” italiane. C’è posto per tutti. C’è rispetto per le diversità. Se si vuol vedere gente, come diceva Nanni Moretti, la si vede; se non si desidera farlo, il rispetto, e in certi casi l’affetto, non cambiano. Spesso, i meriti vengono riconosciuti, e normalmente ciò accade senza avarizia. Una specie di educazione secolare della città vuole che le eccellenze diano convincente prova di understatement. Non per nulla il verbo normalmente usato è splendido ed eloquente: “non tirarsela”. Al contrario, se in questi anni mi sono un po’ arrabbiato con Milano, è per una sua specie di autolesionismo. A mio avviso, la nostra città meritava più gloria di quanta non ne abbia ricevuta nella letteratura, nella musica (Scala esclusa, anzi talora inclusa), nel teatro, nell’architettura e nelle arti visive. Ma forse sbaglio. Forse, la via del successo per Milano è proprio affidata all’understatement, e al “merito paziente” che viene riconosciuto sul lungo termine. Milano è una metropoli, ma è la più piccola delle metropoli del mondo. Niente a che fare con i milioni di abitanti non dico di Londra o New York, ma nemmeno di San Paolo, di Città del Messico o di Mumbai. È per questo che non vorrei mai vivere altrove. Per vedere se le sue timidezze verranno adeguatamente riconosciute come meriti. Meriti grandi, ma tutto sommato affabili e – ripeto – generosi.
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Naviglio Ticinese, Milano, 2016, olio su tela, 150×123 cm. Alle pagine seguenti: Palazzo Pelli, Milano, 2016, olio su tela, 150×107 cm. 24 | Lettera a Milano
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Diventare grandi a Milano FRANCO GUIDI Ceo Lombardini22
Abitavamo in via Spartaco con la nonna Adele. Io mi ricordo poco, forse niente, se non fosse per qualche fotografia in bianco e nero che riprende me e mio fratello con un triciclo sul terrazzo. Mi ricordo però del trasloco: in periferia, aveva sentenziato la nonna, che si sarebbe trasferita con noi in via Fezzan, nel condominio costruito in cooperativa, dove ci aspettava un bell’appartamento al piano terra. Me lo ricordo il trasloco perché ero troppo piccolo per partecipare ed ero stato affidato alle cure della zia Antonietta. Mi rivedo in piedi su uno sgabello per arrivare al telefono nero attaccato al muro del loro appartamento in via Nerino e per ricevere il primo racconto della nuova casa. Sarei rimasto lì dal 1958 fino alla fine del 1980 e sarei stato testimone dell’evoluzione di un pezzo di città. Via Fezzan è una via corta, ma è in continuità con via Tolstoj e via Fornari che partono da via Giambellino e arrivano a piazza Gambara. Quando siamo arrivati noi in via Tolstoj non c’erano case, ma cascine. Andavamo lì con la nonna per recuperare il letame per concimare i gerani. C’erano prati tutti intorno, con greggi di pecore di passaggio. Andavamo alle elementari in via Scrosati, di fianco al quartiere Grigioni. Ho sempre pensato che il nome fosse legato a una certa cupezza dei condomini del complesso anche se qualcuno faceva riferimento al cantone svizzero. In realtà hanno preso il nome dalla società di costruzione che li ha realizzati. Andavamo a piedi naturalmente, in grandi gruppi di bambini, curandoci a vicenda. Una totale libertà che ci consentiva di andar per prati per accorciare i percorsi e fare ricerche di scienza. La più interessante fu la cattura di un orbettino, un serpentello, che arrivò a casa e poi misteriosamente scomparve tra l’ironia generale, anche se oggi sospetto un intervento genitoriale di liberazione dalla cattività. I grandi gruppi di bambini caratterizzavano la nostra zona. L’urbanizzazione e la costruzione di condomini proseguiva senza sosta. Gli appartamenti venivano occupati da giovani famiglie e crescevamo con tanti amici della stessa età. Il nostro condominio non era diverso e ogni pomeriggio ci si ritrovava nel cortile per giocare, tutti insieme, pericolosamente. Il cortile era ragionevolmente piccolo, ma ospitava un campo di calcio, una pista per biciclette o pattini a rotelle e zone di gioco protetto sotto i balconi, due dei quali erano nostri. Dai balconi arrivavano le provviste di cibo, le merende a base di pane burro e zucchero o pane e cioccolato, ma soprattutto l’acqua. Mi ricordo turbe di bambini sudati che si rivolgevano a mia mamma: «Acqua signora, acqua» e mia mamma con pazienza allungava bicchieri pieni di acqua rigorosamente del rubinetto per la gioia degli assetati che potevano riprendere i giochi. Il frastuono collettivo che riuscivamo a sviluppare era tale che non potevamo scendere in cortile prima delle tre del pomeriggio. Ma la voglia era tale che si formava una coda di bambini seduti sulla scala, in attesa che la signora Luisa, la portinaia, aprisse la porta del nostro regno. Mio padre si era meritato la nostra gratitudine perché nell’assemblea di condominio si era opposto alla pavimentazione che anni dopo avrei scoperto si chiamasse opus incertus, in favore di una bella cementata.
anni c’era una colonna nel vano scale dove i condomini gettavano la pattumiera, che arrivava per gravità in questo locale. Senza questa copertura i giri in bicicletta sarebbero stati impossibili e il campo di calcetto con il buco non sarebbe stato lo stesso. Il verde era stato relegato ai bordi del cortile, così la nonna aveva potuto sostituire la sua terrazza in centro piantando ortensie e rose ma soprattutto un nespolo giapponese che oggi svetta imponente. Non è cosa da poco considerando le pallonate che regolarmente potavano gli arbusti, anche se qualche volta il mondo vegetale reagiva bucandoci i palloni, che all’epoca erano molto più rari e preziosi di oggi. Ma la vita non era solo nel cortile. A poco a poco si usciva: prima per obbligo di recupero del pallone che aveva superato i muri del cortile ed era finito nel condominio di fianco, o nel cortile del Don Orione, dove il recupero era molto più complesso. Avevamo in ogni caso bisogno di esploratori e negoziatori in grado di convincere a farci entrare in questi luoghi privati e consentire il recupero con promesse vane che non sarebbe più successo. Poi si usciva per crescita naturale, per il desiderio di conoscere nuovi spazi e nuovi giochi. Prima le zone abbandonate davanti a casa, che presto sarebbero diventati nuovi condomini, poi i giardinetti di piazza Tripoli, dove il verde era estetico e non calpestabile, poi il campo di calcio di via Strozzi e l’oratorio. Eravamo sempre in gruppo, ci muovevamo da soli con una libertà oggi impensabile. Ci sbucciavamo le ginocchia, perché i pantaloni erano corti, distruggevamo le scarpe belle, perché non ne avevamo altre. Nel frattempo via Tolstoj cresceva a vista d’occhio. I campi diventavano via Ronzoni e non c’era più soluzione di continuità nell’abitato fino a via D’Alviano. Per non parlare di viale San Gimignano, Bande Nere, Caterina da Forlì e della metropolitana in piazza Gambara. Adesso che la metropolitana arriverà in piazza Frattini e lungo via Lorenteggio, questo quartierone avrà raggiunto quella dimensione urbana che sarebbe piaciuta alla nonna Adele. Ci sono voluti 60 anni ma è bello vedere come questo pezzo di città abbia mantenuto le sue caratteristiche fondamentali con un bel mix di residenze e verde. Peccato per l’occasione sprecata con lo sviluppo degli uffici della Provincia, oggi Città Metropolitana, in via Soderini, ma forse è proprio la riprova che la città ha i suoi tempi, che le diverse zone hanno una loro vocazione e che bisogna tenerne conto. Oggi è bello sapere che i nipoti hanno preso il posto dei nonni negli appartamenti ed è continuato quello sviluppo lento ma inesorabile che caratterizza la nostra Milano e di cui ho avuto il piacere di essere testimone. Un’ultima nota, sempre nel 1958, davanti al nostro condominio e quindi perennemente sotto il nostro sguardo sorgeva un bellissimo condominio, diverso dagli altri, che chiamavamo il “Palazzo di Vetro”: era il primo edificio progettato da Angelo Mangiarotti con Bruno Morassutti. Qualcosa, evidentemente, mi ha lasciato dentro.
Questo favoriva sicuramente pattini e biciclette, ma il vero colpo di teatro era una grande struttura di assi di legno che copriva un grande buco da dove si accedeva al locale pattumiera. Nei condomini di quegli 28 | Lettera a Milano
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Come ti sei fatta bella... ALESSANDRA REDAELLI Scrittrice, giornalista, critico d’arte
Povera Milano, così duramente colpita insieme alla sua regione da questa pandemia che ha messo in ginocchio il mondo. E poi bistrattata, reietta. Non te lo meriti.
cato anche Palazzo Reale con le sue mostre, il Museo del Novecento con la nostra storia artistica più recente, la Pinacoteca di Brera, magari, con la sua pittura antica.
Ma ne uscirai presto. E tornerai al tuo splendore.
E se avanza del tempo – perché no? – anche l’Hangar Bicocca e la Fondazione Prada. Perché l’arte contemporanea non ce l’hanno solo loro. Perché qui noi, nel regno di Miuccia, abbiamo un paio di Damien Hirst, un Jeff Koons e un’opera di Mona Hatoum che meritano; per non parlare dell’architettura di Rem Koolhaas, poi, che fa loro da cornice. E speriamo che qualcuno abbia loro suggerito, tra un salto da Prada e uno da Louis Vuitton, di mettere la testa dentro quel cortiletto, di lato, su via Torino, e di entrare in Santa Maria presso San Satiro. Per rimanere a bocca aperta davanti al capolavoro illusionistico di Bramante. Gratis. Anche senza un sacchetto griffato da portare via.
Ti hanno sempre dipinta come una città fredda, ma la verità è che non lo sei. I tuoi quartieri, i tuoi scorci più autentici, quelli che sono stati risparmiati da quel fenomeno urbano che per certi versi sta rendendo uguali tutte le città del mondo (le stesse catene di ristoranti e di bar, gli stessi negozi di abbigliamento, dalle grandi firme al mass market), offrono angoli di accoglienza e di eccellenza unici, solo tuoi. E lì ancora qualcuno lo trovi che parla la “tua” lingua, e che ti indica il “prestinè” o che ti dice che i “ghisa” sono appena passati, e che se non ti fermi troppo a lungo, un’occhiata alla tua macchina la dà lui. E poi come ti sei fatta bella, Milano. Quando sono nata, la mia zona, quella che ancora oggi resta “mia”, era quasi periferia: si sentiva il treno passare, l’atmosfera di quartiere era tangibile. Ora anche qui sono fiorite le architetture eleganti che ti hanno resa famosa nel mondo. Che hanno cambiato il tuo orizzonte (quello che i più “à la page” chiamano skyline). Ti guardavo dalla terrazza di una baita in alto, sopra Brunate, una domenica subito dopo la fine del lockdown. Il palato solleticato da selvaggina e polenta, i sensi attutiti da un bicchiere di rosso corposo. Fuggita anch’io, insieme ad altri milanesi, dalle tue vie che in quei mesi avevamo vissuto come una prigione. Era una giornata limpida, e a un certo punto, in lontananza, ho visto una selva di grattacieli strani, attorcigliati, piegati come da un vento misterioso. Eri tu, con questa tua nuova faccia così internazionale, così glamour, con i tuoi edifici griffati che arrivano al cielo. Il Duomo non si vedeva più. Quello che una volta era il tuo simbolo si era ridotto a una capannuccia poco più grande di quella in cui aveva trovato rifugio la Sacra Famiglia. La tua Madonnina ora piantonata da questi watussi di cristallo e di cemento. Quella Madonnina che una volta, tanto tempo fa, era stato il limite oltre il quale non si poteva costruire. Mi hai fatto uno strano effetto. L’orgoglio, certo, per questo tuo nuovo volto così elegante e raffinato: la bellezza impeccabile di una modella pronta per entrare in passerella con la sua falcata da pantera. Ma anche un pizzico di nostalgia per quella che eri. Oggi ci sei anche tu, Milano, tra le città più amate dai turisti. Ci stiamo abituando anche noi a vedere le frotte di americani con la faccia rubiconda e i pantaloni fantasia che sciamano per le tue vie. E che magari si sorprendono per la puntualità e l’efficienza dei tuoi mezzi pubblici, visto che l’ultima volta che erano stati in Italia, a Roma, era stata tutta un’altra musica. Ripartono carichi di sacchetti griffati, con gli occhi scintillanti, un po’ stanchi, ma felici. E speriamo che nel loro girovagare abbiano toc30 | Lettera a Milano
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Sono cresciuto a risotto e racconti nella capitale immorale d’Italia JACOPO FO Scrittore, attore, regista, fumettista, blogger
Il risotto è un piatto geniale perché ci puoi mettere dentro di tutto. Mio padre in questo era estremista: qualunque cosa ci fosse in frigorifero, frutta compresa, rischiava di finire nel risotto, a meno che mia madre non lo fermasse. Mio padre pur essendo di origine alessandrina come mia madre, mi comunicò l’idea che vivere a Milano fosse una sorta di privilegio perché era stata un fulcro della ribellione. A Milano, nel ’300, le prime donne che rifiutarono matrimoni combinati ebbero l’idea di diventare suore e crearono uno dei primi conventi. Alcuni padri vedendo gli accordi matrimoniali andare in fumo avevano assaltato con i loro armigeri il convento per riprendersi le preziose figlie. Allora sant’Ambrogio aveva schierato la milizia vescovile per difendere i diritti delle suore. Quel gesto lo rese famoso, un femminista estremo. E si sparse la voce in tutta Europa: le donne possono salvarsi da un matrimonio forzato diventando suore e la Chiesa le difende con le armi!!! I conventi iniziarono a diffondersi ovunque; e fu nei conventi che si sviluppò la cultura al femminile con grandi letterate che operarono una rivoluzione narrativa senza la quale forse non avremo avuto il Dolce Stil Novo. Alla fine del 1100 furono i Milanesi a fissare alle aste gli attrezzi da lavoro e a inventare così le alabarde; le usarono per battere l’imperatore Barbarossa a Legnano e distruggere per la seconda volta il suo esercito; la prima volta lo avevano massacrato ad Alessandria, città sull’acqua, costruita apposta come trappola dai popolani di Milano. L’invenzione dell’alabarda determinò l’esito vittorioso di una serie di rivolte, la usarono gli svizzeri per sconfiggere un altro imperatore tedesco e guadagnarsi l’indipendenza e pure gli olandesi, nella battaglia des Ésperons d’Or. Dopodiché fu chiaro che la cavalleria pesante non era più in grado di dominare i campi di battaglia e i feudatari dovettero venire a patti con i popolani. Poi c’era la Milano dei gappisti, quei partigiani che in piccoli gruppi andavano a giustiziare gli ufficiali nazisti; storie che mi raccontava la madre di mio padre che li aveva ricuciti dopo gli scontri a fuoco. Ma quando mi affacciai all’età adulta Milano era ben altra cosa. Scomparsi i canali navigabili che ne facevano una Venezia di pianura, avvelenata dallo smog, teatro di attentati e scontri violenti nelle strade, a volte tra ribelli e forze del potere, a volte tra gruppi di comunisti. A me una volta mi picchiarono i fascisti, una volta i comunisti, che ce l’avevano con me perché ero comunista anche io. I comunisti mi fecero più male. Milano diventò per me un luogo di paura.
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Un posto doloroso dopo che mia madre fu rapita e seviziata da un gruppo di fascisti agli ordini dei servizi segreti deviati. L’ultimo mio sogno milanese fu spento dalla polizia quando irruppe a Macondo, un centro culturale alternativo meraviglioso (affittato regolarmente, non occupato). Sequestrarono per un’intera notte più di mille persone. Ma già me n’ero andato a Roma a lavorare alla rivista Il Male. Di lì poi, nel 1979, mi trasferii a nord di Perugia, vicino a un paesino che si chiama Casa del Diavolo. Una casa di pietra diroccata sulle colline, boschi a perdita d’occhio e l’idea balzana di costruire una specie di monastero culturale alternativo, umanista ed ecologico. E sono ancora qua. E benedico ogni giorno l’essere scappato dalle città. Guardo Milano da lontano. Mi chiedo come sia stato per i milanesi rivedere il cielo azzurro durante la quarantena. Come possano ora accettare di respirare di nuovo lo smog. Ma soprattutto mi chiedo come sia possibile che tanti amici milanesi siano entusiasti di questi nuovi grattaceli, che danno prestigio alla città. Ecco come è possibile che una cosa insensata e brutta come un grattacielo possa “dare prestigio”. Ma ai milanesi piacciono, e vengono fin dalle periferie per prendersi un caffè sotto quei falli di cemento armato. Una ventina di anni fa avevamo realizzato un piano che prevedeva che tutte le aree ferroviarie e industriali dismesse diventassero parchi, la riapertura dei canali e il taglio drastico dell’inquinamento, (taglio dello spreco energetico delle case, stop alle auto, più trasporti pubblici e biciclette). Mio padre si candidò alle primarie del Pd come sindaco, portando questo programma. Solo il 25% degli elettori del Pd gli diede il voto. Quando passo per Largo Marinai d’Italia mi ricordo che lì c’era la stazione di Porta Vittoria con annessa area verde incolta e recintata. C’era un buco nella recinzione e andavamo a far l’amore in quel parco selvaggio, con grandi alberi, che circondava i binari, uno spazio enorme che si estendeva verso la periferia. Adesso ci sono palazzi, strade asfaltate, costruzioni non finite, cantieri sgarrupati. Anche qui tanto spazio verde scippato alla città per far largo agli speculatori… Sono convinto che alla lunga questo modello di sviluppo andrà a sbattere contro le aspirazioni della gente. Forse la “Milano da bere”, edonista reganiana, alla fine sarà travolta dai desideri delle persone che vogliono respirare bene e godersi la vita.
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Lettera a Milano TOMASO KEMENY Poeta, scrittore, critico letterario, traduttore, drammaturgo e accademico ungherese naturalizzato italiano
Forse un bel giorno troppa gente vorrà mangiare cibi veri e non la cromia elegante dei piatti (i gamberi sontuosamente serviti con la nebbia del ghiaccio secco intorno, fanno schifo o no?). Forse scopriranno che il vino buono non è quello che costa di più. E il ritmo frenetico della vita moderna non fa bene agli innamorati. Il fitness in una palestra esclusiva con le nanopolveri non è il massimo del lusso. Quella che ti vendono i critici d’arte è solo speculazione. E quelli del mondo della moda hanno una deformazione della libido che li spinge ad allevare povere ragazze anoressiche convinti che facciano “scic”.
Cara Milano, è dal 1948 che mi accogli nelle tue braccia. Avevo dieci anni, essendo nato a Budapest nel 1938, quando il Partito comunista sottomise l’Ungheria secondo modalità staliniste e mio padre fu dichiarato “nemico del popolo”, essendo un socialdemocratico che rifiutava di confluire nel Partito. Per evitare di venire deportati in un campo di lavori forzati, fuggimmo in modo rocambolesco e chiedemmo asilo politico all’Italia. Mio Padre parlava sette lingue, e generosamente Milano l’accolse come impiegato in un’azienda d’import-export. Fino al 1976 fummo apolidi, lo Stato ungherese ci aveva privati della nazionalità.
E speriamo che oggi i milanesi almeno facciano molto sesso. Ma quello vero e non le 50 sfumature di nulla.
In quell’anno uscì in America il mio primo libro di poesie (Il guanto del sicario, Out of London Press) in italiano e inglese. Inviai il volume al Presidente Saragat, che in una lettera invitò me e i miei genitori a Roma, dove ci fu concessa la nazionalità italiana, per i miei meriti poetici.
Cibo finto, aria finta, arte finta, donne finte, sesso finto. Milano è una città finta, bandiera nazionale del nulla montato a panna e delle ingiustizie sociali. Quando sono pessimista penso che a Milano inizieranno a vendere l’aria pura come a Pechino; magari la porteranno direttamente dalla cima delle Alpi, trasportata grazie a un enorme tubo trasparente: un’ariadotto. Ma solo i ricchi potranno respirarla perché sarà molto cara. Vedremo… Ma io resto speranzoso. Cari milanesi, quando deciderete di trasformare le strade asfaltate della vostra città in boschi e canali avvisatemi che vengo a darvi una mano.
Nel 1968, mentre i giovani contestatori inneggiavano a Lenin, Stalin e Mao e consideravano la poesia un lusso borghese, con Ugo Carrega, il poeta visuale, fondammo il “Centro Suolo” per la vita e diffusione della poesia sperimentale. Ciò avvenne in via Benedetto Marcello a Milano in una cantina da dove stabilimmo rapporti con poeti d’avanguardia di tutto il mondo. Agli inizi degli anni ’70, nella Galleria Il Mercato del Sale, col poeta Nanni Cagnone ogni martedì demmo vita a incontri sulla “Pratica della Lettura”. Nel 1972 sposai Luisetta Brera e ci stabilimmo in viale Romagna dal trionfale duplice filare di alberi. Negli anni 1978-79, presso il Club Turati, in Brera, col poeta Cesare Viviani organizzammo i due seminari sulla “Poesia degli anni ’70” con la partecipazione dei maggiori poeti italiani. Nel 1994, nel Teatro Filodrammatici di Milano, con Giuseppe Conte, Stefano Zecchi e Roberto Carifi fondammo il “Movimento Mitomodernista”, per una poesia fondata sui valori della Bellezza e sulla lotta per la rinascita morale del paese. Nel 2006, Stefano Zecchi, quale assessore della cultura di Milano chiamò Giancarlo Majorino, Maurizio Cucchi, Roberto Mussapi, Antonio Riccardi, Alda Merini e me a fondare, quale comitato direttivo, La Casa della Poesia di Milano. Negli ultimi anni, quale sviluppo del mitomodernismo, con Paola Pennecchi, Flaminia Cruciani, Pietro Berra, Mirna Ortiz e Chicca Morone fondai il Movimento Internazionale Poetry and Discovery, ritenendo che la diffusione in azioni pubbliche della poesia sia fondamentale per la rigenerazione della civiltà. Via Ozanam è la prima via dove incontrai l’amore. Piazza Risorgimento è il luogo dove vissero i miei genitori. Il ristorante “Luigi” negli anni ’50 ospitava la squadra dell’Inter, dove conobbi il bomber magiaro Stefano Nyers e Mariolino Corso. In via Ricordi c’è un’Osteria dove ancora oggi incontro la realizzazione dei miei sogni, come tali, quasi segreti.
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Il Pio Albergo Trivulzio MARIA CRISTINA CANTÙ Parlamentare della Repubblica italiana
Ero una giovane di grandi speranze e come tutti i giovani, o almeno gran parte di essi, credevo di poter cambiare il mondo, marginalizzare le ingiustizie, tutelare i più fragili e stroncare quello che sembrava essere un malcostume diffuso che all’epoca aveva preso il nome di Tangentopoli e non ho trovato di meglio che occuparmene in prima persona, andando a “portare il mio contributo” a quello che allora come oggi si trovava al centro della scena di criticità assistenziali: il Pio Albergo Trivulzio. Forte di una storia pluricentenaria, nato da una visione di lungimiranza e da un gesto di grande generosità, era assurto alle cronache come luogo di malcostume. In qualche modo mi ero ripromessa di riuscire a raddrizzarne la rotta senza troppi riguardi per gli ostacoli che mi avrebbero posto nel raggiugere i miei obiettivi di migliorare qualità e quantità dell’assistenza e cura agli anziani non autosufficienti, in chiave universalistica per tutti i bisogni sanitari e socio sanitari, dimostrando concretamente che non disperdendo risorse pubbliche e donazioni private è possibile ridurre il costo sociale di chi necessita di essere istituzionalizzato secondo canoni di sicurezza e umanizzazione delle cure.
letto e funzioni o esternalizzando alcunché, ma ottimizzando servizi innovativi a elevata intensità di assistenza e cura – che, a onor del vero era stati pensati e introdotti dalla gestione precedente non certo immune da opacità, dispersione di risorse pubbliche e “carenze” valoriali –, consentì di consolidare la prospettiva di prevenzione delle fragilità geriatriche e della loro riabilitazione per quanto possibile oltre che di protezione delle cronicità. Nel giro di un anno e mezzo presentai al consiglio di amministrazione un bilancio con un avanzo di gestione di oltre 8 miliardi, assistenza medica, infermieristica continuativa nelle 24 ore, con un assenteismo sotto la fisiologicità: tutto il personale aveva contribuito a ravvivare il sogno del Principe Tolomeo. Effettuato il risanamento gestionale era in programma il completamento dell’ammodernamento strutturale, destinando gli avanzi di gestione a questo nobile principio e alla riduzione delle rette. Non solo così non fu, non solo non ricevetti nessun apprezzamento ma in qualche modo mi isolarono e fu così che compresi fino in fondo quanto fosse difficile cambiare il mondo!
Così, nell’agosto del ’92 è cominciata la mia personale “missione” al pat. Arrivavo da un luogo bellissimo, la Monteggia di Laveno, e volevo trasformare inconsapevolmente in un luogo di altrettanto benessere una struttura per i più bisognosi di attenzioni e cure che, per certi versi, aveva delle potenzialità straordinarie e, per altri, viveva nel passato. Ho dovuto acclimatarmi ai ritmi frenetici della città e debbo ringraziare di aver avuto sempre al mio fianco una famiglia che mi ha sostenuta nel mio sogno. Per giunta, l’essere andata ad abitare nel vecchio Palazzo del Principe Tolomeo mi ha fatto credere di dover effettivamente riportare quell’Istituzione all’onore etico e valoriale, oltre che gestionale e di servizio, che meritava. Dopo soli 5 anni avevo scalato un po’ di posizioni e nel ’97 mi trovai a svolgere le funzioni di Segretario Generale. Quando ho visto i conti dell’Ente sono rabbrividita: al pareggio di bilancio mancavano, vado a memoria, oltre 8 miliardi di vecchie lire, ma l’ingenuità e la forza della gioventù hanno fatto sì che non mi perdessi d’animo e cominciai con ruvidezza, ma contando sulla condivisione delle mie idee da parte della stragrande maggioranza del personale, sindacati compresi a tagliare quelle “rendite di posizione” che avevano contribuito al dissesto, raggiungendo livelli di partecipazione tali che coniugarono riequilibrio gestionale, potenziamento quanti-qualitativo dell’assistenza e orgoglio di appartenenza. Orgoglio e senso di appartenenza che, senza aumento quantitativo di personale né tantomeno dismettendo posti 36 | Lettera a Milano
Non bastava avere le competenze, la sensibilità, l’etica, i valori ma bisognava saper “prevenire” le variabili politiche che ti circondano, che sono molte più di quante ci si possa immaginare: piccolo “cabotaggio” che però se non riesce a dettare la linea, è sicuramente in grado di fermarne l’azione. Per questa ragione decisi di “impratichirmi” facendo un po’ di politica attiva per cercare di comprendere le logiche e i veti incrociati di forze contrapposte che molto spesso non riferiscono ai vertici le vere motivazioni per cui le decisioni sono adottate, non solo in totale spregio dell’interesse pubblico, ma talvolta anche neppure nell’interesse dei proponenti. Ma sono un’inguaribile ottimista e fatte un po’ di “esperienze”, sempre con il Pio Albergo Trivulzio nel cuore, ci sono tornata nel settembre 2015 e anche lì ho cercato di raddrizzarne la rotta sebbene non fosse in una condizione disperata come quella trovata vent’anni prima. Mi sono resa conto che in teoria per poter cambiare le cose bisognava poter arrivare là dove si scrivono le norme e fu per questo che inconsciamente, ma con l’altruismo e la dedizione che mi alimentano, ho accettato di candidarmi per una corsa che per molti versi parrebbe non avere chance di arrivare all’agognato cambiamento. L’aver sentito in questi mesi che il Pio Albergo Trivulzio è ritornato agli onori della cronaca per presunte carenze nella prevenzione, assistenza e cura mi ha trafitto il cuore. Lettera a Milano | 37
Milano, Covid 19 FLORIANA SPALLA Ricercatrice specializzata in scagliola
Lo so che la pandemia di cui siamo stati vittime è un unicum e che, per molti versi, alcuni suoi aspetti non erano prevedibili e sicuramente sono stati commessi errori, ma le profonde parole del Papa «Pensavamo di rimanere sani in un mondo malato» ci debbono far riflettere per rivedere le nostre sicurezze, tra cui il senso di appartenenza e di servizio per la comunità, indispensabili per ridare eticità al lavoro. Mi riprometto in qualche modo, sedimentate le polemiche, di comprendere cosa effettivamente sia accaduto in quel luogo “magico” che dovrebbe rappresentare la somma di generosità, dedizione e tutela dell’età geriatrica dei milanesi e, per quanto ne sarò capace e mi sarà data l’opportunità, di aiutare a riportarlo a modello di riferimento. Altrimenti avrò totalmente mancato l’obiettivo di ridare a Milano quel patrimonio di generosità in un sistema di welfare evoluto e integrato che in primis deve essere rappresentato da chi ci lavora, consapevoli che il lavoro di assistenza e cura è prima di tutto essere al servizio dei più fragili e più bisognosi. Mi auguro che l’eredità della pandemia che abbiamo vissuto ci faccia almeno riscoprire la solidarietà e l’etica valoriale, nella consapevolezza che qualcosa negli ultimi anni non ha proprio funzionato, tra cui il senso di appartenenza che sembra sia stato smarrito.
Vedo Milano. La vedo in televisione con la piazza del Duomo deserta. Due o tre persone in prospettiva lontana che si rapportano con la costruzione bianca, enorme. Una montagna che è al centro della pulsazione della città, copiata dalle stalattiti delle grotte, con guglie di cristallo appuntite. Il Duomo veglia, non dorme mai. Nel vuoto le persone appaiono ancora più piccole, lontane. Vivono la piazza nella sua ampiezza e guardano nell’aria come smarrite, annoiate. Un misterioso senso di inquietudine dilata lo spazio. Milano ferma è una utopia, quella dei quadri di de Chirico, vuoti. La gente non si parla. Il Duomo parla. Ogni statua sembra scendere al dialogo. Abbiamo bisogno di capire questa divina lezione che risale ogni parete. Non siamo più abituati a dialogare con il silenzio, con la lettura dei racconti biblici, biografici, delle tante persone chiuse nel marmo. Ci sfugge il significato delle sovrapposte statue che ci portano alle vette. Eppure tutti, affiancando il Duomo ed entrandovi, guardiamo in alto, selezionando le scritte, le immagini, e l’innumerevole fogliame stilizzato che ci addentra nel bosco della vita. Il Duomo, dominio della città spirituale protetta da secoli dalla Madonnina è guardato come la grande montagna di pizzo bianco. Incompreso. La periferia della città brulica di mercati. La gente si affanna a chiedere verdura, a rovistare tra i banchi. Si lamenta: siamo fermi, hanno chiuso il posto di lavoro. Milano senza lavoro scalpita, non perde il ritmo, la gente cammina veloce. Anziani e giovani hanno sacchi e borse piene di vettovaglie e alimenti. Passano bus semivuoti e sui marciapiedi camminano nonni e bambini. Milano non ha vento, l’aria è ferma e un pò grigia. Oggi si esce, si va in gita metropolitana. Ormai la città non è più solo centrale, è una città con tanti borghi satelliti. Ha guadagnato il verde periferico. Ci vuole almeno un’ora di metro per attraversarla, un’altra ora per andare in una città esterna. Questa grande Milano, non ancora sufficientemente grande da inglobare la Brianza, mostra i volti nuovi delle zone sconosciute. Manca ancora la cultura delle periferie, dove puoi trovare la famosa chiesetta medioevale ricca di affreschi, la villa padronale restaurata, il castello di caccia, o il nuovo centro artistico nell’ex fabbricato industriale. Una Milano in espansione che vuole la gente proiettata a espandersi, e una popolazione in espansione che trova difficile misurare le dimensioni metropolitane. Milano in espansione verticale. Vi era la Torre Velasca, il Grattacielo Pirelli, la Torre Branca al Parco Sempione, la Terrazza Martini. Adesso vi è CityLife. Nessuno sale a dominare la città. Negli uffici si lavora.
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Grattacieli strani, contorti, sfidano le leggi gravitazionali. Sono rifugi costosissimi, esibizioni di potere, non adatti alla gente comune.
In lontananza salgono al cielo le costruzioni di CityLife. Ridotta copia dei grattaceli mondiali che spazzano l’atmosfera come i pettini nei capelli.
Qui le distanze sono verticali, irraggiungibili con le scale. Si misurano in piani di ascensore. Milano europea, Milano mondiale. Anche questa nuova Milano vista da terra è una utopia. Una bella scenografia dalle pareti riflettenti il verde e le montagne.
Piccole esibizioni di potere umano guardati dai monti innevati.
Ora passa una sola persona, con una mascherina sul volto… Siamo tutti a casa. Alla sera i condomini sono pieni di luci. Domani non si lavorerà. Covid 19.
«La nonna mi diceva…», trapasso delle esperienze degli anziani, capaci di fronteggiare gli eventi, come risorti, a custodia dei nipoti, dei figli. Bocciato. Frenato. Scomparso. Tutto è denaro, esperienze sorpassate, abitudini differenti. Scienza e tecnica. Geneticamente modificato. Non danno statistiche delle nascite. Quanti nuovi percorreranno l’avventura della vita? Quanti boschi, foreste, animali, acque, campi, si rigenereranno, a dispetto delle distruzioni.
«No non siamo saliti, e poi siamo rimasti bloccati in casa». Strane situazioni, di chi non si muove più. Un piccione cammina, cammina lungo il marciapiede del condominio, unico abitante in cerca di briciole. Balconi milanesi che fioriscono di giallo, osservati, unico sfogo di chi non esce da casa. Balconi che vivono la giornata, immagazzinati di mobiletti, scope, attrezzi, pattumiere e parabole.
Quanta vita, vitalità, voglia di fare è ancora accesa, come un tizzone, entro questa metropoli, unica al mondo, come compressa ma non sopita, come tranquilla ma non dormiente, come imbrigliata entro le case ma sempre reattiva ai richiami solidali. “Milan, col cœur in man…”
Balconi che nella giornata di sole si popolano come le spiagge al mare, e in quelle di pioggia si popolano di visi dietro i vetri. Milano silente, muta. L’operosa Milano trattiene a fatica la irrequeta voglia di fare, di andare, di costruire. Passano giorni. Soli a pregare davanti allo schermo. A credere, senza momentanea eucarestia che la vita c’è, ed è vera. Milano delle ricette inviate, degli inviti a cena virtuali, dei soccorsi impossibilitati a soccorrere. Sirene di autoambulanze, appelli, solitudini, malattie, decessi. Bombardamenti di informazioni che portano alla depressione di un popolo attivo, insuperabile per creatività, ingegno, capacità di risorse proprie. Popolo millenario, vaccinato dalle guerre e dalle pestilenze, dalle carestie e dai cataclismi, popolo che non si arrende all’invisibilità. Milano dei parchi vuoti dove ostinatamente gli alberi fioriscono ancora, gemmano e si rivestono di foglie. Non sono virtuali, non sono alberi finti. Sono ancora popolati da uccellini, insetti, vermi, che non vediamo.
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Torre Velasca, Milano, 2013, olio su tela, 156×153 cm. 42 | Lettera a Milano
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A fronte: Velasca da Palazzo Richard Ginory, Milano, 2016, olio su tela, 115×171 cm. Alle pagine seguenti: Velasca gialla, Milano, 2017, olio su tela, 141×107 cm. 44 | Lettera a Milano
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Milano, entrata e uscita NICOLA VITALE Poeta, saggista e pittore
Tempo fa, nei momenti di sconforto, prendevo l’auto e di notte mi avventuravo nel piccolo quartiere a ridosso della ferrovia, limitrofo al “villaggio dei giornalisti” (la cosìddetta “Maggiolina”). Lì ho passato dai sette ai dodici anni, un tempo lunghissimo in quella fase di preadolescenza. Anni dove le cose si fissano dentro come marchi inalterabili. Un quartierino felice senza negozi, senza traffico, regno dei piccoli in bicicletta. Villette, giardini privati con fontanelle che da via Dario Papa si articolavano tra via Torelli e via Corti, Bescapé, fino a via Lepanto, contro la ferrovia come limite invalicabile di un mondo esterno ed estraneo. Una sacca di quiete, involucro protettivo della nostra immaginazione. Quel luogo privilegiato è rimasto la bolla senza tempo, la boccia con paesaggio e neve. Il non esserci più tornato per trent’anni, lo aveva conservato intatto. Ci andavo di notte, proprio perché il giorno non cancellasse quel pulviscolo che hanno tutti i ricordi più radicati. Nelle penombre, senza avere il coraggio di uscire dall’auto, tutto era rimasto uguale, ancora lì le facce del nostro passaggio scalmanato, incredibilmente privo di presagi di futuro. In quei giri notturni non so bene cosa cercassi, forse la nostalgia di un sogno intatto, forse il segreto del passaggio, dell’uscita dal tempo opprimente dell’età di mezzo. Se un’entrata c’era (ed era lì tra quelle strade), ci sarebbe dovuta essere anche un’uscita, per uscire dalla sfera di vetro con neve e rientrare nel mondo, magicamente risolto. Quello che allora era il mondo reale, non so perché mi sfuggiva ogni anno di più. Trasferiti in centro tra Sant’Ambrogio e San Lorenzo, paradossalmente non erano le magnifiche basiliche i miei luoghi di allora, ma la “Super Pista” di San Babila, nella stazione della metropolitana, dove si provavano i bolidi elettrici scala 1:24. Si preparavano le vetture, si trapanavano i telai per alleggerirli, si riavvolgevano i motori truccatissimi, si assottigliavano e ungevano le ruote per aderenza in curva. Ci passavo anche più di una volta al giorno tra una lezione privata e l’altra: il mio destino nomade dopo il trasloco. A Sant’Ambrogio, poco più in là, rimaneva, da un tempo immemorabile la cripta dei santi scheletri eleganti, che ridevano eternamente, (almeno questo mi sembrava con raccapriccio). Quindi, procedendo in quella direzione, via San Vittore: il Museo della Scienza e della Tecnica, vero itinerario del mondo, realtà mitica della tecnica, prima che diventasse un accessorio dell’utile. Ho continuato ad andarci in quel museo, ispirazione per riscoprire una realtà, là di nuovo precipitata nella sua essenza, che invece la città perdeva di giorno in giorno come se si svuotasse nel nulla.
La Scala, dove, senza premeditazione si saliva al volo sul loggione con cinquecento lire. Le scoperte erano tutte al chiuso, tra le mura di teatri, sale da concerto, aule scolastiche, come quelle di Villa Simonetta in via Silicone, accanto al Cimitero Monumentale, appena ristrutturata, dove studiavo musica. Milano così legata agli affetti che scorrevano, era dentro le case degli amici dove si faceva tardi, a volte l’alba. Dove si scoprivano le edizioni dei quartetti di Schumann, delle sonate di Brahms, delle sinfonie di Mahler. Via Lanzone con il grande terrazzo e il pergolato, casa di Raffaele dove ho passato la metà del tempo di quegli anni privilegiati. Ma dall’altro lato la città era sempre più sfuggente, difficile, senza un comprensibile passato, si rimpiccioliva sempre di più, per concentrarsi in luoghi circoscritti, dove cercare di addensare tutti i ricordi e le aspettative di un futuro che, come una combinazione, faceva fatica a venire: laborioso arrabattarsi per passare di là, in quella strettoia che è la ricerca di sé. In questi passaggi tra me e il mondo, la parentesi universitaria: Ca’ Granda, il magnifico edificio cinquecentesco, sede antica dell’Ospedale Maggiore che ospitava gli ultimi bagliori di una luce intellettuale che si spegneva. Mi sono spesso chiesto cosa respingeva la mia adesione alle cose? Perché non mi ci ritrovavo? Non mi affascinava nulla che fosse lì bell’è fatto con pretese di senso che non aveva. Ho compreso, dopo essere ripassato troppe volte di notte nel quartiere tra le villette di quella periferia che si allungava la domenica verso Monza, che le case, gli edifici delle fabbriche, le chiese, i monumenti della città, sono diventati un involucro indifferente al sorprendente artificio delle contese, delle evasioni metafisiche, delle autoconvinzioni di una realtà assente. Facendo finta di nulla non ci si accorge che la città è sparita. Milano come Roma, Venezia, forse anche Torino, Bologna e sicuramente Firenze, sono i musei antropologici sulle lapidi del passato, dove ci chiediamo cosa fare per evitare la noia del momento. Connessi e volati via sulla rete, in altri luoghi momentanei. Ritornati per aprire bottega, preoccupati dei turisti che ritardano. Eppure queste città, che hanno smesso di invecchiare, devono rispecchiare qualcosa che forse è già lì ma non vediamo, come un ritorno in una zona franca, in cui si creda tutti insieme che qualcosa (e in questo caso la città), Milano «esiste».
Poi, i luoghi milanesi sono cresciuti con i primi baffi da diciassettenne, con le prime amicizie, i primi amori: la Cineteca San Marco che proiettava serie dei grandi registi tra nuvole di fumo. 48 | Lettera a Milano
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Ciao Milano DAVIDE OLDANI Chef internazionale
Lo so, ti sorprende che ti saluti in questo modo, un tempo ti avrei detto buongiorno e ti avrei dato del lei. Ma allora ti vedevo lontanissima; in parte perché ero un bambino e le distanze – così come le altezze – facevano parte di un mondo gigantesco, ma anche perché non eri facilmente raggiungibile come invece sei oggi. Io sono nato in città, questo riporta la mia carta d’identità e questo è per me motivo di gioia, ma sono cresciuto in campagna, e ne sono ugualmente felice. Adesso che c’è più confidenza fra me e te posso confessartelo: non mi è mai piaciuto il nome periferia, ho sempre preferito pensare di vivere in campagna, e non per snobismo, davvero; come tu mi mettevi effervescenza, così il paese dove vivevo mi metteva tranquillità. Due luoghi diversi, uno per crescere, l’altro da cui andare e venire. Quando ero piccolo, arrivare da te più che una passeggiata era un autentico viaggio. A pensarci bene forse dovrei continuare a darti del lei, per sentire ancora l’entusiasmo che provavo quando dovevo raggiungerti, fare “tutta quella strada” e metterci “tutto quel tempo”. Adesso, per mia figlia Camilla Maria andare a Milano è più semplice, quando ero bambino era come andare al mare. Mio padre mi raccontava che fino a qualche anno prima ci arrivava soltanto il treno “Gamba de legn”; una vera salvezza se si pensa che prima del Gamba un paesano della campagna che doveva trovarsi in zona Brera all’alba doveva partire da Cornaredo a notte fonda. Comunque, salvezza o no, era l’unico mezzo che attraverso via Novara ti portava in città. Quando ero ragazzino poi sono arrivati gli autobus delle Autolinee Rimoldi, che hanno accorciato le distanze, ma non così tanto. La mia mamma, invece, da te ci veniva ogni mercoledì, a rifornirsi per il negozio di tessuti. Quello era un giorno di festa per me e per mio fratello Walter, uno in più ogni settimana, oltre alla domenica, perché lei tornava sempre con il “pan tramvai” e qualche volta anche con altri regalini. Dai che lo sai che cos’era il “pan tramvai”… uno spuntino semplice ma energetico – semplificando un po’ era un pane con l’uvetta –, lo portavano con sé i passeggeri del tram che arrivavano da Monza e che dovevano affrontare un viaggio molto lungo che poteva durare anche diverse ore.
Il fatto che tu mi fossi necessaria non ti ha resa meno bella ai miei occhi, anzi. Più ti conoscevo e più mi piacevi, e ci ho pensato non una volta sola, credimi, di aprire un ristorante in uno dei tuoi meravigliosi angoli. Ma pur amandoti tantissimo, ho finito sempre per scegliere di restare dove ho sempre vissuto, e anche il ristorante ho deciso di aprirlo…“in campagna”. Le ragioni sono diverse ma nessuna legata a pensieri negativi su di te – io ti voglio bene e tu mi hai sempre ricambiato, nel 2008 lo hai fatto addirittura con l’Ambrogino d’oro – e forse il motivo vero è soltanto uno: nonostante tutti i cambiamenti, continuo a sentirmi il Davide che dalla città va e viene e penso che se tu fossi il mio quotidiano non sarebbe più la stessa cosa. Ecco, senza sembrarti eccessivamente ossequioso vorrei continuare a mantenere fra noi quella distanza, quel rispetto che non mi hanno mai tolto la voglia di venirti a trovare, il piacere di riconoscerti nelle tue tradizioni e nello stesso tempo di scoprirti nelle tue novità e apprezzarti nei tuoi mutamenti. Ed è proprio quel modo di essere città di tradizione e innovazione che ho voluto onorare dedicandoti il mio “Zafferano e Riso alla milanese D’O”. Nell’immaginarlo mi è piaciuto pensarti con i tuoi sapori e i tuoi colori. Per questo ho voluto un piatto semplice ma invitante, legato alla tua storia nella sostanza ma aperto al cambiamento nel modo in cui si offre all’ospite; per questo l’ho preparato con il riso della tradizione ma l’ho vestito con un cerchio di zafferano che vuole essere un simbolo di circolarità intesa come accoglienza, come stiamo qui – dentro – diversi ma insieme. Come un percorso che non finisce mai, ma ricomincia sempre. Per questo ho voluto che ti somigliasse nel suo concepire la convivenza fra gli ingredienti che si equilibrano nei contrasti e che hanno ciascuno un proprio carattere, ma si armonizzano nel palato e si rinnovano, di continuo, in sempre nuovi abbinamenti.
Così, se nei miei pensieri il viaggio verso la città era “lungo”, il ritorno dalla città era… dolce! Ecco perché, nei miei ricordi d’infanzia, tu sei lontana ma dolcissima.
Non posso negare che il risotto giallo abbia un ruolo importante – nella tua storia e nella mia carriera di cuoco – ma come ti ho scritto prima tu per me non sei solo quello. Sei anche la nebbia. Quando c’era. Oggi hai perso parecchia di quella coltre che ci inghiottiva tutti e che per certi versi aveva un che di magico, ma a me non dispiace per niente quello che adesso si vede di te.
Da ragazzo, cara Milano, sei diventata una necessità. In città ci venivo per studiare, perciò sei stata il mio trampolino di lancio per il lavoro. In realtà ci venivo anche qualche sabato pomeriggio con gli amici, a Le Cinema – la discoteca di via Ricciarelli – ma niente di più, perché oltre all’impegno della scuola c’era il calcio, tantissimo calcio, e anche quello era tutto giocato in “campagna”.
E per me sei anche l’Inter. Anzi Inter e Milan. “Baùscia” e “casciavìt”. Io “casciavìt”, interista. Ma anche in questo caso, come per la nebbia, mi piace pensare che certe distinzioni si siano diradate per lasciare il posto a quello che si deve vedere: una sana competizione. Ma sì, che sia un ciao o un buongiorno, il mio saluto è un caldissimo arrivederci… Milano.
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Sono nato in una Milano grigia GIANNI MAIMERI Imprenditore
Grigia nei colori delle vie e delle piazze, nei vestiti della moltitudine di persone che la popolavano, nelle folle, nelle aule di scuola. Sono nato in una casa piena di colore.
Milano? Quanti conoscono il vero carattere dei milanesi frutto prima delle influenze austriache e francesi, dopo dei flussi migratori dal meridione e ora di quelli internazionali. Ed è proprio da queste mescolanze, da questi incroci di gente, culture, colori e suoni che la città è sempre cresciuta, si è evoluta.
Colorata nei quadri appesi alle pareti, nei libri, nella musica, nei personaggi che la frequentavano, negli sguardi. Anche quando, ancora bambino, mio padre mi portava con lui al lavoro dopo avere attraversato una città grigia entravo in un fantastico mondo di colori. Oggi tutto è cambiato. È come se lentamente la città si fosse sempre più avvicinata al mio mondo, alla mia isola colorata. Oggi per le strade siamo investiti da mille colori, persino la nebbia, quando ancora c’è, sembra meno grigia, più colorata. È come se lentamente tutta la città avesse cambiato linguaggio adottando quella lingua che avevo conosciuto e imparato fin da piccolo. Oggi sembra che tutto ciò sia scontato, sia così da sempre ma non lo è. Ma questo bellissimo cambiamento non si è accompagnato a una reale crescita della creatività, delle energie e dello spirito della città, anzi, l’energia che si esprimeva nell’entusiasmo dei giovani, nei movimenti, nella cultura, nell’arte e in tutte le manifestazioni umane, si è disciolta nella trasformazione colorata. È come se il prodotto di questa forza che si è formata e che è cresciuta nel grigiore di una città spenta l’abbia accesa via via disperdendo e perdendo se stessa. Soltanto in questi ultimi anni, talvolta, in una città ormai internazionale, caleidoscopica, torno a respirare qualche barlume di quella forza che ha saputo trasformarla. Quel bisogno di confrontarsi, di interagire, di mettersi in gioco da cui, soltanto, può scaturire in modo dirompente cambiamento, rivoluzione, evoluzione; sembra riemergere non dal grigiore di un tempo ma dai colori del presente. Sembra che vi sia quasi una sorta di alternanza dove l’energia imprigionata nel presente si trasforma nel presente del futuro pronta per essere di nuovo trasformato. E noi tutti vediamo nel cambiamento dei colori l’energia che sprigiona il cambiamento. Tutti, in Italia e nel mondo, plaudono al cambiamento di Milano che oggi è considerata una delle metropoli più cool e di tendenza a livello internazionale. Ma quanti conoscono le vere bellezze di 52 | Lettera a Milano
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Sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita LUCA FORMENTON Editore e accademico italiano
«… i corsi l’uno dopo l’altro desti di Milano dentro tutto quel vento.» Vittorio Sereni
Cara Milano, per me sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita. Ti ho lasciata da piccolo e sono ritornato da adolescente. Via Moscova negli anni Cinquanta attraversata per andare a giocare ai giardini pubblici e sbirciare da un buco tra assi sconnesse, come nella famosa fotografia di Cartier Bresson, le macerie della guerra, finita da poco; lo zoo, l’odore di paglia bagnata delle gabbie dei leoni e il pony con il carretto, le automobiline di ferro a pedali a noleggio dietro il Museo di Storia Naturale, le foglie schiacciate dell’autunno.
Porta Romana, la Crocetta, Panarello, sullo sfondo la Torre Velasca, immortalata per sempre da Sordi che cade nella tromba dell’ascensore («Che fa Marchese, spinge?»), gli uffici de Il Saggiatore in via San Senatore e, al piano di sopra, le spazzole dei fratelli Ponzini. Cara Milano, oggi mi divido tra il Naviglio Grande, un bel posto dove abitare, lo guardo all’alba, deserto, con i refoli di vento che sollevano la polvere delle notti di folla, la nuova Isola, un aguzzo downtown contemporaneo, l’idea della metropoli finalmente arrivata, e via Melzo dove approdo ogni mattino, che nonostante l’invasione del nuovo, rimane sempre un po’ il Vicolo del Mortaio di Mahfuz, dove ancora tutti conoscono tutti. Cara Milano, so che ora non ti lascerei per un’altra città…
Cara Milano, alle sette della mattina il grido dello stracciaio e gli organetti in città. Gli anni Sessanta come l’Ottocento. La scuola Rinnovata Pizzigoni al ponte della Ghisolfa, tutti in giardino con i vetrini affumicati a guardare l’eclissi di sole del 1961. Un primo giro con la nonna da un capolinea all’altro della metropolitana (la “metro” per i milanesi), linea rossa appena inaugurata. Era un’epoca in cui le lettere, il telex e i telefoni, in genere neri e pesanti, non erano ancora stati sostituiti dal web, dalle mail e dai cellulari. Erano i tempi della Arnoldo Mondadori Editore in via Bianca di Savoia 20: per noi ragazzi dei primi anni Cinquanta un indirizzo magico, forse la casa di Paperino e Pippo, e il posto dove spedire la richiesta per la promozione a lupetto delle Giovani Marmotte. Poi un vuoto, l’esilio dorato in una provincia veneta, e il ritorno nel buio degli anni Settanta. Le grandi nebbie, il 15 sferragliante, preso in piazzale Baracca, per San Siro, grande fantasma a strisce avvolgenti prima degli scempi di “Italia ’90”. Qualche vecchia piccola pensione in zona Loreto, via Porpora, vicino al liceo, Hotel Cuba, Villa Xenia, dove pensare di entrare e perdere l’identità per sfuggire ai conflitti della politica e dell’anima. O ascoltare le opere con le cuffie nella nastroteca della Sormani e studiare i tomi di filologia nelle aule polverose del Circolo Filologico e andare all’ultimo spettacolo dell’Obraz, che cominciava all’una di notte, con le sedie strettissime, dopo il toast dal signor Moscatelli, nel locale di corso Garibaldi, con il video-jukebox e Gianni Morandi. Pomeriggi nascosti in prima galleria alla Scala, ad ascoltare in silenzio assoluto le prove dell’Otello di Carlos Kleiber. La Scala, da dove non avrei voluto mai uscire, dove avrei voluto vivere tra quinte, retropalco, camerini e buca d’orchestra. Cara Milano, per un giovane amante di letteratura, moderato attivista politico, poeta mancato, sei stata in quegli anni Settanta un porto accogliente, antico e moderno, da Bonvesin della Riva a Giò Ponti. È stato difficile abbandonare quei giorni e affrontare quelli apparentemente grigi del lavoro. Corso di 54 | Lettera a Milano
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La Milan dei ghisa, della scighera e dei tram LORENZO MAFFIOLI Direttore sanitario aziendale dei Sette Laghi
Cara Milano, ci conosciamo da oltre mezzo secolo e ci frequentiamo con un meccanismo ferro-calamita che fa sì che, nonostante i distacchi forzati, questi non possano che essere transitori e instabili. Ma perché questa attrattività? Il destino ha voluto che ancora nel grembo di mia madre mi trasferissi da Como a Milano perché mio padre aveva vinto un concorso all’ospedale Niguarda e, subito dopo la nascita, medicina, ospedali, Milano si sono intrecciati nello scorrere dei giorni. Indubbiamente, a Milano la sanità è una delle dee che rendono importante la metropoli. La rendono famosa, invidiata, apprezzata e nel contempo criticata, processata, maltrattata. Fin da bambino accompagnavo mio padre tra i padiglioni del Niguarda. Era un’opera monumentale già allora. Monumentale in tutti i sensi. Il rigoroso succedersi di quelle lastre di marmo in stile mussoliniano ne facevano intuire anche al primo approccio che lì non si scherzava. E così era. Tutti lavoravano con grandissima serietà e rispetto dei ruoli e i pazienti con le loro famiglie erano fiduciosi e grati ai medici e agli infermieri (“Al dottor e al confessor besogna nascond nagott”). L’unico momento di festa era, per me bambino, quando in occasione dell’Epifania, si andava nell’ospedale hub (c’era già!), al Policlinico, e lì, a fronte di un biglietto, veniva dato un dono a ciascun figlio di ciascun dipendente della Ca’ Granda. Anche questa era la grandezza di una Milano (e di un’Italia) che non c’è più! Tutto questo faceva famiglia: era la “Milan cun’t el cœur in man”. La Milan dei “ghisa”, della “scighera” e dei tram. Sembra una Milano lontana anni luce da quella di oggi. Era una grande città, ricca, accogliente, piena di potenzialità, solidarietà, affetto. La città dei cantastorie, degli Svampa, dei Gaber, dei Simoncini: una città che poteva apparire romantica ma che era aperta alle Avanguardie. Frequentando, sempre a quell’epoca, con mia mamma e Bruno Gandola, l’Accademia di Brera, si sentiva un brulicare di esperienze, di idee, di contestazione (la metà degli anni Sessanta), si vedeva che il modo di pensare, di vivere, di colorare il mondo assumeva forme mai viste prima, dilatate, sfumate, reinventate in giochi di luce e di ombre sotto il cielo dell’innovazione.
E così gli ospedali. Sono cresciuti, erogano prestazioni più moderne, hanno camere più confortevoli, rispondono al meglio alla domanda di sanità. Ma hanno perso, per una serie di motivazioni ben note da un punto di vista di evoluzione di economia sanitaria quel ruolo che, inconsciamente, avevano, in passato, di una visione olistica del paziente. Oggi rispondono puntualmente e precisamente al bisogno acuto del paziente. Tutto il resto è compito di altri. Dal punto di vista di economia sanitaria è assolutamente giusto. Ma gli altri sono insufficienti e poco creativi. La mia vecchia Milano era anche quella dei Martinitt e della Baggina, quella grande mamma che dava una mano a chi non ce la faceva. Ma con il tuo aiuto, i Martinitt hanno dato figli che hanno contribuito a far crescere l’intera Italia. Cara Milano, hai la forza, il potenziale e la credibilità per dare impulso a tutta l’Italia nella rinascita post-Covid: ciò che si è sviluppato con te è sempre cresciuto e ha sempre rappresentato una guida per lo sviluppo della nazione. Quello che ti si chiede oggi è ancora una volta di essere il modello di sviluppo economico e morale, ma per fare questo devi guardare oltre, far sviluppare gli embrioni di quella innovazione liberale e umana che hanno reso attrattivo il nostro modo di vivere e operare. È vero, il mondo è cambiato e forse hai ragione tu. Non c’è più spazio per il romanticismo e bisogna fare un po’ di scorza sennò i mercati internazionali ti mangiano. Ma siamo davvero sicuri che debba essere così? Tertium non datur? Sono sicuro che qualcosa si sta già muovendo nella tua mente e nel tuo cuore e sei pronta alla rinascita. Forza! Tuo affezionatissimo.
Si correva in bicicletta ad Affori, alle montagnette, su strade sterrate, ma in sicurezza. Ora sono comparse piste ciclabili con percorsi improbabili, tra buche e stop improvvisi su strade di grande scorrimento, disegnate da urbanisti quasi ispirati da un’arte astratta della viabilità onirica. Cara Milano, oggi ti ritrovo cresciuta, una grande bella metropoli, evoluta con l’adolescenza socialista e la crescita di stampo liberale morattiano. Da Brera al bar Magenta, alla movida dei Navigli, ai giardini verticali e i grattacieli di cristallo ti si ritrova ora in una dimensione adulta e internazionale, ma in qualche modo, più algida. 56 | Lettera a Milano
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Ventisei indirizzi a Milano AMBROGIO BORSANI Scrittore e creativo
Cara Milano, mi ricordo bene di te, delle strade piene, dei negozi aperti, dei portoni chiusi, quando appena sbarcato dalla provincia giravo a vuoto. I primi tempi eri sospettosa, ma dopo aver visto che sbandavo, battevo i denti, tossivo, tiravo qualche moccolo di impazienza e però ero un ragazzo di buona volontà, cominciasti a slacciare i bottoni della camicetta. Appena arrivato il mio primo indirizzo fu via della Braida, una stradina pedonale che ora si trova in centro, a pochi metri da Porta Romana, ma un tempo doveva essere periferia dato che “braida” anticamente significava prato. Negli anni Sessanta lì cominciai a frequentare una scuola di giornalismo che mi introdusse nel mondo della pubblicità. Via Braida portò numerose offerte di lavoro e dovetti seguire il percorso di una involontaria carriera di slogan mentre sognavo di fare libri. In editoria non mi voleva nessuno, in pubblicità mi volevano tutti. Consumai 15 indirizzi legati a 15 agenzie di pubblicità. Prima largo Quinto Alpini, poi via Puccini, via Fatebenefratelli, via Leopardi, piazza del Carmine, piazza Erculea, via Carducci 12, via Pasquale Paoli, via Appiani, corso Europa, via Borgonuovo, corso Garibaldi, via Lovanio, via Durini, via Monti. Poi un percorso editoriale mi portò in largo Treves, via Vittorio Veneto, via Battaglia, largo Richini. Contemporaneamente c’era stato un percorso da docente iniziato in piazza Diaz, proseguito in via Noto, via Brera e via Poerio. Questo mio sregolato nomadismo professionale mi ha portato a entrare in confidenza con molti quartieri. Ascoltavo il tuo cuore, città, in ogni zona trovavo qualche angolo che valeva la pena di essere amato. I cortili, le insegne, i portoni, le portinaie, i bar, le latterie, i gatti, i barboni, i manager, le puttane, i caffè, le ragazze perbene, i ristoranti, le librerie, i cinema, le bancarelle, quando a Milano erano numerose. Ho abitato prima in un sottotetto di via Carducci 4, poi in via Lanzone, ora sto in via Orti, che fa angolo con via della Braida. Arrivato al ventiseiesimo indirizzo il cerchio si è compiuto. Sono tornato alla casella di partenza. Non so se farò un nuovo giro dell’Oca. Cara Milano, se all’inizio facevi un po’ la smorfiosa, poi ti sei spogliata e sei venuta a letto nuda con me. Sono cose che non si dimenticano. Via degli Orti è un villaggio nella città, mantiene ancora un profilo familiare, anche se le agenzie immobiliari lavorano per aumentare la popolazione signorile e diminuire quella storica. La strada si è riempita di ristoranti, attualmente sono 12 in 300 metri. Più una gelateria, una pasticceria, 3 bar. Un posto di ristoro ogni 20 metri. Ma rimane una via straordinaria, unica. Al numero 19, dove ora abito e tengo il mio ufficio, negli anni Cinquanta si era installata una colonia marchigiana, Giò Pomodoro, Arnaldo Pomodoro e Giulio Cingoli, più vari ospiti loro compatrioti di passaggio. Quando sono arrivato io, negli anni Novanta, i due Pomodoro avevano già cambiato indirizzo da tempo, mentre Giulio Cingoli abitava sotto casa mia. 58 | Lettera a Milano
Era lui il vero protagonista del 19, fedele fino alla morte. Personaggio eclettico, cartoonist, regista, produttore, affabulatore. Arrivato da Ancona negli anni Cinquanta Cingoli riuscì con la fantasia dei suoi disegni a farsi assumere in Rai. Sono sue molte sigle di programmi televisivi di quegli anni. Aveva creato Caroselli per Cinzano, Lambretta, calze Sisi, tovaglie Zucchi, Raid, Pagine Gialle e molti altri prodotti. Aveva fondato una casa di produzione, la Orti Film, che negli anni Sessanta raccoglieva l’underground italiano e molti bravi disegnatori. Arrivò a 75 anni a firmare il suo unico lungometraggio come regista e disegnatore, Juan Padan, tratto da un racconto del suo amico Dario Fo. In via Orti c’era la sezione del Pci Carlo Marx, ora ha cambiato nome. Cingoli ogni mattina alle 6 andava a prendere L’Unità e la attaccava sul pannello appeso fuori dalla sezione. Molta gente si fermava a leggere il giornale e io volentieri scendevo dal marciapiede per non disturbare i lettori di strada. Negli anni Sessanta anche Miuccia Prada, che abitava in Porta Romana, frequentava la sezione del Pci Carlo Marx, raccontava Cingoli. Quando saliva da noi a prendere il caffè Giulio era un torrente vorticoso di storie, di figure della Milano anni Cinquanta e Sessanta, della Rai. Se ne è andato nel 2017 lasciando un grande vuoto in via Orti. Nel cortile del 19 c’è un loft dove ha avuto il suo studio Gastone Novelli, artista eclettico nato a Vienna nel 1925 da padre italiano e madre austriaca. A 18 anni si era unito ai partigiani ed era stato condannato a morte. La pena poi era stata commutata in carcere a vita grazie a un intervento della madre, Margherita Mayer von Ketchendorf, nobildonna austriaca. Nel 1948 Novelli si trasferì in Brasile. Nel 1955 tornò definitivamente in Italia dove si unì a gruppi di avanguardia, Emilio Vedova, Piero Dorazio, Cy Twombly. Era molto legato anche al mondo della letteratura, Emilio Villa, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani. Espose in importanti gallerie e alla Biennale del 1968, quando scrisse su una tela: “La Biennale è fascista”. Si trasferì nel loft di via Orti 19 dove nel dicembre 1968 venne colto da malore. Portato in ospedale morì per una complicazione chirurgica. Il loft in seguito venne occupato da Adrian Hamilton, un fotografo inglese che aveva fatto qualche foto per le mie campagne pubblicitarie. Negli anni Settanta c’era un altro fotografo inglese molto famoso chiamato David Hamilton, faceva foto erotiche di adolescenti con effetto flou. Era la disperazione di Adrian, quando lo costringevano a tirare fuori il suo cognome tutti dicevano: «Ah, Hamilton, ho visto le sue ragazzine sui giornali». Ogni volta lui sbottava stizzito: «Io sono Adrian Hamilton e vivo a Milano, non sono David di Londra». Rimase diversi anni nel loft. Dopo di lui arrivò una stilista giapponese che disegnava borse. Non scambiò mai una parola con la gente del cortile. Non si sa nemmeno se avesse il dono della parola. Nel 1980 Ugo Lettera a Milano | 59
Carrega portò qui al numero 16 il suo “Mercato del Sale”, che era nato in via Borgonuovo. Uno spazio per mostre dedicate alla poesia visiva e alla sperimentazione dei linguaggi, raccoglieva figure delle Avanguardie e pubblicava libri d’artista ora molto ricercati dai collezionisti. Al numero 7 c’era un restauratore di mobili, il Fabris, che ogni giorno di primo pomeriggio usciva dal portone su una bicicletta. Tornava alle sei col portapacchi pieno di libri. Nel loft che aveva in cortile lo spazio per il restauro dei mobili occupava trenta metri quadrati, gli altri cento erano coperti da cataste di libri che arrivavano al soffitto. Se ne è andato qualche anno fa e ora il figlio Andrea gestisce su Amazon un patrimonio di 40.000 libri. Negli anni Novanta c’è stata la libreria per ragazzi di Jacopo Cipriani, dove adesso ci sono le fantasie varie di Ciasmo. Poi è arrivato il negozietto di libri, quadri e sorprese di Marco Gramigni. Il comitato di quartiere ha installato all’incrocio con Porta Romana una vetrinetta montata su un palo per il Book Crossing, un’iniziativa straordinaria a cui ogni quartiere dovrebbe aderire. Ora proprio qui al 19 Fabio Accardi ci ha portato la libreria Punto Einaudi, un vero miracolo letterario. E quindi la Orti non offre solo cibo per la pancia. Cara Milano, sei diventata importante, hai aumentato le proposte culturali di mostre, teatri, concerti, eventi. Speriamo che non ti monti la testa perché io ti amo così come sei. Non ti ho mai tradito, se qualche volta ho flirtato con Roma Bangkok Napoli o New York, sappi che erano scappatelle, lo facevo solo per togliermi di dosso l’infamia della monogamia. Come città non ho amato che te. Tuo affezionatissimo, Ambrogio Borsani.
Particolare, Veduta Milano, 2017, olio su tela, 103×85 cm. Alle pagine seguenti: Velasca, via Larga, Milano, 2017, olio su tela, 172×143 cm. 60 | Lettera a Milano
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Milanona VINCENZO TRIONE Accademico, storico dell’arte, critico d’arte, giornalista
Milano, la città che sale. Per me, Milano coincide con una delle vette del Futurismo pittorico. In filigrana, espliciti i richiami a un passaggio del Manifesto tecnico, dove si parla di «complementarismo congenito», una sorta di incrocio tra Divisionismo ed Espressionismo: «Le nostre sensazioni pittoriche non possono essere mormorate […]. Noi le facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che squillano fanfare assordanti e trionfali […]. I nostri quadri […] saranno il giorno più fulgido». La città sale, dunque. Siamo al centro di una danza esaltata da contrasti luminosi tra il rosso e il verde, tra il blu e il giallo. In questa sinfonia del lavoro, della forza e del dinamismo, si succedono filamenti cromatici. Al centro, non c’è uno dei frutti del “nostro tempo industriale” (un’automobile o un treno), ma un impetuoso cavallo, avvolto in una sontuosa criniera, che piega il collo, nello sforzo di trainare un carro, mentre gli operai attaccati alle stanghe sono trascinati dall’impeto dell’animale. La scena è concitata. Lo spazio è interamente occupato. Viene offerta una ricognizione fatta non di passaggi progressivi, ma di sovrapposizioni tra l’ondeggiamento dei corpi muscolosi e il vortice dei cavalli. Quasi un piano-sequenza cinematografico. Sullo scorcio, tram ed edifici in costruzione. In lontananza, le impalcature. Di fronte a noi, uomini e cavalli ritratti in differenti posizioni dello spazio? Oppure un gruppo colto in un unico istante? Boccioni raffigura un insieme di eventi che si succedono nel tempo, combinandosi poi dentro le stanze della memoria. E si fa cronista di accadimenti simultanei. Il suo realismo estremo si dona come grammatica di rapporti mai geometricamente delimitabili. Si fa tripudio della molteplicità, intesa come rete di connessione tra cose diverse. Enciclopedia aperta, che vuole rappresentare la varietà delle relazioni tra le forme, riconducendo differenze in una visione plurima, sfaccettata. In La città sale, si impone un flusso che sfugge a ogni calcolo. Nel quadro, scorrono situazioni eterogenee. Domina una velocità meccanica. Non esiste alcun atomo indipendente dall’insieme: non vi è un tutto dato per sempre, ma solo il perenne ricrearsi della durata, che non può essere prevista né progettata, ma si configura come dimensione dilatata di attimi distanti. Il cavallo e gli uomini sono ripetuti in diversi punti del quadro: vanno, vengono, rimbalzano, a tratti sembrano protendersi verso lo spettatore. Boccioni ritrae la vertigine dell’incontro tra personaggi e ambiente. L’approdo è una carrellata serrata. Uno spazio-stato d’animo. Come un canto appassionato e, insieme, tragico, che salda esasperato vitalismo e improvvisi risucchi. 64 | Lettera a Milano
La metropoli cui si allude sin dal titolo è la protagonista assoluta del dipinto. Un luogo in eterno movimento, incessantemente proiettato oltre se stesso. Non un monumento compiuto, ma un magma dentro cui crolla ogni persistenza. Si tratta di una città non inventata, ma reale: Milano. Boccioni, in una pagina di Pittura e scultura futuriste: «Per molti oggi l’impossibilità di amare il mondo che ci circonda, la vita che viviamo, le nuove idealità che ci guidano è causa di un doloroso disagio. Specialmente per gli italiani, tutto ciò che è moderno è sinonimo di brutto!...» Ad esempio si parla di Milano e delle altre poche città italiane che invece della solida gloriosa tradizione hanno un meraviglioso presente e un formidabile avvenire, come di città grossolane e orribili. […] Le officine eternamente deste e ruggenti ispirano ribrezzo all’italiano che per tutta la vita ha concentrato il suo studio e la sua ammirazione sull’ultimo capitello in fondo a destra, di quel tal palazzo, o nella seconda arcata, a sinistra, di quella tal chiesa… monumento nazionale”. Boccioni è poeta di una Milano che sta trasformandosi nella “Milanona” raccontata da Emilio De Marchi. Il suo occhio non indugia più su permanenze solenni (come in Officine a Porta Romana del 1908). E non si sofferma più su parti fisse: si spinge dentro il caos delle strade, si inebria smarrendosi in giochi di simmetrie infrante. La composizione accoglie incroci e sovrapposizioni tra piani, «come Saturno libera da sé gli anelli» (per dirla con le parole di Roberto Longhi). Dinanzi alla città oramai priva di centro, la prospettiva non tiene più. Si fa indicativa. Assorbe affetti, impulsi, moti. Architetture, individui e animali precipitano in un abisso. Pur densa, compatta e impenetrabile, la spazialità dell’opera diviene indefinita, voce dell’irrisolta tensione tra impulsi interni e dati oggettivi, tra la testualità delle cose e la loro deformazione, tra naturalismo e slancio lirico. Si destruttura ogni icona. Il cavallo sembra forare il piano con il suo profilo tagliente. Confonde i suoi contorni in una danza di linee-forza: si frange, per poi dilatarsi, come respinto dall’ambiente che lo ha assorbito. Le sue membra sono disarticolate: deflagrano. Catturato negli ingranaggi dello scenario urbano. Viene ritratto in varie stazioni, mentre trascina dietro di sé tutto ciò che incontra. Rivive l’epica del nascente paesaggio metropolitano. Sbandiamo. Ci sentiamo tra i rombi della strada. Secondo Longhi, siamo di fronte a «una nuova notomia lirica del movimento». La materia è usata in maniera disinvolta. Si ricerca un “cromatismo marginale”. Assistiamo alla rotazione di parabole e di iperboli: orizzontali, verticali e angoli retti sono sostituiti da coni rovesciati, da spirali dinamiche. È il trionfo della geometria del curvo. La pittura si fa potenza tellurica che, come un’onda, conosce eccitazioni e flussi incontenibili. Affabulazione visionaria generosamente faticosa, quasi il racconto di un naufragio urbano. Lettera a Milano | 65
Senza troppo rumore MANUELA BERTOLI Musicista
In La città sale, appare la folla, che è serbatoio di elettricità. Viene qui scomposta in una gamma di gradazioni cromatiche infuocate. Si celebra il trionfo della gassosità. Si disintegra ogni unità. Individui e ambiente si confondono, tra vapori, evanescenze, illuminazioni artificiali, sostanze volatili, costanti modificazioni. Nel ritmo urbano, infatti, il permanente e il mutevole si sovrappongono. Si compie il tripudio dell’ondeggiante, del fuggitivo, dell’infinito. Sullo sfondo, Milano. Che dà senso della vertigine, trasmettendo emozioni, enfasi. Irradiata da baluginii elettrici, da abiti vistosi, da risse improvvise, da insegne enfatiche, offre allo sguardo un ininterrotto gioco di corrispondenze. Vengono evocati i luoghi del rinnovamento. Dinanzi a noi – simultaneamente – tante figure. La piazza, il moto dei tram, la stazione con il conforto sbuffante dei treni, i caffè, i locali notturni. E, poi: la danza di chi va e viene, di chi si ritrova e si smarrisce. E ancora: i nottambuli, gli ubriachi e le prostitute, tra specchi, abiti. Sfioramenti e scontri, risse e incontri. Ardore, agitazione: un’“esagerazione vitalistica” di psicologie e di comportamenti. È il trionfo di un realismo “perfino urtante” (come ha sottolineato Paolo Fossati). Impegnato a innalzare un altare alla vibrante vita moderna, Boccioni coglie la molteplicità dei movimenti, tra continuità e reiterazioni. Non si limita a tradurre liricamente l’emozione: ne è preso, assorbito, fino a precipitare in un abisso. Sembra guardare verso tutte le direzioni, contemporaneamente: mai di faccia, sempre di profilo, secondo infiniti scorci, che si rincorrono e si elidono a vicenda. Non ha nessun bisogno di esaltare il suo desiderio di fuga – ne è prigioniero e vittima. Sembra quasi di sentire i palpiti della metropoli. Quei sussulti che Russolo studierà e assemblerà in una partitura intitolata Risveglio di una città (1913), sorretto dal desiderio di recuperare eterogenei flussi sonori, per mimare i ritmi della quotidianità: rombi, tonfi, boati, fischi, brusii, stridori, scricchiolii, fruscii, crepitii, grida, strilli, gemiti, urla, risate, rantoli, singhiozzi. Influenzato dal rumorismo onomatopeico marinettiano, Russolo scriverà: «Noi vogliamo intonare e regolare armonicamente e ritmicamente questi svariatissimi rumori. Intonare i rumori non vuol dire togliere ad essi tutti i movimenti di vibrazioni irregolari di tempo e d’intensità, ma bensì dare un grado o un tono alla più forte e predominante di queste vibrazioni, il rumore infatti si differenzia dal suono solo in quanto le vibrazioni che lo producono sono confuse ed irregolari […]: Ogni rumore ha un tono, talora anche un accordo che predomina nell’insieme delle sue vibrazioni irregolari».
Ero diretta ieri verso via Conservatorio. Attraversato corso di Porta Vittoria, su un tavolino, disposto a ridosso della facciata della chiesa di S. Pietro in Gessate, vedo due uomini di mezza età che giocano a carte. Cupi, concentratissimi, attendono qualche segnale dalla Dea fortuna sul portone di casa di un Santo assente, o forse troppo indaffarato a portare conforto ai milanesi, spaventati davanti a una inimmaginata pandemia. Ecco la città della Moda e del Terziario, dei Commerci e delle Startup, della magniloquenza verticale e globale, che ridiscende a un più modesto piano terreno. I grattacieli si sono momentaneamente messi a sedere, azzardano un futuro prossimo in cui sarà il caso a governare, o, in momenti più visionari, si ripensano provando a guardarsi con altri occhi. Oltrepassato il liceo Leonardo da Vinci in via Ottorino Respighi, arrivo in via Conservatorio. Sono giorni silenziosi questi, ma dalle finestre delle aule, scendono ancora giù, nel giardino alle spalle di Palazzo Archinto, e nella piazza di Santa Maria della Passione, musiche di ottavini, flauti, violini e percussioni. Sono studenti, impegnati in esecuzioni ancora incerte, nella quotidiana lotta contro passaggi complessi, alla conquista della precisione, purezza e bellezza del suono. Qui studiavo la musica e il violino negli anni intorno al Sessantotto. Negli anni delle bombe, di piazza Fontana, delle manifestazioni, degli attentati incendiari, dei licei e degli atenei in rivolta, varcare la soglia del Conservatorio, voleva dire entrare in un luogo metafisico, austero, iconoclasta. Completamente estraneo all’aria di un tempo, che qui, poteva prendere significato solo se trascritto su pentagramma. A pochi metri di distanza, fra queste strade, c’erano occupazioni, cariche di polizia, fughe di studenti. In Conservatorio, le fughe erano solo quelle di Bach. Le prime occupazioni e i primi manifesti politici si vedranno, in questo cortile, solo a partire dal 1971. Figuriamoci la sorpresa, quando nel 1976 circa, in una sezione del Pci di piazza Aquileia, una fra le tante che avevano subito attentati incendiari, incontrai il compositore Davide Anzaghi. Era il mio maestro di Teoria Musicale. Aristocratico, sensibile, un meraviglioso insegnante. Mai avrei potuto immaginarlo militante fra comunisti. Non estremisti, certo, ma pur sempre comunisti. Ero una ragazzina, andavo in Conservatorio con il mio violino tutti i giorni. Abitavo vicino a piazza Michelangelo Buonarroti, nel mio paesaggio quotidiano c’era il monumento a Verdi,
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Milano la Magna MARIA GRAZIA MAZZOCCHI Fondatrice Domus Academy e MuseoCity
posto davanti alla sua Casa di riposo per musicisti, quella che alcuni chiamano “l’opera postuma di Verdi”, che, con la sua facciata medievaleggiante e le sue finestre bifore e trifore, protegge la vecchiaia di musicisti senza piu fortuna. Di fronte, ricordo la villetta novecentesca dove viveva Maria Callas con Meneghini. Oggi c’e una targa che la ricorda, ma la casa è un’altra, un palazzo moderno, che ne ha preso il posto. Adesso è la casa di Tex Willer. È la sede dell’editore Bonelli, suo creatore. In Conservatorio, la musica Contemporanea, quella delle Avanguardie Storiche, e dei compositori contemporanei, entra solo nel 1967. Nel 1969 iniziano i primi corsi di Musica Elettroacustica in collaborazione con lo Studio di fonologia musicale della Rai in corso Sempione, fondato nel 1955 da Luciano Berio e da Bruno Maderna, nato per realizzare i commenti sonori per la radio e la televisione. Angelo Paccagnini era il direttore dello Studio, fu lui a creare una delle prime cattedre di Musica elettronica in Conservatorio. Da quella data, tutto cambierà. Cara Milano, eri un un po’ sorda e un po’ ostile a queste confuse e potenti innovazioni, ma eri diventata un punto di riferimento importantissimo per nuovi linguaggi espressivi. Allo Studio di fonologia della Rai, si stava creando una sintesi delle esperienze concrete ed elettroacustiche che si compivano in quel momento fra Parigi e Colonia. Tutta una generazione di compositori, Donatoni, Nono, Manzoni, Clementi, Cage, producevano in quegli studi, nuove sonorità e anche nuove relazioni con le altre arti. Architetti, poeti, pittori erano parte di questa avventura. Gli oscillatori, le apparecchiature per la generazione di onde sinusoidali, quadre, di rumore bianco, non potevano non affascinare anche gli artisti, che a loro volta producevano installazioni e opere sonore, basate anche su procedimenti algoritmici, aleatori, o sul calcolo delle probabilità. Il discusso Silenzio di John Cage, il profetico “4’33”, nei primi mesi dell’anno ha esteso drammaticamente la sua durata. È stata, ancora una volta, un’esperienza sconvolgente.
Milano è la città nella quale sono nata nel lontano febbraio 1945, quando ancora cadevano dal cielo le bombe, le macerie riempivano le strade, il cibo non si trovava e mio padre faceva la fila davanti al convento dei frati francescani dell’Angelicum per portare una gavetta di minestra alla mia mamma, che mi doveva allattare. Ricordo la fila delle villette di via Dezza, i sottotetti delle case scampate alle bombe trasformati in piani supplementari, il traffico praticamente inesistente, le donne che calavano dalle finestre un cestino con i soldi per acquistare quanto offerto dai carretti dei venditori ambulanti. Allora i cortili, in primavera e in estate, risuonavano dei canti intonati (o stonati) dalle finestre aperte, ai quali facevano eco altri canti da altre finestre, a sottolineare la sorellanza dei vicini, tutti impegnati insieme a ricostruire una città distrutta dalla guerra. Sono poi venuti gli anni del benessere, dei teatri e dei musei, dei negozi che pian piano hanno sostituito le botteghe artigianali, infine i grandi magazzini e i supermercati. Ricordate il primo piccolo supermercato, proprio vicino a via Monte Napoleone? Si chiamava “La Formica”, e nella prima metà degli anni ’50 fu il primo esperimento in Italia di un negozio dove si potevano mettere in un carrello direttamente dagli scaffali le confezioni di cibi che si volevano acquistare. Peccato che poi troppi milanesi si dimenticassero di passare alla cassa… “La Formica” sopravvisse solo pochi mesi all’assalto dei clienti, ma fu una bella esperienza. Dopo gli anni bui del terrorismo e della violenza Milano ha saputo reagire alle difficoltà ed è stata in grado di preparare la sua trasformazione, fiorita nel terzo millennio. La creatività dei designer e degli stilisti ha reso famosa la città, che si è fatta conoscere in tutto il mondo per i suoi prodotti di design, la sua moda, i suoi musei e le sue mostre. Milano si è affermata ovunque per una grande varietà di proposte culturali, abitative e di svago, diventando a tutti gli effetti la città dove la vita scorre più intensamente in Europa.
Il Silenzio ha invaso le tue strade, Milano, lasciando stupore, timore e imbarazzo. E durante questa esecuzione, nessuno è uscito sbattendo la porta, sconcertato.
Ormai sorgono ovunque spazi progettati per incontrarsi, parlarsi, condividere esperienze; gli alti, eleganti grattacieli proiettati verso il cielo e verso il futuro, ma resistono le vie strette del centro, fiancheggiate da edifici pluricentenari ricchi di fascino e di ricordi. Vista dall’alto, Milano mostra i suoi molti giardini nascosti oltre i portoni delle abitazioni signorili, i suoi terrazzi fioriti, perfino alcune azzurre piscine.
Cara Milano, ti abbraccio così, senza troppo rumore.
Poi… il Covid 19 ha spazzato via con una velocità impensabile tutte le conquiste degli ultimi 75
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Legata al mio cuore AGOSTINO PICICCO Giornalista, scrittore
anni: il piacere di incontrarsi, di visitare i luoghi dell’arte, di ritrovarsi nei ristoranti, e nei bar, di passeggiare nei parchi e di camminare nelle sue strade lasciandosi affascinare dalle vetrine dei negozi. Oggi siamo tutti chiusi nei nostri più o meno angusti spazi, le strade sono vuote, gli ospedali sovraccarichi e i posti nei cimiteri non bastano più… Tornerà Milano a splendere, alla fine di questa emergenza, ahimè mondiale? Tutti i milanesi sono pronti a rimboccarsi le maniche per ricominciare, per tornare alla brillantezza di poche settimane fa, per riportare vita ed energia nelle strade della città. Speriamo però che non svanisca il ricordo dei giorni difficili, l’insegnamento della necessità di essere solidali l’uno con l’altro, la consapevolezza di costituire un unico organismo vitale di cui ciascuno di noi è solo una piccola cellula. Speriamo che Milano rinasca bella e generosa come è nella sua natura!
Da studente universitario ti avevo eletta città d’adozione, senza sapere che il nostro rapporto avrebbe sfidato i decenni. E così da adolescente mi hai favorito nel cambio di abitudini ma anche nel cambio di mentalità. Ho imparato a razionalizzare i tempi, organizzarmi, programmare, calcolare, preventivare, accorpare, considerare gli imprevisti. Soprattutto ho imparato a vivere le relazioni: ho incontrato gente nuova, ho stretto tante amicizie che proseguono nel tempo e arricchiscono la mia vita, eppure non ho dimenticato i vecchi amici con i quali, nonostante le distanze e ora con l’ausilio della tecnologia, ho sempre mantenuto consuetudine e affetto. La Stazione Centrale resta impressa nella memoria e nelle emozioni per il primo arrivo: la sua maestosità si fa accoglienza e magari anche incoraggiamento per i sogni, i progetti, le aspettative che chi giunge porta nel cuore. Nei miei spostamenti, all’inizio un po’ impacciati, ho intuito che la tua metropolitana è metafora di vita, di anonimato e di fretta, ma il tuo centro, piazza Duomo, riconcilia con le antiche usanze, è un punto di aggregazione, dà l’idea di una delle nostre piazze: quando si ha voglia di passeggiare, vedere gente, visitare negozi, si va lì, e nella bella stagione è fin difficile muoversi data la calca di giovanotti e ragazze che ne affollano le strade. Lo stupore procurato dal tuo maggior monumento identificativo, il Duomo appunto, non fa mai abituare la vista, ma suscita sempre ammirazione per la sua bellezza e maestosità. Del resto Mark Twain scriveva nel 1869 che il Duomo rappresenta «Un inno cantato nella pietra, un poema inciso nel marmo». Le guglie, le statue, i ricami nel marmo e i bagliori di luce fanno sembrare più terrene le bellezze che siedono discinte sui gradini del sagrato. Una tua caratteristica sono i cortili segreti con caratteristici giardini incorporati, tanti, dappertutto, soprattutto nascosti e sconosciuti ai più. Luoghi unici, ricchi di quiete e bellezza. Posti per nascondersi nel cuore della città, angoli di arte che – sullo sfondo delle case di ringhiera – per un attimo offrono riparo e ristoro nella frenetica metropoli che ovatta il tutto: lunghe distanze, volti sempre nuovi, talvolta senso di smarrimento e di solitudine. Nonostante ciò, è possibile costruire relazioni sociali, coltivare amicizie cementate dalla frequentazione delle tante attività culturali, sociali, sportive, che allietano ogni sera che da te si trascorre, per cui non si rischia proprio di annoiarsi, e se si vuole… C’è sempre tempo e posto per un aperitivo nei tanti locali alla moda dei Navigli, delle Colonne, di Brera. Il tuo salotto buono, la Galleria Vittorio Emanuele, riesce a unire le persone elegantissime che vanno al Teatro alla Scala con gli ambulanti che implorano di acquistare una rosa. Intanto le luci scintillanti delle
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Ti do del tu MILO DE ANGELIS Poeta
vetrine cercano di esorcizzare quella nebbia da sempre legata all’immagine invernale della città (anche se ora non la si vede più neppure in periferia). Con me ti sei dimostrata sempre città accogliente, cara Milano, e hanno fatto da collante le grandi feste, il Natale con le sue artistiche luminarie, le fiere, in particolare quella degli Obej Obej in occasione della ricorrenza del patrono sant’Ambrogio, il Carnevale e la sfilata dei carri, tutte occasioni per un giro di svago in centro con gli amici e per bere una cioccolata calda. Insomma, mia cara Milano, con i tuoi ambienti e la tua dinamicità ti sei legata al mio cuore, mi hai dato tanto in termini professionali e relazionali, per cui posso dichiarare che io ho bisogno di te, ma anche tu hai bisogno di me, del mio impegno di cittadino, della mia amicizia. E con questa consapevolezza sarai sempre la mia bella e generosa città adottiva, bella come la Madonnina che tutti ci guarda, ci protegge e ci consola dalla guglia più alta del Duomo.
Ti do del tu, come sempre, e ti parlo come si parla a una donna, una donna amata che ci accompagna da una vita intera, la più fedele di tutte le donne. Di una donna così si ama tutto: i silenzi, i segreti, le ferite, il dolore, tutto ciò che sappiamo di lei e anche quello che non sappiamo con precisione ma che intuiamo per istinto. E tu, Milano, sei una donna piena di ferite e di segreti. La ferita costituisce la tua essenza. Appartieni alla stirpe delle città distrutte, quelle che vengono frantumate in continuazione dalla storia e poi rinascono dalle loro ceneri, portando però un trauma misterioso dentro le sue pietre. Era il 1162 quando Federico Barbarossa ti rase al suolo e da allora le distruzioni si moltiplicarono fino alle bombe del 1943 e a quella di piazza Fontana. Anche il segreto costituisce la tua essenza, corrisponde ai tuoi interni meravigliosi, ai giardini che nascondi gelosa, ai tuoi cortili, al tuo pudore e al tuo piangere, che non è mai esibito ma è trattenuto e velato, avviene sempre dietro le quinte e non conosce il lamento fatto in piazza, come in tutte le creature che abbiamo scelto. Sei avvolta nell’ombra, Milano, e la tua zona d’ombra mi è cara, ancora più della tua anima illuminista. Certo, sei la città del Verri e del Beccaria, la città dell’impegno sociale e civile. Ma sei anche la città della Scapigliatura e della pallida giostra di poeti suicidi, di Delio Tessa e di Alberto Savinio, la città del trauma e della fiaba, la città di Franco Loi, che ancora adesso si aggira di notte nei prati di Città Studi e canta le interminabili partite di calcio e la nostra infinita giovinezza. A proposito di Città Studi, devo dire che è una parte di te a cui anch’io sono legato profondamente e ogni volta che passo dalle parti del Parco Lambro e della sua leggendaria montagnetta, qualcosa mi scuote nell’origine, come se lì e soltanto lì fosse cominciata la vita autentica, come se in quei poveri campetti polverosi fossero incise le linee del nostro nome e del nostro destino. Milano, la tua periferia è un mondo. Non è solo periferia di qualcosa, non è solo periferia rispetto a un centro. Tutto il Novecento ci mostra che la Breda, la Falk, la Marelli, il tuo cuore industriale, non sono meno importanti di piazza della Scala. La tua periferia ha molte forme e molti volti. C’è la tua periferia storica: Baggio, Affori, la Bovisa. C’è la tua periferia sperimentale e legata alle Avanguardie, come QT8 o la Bicocca. C’è una periferia di vasti spazi, come San Leonardo o la Comasina, dove ho ambientato certe scene di solitudine, certe passeggiate silenziose e tossiche. Altre scene di solitudine affollata, piena di luci e di bar avevano bisogno di quartieri gremiti, fitti di voci e negozi. Per esempio via Pacini o viale Monza o le multisale dell’hinterland, i tuoi non luoghi, carichi di presente senza storia, di gesti alienati e seriali, che duemila persone compiono nello stesso spazio e nello stesso giorno. Quando ho cominciato a insegnare nel carcere di Opera, verso la fine degli anni Novanta, ho scoperto una parte di te che avevo sempre sottovalutato, ho scoperto che sei davvero una città d’acqua, come diceva Stendhal tanto tempo fa. Ho visto le tue risaie in via Selvanesco o al Parco Sud, ho passato interi
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Guardare oltre le nuvole ANDRÉE RUTH SHAMMAH Regista teatrale
pomeriggi tra i tuoi grilli e le tue rane, tra fiumi e torrenti, laghi e laghetti, idroscali e vedovelle, tutto un mondo acquatico che ha dato vita al tuo respiro. Forse l’ossessione di riaprire i Navigli, che ogni sindaco puntualmente rinnova, riguarda questo mondo. Forse i tuoi morti tornerebbero tra noi con i navigli risorti. Forse senza questo mondo non esisterebbero le abbazie che ti circondano e che si sono dissetate in quei corsi, non esisterebbero le tue roccaforti, l’agricoltura che ti ha nutrito per secoli, non esisterebbe neppure il cuore pulsante del tuo centro storico: l’acqua scorre sotto le strade della moda, percorre corso Venezia, può risucchiare da un momento all’altro negozi e boutique, modelle, splendide e vanitose fanciulle che precipitano da una passerella ed entrano nel gorgo. Cara Milano, sei una donna amata. A volte gioco con le tue vocali, ti chiamo Miluna, Milina o Milena e mi incanto come un bambino a ripetere il tuo nome. Io poi non credo ai mutamenti, tendo da sempre a vedere ciò che resta fermo nei tempi, ciò che mostra lo stesso volto nel susseguirsi delle stagioni, lo stesso colore nel caleidoscopio dei suoi pastelli. Sei ancora la Ninetta del Verzee e sei Renzo Tramaglino in mezzo alle urla e ai tumulti, sei la madre di Cecilia, sei la Laide di Dino Buzzati in corso Garibaldi e sei il tossico di Testori che muore alla Stazione Centrale in un viavai di gente frettolosa, sei Vittorio Sereni che sale le rampe di San Siro per una partita della sua Inter. E sei il grigio, colore tra i miei prediletti. Mi hai insegnato tutte le gradazioni del grigio: il grigio chiaro degli ospedali, il grigio scuro delle fabbriche, fino al grigionero dei tuoi cieli tempestosi, che talvolta diventano bianchi di nebbia e vapore: i muri della Breda o della Falck, i gasometri di Rho, gli istituti professionali, le sagome gigantesche degli ipermercati, i grandi stili dell’industria, come in certi quadri di Sironi, una periferia di metano e di palestre, di cinema rionali, di oratori e lunapark, di tornei e di balere. Con la presenza di grandi amici, compagni di strada, di squadra, di scuola. Anime che un tempo mi hanno parlato. Ombre che continuano a parlarmi.
Milano cara, com’è che sei diventata la città del mio cuore e stavo per scrivere “Milano mia virgola cara”? Sì, è vero, sono venuta al mondo in una clinica che si chiamava (e si chiama ancora) Città di Milano dopo essere stata nella pancia di mia madre mentre scappava sui tetti di Aleppo, e ho vissuto i primi mesi della mia vita in un grande e bell’albergo in piazza Repubblica, il Principe di Savoia, che c’è ancora (anche se da quando è stato ristrutturato non mi emoziona più come ha fatto per anni, quando andavo a trovare mio padre che d’estate, mentre la famiglia era al mare, traslocava lì, perché c’era l’aria condizionata e si prendevano cura di lui – ricordo che Gaetano Afeltra viveva lì la maggior parte del suo tempo pur avendo casa e famiglia, ma questo ora non c’entra o forse sì perché un grande albergo a Milano che sa coccolare i suoi clienti non è un dettaglio da poco per parlare di te, Milano mia!). Vivevamo in albergo perché da un momento all’altro si poteva o si doveva ripartire. Il Giappone era l’idea, ma intanto, giorno dopo giorno, non riuscivamo a staccarci da te. Era il ’48 ed eri in piena effervescenza. Si parlava francese in casa e a scuola, ma ai Giardini Pubblici mi ero fatta molti amici e le ore passate sulle rocce o nei piccoli fossati lungo via Palestro erano l’inizio del mio legame con te. L’avrei capito molto tempo dopo ripensando con dolore al deposito di biciclette che non c’era più da dove sbucava Colombino, un clochard elegantissimo perché le nostre tate portavano i vestiti che i nostri papà non mettevano più ma che magari erano solo fuori moda. Sì, voglio dire che ho sempre creduto di essere una straniera, una bambina di passaggio a Milano e che solo cominciando a lavorare al Piccolo Teatro avevo scelto te come la mia città. Bene, ora che per la prima volta, scrivendoti, scopro che il mio legame di appartenenza è nato da subito, dalla mia infanzia e si è solo rafforzato sempre di più negli anni accanto ai grandi milanesi che ho avuto la fortuna di avere come maestri, amici inseparabili e compagni di vita e di avventure lavorative, bene, ora parliamo di te e di quello che stai attraversando in questo periodo di trasformazione delle nostre vite. Dopo aver ispirato esortazioni a non fermarti e a non aver paura, sei stata travolta da una quantità di problemi da affrontare e che, come succede sempre quando ci si rivolge a te, dovevi essere capace di risolvere. Perché si pensava: «Hai fatto sempre la prima della classe, ora dimostrale le tue qualità!». E come chiunque viene ingiustamente accusato hai saputo tacere, abbassare la testa e tirare avanti con un’ondata di calore umano che traboccava da ogni tua strada deserta. Sapevi che prima o poi avresti superato l’emergenza e avresti cominciato a guardare al futuro senza aver paura di cambiare. Nella tua storia sei riuscita a rialzarti sempre, accettando le sfide che ogni cambiamento necessario richiedeva. E oggi ti stai interrogando mentre da ogni parte anziché l’attesa che arrivi “la” soluzione, sta ricominciando a vibrare il tessuto delle tue iniziative culturali e i tuoi “operatori”(mi piace la parola “operatori”perché sta così bene poi con “operosi”) i tuoi “operatori operosi” sono in movimento… La senti questa tensione di chi non fa finta di riprendere dal punto lasciato ma cerca nuove strade? Mah! Forse io scrivo così solo per ridare coraggio a me, senza illusioni o ipocrisia. Dopo aver fatto di tutto, te lo giuro di tutto, per riportare il sorriso sulla
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faccia dei tuoi cittadini aprendo le braccia – oh, pardon, le porte delle nostre sale negli spazi all’aperto ma anche le porte delle sale al chiuso! – ecco sono io che ora all’apertura della stagione vera e propria, all’apertura delle scuole, alla fine del periodo sospeso delle vacanze mi interrogo, inquieta sul perché una certa ansia si stia impadronendo di me. Un po’ so rispondermi: la sensazione che i punti di riferimento stiano cambiando mi destabilizza. Chi sarà il sindaco non è argomento da poco. E l’assessore alla cultura? E il nuovo direttore del Piccolo? E il Covid non c’entra… Anche il Teatro alla Scala avrà un nuovo comandante al timone. Chi mi aiuterà, con chi allearmi per scovare le nuove energie, quei giovani che dovranno amarti come ti hanno amato tutti quelli con i quali sono cresciuta io? Da sola non potrò essere capace di stanarli e dare loro gli spazi necessari per crescere, confrontarsi, prendersi le responsabilità necessarie… Quel silenzio che invade ancora il tuo centro nelle ore di punta è un effetto transitorio della pandemia o è un declino quasi inesorabile della vita in una città metropolitana come sei tu? Saprai cambiare per essere a misura delle donne, visto che ormai sembra che molte analisi riconoscano che questo migliorerebbe la qualità della vita di tutti? Una città con ancora pochissime vie al femminile, tu Milano devi cominciare a dare alle vie un po’ di nomi di donne illustri (ce ne sono, oh sì, ce ne sono), tu che come città d’acqua sei grembo materno, tu che hai una Maria che brilla nel tuo cielo, devi ritrovarla la tua anima femminile e realizzare, per fare un esempio, quella bella possibilità lanciata dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo e ripresa subito dal tuo sindaco, di avere tutto ciò che serve a 15 minuti di distanza: scuola/ufficio/spesa/ teatro. Io poi non sono una urbanista o una sociologa e forse, per arrivare a creare con te quel contatto autentico che dovrebbe appartenere alla tua natura profonda (e alla mia), cercherò di confidarti che immagine ho di te davanti agli occhi o nella memoria e che a Milano lascio e ritrovo quando torno da un viaggio e più esattamente e semplicemente quale parte di te sei tu per me… Non è facile. Subito, arrivano i giardini pubblici e le rocce e via Guastalla la sinagoga centrale e mio padre, il giorno di Kippur con il suo grande tallet (dove mi nascondevo per non vedere cosa producevano i suoni dello shofar nell’aria diventata pesante dopo un intero giorno di preghiere e di digiuno)… Ma questo cosa c’entra con te? Non lo so, forse la ricchezza di culture, la libertà di sentirsi a casa… Poi, arrivano le vie delle case dove ho abitato da bambina, via Domenichino e l’Ecole sainte Jeanne d’Arc e più in là verso San Siro, Le Lycée français de Milan. Non capisco come questi luoghi che non frequento da moltissimo tempo siano voluti emergere oggi in questa mia lettera dedicata a te. Forse sì, voglio dirti grazie per avermi concesso una infanzia felice nelle mille contraddizioni della storia della mia famiglia. 76 | Lettera a Milano
L’autenticità che ho voluto non poteva che farmi partire da lì. Ora avanti spedita! La mia Milano parte da via Brera e arriva in via Pierlombardo, costeggiando volta per volta gli edifici, a seconda del traffico e della strada che in macchina decido di percorrere, e mi è familiare in ogni mattone o crepa di ogni muro tra via Vasari, via Botta e appunto via Pierlombardo. È lì che io ti conosco davvero. Il Parenti fondato nel 1972, inaugurato il 16 gennaio del 1973, la piscina Botta annessa al teatro e diventata i Bagni Misteriosi, la gente del quartiere che prima non ci amava perché portavamo vita e dunque rumore e parcheggi difficili ma ora sorride ogni volta che mi vede passare. In ogni stradina intorno a quella che nella mia fantasia anni fa chiamavo “città-della luna”, ti ho vista cambiare, ogni giorno diventare più bella e più viva, non perché come intorno a casa mia in via Brera sentivo parlare inglese francese o giapponese, piuttosto perché, mese dopo mese, in tutti questi anni, la zona si è riempita di giovani! È sui giovani che vorrei salutarti oggi, pregandoti di fare in modo che si prendano cura di te. Sono sicura che se ovunque la vita riprenderà dedicando molte più attenzioni e risorse e facilitazioni perché ovunque, in ogni quartiere, si sviluppino quelle che genericamente vengono chiamate iniziative culturali, centri di aggregazione per mostre, concerti, laboratori di fotografia, di scultura, danza, disegno, angeli di carta, piccoli giardini da far nascere e letture ad alta voce e radio da ascoltare insieme e lezioni di taglio o clarinetto, insomma far vivere la fantasia liberamente senza schedarla in design week o altro risvolto economico. Sono sicura che tutta l’energia positiva che potrebbe svilupparsi porterebbe anche sviluppo economico in tante e variegate direzioni ma in modo diverso, non so spiegarti come e perché… È come un risvolto e non un obiettivo. Ora Milano mia, cara, ti devo lasciare perché devo rimettermi al lavoro e ho già usato fin troppe parole. A te piacciono i fatti e il modo migliore per esprimerti la mia gratitudine è rimettermi al più presto a preparare nei minimi dettagli – a te piacciono le cose ben fatte, la prossima stagione del mio teatro. E se, ognuno dei tuoi cittadini fa il proprio lavoro con passione e ispirazione, ogni spicchio di città sarà collegato all’altro dallo stesso rispetto e dagli stessi valori. Tanti frammenti per fare un tutto e nei frammenti e nel tutto, ci sei tu. Ma tu non approfittare troppo di questa nostra dedizione e fai autocritica tutte le volte che ce ne sarà bisogno. Io ti auguro oggi la lucidità di guardare oltre le nuvole. A presto!
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Mettiti di profilo, Milano ALBERTO PELLEGATTA Poeta
Una città come te ha avuto molti ammiratori anche tra artisti e letterati, non ultimo il grande Alberto Savinio con Ascolto il tuo cuore, città. Mi rivolgo direttamente a te come lui. Apparentemente una città è solo un insieme di cose ma chi però vorrà fare attenzione, noterà che gli oggetti corrispondono a volti e momenti che affondano nell’intimità di ciascuno di noi, rendendo i luoghi urbani veri e propri organismi pulsanti. Il tuo ritmo, Milano, pausato dalla grande pianura, risentito nelle montagne dell’immediato orizzonte e intenerito nei gialli delle facciate tradizionali, detta il tempo ai tuoi abitanti, e coincide con i loro accenti più distesi. Non possiamo guardarti negli occhi, madre circolare, perché nei tuoi canali interrati si stratificano troppi ricordi. Meglio guardarti di lato. E in questo sono facilitato, perché sono nato al centro del tuo profilo più recente, Porta Garibaldi, una zona storica che l’urbanistica degli ultimi decenni ha trasfigurato. Nei primi esperimenti in versi a sedici anni, mi rivolgevo al mio quartiere come a un amico. Meno trafficato del resto della città, schermato da una ferrovia che ci difende dai discotecari di corso Como, l’Isola preserva un mondo di botteghe, librerie, atelier d’artisti e piccoli teatri. Un quartiere di lavoratori, di tanti operai e di famiglie industriali come i Borghi della Ignis e prima ancora gli Janecke e gli Heinemann. Non a caso hai una delle maggiori concentrazioni di Liberty della città, sei un catalogo citofonico dell’architettura. Attraverso lo stile si può tornare indietro nel tempo, come insegna Giovanni Raboni per un’altra parte della città – quando dalla modernità commerciale di corso Buenos Aires emerge un brano del Lazzaretto manzoniano. E così all’Isola si retrocede dagli avveniristici palazzi che dettano la nuova cadenza alla città intera e attraggono frotte di turisti (con l’avanguardia ecosostenibile del Bosco verticale e la bella piazza di César Pelli, con il nuovo parco all’olandese) fino al Razionalismo: l’enfant prodige Giuseppe Terragni ha firmato qui le sue uniche residenze milanesi, per i galleristi del Milione, i Ghiringhelli, in piazzale Lagosta. Indietro fino al chiostro romanico della chiesa della Fontana, circondato da un giardino che accoglie i passanti e concede loro momenti di quiete e riflessione dai tempi di Carlo d’Amboise. Il nostro rapporto, Milano, è sempre stato eccellente, come con uno zio simpatico e rassicurante, anche se poco espansivo e discreto. Mi immedesimo nelle tue piazze meno conosciute, nelle vie intricate e medioevali, nei giardini napoleonici. In ogni tuo luogo, anche nei meandri notturni dei bar scomparsi, vedo una parte della mia storia. Dove ti trasformi, sostituendo a un giardino un palazzo vertiginoso, riconosco gli scorci rimasti identici, come i cani ricordano i pali.
Stefano Mancuso, dovremmo pensare alla città come a una pianta, non come a un animale. La città non ci assomiglia, è resiliente e in grado di crescere senza spostarsi, non è ingorda di risorse ma energeticamente autonoma. Non possiamo non parlare, infine, della recente pandemia che ha colpito con particolare forza la nostra regione, ricordandoci quanto sia fragile e semplice la bellezza, come quelle passeggiate che per mesi, chiusi nelle nostre case per decreto, non abbiamo potuto fare. Forse per l’inquinamento, che rimane uno dei tuoi principali difetti, il virus pandemico ha fatto strage nelle case di riposo, negli ospedali, negli uffici, nelle metropolitane. Ricorderemo per sempre i mesi di quarantena, la paura, il sospetto, il distanziamento fatto di segnali sui pavimenti a un metro l’uno dall’altro e le code fuori dai supermercati, i cerchi disegnati sui prati e i tavoli a sbarrare l’entrata dei negozi, le panchine e le aree verdi recintate, le mascherine sul viso come un ospedale a cielo aperto. Abbiamo forse intuito a quale velocità il consumo di risorse naturali ci stia estinguendo. Tu, impallidita nel silenzio, hai svuotato le tue vie come i polmoni durante lo spavento. Ti ripropongo, per salutarti e concludere, cara Milano, i versi che ho scritto a diciott’anni per te. Intrecciano una storia familiare alla storia di tutti, evocando la guerra e tornando al nostro presente in notturna: Erba devota, coltivata con cura nel convento. I piatti, le mani, il metallo nei cesti liturgici. Ma in fondo era un nero soffice non era verde. Tu forse avevi in mano un lumino, mentre crescevano, fotosintetici, i nostri disordini. Impenetrabile dolce del tabacco nei legni assolti. Le lumache sui tuoi ponti. E la notte che si bagna come un geranio nero.
Nella fama internazionale che hai riconquistato da pochi anni ci sono aspetti irrisolti, ma certo non si può dire che tu non abbia un’idea di futuro. Basta guardare come hai risolto la recente crisi migratoria: con la tradizionale disposizione all’accoglienza dei tuoi abitanti. Erano in molti, in quei giorni, come in altre emergenze, a lavorare volontari per aiutare degli sconosciuti in difficoltà. Come suggerisce il neurobiologo 78 | Lettera a Milano
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A fronte: Porta Nuova, Milano, 2012, olio su tela, 136×178 cm. Alle pagine seguenti: Palazzo Diamante, Milano, 2016, olio su tela, 170×115 cm. 80 | Lettera a Milano
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Alle pagine precedenti: Porta Nuova, Milano, 2012, olio su tela, 172×125 cm. Tetti su Milano, 2018, olio su tela, 148×130 cm. 86 | Lettera a Milano
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Tu Milano e l’intraprendente verifica del possibile SERGIO UBBIALI Teologo
Cara Milano, da quasi cinquant’anni condivido la successione dei fatti di cui sei l’originale protagonista, lo faccio osservando le piccole vicende o i grandi accadimenti sulla base del sensibile punto di vista della religione, se non proprio della fede. Il riferimento alla religione non rappresenta qualcosa d’estraneo allo sguardo quotidiano della gente, a pieno diritto la sagoma del Duomo (con la settecentesca Madonnina, il capolavoro di Giuseppe Perego) appartiene alle immagini pronte a significarvi in maniera oltremodo felice cosa tratteggia lo stile milanese. Parecchie occasioni del tortuoso tragitto di quell’attrattiva mondiale, quale il Duomo diventa, risentono delle multiformi fasi del considerevole cammino dell’avventura umana dei milanesi, le varianti del comportamento generale trasmettono durature incisive tracce al Duomo. Durante le epoche precedenti spetta in ogni caso alla basilica di Sant’Ambrogio, l’attraente chiesa luogo di sepoltura del vescovo Ambrogio, la missione di chiamarvi in causa gli elementi della religione per il giusto assetto dell’atmosfera cittadina. Il progetto della basilica di Sant’Ambrogio ha all’origine il desiderio, ancora meglio l’energia, del vescovo Ambrogio, che, nelle burrascose vicissitudini del momento, testimonia il sogno comune per la scomparsa definitiva dei nocivi cortocircuiti allora erompenti. Cosa ostacoli, addirittura arresti, il movimento creativo ascrivibile alle non trascurabili attitudini umane, costituisce per il globale clima milanese la peggiore delle sfortune possibili. Con questo la pretesa del massimo impegno, con l’ovvia antitesi al superficiale atteggiamento curioso, spettatore indifferente alle richieste in atto, raffigura la costante dell’esserci come sei (cosa vorrai esserci), Milano. Mediante eccellenti parole il “milanese” Leonardo dichiara come «tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro» (se ne intravede d’altronde l’obbiettiva legittima ragione nell’acuto ideale della consegna, alcuni secoli dopo, da parte di Friedrich Nietzsche, il quale, fra le taglienti espressioni di Also sprach Zarathustra allinea la notifica su «si ripaga male un maestro, se si resta solo il suo allievo»). Questa vigile sottolineatura spiega i passaggi, talora dal notevole spessore, della storia del costume milanese, la provvida spinta dell’umanesimo, trasparente tensione o autorevole registro connaturale alla religione, entra in dialogo con le stimolanti realistiche domande dei soggetti esistenti. Allora il costruttivo cambiamento delle cose non istituisce la questione intrisa di seccanti fastidiosi obblighi ma segnala la condotta normale per chiunque non archivi la vita comune, quasi esprimesse il pericolo a ogni maniera prioritario. Fedele a quest’impegnativo obiettivo, Milano, tu non avvantaggi volentieri le formule, eleganti ma dopotutto fatue, di chi vi sfodera aride ribellioni agli sconvenienti ostacoli della vita, tanto quella individuale quanto quella pubblica. Il favore prevalente asseconda le linee capaci del tangibile contrasto all’infausta sequela dei gravi sviluppi negativi volta a volta emergenti. Lasciando da parte i consigli dell’intemperante schiera dei moralisti dalla sgradevole saccenteria, tu, Milano, identifichi nell’intraprendente verifica del possibile la scelta da preferirvi con eccelsa decisione. In primo piano custodisci la qualificante centratura sull’uomo concreto, non difendi in forme generiche l’uomo, ma vi sottolinei la carica incomparabile d’ogni nome proprio. La difesa di tutti emergerebbe alla fin fine sterile se i gesti tacessero la serena fiducia verso la singola persona. 88 | Lettera a Milano
Il cospicuo patrimonio delle fatiche intellettuali milanesi concorre alla fortunata diffusione di questo suggerimento virtuoso, le manovre dell’intellettuale non cadono in irresolute analisi fumose, del tutto lontane dall’interagirvi con le tappe dell’effettivo cammino delle vicende (favorevoli o poco favorevoli). La meta del lavoro intellettuale resta la cultura, ne sorveglia lo straordinario valore, ne garantisce la dote fondamentale educando alla pratica del pensiero capace dell’appropriata direttrice a fronte della congiuntura dei sempre variabili fenomeni umani. In tale specifica prospettiva l’uomo di cultura non programma la sola ansia per il sistematico incessante accumulo d’idee, d’argomenti, di nuove visioni, dimenticando come cultura significhi retto orientamento nella vita (meglio ancora in ordine alla vita). L’uomo di cultura sa scegliervi, mira alla proposta d’interventi mai casuali, condivisibili come tali da parte degli altri esseri umani. Pure a Milano la prestigiosa epoca del Settecento parlava della cultura dell’Occidente sulla scia del provocatorio paradigma conoscitivo dell’enciclopedia. Il gusto per l’enciclopedia torna nei nostri giorni di gran moda, obbedendo, cosa fin troppo ovvia, a ragioni differenti dall’imponente persuasione pedagogico educativa dell’illuminismo settecentesco. La recente apertura ai meticolosi materiali delle enciclopedie assicura al lettore la diligente raccolta degli aggiornamenti opera dei professionisti della ricerca, ma l’approccio alle variegate letture procede privo della pur necessaria logica unitaria. L’individuo vi assume la figura di chi debba eleggervi in forma privata il principio unificatore dell’estesa serie di contenuti fruibili in maniera comunque non organica. Il gioco della discussione infinita prende il posto dell’autentica disanima del principio garante dell’effettiva intesa reciproca, il pregio delle molte lingue lascia il campo alla frattura dei settarismi. Il “governo” dell’area cittadina porta il titolo, non da ora, di “comune”, e l’Europa, attraversando indecisioni o timori, lo riceve dall’Italia. Quanto abbia insomma di “comune” la gente a Milano sancisce la questione degna d’ogni interesse, a cosa equivalga o come annunciarne il risanante beneficio, è l’altra questione seria per i dibattiti responsabili. Nessun’altra domanda diventa determinante nel corso della storia quanto quella (mai esauribile, mai cancellabile) relativa all’uomo dalle autentiche caratteristiche umane, il messaggio della lettura classica sull’esistente suggeriva l’espressione sintetica di «quanto è bello l’uomo quando è uomo». La teologia, ovvero la disciplina del mio insegnamento accademico, con solide ragioni spiega come in ogni caso la riuscita dell’uomo (umano) non sta alla fine dei nostri tentativi, ma ce la testimonia (vivendola) la promessa assoluta di Chi pronuncia per noi la parola ultima, autorevole in quanto salvifica, sulla vita.
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A Milano DIANA BRACCO Presidente di Fondazione Bracco, presidente e amministratore delegato del Gruppo Bracco
La terribile pandemia che ha sfregiato l’intero pianeta, causando lutti e danni economici inimmaginabili, ha inferto un colpo durissimo alla nostra amata Milano. Un colpo che abbiamo particolarmente sentito perché la città veniva da anni di grande crescita economica, culturale, sociale e d’immagine. Ed è noto che, se si cade dall’alto, fa più male. Negli ultimi anni, grazie in particolare all’eccezionale successo di Expo 2015, di cui ho avuto l’onore e l’onere di essere tra i protagonisti, Milano è stata davvero uno dei place to be mondiali. Ospitando 21 milioni di visitatori, a iniziare dai potenti della Terra che ricordo incantati sulla terrazza del nostro avveniristico Palazzo Italia di fronte allo spettacolo dell’Albero della Vita, l’immagine di Milano è salita alle stelle in tutto il mondo. L’Expo è stato, inoltre, uno straordinario catalizzatore di energie, contribuendo in ogni campo al rilancio della città, rendendola più aperta, moderna ed efficiente e lasciando un’eredità materiale molto concreta. Per l’occasione dell’Esposizione universale, importanti progetti di cui si parlava da anni diventarono realtà. Il 2015 divenne l’anno cruciale per ogni cosa. Pensiamo allo sviluppo delle infrastrutture: la Brebemi, la tem, e soprattutto la quarta linea della metro e l’avvio della quinta. Ma non solo: grazie all’Expo, Milano è diventata una città leader nel car sharing e soprattutto nell’uso delle biciclette, alla pari con le capitali europee più avanzate come Londra, Berlino o Parigi. Sono tutti fattori che hanno reso la città più vivibile, più amica. Anche dal punto di vista delle reti internet la città ha saputo infrastrutturarsi bene: penso all’anello di duemila chilometri di fibra che corre intorno alla città. Imprese e grandi investitori privati hanno fatto la loro parte portando a compimento progetti importanti, a iniziare da quello di Porta Nuova, del Portello e di CityLife, che hanno cambiato il volto della metropoli. Il meglio dell’architettura mondiale è stato coinvolto, per cui a Milano hanno progettato e lavorato archistar come Rem Koohlaas, Zaha Hadid, Daniel Libeskind (che ha addirittura aperto in città un suo studio), David Chipperfield, Arata Isozaki, César Pelli, Ming Pei, Herzog & de Meuron, e naturalmente Renzo Piano e Stefano Boeri, che con il suo bosco verticale ha avuto il riconoscimento di miglior grattacielo costruito al mondo nel 2014. Accanto a questa straordinaria eredità materiale, ce n’è stata un’altra “immateriale”, che ha favorito il rilancio culturale e sociale della città e ha migliorato il suo stesso umore. Con l’Expo, infatti Milano ha acquisito una nuova sicurezza e un’attrattività internazionale riuscendo a dimostrare che era capace di fare una cosa grande e di farla per bene. Questo provocò una meravigliosa impennata di orgoglio che investì tutti i cittadini, che diventarono i primi paladini della loro città. Ricordo ancora la splendida risposta dei milanesi alle devastazioni dei No Global: una risposta civica, fattiva, concreta, positiva, molto 90 | Lettera a Milano
milanese. Non bisogna mai dimenticare, tra l’altro, che Milano è la capitale italiana del volontariato, e che ha sempre saputo coniugare crescita e solidarietà. A differenza di quanto avvenuto in altre metropoli che hanno ospitato l’Esposizione universale, il nostro Paese è stato anche capace di portare avanti un progetto vincente per il dopo-Expo. Il sito espositivo si sta trasformando nel distretto dell’innovazione di mind, con la realizzazione dello Human Technopole, che renderà Milano un vero hub della conoscenza, leader mondiale nelle Scienze della Vita. Questo, per me, è un sogno che si avvera. Nel Palazzo Italia e in tanti altri padiglioni espositivi sta nascendo un’infrastruttura di ricerca di livello mondiale, multidisciplinare e integrata, in tema di scienze della vita, genomica, radiomica e data science. Accanto ai ricercatori dello Human Technopole guidati da Iain Mattaj, lavoreranno fianco a fianco centri di ricerca privati, grandi multinazionali e start-up, ricercatori e studenti delle facoltà scientifiche dell’Università e strutture ospedaliere di eccellenza come il Galeazzi. Mind sarà una vera culla di futuro e di sviluppo economico, un luogo dove creare e condividere conoscenze. Le cose che ho fin qui ricordato devono renderci ottimisti sul futuro di Milano. La pandemia non può e non deve cancellare ciò che i milanesi hanno saputo costruire negli ultimi anni. La città deve superare lo smarrimento che l’ha quasi stordita. Ora, senza abbassare la guardia, dobbiamo riprendere da dove siamo stati interrotti; avviando una nuova fase che ci faccia tornare anche più forti di prima. Milano ha tutte le leve per riuscirci, puntando sui giovani, le università, la creatività, la cultura, l’industria, il commercio e la solidarietà, che sono le sue tante eccellenze. La nostra città non può perdere la sua vocazione di essere per l’Italia un traino e un vero motore civile, sociale e culturale, oltre che economico. Le parole pronunciate da Ursula von der Leyen in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Bocconi, sono state uno sprone inaspettato: «Milano», ha detto la presidente della Commissione europea, «è la città che non si arrende, che trova la forza di risalire per dare opportunità. Siete una capitale europea del successo, ora siete una capitale europea della solidarietà». Il dramma che abbiamo vissuto, certo, lascerà tracce indelebili in ognuno di noi, ma tutti insieme possiamo reagire. Anche Fondazione Bracco, che ha da poco celebrato i suoi primi 10 anni di attività a favore della cultura, della scienza e del sociale, ha voluto fare la sua parte. Già a settembre è stata a fianco della Scala, istituzione simbolo della cultura milanese, sostenendo il Concerto Straordinario dedicato al personale sanitario e diretto dal Maestro Chailly, con coro e orchestra del Teatro alla Scala nella Sinfonia n° 9 di Ludwig van Beethoven. Un impegno che veniva ad aggiungersi al sostegno che la Fondazione assicura da anni ai giovani talenti scaligeri come Membro Fondatore dell’Accademia. Lettera a Milano | 91
O mia città GIANCARLO PONTIGGIA Poeta, critico letterario e traduttore
Inoltre, per rendere meno buio il Natale dei milanesi e dare un segnale di fiducia, Fondazione Bracco ha donato a Milano “Il Natale degli Alberi”: un progetto di bellezza e di rinascita, con una forte valenza sociale, nato da un’idea di Marco Balich e attorno al quale si sono aggregati tanti protagonisti della città. Mi piace ricordare, infine, che la stessa Fondazione Bracco in occasione della pandemia ha ripensato il suo modello di attività, proponendo contenuti culturali in streaming. Chiuse le esposizioni permanenti e temporanee, chiusi i teatri e i musei, e con il diktat di rimanere il più possibile a casa per bloccare il contagio, abbiamo offerto proposte fruibili sul nostro ecosistema digitale, dal sito web ai canali social. È nato così Fondazione Bracco a casa tua, un palinsesto multidisciplinare pensato per portare, attraverso la ricca mediateca della Fondazione, cultura, musica, arte e scienza nelle case di tutti. Un successo davvero straordinario hanno avuto, ad esempio, le conferenze sul mondo dell’opera e del balletto del Maestro Fabio Sartorelli del Conservatorio di Milano e dell’Accademia Teatro alla Scala. Insomma, la bellezza, ci può salvare anche in un’emergenza come quella attuale. La rinascita di Milano non può non tenere conto di questo paradigma.
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O mia città, mi accorgo – passando gli anni – quanto tu sia sottesa a tutto ciò che ho scritto, come se immagini, pensieri, emozioni che ho vissuto non potessero venire che da te, e a te fossero di nuovo, inesorabilmente, ricondotti, anche quando sto parlando d’altro, pensando ad altri luoghi, altri cieli. Dicendo te, e dovrei dire qui, voglio intendere proprio la vita fisica, materiale che da te si dipana, quel tuo scorrere severo e appassionato, in equilibrio tra fare pratico e dimensione utopica, rispetto delle regole civili e spirito di libertà che è da sempre, o almeno dall’epoca di Maria Teresa e di Giuseppe ii, la cifra profonda di quel che sei. Da questo tuo spirito nasce quella sensazione di vitalità che si percepisce semplicemente camminando, salendo su un tram, o scendendo nel ventre così sobrio, ed elegante, delle tue metropolitane. Vagando per queste tue vie, sento che le idee prendono forma, che qualcosa che appena aleggiava nella mente – un progetto, un sogno, un moto ancora indistinto dell’intelligenza – si volge a poco a poco alla sua realizzazione: come se fossi tu stessa – o mia città che non oso, per pudore, neanche nominare –, con la tua energia collettiva, a realizzarlo. Se c’è una cosa che ho patito in questi mesi, e che immagino patirò ancora a lungo, è proprio il contatto fisico con te: non con delle persone precise, ma proprio con te, con i tuoi tram, le tue beole, il tuo cotto, le tue case di ringhiera, i ballatoi, le darsene, i cortili dove un nespolo o un caco – tue piante predilette – si stagliano indolenti sopra le pietre di fiume di una rizzada. Come poteva una città così vocata alla vita in ogni suo aspetto, dove anche l’indolenza è una forma quieta di energia, non essere una città poetica, se per poesia si vuole intendere un esercizio della sensibilità e dell’intelligenza che vanno raccogliendosi, come per una sorta di lunga sedimentazione, nella densità della parola? Se penso al potere evocatore di una pioggia, penso a dei luoghi precisi: alla grande magnolia che apre le sue fronde verdissime nel cortile del Conservatorio, e che sembra tradurre istantaneamente in musica l’acqua che cade dal tuo cielo; o ai rivoli onirici che scendono giù da uno di quei tram del 1928, quando il cielo si fa scuro, e i legni dei sedili all’improvviso si accendono di una sostanza come marina, amniotica; o al quadriportico di sant’Ambrogio, quando i capitelli si caricano di una luce strana, e i suoi animali – bestiario bizzarro, fantastico, ora tenero ora mostruoso – palpitano di una vita arcaica, affondata chissà in quale zolla di tempo. E dentro questo tempo, dentro l’immenso lastricato dei tuoi secoli, ci siamo noi, voci provvisorie che ti devono qualcosa anche se non sanno bene cosa, che se ne stiano accucciati, a sognare, nelle stanze delle tue case, o se ne vadano in giro di porta in porta. Spariscono, com’è destino delle cose del mondo, i luoghi che incarnavano la tua vita celata, operosa, sostituiti da caffè, bar, cremerie che si perdono nell’ignavia delle nuove insegne: neanche ho fatto in tempo a scrivere, qualche tempo fa, di Guenzati, «Bottega al principio della Corsia del Broletto, e Fondaco al n° 1704, nella Contrada delle Galline», nata al tempo in cui il Parini insegnava alle Scuole Palatine, e il Balestrieri intonava le sue Rime milanesi, che già Guenzati non è più – non più, almeno, nella sua sede di una volta. Eppure, c’è stata un’epoca in cui anche i negozi odoravano di una lingua vera, meravigliosamente inventiva, come il catalogo che la «vedova di Giovanni Bertani, e Guenzati» sfoggiava in un riquadro della sua vetrina: «Panni fini, mezzi fini, ed ordinarj, Peluzzi, Roversi, Felpe, Spagnolette, Perpetuelli, Casimiri, Saglie, Molettoni, Camelotti, Cottoni Lettera a Milano | 93
A te, luogo di nascita, di crescita, di vita JACOPO ETRO Stilista
d’ogni qualità, Veluti, Picché, Mussoline, Dobletti, Vallis, Nankini, Calanca, Imbroglié, Calicots, Percals, Fazzoletti, Sciali, Telerie, Tovaglie, Mantini, Palpignani, Fustagni, Mezzettine, Bombasine, Pizzi di reffe, e di seta, ed altro ad onestissimo prezzo». O sonni meravigliosi, o gran pranzetti che mi sarei fatti al solo sentirli nominare, questi panni fini o mezzi fini, e anche solo «ordinarj». E chissà che anch’io non mi sarei provato a scrivere, come l’illustre Trasformato Domenico Balestrieri, qualche “sonett sora el mangià” o meglio ancora una qualche quartina “sora el dormì”, dove il poeta, nella città più laboriosa d’Italia, poteva pur scrivere: «Me faan pur anca rid quij c’hin content / a visorà cinqu o ses or appenna; / par mì ghe ’n voeur pocch manch d’ona donzenna, / cinqu o ses or me tocchen gnanch on dent». Per chi non la conosce, questa tua bella lingua, che ha il sapore di un infanzia sognata, ecco la versione di Felice Milani: «Mi fanno pur ridere quelli che si accontentano di dormicchiare appena cinque o sei ore; per me ne occorrono poco meno di una dozzina, cinque o sei non mi toccano neanche un dente».
A te che accogli senza distinzioni chi fra le tue mura ci nasce e chi ti sceglie per studio, per lavoro, o nella ricerca di opportunità. Perché il tuo animo genuinamente democratico infonde senso di appartenenza anche a chi ti vive per breve tempo. A te che sei da conoscere con confidenza reciproca. Perché, riservata, non ti mostri a prima vista, risultando talvolta sterile, fredda, grigia: è la superficiale impressione di chi ancora non ha scoperto il verde dei tuoi cortili, le tue botteghe artigiane, i tuoi quartieri a misura d’uomo, i tuoi spazi più nascosti. A te che sei teatro di scambi artistici, culturali, sociali ed economici. Perché il tuo è un fermento corale, quello che fonde l’operosità dei tuoi cittadini con il contributo dei tuoi affezionati visitatori internazionali. A te che sei terreno fertile di realizzazione personale. Perché rendi partecipi tutti, senza giudizio e con onestà. A te che sei esempio di altruismo, sia per chi ti abita che per le altre città. Perché in tempi difficili sai riunire chi è solo e abbracciare chi vive un quotidiano disagio. A te che fai convivere tradizione ed evoluzione. Perché il tuo tessuto si sviluppa ben oltre il centro storico, inglobando quartieri periferici e integrando il loro spirito multietnico. A te che dai voce al cambiamento. Perché guardi al futuro delle giovani generazioni con occhio inclusivo ed ecosostenibile. A te che metti in primo piano le persone, grazie. Grazie per avermi riaccolto, dopo un periodo di studi all’estero, con lo stesso calore che mi hai dedicato alla nascita. Grazie per esserti interessata alle novità che, a inizio anni Ottanta, bussavano da oltre confine: è grazie alla tua apertura mentale che oggi ci possiamo dire, orgogliosamente, all’avanguardia. Di te amo la curiosità, il movimento, il coinvolgimento, lo spirito contemporaneo. Grazie Milano.
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A fronte: Torre Velasca, Milano, 2016, olio su tela, 171×110 cm. 96 | Lettera a Milano
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Torre Velasca – Corso Italia, Milano, 2016, olio su tela, 131×123 cm. Alle pagine seguenti: Ponte sul Naviglio Ticinese, Milano, 2017, olio su tela, 210×141 cm. 98 | Lettera a Milano
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«Si muore un po’ per poter vivere» LORENZO VIGANÒ Giornalista, scrittore
Come si fa a scrivere una lettera a Milano? Come si fa a rivolgersi a te, a parlarti? E poi: parlarti come a chi? Come a una madre? a un’innamorata? a un’amante? a un’amica? A qualcuno che si frequenta da tanto tempo e forse non si conosce ancora? O non si riconosce più? Per farlo bisognerebbe sapere chi sei, Milano, e probabilmente io non lo so ancora. I primi ricordi che ho di te sono legati a Musocco. Non abitando qui, ma essendoci nato – come i miei genitori, che invece vi hanno passato l’infanzia, la guerra, la ricostruzione, prima di trasferirsi per lavoro in un’altra città –, venivo a trovarti con la mia famiglia un paio di volte all’anno. Una di queste – la più attesa – era a Natale, per incontrare i nostri parenti: quelli che c’erano ancora e qui avevano continuato ad abitare, e quelli che non c’erano più ed erano sepolti al Cimitero Maggiore. Ricordo il freddo, la nebbia, le foto dei nonni; ricordo le lapidi con i fiori secchi da buttare e quelli freschi da mettere nel vaso con l’acqua gelida che prendevo alla fontanella più vicina. Un segno di vita lasciato a chi non poteva più sentirne il profumo. Quei viali, quel silenzio, quelle scale altissime con sotto le ruote, sulle quali, bambino, mi arrampicavo, sono state per molto tempo una delle due personali immagini di te. L’altra era il quartiere di Quarto Oggiaro, la casa popolare abitata da mio zio – operaio alla Magneti Marelli – e dalla sua famiglia, dove pranzavamo il giorno di Santo Stefano, dopo la visita al cimitero. Mi piaceva quel quartiere, lo sentivo vivo, vero, abitato da persone che mi sembravano cariche di umanità (e cariche di umanità lo erano). Per molti anni, tu sei stata per me questi due luoghi e, di sfuggita, come una figura intravista nella nebbia nella quale ti piace(va) nasconderti, piazza del Duomo, dove più della «cattedrale che gocciola all’insù», come diceva Marcello Marchesi, mi colpivano le insegne luminose di Palazzo Carminati, simbolo della metropoli, della vita notturna, della frenesia. Del progresso e della modernità. Rimanevo incantato, con la bocca aperta, a guardare l’omino Brill e la signorina Kores. Ma c’è un terzo luogo, rimasto in sordina nella mia memoria, che si sarebbe rivelato quello legato a me dal nodo più stretto e profondo: Porta Romana. Lì aveva vissuto mia nonna, lì i miei genitori si erano conosciuti, guardandosi da ballatoio a ballatoio nella stessa casa di ringhiera, lì erano cresciuti, nella “piazzetta, con i ragazzi della piazzetta” quando c’era ancora il dormitorio pubblico, e i “barboni” (nel senso più poetico e jannacciano del termine) stazionavano al bar-mescita Lettini Filippo prima che De Sica e Zavattini li raccontassero nel loro miracolo milanese. A Porta Romana ho vissuto da bambino, con mia sorella, l’unica permanenza a Milano di quasi dieci giorni; a Porta Romana vivo ormai da un quarto di secolo con la mia compagna, in quella che posso considerare la mia casa da adulto. Non so, e forse solo tu potresti rispondermi, che cosa mi abbia riportato qui, se il caso o la forza inconscia delle radici familiari. Ma certo, quando passo di fianco alla Porta e vedo tra i nomi dei partigiani scritti sull’Arco quello di mio nonno ucciso da un soldato tedesco alla Pirelli occupata – la brusada, la «bruciata», dove lui lavorava – sento che qui c’è qualcosa di mio, anzi, qualcosa di me, che non mi fa sentire estraneo ma a mio agio – e orgoglioso – di muovermi tra le sue vie. 102 | Lettera a Milano
Perché, cara Milano, è facile sentirsi estranei a Milano. Sarà strano sentirsi innamorati, ma sentirsi estranei no, non è strano: è facile. E oggi è più facile di quanto non lo fosse quando sono venuto a viverci, negli anni Settanta. E ancora di più rispetto al passato remoto delle foto in bianco e nero. Dimmi tu se è vero o no; dimmi tu se ti senti cambiata, se hai voluto cambiare, se hai dovuto farlo. O se invece sono stati il tempo e le persone con cui hai avuto a che fare, a cui ti sei affidata, a trasformarti. La Milano del cuore in mano, della mano tesa verso gli altri (come cantava D’Anzi nell’inno cittadino dedicato alla Madonnina); la Milano della solidarietà e dell’accoglienza. Nelle tue vene ancora scorre quel sangue, ancora soffia in te quello spirito tutto meneghino. Però. L’individualismo, la corsa più allo sviluppo che al progresso, secondo la distinzione pasoliniana, ha aumentato la distanza tra le persone, ha accentuato la reciproca diffidenza e, di conseguenza, ha diminuito l’empatia, l’immedesimazione nell’altro, il senso di comunità. Di fraternità. Un esempio? Dopo essere rimasta vedova, mia nonna continuò a lavorare alla Pirelli, con turni in fabbrica che la facevano alzare anche alle quattro del mattino. È sempre stata sovrappeso, mia nonna. E a volte capitava che fosse in ritardo sull’orario del tram che la portava alla Bicocca e lo intravedesse già arrivato alla fermata di Medaglie d’Oro. Così correva per prenderlo. Correva per non perderlo. Il tramviere, che la conosceva, e sapeva essere una dei “suoi” passeggeri abituali, la vedeva dallo specchietto affannarsi, correndo più veloce che potesse. E la aspettava. Questione di una manciata di secondi, ma la aspettava. «Forza, sciura Viganò! Forza!», le diceva. E ripartiva solo quando lei era su. Forse sono le persone che fanno la città, o forse è la città che fa le persone. Non so. Ma so quante volte i tram mi hanno chiuso le porte in faccia e non certo perché volevano giocare al film Sliding Doors. Perché vedi, cara Milano, per me ci sono (almeno) due Milano: una interiore e una esteriore. Quella del “tramviere e la nonna” è la Milano interiore, così come quella del club Capolinea, il tempio cittadino del jazz, che non c’è più: demolito; come quella delle insegne luminose in piazza Duomo, che non ci sono più: smontate e buttate; come quella del Luna Park Varesine, che non c’è più: sradicato per fare posto ai grattacieli; come quella “Bosco di Gioia” di via Melchiorre Gioia: raso al suolo in nome del nuovo Palazzo Lombardia; come quella delle costruzioni Liberty del primo Expo, nel 1906: tutte demolite (unica sopravvissuta: l’Acquario civico). Per non parlare della Piccola Scala, intitolata a Toscanini, il cui progetto portava anche la firma di Piero Portaluppi: spazzata via dall’ultima ristrutturazione del teatro. Ti basta o devo continuare? Quella esteriore è quella che vivo ora, in diretta, che vedo crescere intorno a me, giorno dopo giorno, cambiare, perseguire obiettivi che sempre più spesso vanno a discapito proprio di quella interiore. Che la cancellano, un pezzetto alla volta. Mi spiego. Il tuo maggior difetto, Milano, è non volerti bene. È non proteggerti. È non conservarti, custodirti. Tu non valorizzi il tuo passato, perché altrimenti non lo cancelleresti con tanta superficialità e leggerezza; tu non tieni alla tua storia – che è fatta anche di piccole grandi cose: angoli, caffè, alberi, locali, librerie, strade, pavé, case, vecchi tram… –, altrimenti non la considereresti meno importante del nuovo, del futuribile; non venderesti frammenti della tua anima al migliore offerente per qualcosa che non ti assomiglia nemmeno. Dici Lettera a Milano | 103
Adorabile città mia GIOVANNI GASTEL Fotografo
che bisogna andare avanti? che non ci si può fermare? che la nostalgia blocca tutto? che bisogna crescere, migliorarsi, internazionalizzarsi? globalizzarsi? Certo, capisco; ma la verità è che pur restando bella, la tua bellezza è sempre più impersonale: senza difetti, senza rughe del tempo, una bellezza anonima. I grattacieli di CityLife o quelli dell’ex Varesine non sono poi così diversi da quelli di Dubai. I piani aggiunti alle case d’epoca per aumentarne la metratura, sono sfregi sulla tela, non tagli di Fontana. Ti sei fatta il lifting e non solo non ne avevi bisogno, ma in più ti sei rivolta a un chirurgo estetico che prima di prendere in mano il bisturi non ti ha nemmeno guardata in faccia – figurarsi dentro; che non ha provato a capire chi eri, com’eri, chi sei stata stata prima di cambiarti i connotati. E ha lasciato cicatrici perenni, in te e in me. Ma forse sono io a sbagliare, io che mi ostino a guardare con gli occhi interiori, gli occhi della memoria e dell’anima e non con quelli dell’evoluzione. Sono io a non capire che in fondo la tua storia è questa, questa la tua debolezza e la tua forza: non avere legami con niente e con nessuno. Neanche con te stessa. Essere libera, anche di non riconoscerti più. Anche di sacrificare una parte di te per andare incontro al futuro. Di «morire un po’ per poter vivere».
Mia amatissima Milano, ti scrivo da qui, oggi, da questa condizione medievale di città murata, assediata e chiusa. Da questo avamposto come sempre coraggioso e difficile da piegare. Giro col mio motorino le tue strade spesso semideserte così lontane da quel fiume di umanità operosa e un po’ frenetica che normalmente ti percorre come sangue pulsante. La tua forza vincerà ancora una volta, lo sento, lo so. Eppure è doloroso sentire ogni giorno, come in una guerra contro un nemico alieno, questa teoria di morti invisibili che quotidianamente mi feriscono il cuore. Da ragazzino scrissi: «Lontano non pensavo che a te / calda babele di ricordi...». Ecco, sei ancora questo per me: un rifugio, una tana dove torno con la mente di oggi, parte del mondo, quando il vivere si fa difficile e lo spirito si sente straniero. Torno a te, alle tue vie, alle tue piazze, ai tuoi monumenti indimenticabili. Alla capacità del tuo Duomo di trascinarti in alto, in un volo verticale verso i cieli alti, verso i pensieri alti. Alla medievale perfezione di piazza Mercanti dove giovanissimo sedevo scrivendo poesie per placare la mia mancanza di sonno e la difficoltà di vivere in un’epoca difficile e dura. Ma non sono partito come tanti della mia generazione verso Paesi più tranquilli. «Quando il paese è attaccato noi restiamo nel paese, partiremo solo quando non avrà più bisogno di noi» mi disse un giorno mia madre milanesissima (Visconti di Modrone) e così dopo quei terribili anni di terrore e morte ancora oggi, di nuovo sotto attacco da parte di questo subdolo nemico, io resto qui, Milano mia, non foss’altro che per dimostrare che un milanese non scappa davanti al nemico. Milano cara, hai accompagnato la mia adolescenza fuori da quegli anni bui verso la gioia grande della ripresa. Hai riaperto le tue splendide case con rinnovata gioia, sei tornata motore ed esempio per tutto il Paese per decenni riempiendomi il cuore di nuovo orgoglio per essere uno dei tuoi figli. E a questo onore ho risposto dando tutto me stesso alle opportunità che mi ha dato quell’incredibile fenomeno totalmente milanese che è stato negli anni Ottanta la nascita del made in Italy e il consolidarsi del primato della moda italiana e poi del design. Con la perseveranza che la tua etica mi ha insegnato ho percorso tutti i livelli del mio mestiere di fotografo a testa bassa cercando di migliorare ogni giorno. E furono gli anni che il sociologo Francesco Alberoni chiamò «il piccolo rinascimento dello stile». Ho visto poi Milano diventare la prima città turistica d’Italia, visitata e amata da tutto il mondo per la sua capacità di unire bellezze architettoniche antiche e contemporanee, e uno shopping scoppiettante.
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Lettera a Milano | 105
Milano CARLO SINI Filosofo e accademico italiano
Non sono nato qui, dove ancora abito, Milano. Della città della mia infanzia, Bologna, conservo rari, dolci ricordi per lo più immaginari, ma a Milano ho fatto tutte le scuole, dalla prima elementare in poi, con i sabati vestito da “figlio della lupa”, sul piccolo petto la “M” rossa di tutte le nostre sciagure: non potevo saperlo, ma lo avrei imparato e visto coi miei occhi. Così sono milanese di adozione, per non dire, in sostanza, che lo sono di fatto e di diritto, poiché così mi sento. Sono figlio dei gran nebbioni di una volta, dei quali quei pochi come me che ancora li ricordano hanno nostalgia. Fatto incomprensibile per chi non è andato a scuola nelle mattine di ottobre avvolto dalla nebbia, se il caso vuole in compagnia della ragazzina di cui si è innamorati, senza mai il coraggio di dirglielo; oppure nei campetti di periferia dall’erba “stinfia”, come si dice qui, a giocare interminabili partite di pallone. E poi le nebbie delle notti dei bombardamenti, chiusi nei rifugi ad ascoltare tremando il sibilo delle bombe («Quelle non cadranno qui», assicurano i competenti); le nebbie di quando, da giovanotti, si faceva tardi a parlare di ragazze e, tornando a casa, la fronte era nera per lo smog imperversante: la Milano operaia, brusca e corrusca, dove non si sta mai “cunt i man in man”, ma nel contempo umana, generosa, “popolare”. Vedi quanta gente al cinema questa sera! Il pubblico dei milanesi era euforico e contento. Mio padre, bolognese dalla dolce vita, non capiva, si irritava e rinunciava a “fare la ressa”. Mia madre, presto innamorata di Milano, si rassegnava. E poi le partite a San Siro, lo stadio a catino di una volta: ma io fedele al Bologna, causa di baruffe infantili con interisti, milanisti, iuventini e altri diavoli assatanati.
pubblica (che qualche scervellato immagina di contestare). Dove vai Milano, e soprattutto dove andiamo noi se ti arrendi al silenzio? Ma se provvisoriamente tacciono le pietre parleremo noi, tuoi figli: testimoni incarnati della tua storia. Testimoni memori di una rinascita che nei secoli si è sempre tradotta innumerevoli volte nelle voci e nelle azioni dei suoi tenaci abitanti e nel racconto delle loro storie, che in verità sono le tue, Milano, piccole e grandi, importanti ed effimere. Come questa: piccolo tributo che ferma in un attimo un passaggio ancora vivente della tua realtà millenaria, passata e certamente ancora futura.
Poi quel giorno, dalla terrazza della cucina: i partigiani che sparano dai giardinetti di Porta Lodovica e dalla caserma (un tempo dei bersaglieri, come mio nonno) che fiaccamente rispondono. Verso sera piazzale Loreto con i genitori e una gran folla (ma i corpi li avevano già portati via). Al ritorno, per corso Buenos Aires, le prime camionette degli “americani” con i preziosi chewing-gum dei quali noi ragazzi andavamo pazzi; a scuola ci imponevano di sputarli: i nostri insegnanti erano stufi di avere di fronte una classe di ruminanti. Poi la Scuola Musicale, nei pressi di San Babila, dove, adolescente sognatore, immaginavo un futuro di compositore, il loggione della Scala e infine il tempio dei templi: la Statale, dove incontrai i miei maestri (Giovanni Emanuele Barié dapprima, ma poi soprattutto Enzo Paci) che decisero il senso e lo scopo principale della mia vita. Andirivieni urbano di luoghi e di occasioni in cui questa grande, antica, e però sempre nuova città giocava il ruolo della scena, delle quinte, della ribalta, ma in realtà quello della profondità del destino che accompagna e alleva coloro che vi si aggirano e che vi abitano, spesso immemori del loro debito, ma anche tenacemente aggrappati a questa madre nascosta, imponente e silenziosa. Oggi per me, come per altri, tutto è cambiato, dalla “Milano da bere”, a quella del Sessantotto, delle bombe nella banca dell’Agricoltura e delle brigate rosse, sino alle attuali tragiche circostanze della salute 106 | Lettera a Milano
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Milano, modello di sostenibilità, digitalizzazione e inclusione MANFREDI CATELLA Founder & Ceo COIMA
Era il 2005 quando leggendo la recensione del libro Il crollo delle aspettative fui attratto dal conoscere lo scrittore Luca Doninelli che intitolava le sue riflessioni con un apparente senso di negatività, così lontano dalla passione che animava tutti noi nell’affrontare un’avventura tanto straordinaria quanto difficile: Porta Nuova. Poi lessi il libro e trovai invece uno spirito costruttivo, in sintonia con il nostro; e in più, un inizio di libro che partiva dal grande sterro, lo stesso su cui stavamo lavorando con passione e impegno inarrestabili. Lo sterro di cui parlava Luca, con il quale siamo diventati grandi amici, era quello delle Varesine: simbolo di abbandono e di degrado in una Milano ripiegata su se stessa, dopo anni di crisi anche culturale.
e inclusione sociale; la città può dare molto al resto dell’Italia condividendo modelli di sviluppo e risorse funzionali a un’accelerazione del processo di rigenerazione diffusa, che potrà portare a un futuro di qualità per le prossime generazioni. È il momento per ricomporre la classe dirigente del Paese, che non può definirsi tale se non quando più persone qualificate e competenti si uniscono in una missione ambiziosa che metta il bene comune prima di quello personale. Questa è la mia aspirazione per Milano, a cui sono grato per avermi consentito di imparare e per avermi dimostrato che l’impossibile può diventare possibile.
Sembrava un’opera irraggiungibile ma giorno dopo giorno, ispirati dal desiderio di contribuire a una rinascita della città innanzitutto culturale, morale ed estetica, abbiamo continuato con determinatezza superando innumerevoli ostacoli, diffidenze e opposizioni. Eravamo consapevoli che non saremmo stati accolti con sostegno: erano stati troppi gli anni in cui operare sul territorio era diventato un mestiere svalutato da un eccesso di esempi modesti. Era un’eredità da rigenerare e, rimboccandoci le maniche, abbiamo accettato la sfida, guadagnando la fiducia con i fatti che seguivano le parole e i consensi che lentamente iniziavano a prendere forma. Ci sono voluti almeno 15 anni perché Porta Nuova divenisse uno dei simboli riformatori di Milano, ma l’impegno di moltissime persone – che per gran parte della propria vita sono rimaste unite – ha consentito di arrivare in porto. In questi anni Milano ha saputo costellarsi di interventi territoriali straordinari che hanno ridato alla città una bellezza, un dinamismo e una centralità nel dibattito sulla rigenerazione urbana di livello internazionale. Adesso si può iniziare a lavorare su una visione più grande. La crisi pandemica ha messo in ginocchio l’Europa, ma è in questi momenti di discontinuità storica che si possono affermare nuovi paradigmi e accelerare cambiamenti indispensabili. Siamo nel 2020, nel mezzo della seconda ondata di contagi: è adesso che a Milano le forze si devono unire proteggendo i risultati straordinari raggiunti e guardando in avanti con vigore. Un modello capitalistico estremo fondato sulla concentrazione non può più essere la risposta alle emergenze del nostro mondo. Crisi ambientale e sociale ci impongono di pensare a equilibri più diffusi, e così anche le città che sembravano competere per dimensione e polarizzazione a scapito di altri territori ora potrebbero lasciare spazio a un modello di sviluppo territoriale più bilanciato. La nostra storia ha le radici nei mille campanili, nelle numerose città straordinarie: se le collegheremo investendo in infrastrutture fisiche e digitali potremo creare un sistema di città vivibili e solidali unico al mondo. Milano deve porsi obiettivi ancora più elevati, prima all’interno dei propri confini per poi diventare un riferimento mondiale per sostenibilità, digitalizzazione 108 | Lettera a Milano
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Di Milano mi interessa più la rappresentazione che la realtà ALESSANDRO MENDINI* Architetto, designer, artista
Cerco le sensazioni evanescenti e oniriche derivanti non dalla materia fisica della città, ma invece dal suo aspetto astratto, mentale, nebuloso, oppure pieno di sole, un suo esistere indiretto e solo pensato. Mario Sironi, Carlo Carrà, Achille Funi. E poi Lucio Fontana, Saul Steinberg, Dino Buzzati. Quando ero all’università vedevo talvolta sui marciapiedi Carrà e Funi, mi sembravano come due monumenti che camminavano chiacchierando in via Brera. Oppure andavo allo studio di Fontana in corso Monforte, e stavo a guardarlo mentre bucava le tele, usando punteruoli invece che pennelli. Una volta mi regalò una tela. Oppure scrutavo Alberto Savinio dopo la sua opera Alcesti di Samuele alla Scala, e mi faceva paura come fosse quel gufo grigio nel quale si è raffigurato nel noto autoritratto. Oppure mia zia Marieda collezionista mi mandava in piazza Amendola dove abitava da solo Sironi malato, a portargli le medicine. Le lasciavo alla base del grattacielo, il portiere le metteva nell’ascensore e citofonava. Allora Sironi le ritirava al dodicesimo piano. Fu così che non vidi mai Sironi di persona. Non ho mai pensato di cambiare città. Milano è una città un po’ brutta, un po’ piccola, un po’ antipatica, un po’ avara, un po’ violenta. Però contiene quell’humus misterioso che ha permesso di crescere a tutto il mio immaginario, e che proprio non troverei altrove. È un misto di fredda e schematica poesia, di tradizioni contrastanti, di subconscio, di architettura un po’ gelata, di gloriose storie di designer e riviste di architettura. Io vivo lì dentro, un po’ bene, un po’ male, sto a casa la sera, la società borghese ufficiale mi sembra meschina, l’Expo è stata reazionaria, nessuna contestazione alla Triennale, Enzo Mari viene dimenticato. Allora invece frequento una Milano immaginaria e analoga, che nasce dentro di me in ripetuti sogni notturni, sempre molto uguali. In quel mondo che non c’è e che proprio non appartiene alla mia reale toponomastica, cammino per strade che non esistono, sono sempre le stesse e sembrano essere fra la Stazione Centrale e piazzale Loreto. Allora entro in chiese fantasma, vado a comperare il pane in negozi sconosciuti e surreali, trovo nelle vetrine oggetti metafisici, incontro persone simpatiche che ormai conosco bene, e tutto avviene stando seduto sul mio comodo divano kitsch, dopo essermi addormentato su romanzi di autori lontani nel tempo e nel luogo. Un aneddoto particolare – ma questo è vero –, un ricordo che ha coinciso con cinque anni della mia vita. Quando molto tempo fa fui direttore della rivista Domus, mi recavo tutti i giorni alla redazione della rivista, presso la storica sede dell’editoriale. La sede era romantica ed era fuori Milano, verso la pianura umida a sud, vicino ai prati lucidi delle risaie. Uscendo tutti i giorni da Milano, trenta minuti di automobile, mi astraevo dalla città, e vivevo per tutto quel tempo in uno spazio concettuale come inesistente, e in uno spazio fisico agricolo, una bolla di decompressione. Si andava a mangiare lì attorno in trattorie di campagna, talvolta cucinavano sadicamente le rane fritte. Fu in questo luogo isolato, ma carico e ricco delle storie di Casabella e di Domus che conobbi tutti i più celebri architetti, e centinaia di giovani designer, che venivano come in un pellegrinaggio a visitare la redazione, testimone 110 | Lettera a Milano
autorevole di un certo genere di Milano. E nell’andata e ritorno in automobile, un’ora di Tetralogia di Wagner, registrata alla Scala da Wilhelm Furtwängler, oppure qualche cosa d’altro. E poi i personaggi che abitano il Cimitero Monumentale, il luogo più romantico che io abbia visitato. Ci andavo da bambino con il sole o con la pioggia, con il caldo o con la neve, tenuto per mano, a portare i fiori sulla piccola ma bellissima tomba dei miei nonni, disegnata da un signore che mi dicevano essere famoso, l’architetto Piero Portaluppi, che aveva disegnato pure la nostra casa. Percorrevo il lungo viale con soggezione e con la paura di incontrare degli scheletri, e uno dopo l’altro apparivano assurdi e affascinanti monumenti di buoi e agnelli in bronzo, degli spettri, dei fantasmi, un mix di micro-architetture, di languide enormi figure dolenti in marmo, di angeli, di simboli, di lacrime di pietra dorata, di croci, una situazione extraumana. La somma, il catalogo pietrificato, il trionfo della morte dei grandi borghesi e degli industriali di Milano, quelli veri che ora non ci sono più, allineati in un patchwork di piccoli giardinetti e micro-palazzi. Una trionfale rappresentazione fuori dalla logica e dal contesto, la quadrettatura per un gioco a scacchi fuori scala. Una enorme città in miniatura, un luogo ricchissimo di amore. Perché una volta i borghesi di Milano per essere veri e tali, dovevano comprare in parallelo il palco al Teatro alla Scala e la tomba al Monumentale, con frasi retoriche e firme di illustri architetti. E talvolta ora ho dei sogni più recenti. Mi figuro per esempio di essere un nuovo King Kong abbracciato alla guglia del luccicante grattacielo di César Pelli, per guardare il Monte Rosa oltre la Brianza.
Marzo 2016,
* Il lettore troverà in Appendice altri due testi sul rapporto tra Alessandro Mendini e Milano: un contributo per Disegno Magazine, Londra, dicembre 2015 e l’intervista rilasciata a Sette nel giugno del 2003.
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Veduta Milano, 2011, olio su tela, 210×121 cm. 112 | Lettera a Milano
Alle pagine seguenti: Velasca – Piazza Missori, Milano, 2016, olio su tela, 156×114 cm. Lettera a Milano | 113
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Veduta Milano – Piazza San Babila, 2018, olio su tela, 165×138 cm. 116 | Lettera a Milano
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È sempre più la tua lingua, la tua parola, che mi entra dentro
Carissima Milano, sono arrivato a te per amore...
MAURIZIO CUCCHI
QUIRINO PRINCIPE Poeta, critico letterario, traduttore, pubblicista
È sempre più la tua lingua, la tua parola, che mi entra dentro. È il tuo territorio, sei tu, cara città, nelle tue varie forme, che parli in me, come se io fossi un tuo anonimo interprete e minimo portavoce fedele. Ma vengo ora a spiegarmi meglio, in modo meno approssimativo o confuso. Non ho mai parlato la tua bellissima e poetica lingua. I miei parlavano tra loro in milanese e con me rigorosamente in italiano. Così si usava allora, seguendo un nobile progetto che Manzoni aveva reso concreto nella meraviglia della sua opera. Certo, ho letto con passione, tante volte e in tempi diversi, il grande Maggi, e poi Balestrieri, Parini e soprattutto Porta e Tessa. Ma, oltre le esperienze letterarie, il mio milanese era ben poca cosa, del tutto irrilevante, insomma. Il mio lessico potenziale minimo, eppure... eppure... Adesso che appartengo alla categoria degli anziani, un tempo onorata e oggi pressoché vilipesa, sempre più sento in me l’affiorare dell’antica e mirabile lingua delle generazioni che mi hanno preceduto. Sempre di più – restando in effetti men che misero il mio lessico – mi capita di uscire (persino autocompiaciuto) in piccole battute nel tuo civilissimo dialetto gallo-italico, o mia città. So che al massimo potrei rivolgere in questo idioma un piccolo discorso alla mia gatta Zoe, eppure ne provo un senso di appartenenza soddisfatta. Non posso, a questo punto, introdurre una considerazione quasi ovvia. Proprio Delio Tessa poneva in un’epigrafe queste parole: «Riconosco e onoro un solo maestro, il popolo che parla». È che, allora (il poeta morì nel 1939), la lingua veniva creata dal basso, mentre oggi, ormai, il popolo non è più creatore di linguaggio, ma semplice fruitore passivo, volgare imitatore di un parlato orribile generato dai media. E la parola milanese ha perduto ogni vitale alimento, ed è dunque, ormai, pressoché azzerata. Ma tornando alle mie piccole vicende, ricordo che tempo fa mi ero detto di considerarmi o sperarmi come qualcosa, come un normale oggetto, di appartenente alla città, cara Milano. Come una tua panchina, magari una di quelle che spesso vedo nel vialetto che costeggia Sant’Ambrogio, che oggi è anche la mia parrocchia, E più il tempo passa e più questa bella ambizione elevata viene in me a confermarsi.
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Critico musicale, musicologo, traduttore e saggista
«…smarrirà la strada com’uom che sogna.» Arrigo Boito
Cara Milano, posso cominciare così? È troppo confidenziale? Penso che non lo sia. Da quel martedì 2 ottobre 1962, giorno in cui mi hai accolto, ho coltivato il desiderio di rivolgermi a te, prima o poi, come a una persona. Ma è probabile che ogni città, ogni borgo, ogni villaggio, reagisca per simpatia o antipatia, con empatia o con estraneità. Per favore, niente equivoci. Non sto usando un vecchio arnese della retorica: la collaudata apostrofe che dà del “tu” a entità astratte, del tipo: «O Tu (più familiarmente: «Ehi, tu…»), giustizia, dove sei?». Simili attrezzi dell’eloquio (per me, più che un eloquio, questo nostro vorrebbe essere il tentativo di un colloquio in cui alla fine, vedrai, faccio la voce grossa) li uso soltanto quando scherzo. Qui mi concedo il lusso di parlarti seriamente, e il discorso non ti darà piacere. Non è il caso di applicare i modelli del De Oratore o del Brutus anche perché temo che, purtroppo, tu non conosca più il latino. (Eppure, soltanto quarant’anni fa… te la ricordi, la libreria antiquaria di corso Magenta? ... Quella del Lattuada, l’ometto sosia di Carlo Delle Piane, quello che rispondeva a monosillabi o con rutti e mugolìi e con uno scatto del mento mi indicava quel mucchio informe per terra nel semibuio dove si accatastavano sublimi cinquecentine col marchio autentico di Aldo Manuzio, magari col vetusto ex libris e la firma autografa di Angelo De Gubernatis o di Giuseppe Carpani, accanto a costosissime edizioni nuove di zecca, Oxford University o la Teubner di Lipsia, o Les Belles Lettres, o le anastatiche di Forni…). Ma suvvia, basta con il flashback. Non divaghiamo. No, se mi permetto di “tueggiarti”, muovo da una mia convinzione che nulla ha a che fare con l’uso della retorica, antica arte del Trivio, e perciò salda, indispensabile e benemerita ancor più che l’Arma per antonomasia. L’idea che un centro abitato sia un essere cosciente e pensante non è, per me, un als ob…, un “come se…”: non è similitudine né analogia né metafora. Semmai, è il riprodursi reale, sorprendentemente alius et idem come il Sole nel Carmen saeculare di Orazio, di un archetipo, o di una symbolische Form, che, una volta scavalcati dalla percezione i dislivelli dimensionali, ci fa riconoscere, lasciandoci stupefatti, quasi lo stesso sistema, lo stesso meccanismo in funzione che agisce nell’Universo la cui forma eloquente è la spirale. È il microcosmo che implacabilmente ripete il macrocosmo. I fisici ci dicono che un batterio (la ministra Fedeli diceva “battère”, ma… sorvoliamo!) può avere la lunghezza di metri 10-9 ossia un miliardesimo di metro ossia un milionesimo di millimetro, e che, in un elementare rapporto proporzionale, la dimensione per esempio di un virus sta alla statura di un nanerottolo umano quale io sono, come simmetriLettera a Milano | 119
camente il suddetto nanerottolo sta a una distanza cosmica di metri 109 ossia un miliardo di metri ossia un milione di chilometri, poco meno di tre volte (1.153.200 chilometri) la distanza dalla Terra alla Luna (che misura 384.402 chilometri). Sono persuaso che a ogni sobbalzo di moltiplicazione per 1000 (o di multiplo di 1000), a ogni salto a un superiore o inferiore ordine di grandezza, si riproduca una individualità cosciente, illusoriamente convinta di possedere il libero arbitrio. Così Borges in Ajedrez: Dios mueve al jugador, y éste, la pieza. Que Dios detrás de Dios la trama empieza de polvo y tiempo y sueño y agonias?
da ogni parte d’Italia, del miracolo economico non m’interessava un fico secco. Non per lavoro ero arrivato fino a te: a Gorizia avevo il mio guscio sicuro, a Belluno una professione che mi rendeva felice, e allievi del Liceo (qualcuno, respinto alla maturità, era più vecchio di me) con cui ho stretto amicizie sempre e ancora vive. No: a te, carissima Milano, arrivai spinto da un movente supremo: l’amore. Stavo inseguendo una che abitava in via San Michele del Carso n. 18, e non mi voleva: lo credo bene, bastava guardarmi! Eppure, alla fine… factum est.
Mi convince la celebre ipotesi di Gea: il nostro pianeta come individuo pensante. A noi, suoi batteri, sta infliggendo un castigo? Si sta “disinfettando”, usando il Covid-19 per eliminarci così come io nanerottolo uso il cotone idrofilo e l’alcol per disinfettare un mio taglietto sul pollice? Salgo lungo la scala della grandezze: la stella Sole e il suo sistema planetario sono, insieme, una testa pensante che magari s’innamora? Una stella, per esempio Antares, che domani esplode come supernova è un cosmico innamorato che si suicida sparandosi alla tempia poiché la sua ragazza, Sirio, lo ha piantato per un altro, quel bellimbusto di Algol? Salgo ancora: la nostra Galassia è una testa pensante, attualmente infuriata poiché deve preparare i documenti per la dichiarazione dei redditi? E i circa 100 miliardi di stelle (il nostro Sole compreso…) che la compongono sono le molecole di cui è fatta la sua bile di contribuente in subbuglio? Ora scendo lungo gli ordini di grandezza: ogni batterio del mio corpo è una testa pensante? È molto probabile. I miei milioni di miliardi di batteri sono riusciti a dar vita a una maggioranza di governo? E i loro sindacati che ne pensano? Nei loro giornali televisivi, danno notizia che è stata fotografata da un loro telescopio, a distanza, la loro stessa galassia, la Nanus Horribilis 2048? E mostrano la foto di quella galassia, che ovviamente è la mia foto, quella della mia carta d’identità?
Insomma, nella bellissima Gorizia profumata di tiglio e di rose avevo sofferto dolori a catena: la guerra, la fuga da “sfollato” in un villaggio di campagna, metà della mia famiglia sterminata nelle foibe dalle maledette bande di Tito (durante la guerra civile nella ex Jugoslavia anni Novanta sobbalzavo di gioia a ogni notizia di reciproche stragi tra serbi, croati, bosniaci, e simili: posso anche “rispettare” quei popoli, ma li odio, e l’odio è la più vigorosa e nobile fra le mie passioni), la morte di mia madre quando avevo 15 anni, altre malattie e sciagure di persone care. Da quando vivo nel tuo spazio-tempo, cara Milano, ossia negli ultimi 58 anni della mia vita, ho vissuto le esperienze più belle: il grande e unico amore, il matrimonio felice e illuminato in zone alte della mente e del cuore (durato 60 anni, fino a pochi mesi fa), i figli, la nuora e la nipote (tutti musicisti e impegnati nel teatro o nel cinema: si può avere di più?) che chiunque sognerebbe. E ancora: il mio lavoro d’insegnante nel Liceo, nel Conservatorio, nell’Università, nelle case editrici, al Sole 24 Ore, i miei libri, che per il poco che valgono sono parte di me, e li devo anche a te, al tuo “stile di città”. E ancora: le mie belle battaglie come consigliere di amministrazione (sempre gratuito) alla Scala, ai Pomeriggi Musicali, allo splendido Teatro Fraschini di Pavia, alla Casa di Riposo Giuseppe Verdi. Aggiungo: l’unica città italiana in cui la qualità di vita pubblica e funzionale sia almeno tollerabile e migliorabile, sovente buona, talvolta ottima, persino esaltante. Soltanto in te sarei potuto vivere, e in nessun altro luogo. Strano, ma è così. Ti ringrazio, Milano.
Detto questo, cara Milano, sarebbe strano se non mi rivolgessi a te con il “tu”. Colgo subito l’occasione per dirti che la sera di quel martedì 2 ottobre 1962, scendendo dal treno, sentìi una benevola eccitazione e un misterioso benessere. Non mi influenzò sgradevolmente il fatto che io arrivassi a te, dalla mia Gorizia, città deliziosa, dal clima ideale (die österreichsche Nizza, la chiamavano gli arciduchi austriaci che vi svernavano, e lo stesso Kaiser, l’onesto Franz Josef), dall’aria sempre limpida e profumata di tiglio e di rose, e che a 19 anni, subito dopo la laurea, mi fossi spostato a Belluno, altra città limpidissima, tutta laghi alpini e cime dolomitiche accanto a montagne cadorine. A Gorizia avevo la comodità della mia casa di famiglia, a Belluno un bellissimo lavoro di professore nel Liceo Classico. Per giunta, cara Milano, scendendo dal treno su un marciapiede della tua Stazione Centrale fui investito da una zaffata di odore di carbone untuoso misto a un sentore di uova marce, e mi sentii subito bisunto e affumicato dal pulviscolo nero che entrava dappertutto. Accoglievi così. Oggi, non più. La verità è che, diversamente da molti altri accorsi allora (anni del boom!)
E ora, la pars destruens che ti avevo promesso. Non voglio ferirti, né tirarti le orecchie, ma soltanto esortarti. Ho molto sofferto, fremendo d’ira, quando sei stata bacchettata da chi non era neppure degno di “sciogliere il legaccio dei tuoi calzari”. Chi ti ha umiliata e offesa ti ha affibbiato un nomignolo oltraggioso: “Tangentopoli”. A certi imbecilli farabutti brillavano gli occhi mentre sbraitavano: «Ah, ah, ah, pure a Milano ci sta la mafia!». Ed era verissimo: infatti, la mafia erano loro, o almeno ne rappresentavano il “look”, le movenze, il suono, l’eco. Ti posso assicurare che nel dicembre 1993, trovandomi per una delle mie solite conferenze in una città italiana lontana da te più di mille chilometri, essendo presentato dopo la lectio a un signore azzimato e impomatato che mi disse tendendomi la mano: «Ah, lei è di Milano… beh, come si vive a Tangentopoli?», gli risposi con un manrovescio sulla guancia che lo scaraventò a terra. Il bicchiere di aperitivo che stava tenendo in mano volò via, cadde e s’infranse con un paradisiaco fragore e in un sovreccitante nugolo di frammenti di vetro, per non parlare degli schizzi di analcolico che raggiunsero alcuni fra
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Bisogna conoscere la tua storia, per amarti GIULIANA NUVOLI Accademica, saggista
gli astanti… In nome di Lucifero, quanta gioia assaporai! Aggiungo che mi sentii molto deluso da te e dalla tua troppo debole reazione dinanzi all’inspiegabile indolenza di chi, per ragioni d’ufficio, avrebbe dovuto arrestare, catturare, punire con severità esemplare coloro che sequestrarono e uccisero per sudici fini di lucro, e con bestiale ferocia, Cristina Mazzotti, Emanuele Riboli, Giovanni Stucchi; coloro che avrebbero dovuto mettere in gattabuia gli assassini di Sergio Ramelli, del resto giovinastri ben noti, ma “protetti” da parentele altolocate. Ma sì, cara Milano, in quegli anni certi custodi della “morale” s’indignavano per il solito “falso in bilancio”, ma si voltavano da un’altra parte quando avveniva uno stupro, una rapina con o senza omicidio. Io, scrivendo su questo o quel mensile o settimanale (ai direttori di quotidiani che nella tua area si stampano, ero e sono antipatico), intervenivo sempre: urlavo, accusavo, denunciavo. Esito: il solito muro di gomma. Ma tu, cara e amatissima Milano, perché reagivi così debolmente, o non reagivi affatto? Perché non ti facevi sentire in coro, e lasciavi me come solista, sfiatato per il troppo gridare? E che dire di un episodio abominevole? Era tuo sindaco colui il cui nome, tradotto in portoghese-brasileiro, suonerebbe Caridoso do Campanario, e, tradotto pezzo per pezzo in tedesco, sarebbe Unterdorthinterteil von Hängendenturmsradt zu Fromm. In quelle settimane, il Dalai Lama stava viaggiando per l’Europa, per rammentare l’esistenza di una nazione libera, il Tibet, distrutta e asservita da una gigantesca potenza esterna. Lui, come tanti tibetani, in esilio. Oh, sì: anche quel sindaco lo aveva invitato a Milano. Ma bastò che il console del gigante politico-militare-economico andasse da don Caridoso per fargli capire che la presenza del Dalai Lama avrebbe suscitato “disordini” in città in quanto i nativi del gigante politico eccetera si sarebbero sentiti “offesi” (ma quando mai! quei nativi, fossero quelli di via Paolo Sarpi o di zona Canova, se ne fregavano del Dalai Lama, intenti com’erano, nei loro negozietti soltanto al guadagno duro e puro), ed ecco che Herr Unterdorthinterteil cedette alle larvatissime e soavi minacce, e immediatamente “disinvitò” il Dalai Lama. Per Lucifero, che figura facesti tu allora, Milano!!! Perché non ti esprimesti con una ribellione di massa? Perché non proteggesti la tua buona immagine? Perché lasciasti, come al solito, me solo a gridare, scrivere al vento, fremere d’istinti omicidi? D’ora in poi ti osservo, carissima Milano, ti controllo e ti tengo d’occhio. Ti prego, non guastare, non demolire la fiducia, l’affetto e la gratitudine nei tuoi confronti che conservo in me. Sei ancora in tempo.
Cara Milano, città madre e città matrigna. Ero giovanissima, quando arrivai, con un bambino di sette mesi e una profonda nostalgia della mia Toscana. Non ti ho amata da subito: avvertivo incombere su di te, dopo secoli, la Controriforma dei Borromeo e una diffidenza pesante nei rapporti umani. Non ti ho amata da subito: abituata al riso, vedevo labbra stirate in patetiche smorfie e una incoercibile resistenza a prendersi in giro. Ti ho amata nel tempo, in oltre quarant’anni di vita nel cuore pulsante dei tuoi spazi, in quella Zona 1 (detta ora con solennità Municipio) dove c’era tutto: l’Università degli Studi, l’Università Cattolica, la Braidense, la Sormani… e casa mia. Da via De Amicis alla Statale la strada era diretta: un semiarco senza deviazioni, che passava per la Ca’ de’ Fabbri, le Colonne e San Lorenzo, Sant’Eustorgio, un vecchio caseggiato in Molino delle Armi, il monastero di Santa Maria della Visitazione in Santa Sofia, per arrivare alla Ca’ Granda, presa da dietro, dirimpetto al Policlinico. Camminavo sui Navigli, quelli che si portavano via i cadaveri dalla Ca’ Granda e che lambivano i palazzi signorili di Francesco Sforza e Visconti di Modrone. Quei Navigli che avevano visto le impiccagioni di piazza Vetra, e le piaghe degli orfanelli usati dai conciatori per non morire anch’essi avvelenati. Zona di ladri e di puttane, fra Scaldasole e Cicco Simonetta; memore della tortura del Moro e dei colpi incalzanti dei fabbri. Milano, eri lì, con la tua storia, le tue pompe e le tue miserie. Eri lì, antica sede di imperatori e di un vescovo Ambrogio che Agostino chiamava rigator et plantator meus: già grande quando Roma stava morendo. Eri lì con i resti della distruzione del Barbarossa, e quelli fastosi dei Visconti e degli Sforza: tutto mescolato, tutto sovrapposto, tutto amalgamato.
Il tuo fedele Quirino Principe Una città strana, al centro dell’Europa, a cui tutto arrivava, e arriva: dalle ombre lunghe dell’Artico e dal sole caldo dell’Africa. Con pari forza e pari capacità di assorbimento. E qualunque cosa giunga tu sei sempre lì, uguale a te stessa: cambi vestito per le feste ma, anche per i giorni di lavoro, hai un guardaroba da invidia. Mai fuori posto. 122 | Lettera a Milano
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Hai imparato dai tuoi padroni: ne hai avuti tanti. I romani, i goti, i longobardi, i francesi, gli spagnoli, gli austriaci. Ti hanno posseduta, qualche volta violentata; ti hanno presa, lasciata, ripresa e perduta. Ti hanno dato molte lingue, che ostentavi in piazza per rifugiarti poi nel tuo dialetto, quello che Porta ha reso sublime e Cherubini ha ramazzato con cura e consegnato a noi. Hai preso qualcosa da ognuno di loro e ti sei cucita un vestito tutto tuo. Riconoscibile a prima vista. Sì, certo, ci saranno sempre le “madame Bibin” e i “fraa Condutt”; ma cammineranno accanto ad Ambrogio, a Gaetana Agnesi, ai Verri, a Parini, a Manzoni, a Cristina Trivulzio, a Emilio Caldara, a Leopoldo Pirelli. E non verrà mai meno quel fervore di arte e di intelletto che ha fatto di te, dopo Firenze, nei secoli, la fucina della creatività e della sperimentazione culturale. Venivano i mercanti di pelli dal Nord e quelli di seta dall’Oriente; venivano pellegrini, funzionari, soldati, avventurieri: e tu li accoglievi tutti, girando appena la testa, qualche volta se non erano proprio graditi. Ma non dicevi mai no: almeno non definitivo. E a Meneghino importa poco chi comanda: a lui basta avere un tetto sulla testa e un pezzo di pane per sfamarsi. Il resto passa… Cara Milano, che hai preso due terzi della mia vita e che ho amato con abbandono naturale. Ti sentivo lontana, al mio arrivo. Mi faceva da barriera un’Accademia che di milanese aveva poco: molti immigrati anche lì, che del tuo spirito e della tua storia poco avevano inteso. Ma i cortili della Ca’ Granda cancellavano spesso la malinconia: pareva che lì ci fosse posto per tutti. Ho fatto spesso la strada che dal Verziere passa dietro l’Arcivescovado e sbuca a lato del Duomo, aprendo su Palazzo Reale. Qualche volta, dal Verziere tiravo dritto per Piazza Fontana, sulla destra: sapeva ancora di strage. Di storia violenta che tu conosci bene. I tuoi percorsi non hanno l’eleganza dei Lungarni di Firenze, né l’incanto dei canali di Venezia. Ma possiedi una stratificazione tutta tua, che racconta una impareggiabile storia. Esemplare proprio quel percorso: l’Ospedale degli Sforza, l’Arcivescovado, il Duomo, il Palazzo Reale, il Museo del Novecento, la Galleria Vittorio Emanuele. Tutti stili diversi, in una disarmonia che culmina in quella piazza Diaz così gelida adesso, e una volta fitta di lanterne rosse e di donne alla porta che si vendevano per niente. Ma quella grande piazza è bellissima, perché respira ancora dei cortei operai, degli scontri di fazioni, dei concerti e delle fiere. La bellezza tu non la esibisci: te la tieni gelosa dentro, pronta a darla a chi la chieda. Bisogna conoscere la tua storia, per amarti. E io mi sono dedicata a scoprirti, coi miei studenti, in decine di tesi che raccontavano i tuoi tesori nascosti. I palazzi: sopra tutto i palazzi, coi pesanti portoni che si chiudevano ai curiosi, e si aprivano agli intrighi e agli amanti. 124 | Lettera a Milano
Ho provato a guardarti con gli occhi delle “piscinine”, con quelli delle dame, dei mercanti, degli operai, dei barboni e dei poeti. Eri sempre la Milano delle mura spagnole: il pugno chiuso che faticava ad aprirsi in ogni direzione. Forse adesso, bella ragazza, è il tempo di arrivare con la punta delle dita a quella fascia esterna, metà fabbrica e metà campagna che ignora gran parte della tua storia e del tuo sapere. Quella che adesso occupano – indesiderati ospiti – malavitosi calabri, coi cugini siciliani e qualche lontano parente camorrista. Quella che, però, ha nel profondo il tuo stesso dna accogliente, e che non fa attenzione al colore della pelle e agli inciampi della lingua. È lì che hanno bisogno delle tue carezze: nelle scuole, nelle biblioteche, nei parchi, nelle strade, nelle case. Nei vicoli senza storia e nelle piazze anonime. Ecco cosa devi fare: arrivare con garbo e un sorriso, ma con ferme intenzioni. L’arte, il sapere, l’intelligenza della vita e della storia: c’è bisogno di questo. E non devi arrivare con una valigia piena di cose: basta una piccola borsa. Anche lì troverai materia e intelligenze e storia. Tu devi solo rammentare loro che fanno parte di te, del tuo essere; del tuo passato e del tuo futuro; della tua ricchezza e della tua miseria. Vedi, cara, quando ti sei lasciata sedurre dai giochi della finanza, dai facili guadagni, dalla voglia di restare incollata alle piazze dei grandi giochi di potere, ti sei persa. Non è nella tua natura. Ti è proprio un movimento circolare verso l’alto, non una corsa in avanti, in linea retta. Tu devi salire con moto armonioso, portando con te tutto quello che trovi per strada: il genio e l’inventiva, la rabbia e la frustrazione, la protesta e l’omaggio. A volte ti amo, a volte non ti sopporto. Ma quando passo davanti alla Scala il cuore trema: mi arriva alle spalle il passo frettoloso di Vittorini, quello più greve di Montale, lo scalpiccìo claudicante di Parini. E per via Manzoni quello cadenzato di Verdi che prende via Morone per incontrare il grande vecchio, Manzoni. È una piccola ferita aperta quel Bar Blu, lì dietro, ora scomparso; ed emoziona il percorso dal cinema Manzoni a via Turati, deviando per i giardini di via Palestro: porte medievali che guardano il fermento di un Novecento di artisti che ti hanno reso forte e libera. Non perderti, ti prego: non perderti dietro l’ignoranza e le piccole arroganze del potente di turno. Tu sei molto di più: tu sei una donna forte. Tu sei una donna vera. In una Lombardia da trent’anni smarrita, sei rimasta salda, con qualche smagamento e leggera caduta, ma ti sei ripresa. Hai spolverato la gonna e fatto un cenno con la mano: «Venite con me, cammineremo bene, insieme…».
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Milano, città d’accoglienza LINO VOLPE Presidente Gruppo Elior
Quando penso a Milano, penso a una città grande, moderna, importante, europea. Il luogo che più mi attira e appaga è piazza del Duomo e la Galleria. Piazza del Duomo rappresenta la parte più profonda di Milano. Il Duomo non è soltanto bello ma è anche un insieme di arte, di cultura e all’interno trovi una serenità e intensità straordinaria. La Galleria è il salotto di Milano. Le forme architettoniche sono quelle ottocentesche e i negozi e le firme che ci sono in Galleria sono la testimonianza di come questo salotto sia proiettato verso il futuro. Questo è il luogo di Milano che attira la mia attenzione, la mia curiosità e nonostante io ritorni, anche per lavoro, più volte a settimana, quando mi trovo davanti al Duomo non manco mai di guardarlo scoprendone ogni volta degli aspetti diversi.
in forma gratuita, dove abbiamo portato circa 150 artisti tra coro, musicisti e cantanti. La cosa che mi ha colpito è che è bastato dare la notizia qualche giorno prima su qualche giornale per trovare il Duomo colmo fino al limite e con una coda all’esterno che cercava di entrare a fatica: in qualche modo ho capito che cosa siano Milano e il Duomo. C’era gente ricca, gente normale, giovani, anziani, tutti propensi ad ascoltare la musica meravigliosa che veniva da questo luogo sacro e popolare. Questa è Milano: ricca, generosa, aperta, disponibile e proiettata verso il futuro. Spero di viverla così intensamente ancora per molto tempo.
Per lavoro o per vacanza ho girato parte del mondo visitando molte città importanti; devo però confermare che il senso di accoglienza che Milano dà a ogni persona che arriva è qualcosa di tipicamente “meneghino”. Negli ultimi anni ho visto poi Milano crescere molto e orientarsi verso lo stile delle grandi città d’Europa. La zona dei grattacieli, la zona di Brera, la movida dei Navigli, l’Expo e tante altre zone sottolineano la capacità di offerta di Milano verso tutte le persone. Inoltre, stiamo osservando la moltiplicazione delle linee metropolitane che renderanno la città ancora più moderna e fluida. Soprattutto quando vado in altre città d’Europa e faccio il turista ho il comportamento tipico del viaggiatore che vuole conoscere l’ambito che sta visitando. Come tutti i turisti, la sera prima faccio un minimo di programmazione e il giorno dopo visito luoghi, musei, quartieri, ristoranti, il tutto per integrarmi con la cultura del luogo. La stessa cosa faccio a Milano, soprattutto il sabato. Dedicare una giornata a vedere negozi in centro, bermi un aperitivo in Galleria da Carlo Cracco, andare a pranzo in zona Brera e visitare nel pomeriggio antiquari o musei, tutto questo mi regala una giornata veramente fantastica. Milano è una città che ti fa innamorare. In questo contesto ampiamente positivo, non posso dimenticare la situazione Covid. Questo virus ha piegato il mondo e ha tolto negli ultimi mesi a Milano gran parte della sua vivacità e forza produttiva. Per motivi di lavoro mi capita di andare pressoché settimanalmente a Roma. Anche la capitale è colpita, ma mentre Roma sembra accettare quasi con normalità il virus, Milano fa veramente molta fatica a vivere in un modo soltanto parziale la propria essenza. Mi auguro che nel giro di qualche mese la città ritrovi quel senso di bellezza, di solidarietà, di potere, di rappresentanza italiana in Europa e nel mondo. Mi è capitato qualche volta di vivere molto intensamente serate piene di musica, di amici, di ristoranti, di luoghi dove bere un caffè; tutti posti che non si possono dimenticare. Girare ora per la città con questi luoghi chiusi e deserti non è piacevole. Mi sono dilungato a parlare di Covid perché Milano, in particolare negli ultimi anni, era veramente cresciuta molto e anche i numeri davano ragione alle scelte fatte dall’amministrazione e dall’imprenditoria. Prima di terminare questo “dialogo”, vorrei ricordare un concerto di qualche anno fa tenuto in Duomo, ovviamente 126 | Lettera a Milano
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Milano: grande fucina di esperienze e relazioni MASSIMO DONÀ Filosofo, musicista
Meglio dirlo subito: non sono milanese, anche se a Milano lavoro dall’inizio del Ventunesimo secolo. Da quando, cioè, è stata fondata la facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele (più precisamente, dall’autunno del 2002). Sono veneziano e vivo nella terraferma veneziana da sempre. Ma da quasi vent’anni la mia vita trascorre tra Venezia e Milano. Devo dire che i primi anni milanesi, per quanto animati da grande slancio e curiosità, mi hanno leggermente deluso. Per un certo tempo ho preferito, e di gran lunga, la magnificenza della capitale. Roma stava attraversando un periodo di grande fermento, e non solo culturale (stavano nascendo tante nuove realtà: il Maxxi, la Città della musica, il nuovo Festival della filosofia… e tanto altro). Mentre a Milano pareva esserci spazio solo per il business, la moda, gli affari, e, al massimo, l’editoria. Insomma, la vita quotidiana, i luoghi della cultura, erano sostanzialmente stanchi, asfittici, laterali o soffocati dal brusio tipico del mercato; di ogni mercato. Generato da uno scambio sempre affannoso e ansiogeno. In virtù del cui abbraccio neppure ci si guarda negli occhi; anche se si contratta e si cerca di farla franca. Milano era una città tutto sommato abbastanza grigia. Mi aggiravo tra le sue vie sostenuto più che altro dalla memoria di quel che doveva esser stata. La Milano degli anni Cinquanta e Sessanta. Una città in fibrillazione, in cui i bar, i locali e i teatri ospitavano il meglio di tutto quello che avrebbe lasciato un segno in Italia e in Europa almeno sino alla fine degli anni Settanta. La Milano del jazz, dei cantautori, del cabaret, degli artisti che animavano la zona di Brera. La Milano delle grandi gallerie d’arte, dei grandi scrittori e dei grandi poeti. Buzzati e via Solferino. Piero Manzoni e gli incontri al Jamaica. Lucio Fontana e gli amici spazialisti. La Milano di cui tanto avevo sentito raccontare. Ecco, quella Milano non c’era più. Era un po’ come essere a Trieste, che viveva e continua a vivere quasi solo dei ricordi della tanto favoleggiata Mitteleuropa. Ma dopo l’Expo tutto sarebbe cambiato. Milano, senza che me ne accorgessi, stava lentamente cambiando volto; da alcuni anni, importanti lavori in corso erano visibili sia in zona Garibaldi che vicino a Porta Genova. E non solo. Stava crescendo una Milano inaspettata. Ricca di bei locali, interessanti librerie, teatri e iniziative culturali; anche la Triennale avrebbe ripreso ad attivarsi come un tempo. Per non parlare della Manhattan milanese: corso Como e le strade più chic di quella zona, frequentate da chiunque volesse farsi notare. La nuova sede della Fondazione Feltrinelli, Eataly, dove un tempo c’era il mitico teatro Smeraldo. Le grandi boutique, quasi come in via Montenapoleone. Per non dire delle stradine laterali che alimentano come tanti affluenti il grande corso Buenos Aires, con i loro mille negozi e mille locali – per tutti i gusti. Per non dire della zona strapiena di ristoranti etnici vicino a Porta Venezia. Milano avrebbe cominciato a staccare Roma, avviata invece verso un lento e inesorabile 128 | Lettera a Milano
declino. Il sorpasso era stato sancito dal grande evento Expo. Tanto temuta e criticata, la grande Esposizione universale avrebbe in realtà funzionato da volano per una strepitosa rinascita. La zona di Milano che ho più assiduamente frequentato in tutti questi anni è stata comunque quella delle stradine laterali che si dipartono da corso Buenos Aires. I ristorantini e le pizzerie frequentati almeno una sera alla settimana durante la mia permanenza milanese. Da anni, infatti, mi fermo a Milano il martedì e il mercoledì. Dormo almeno una sera alla settimana in questa ormai sfavillante metropoli, e riesco a fare un sacco di cose. Vedo tanti amici, incontro colleghi, frequento feste, serate a casa di amici, salotti letterari come quello dell’amico e scrittore Roberto Caracci. Per anni ho partecipato alle favolose cene di Fiorella La Lumia, nella sua strepitosa abitazione in zona Lancetti. Una casa del Cinquecento, pare di proprietà degli Sforza e frequentata all’epoca anche da Leonardo da Vinci. Fiorella La Lumia è stata una grande protagonista della Milano dagli anni Sessanta agli anni Duemila, con la galleria Studio Lattuada ha fatto conoscere in Italia alcuni tra i più grandi artisti del mondo. Le cene da Fiorella erano ogni volta una sorpresa; io ci andavo con studenti, dottorandi e colleghi del San Raffaele e poi invitavo qualche amico, mentre Fiorella reclutava ogni volta le personalità più interessanti e stravaganti della città. Avvocati, artisti, critici d’arte, scrittori, cantanti, musicisti, spesso anche stranieri, che avevano qualche motivo per venire a Milano e andare a trovare Fiorella. Ospite fisso di queste cene era un artista iraniano, Ali Farahzad, anche lui organizzatore di eventi e performance memorabili nel suo loft vicino a Porta Nuova. Ma anche cene persiane rimaste nella memoria di tutti coloro che hanno potuto parteciparvi. Artista raffinatissimo che, insieme a Lucia Pescador (altra raffinatissima artista milanese), è stato ospite fisso delle serate organizzate da Fiorella. Ricordo una bellissima cena che ha visto seduto a tavola anche Flavio Caroli, importante critico e storico dell’arte italiano. In galleria da Fiorella, in via dell’Annunciata, abbiamo poi organizzato più di qualche mostra con il figlio Flavio, cicli di conferenze e molti altri interessanti eventi, che hanno visto capitare negli spazi della galleria una quantità non indifferente di persone. Ma poi, sempre a Milano, ho passato serate piacevolissime ed esilaranti con il filosofo Giulio Giorello (amico del cuore per tanti e tanti anni), con l’attore e pubblicitario Carlo Giudice (ora anche produttore di vino; caro amico che, un tempo, da giovane, viveva nella mia città, a Mestre), con l’amico collezionista Gianni Bolongaro, oppure a casa del grande jazzista Claudio Fasoli, amico fraterno che mi ha fatto l’onore di suonare il sax in tre brani nel mio penultimo cd. A Milano ho anche avuto modo di suonare, ogni tanto, la tromba; ossia di presentarmi in pubblico non solo come filosofo, ma anche come jazzista e leader di un trio jazz. Ricordo quando, alle Scimmie, abbiamo presentato uno dei miei primi cd; ricordo ancora in prima fila uno dei miei primi maestri di Jazz: Giorgio Gaslini. Ma ricordo anche Franco Fajenz, importantissimo critico di jazz milanese. Lettera a Milano | 129
Con Gaslini, in effetti, avevo scoperto Milano per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta, quando con altri amici veneziani frequentavo i corsi di jazz tenuti da Giorgio Gaslini presso il Conservatorio Giuseppe Verdi. Ricordo ancora qualche indimenticabile session nei locali fumosi del Capolinea, mitico locale che ha ospitato per anni i più grandi jazzisti del mondo. Ma la più importante esperienza umana e culturale milanese è stata sicuramente quella che mi ha visto sin da subito – da quando ho cominciato a insegnare al San Raffaele – frequentare Carlo Invernizzi, un grandissimo poeta che mi ha segnato nel profondo, conosciuto grazie a Luca Massimo Barbero, importante curatore e critico d’arte veneziano. Carlo è stato un poeta sublime – secondo me non ha davvero nulla da invidiare ai grandi del Novecento. Ma conoscere, dialogare e discutere con Carlo Invernizzi ha significato anche cominciare a frequentare tutta la sua straordinaria famiglia: anzitutto il figlio Epicarmo, gallerista tra i più rigorosi e raffinati dell’ambiente italiano (e non solo milanese), che, nello spazio in via Benedetto Marcello (sempre in zona Buenos Aires), cioè nella galleria A Arte Invernizzi, mi ha consentito di conoscere alcuni degli artisti e degli intellettuali più interessanti della Milano di questi anni e non solo. Anche grandi e importanti artisti stranieri, per i quali ho avuto l’onore di scrivere e che ho potuto conoscere e frequentare sempre grazie alla famiglia Invernizzi. Una famiglia composta anche dalla moglie di Carlo (cuoca da capogiro) e dall’altro figlio Sostene, importante avvocato milanese, che ha proseguito l’attività del padre. Sì, perché Carlo è stato anche un grande avvocato della Milano di qualche anno fa. Certo, a lui non interessava più di tanto il mondo dei tribunali e delle preture; preferiva quello della fisica, della filosofia e della poesia; a lui interessava interrogare la vita e corrispondere al mistero da essa comunque custodito. Sentendosi chiamato solo da quell’infondo senza fondo che risuona in ognuna delle sue mirabili creazioni in versi (pubblicate per intero, abbastanza recentemente, da La nave di Teseo). Anche le cene da Carlo, insieme a filosofi, artisti e amici di varia provenienza – ricordo, tra tutte, la presenza costante del grande amico, superlativo critico e storico dell’arte, Tommaso Trini –, sono rimaste scolpite nella mia memoria. Anche le mostre che Epicarmo mi ha chiesto di accompagnare con delle presentazioni o degli scritti ad hoc sono state per me una importante occasione di crescita. Ma ricordo con grande gioia anche i cicli di conferenze filosofiche che Epicarmo e la moglie Tiziana hanno voluto ospitare nei bellissimi spazi della loro galleria. Non molto tempo fa, peraltro, Epicarmo mi voluto come curatore di una mostra (L’occhio filosofico, nel 2018), all’interno della quale ho anche avuto modo di esibirmi con il mio trio jazz. Insomma, la Milano dei miei secondi dieci anni di insegnamento al San Raffaele è stata un continuo flusso di esperienze stimolanti, creative e apportatrici di grandi emozioni culturali e umane. Ricordo anche le serate affollatissime in cui, con Massimo Cacciari e Germano Celant, abbiamo ragionato su questioni legate all’arte contemporanea presso gli spazi della Fondazione Prada. O gli eventi artistici che mi hanno visto protagonista grazie agli inviti, sempre graditissimi, di Gianni Maimeri. Così come ricorderò senz’altro le 130 | Lettera a Milano
iniziative che mi hanno visto protagonista insieme all’artista veneziano Marco Nereo Rotelli; o le molte serate, le molte conferenze tenute in altri importanti spazi artistici e culturali della Milano più vivace. Ad esempio gli spazi della fondazione Mudima in via Tadino o quelli del Teatro Franco Parenti. Insomma, Milano: grande fucina di esperienze e relazioni sempre culturalmente stimolanti. Una vera e propria “fortuna”, di cui devo essere grato a Massimo Cacciari, che, se non mi avesse chiamato a insegnare nella sua Università, non avrebbe neppure reso possibile questo racconto.
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Via Melchiorre Gioia, Milano, 2011, olio su tela, 239×114 cm. Alle pagine seguenti: Velasca – Piazza Missori, Milano, 2018, olio su tela, 163×125 cm. 132 | Lettera a Milano
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Alle pagine precedenti: Velasca – Porta Romana, Milano, 2018, olio su tela, 164×115 cm. Veduta Milano, 2016, olio su tela, 126×147 cm. 138 | Lettera a Milano
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La periferia al contrario... CARLO GALANTE Compositore
Sebbene molti lustri ormai mi vedano solidamente radicato nella città di Milano, luogo che da subito, appena arrivato in veste di giovane studente del Conservatorio, ho sentito come la mia vera casa, sono nato e cresciuto in una piccola città. Mi è sempre stata molto chiara, per esperienza diretta, la differenza marcata e profonda, tra l’essere cittadino di una grande città quale Milano e di una molto più piccola come Trento. Ho vissuto Milano (come molti) come il luogo privilegiato per incontrare nuove persone, conoscere interlocutori diversi, provare situazioni e circostanze inedite e spesso stimolanti. Un luogo che mi ha sempre messo alla prova col suo continuo e vorticoso movimento, sia quando questo era portatore d’intensità sia quando, al contrario, si dimostrava vacuo e superficiale. Questo ininterrotto movimento sociale che contraddistingue sia la vita lavorativa sia quella emotiva e privata dei milanesi è, credo, la principale ragion d’essere della città. Essere milanesi significa seguire un flusso costante che di volta in volta diventa incontro di lavoro, di divertimento, di cultura (perfino!). Nella recentissima sciagurata quarantena il flusso si è arrestato, il movimento si è interrotto e Milano mi è sembrata come cancellata. Il popoloso piazzale che vedo quotidianamente dalle finestre del mio studio si era trasformato in una piazza metafisica, quasi fosse stata immaginata e progettata da Giorgio de Chirico. Il tempo melanconicamente sospeso di quei giorni ha reso irriconoscibile la città, tanto da farmi (quasi) invidiare i molti amici e conoscenti che avevano abbandonato Milano per trovare rifugio in case di montagna, al mare o in campagna, con i loro giardini e le terrazze ariose, per immergersi in una solitudine forse più naturale di quella vagamente sinistra e intimidatoria che a tutti noi è capitato di vivere in questa grande città. Spente le luci dei teatri, interrotti gli studi scolastici, chiusi i ristoranti, sprangati i suoi innumerevoli esercizi commerciali, Milano si è rinchiusa, per rispettare le distanze di sicurezza, in una dimensione familiare forse più adatta alla piccola città (la mia natìa Trento, per esempio). Ora, con prudente determinazione, la città sta ritornando a interpretare nuovamente se stessa, ma la severa lezione ricevuta deve avere come prima conseguenza un’approfondita riflessione su come mantenere e sviluppare il suo tradizionale modello che, soprattutto per motivi economici, è quello dell’inclusione. Un’idea d’inclusione fondata sul lavoro, che diventa volano di una rete complessa e capillare di movimenti sociali. Attraverso il lavoro si diventa parte (accettata) della città, ma se il lavoro si sposta dalla città alla rete, perdendo la sua fisicità e diventando virtuale e incorporeo, tutta la fitta trama di rapporti sociali, che nascono economici e diventano via via ben altro, decadono, mettendo a serio rischio l’identità stessa della 140 | Lettera a Milano
città. È indubbio che, nel caso il lavoro da casa diventi obbligatorio, sia preferibile vivere in un luogo meno popoloso e molto più ameno, piuttosto che nella sterminata periferia milanese. Milano deve riguadagnare attrattiva; quel fascino che tradizionalmente era legato al mondo del lavoro, in futuro deve riuscire a coniugarsi con qualcosa di diverso, ma ancor più incentrato sull’intensità della relazione tra le persone. Immagino che le ricette siano molteplici: una città più verde, meno trafficata, più curata nell’arredo urbano, rapida e funzionale nei trasporti pubblici, efficace ed efficiente nel governo della città… Ma c’è una cosa che mi sembra fondamentale e rende possibile qualsiasi futura storia di cambiamento: un rinnovato rapporto tra centro e periferia. Milano ha un centro, non vastissimo, ma bello e variegato per stili architettonici, dove si incentrano la gran parte delle attività sociali (teatri, cinema, musei…). Questa zona della città è ormai quasi del tutto priva di abitanti, vi si trovano infiniti negozi di vestiti ma nemmeno uno di alimentari: se cerchi latte in polvere per neonati in una farmacia della zona è più che probabile non trovarlo… La periferia al contrario è vasta e popolatissima, ma troppo spesso priva di identità e di fascino: un luogo neutro dove le persone non “abitano” ma vivono solo per “riposare” dopo il duro lavoro fatto in luoghi diversi e lontani. Entrambi i luoghi, centro e periferia, hanno bisogno di ridiventare comunità di persone, che s’incontrano e interagiscono quotidianamente perché hanno qualcosa in comune. La cultura può (e deve) avere un ruolo importante in questo cambiamento; i teatri, ad esempio, sono luoghi privilegiati per compiere la trasformazione di un luogo anonimo in una comunità. La comunanza d’intenti (estetici) di un pubblico si rivela spesso un perfetto collante sociale. Nella periferia milanese ci sono alcuni coraggiosi esempi di questa politica che dovrebbe però avere ben altra capillarità, ad esempio il Teatro Spazio 89, sito nella remota via Fratelli Zoia. È un luogo che da molti anni produce una stagione concertistica di alto livello e un’altra teatrale, parimenti interessante, per adulti e bambini. Il teatro è diventato nel tempo, attraverso l’operosa determinazione dei suoi responsabili, un sicuro punto di riferimento per il quartiere. Certo, queste e altre realtà culturali che agiscono con originalità ed efficacia nella periferia milanese, certamente non possono bastare per una rigenerazione profonda di questo tessuto urbano; ci vorrebbero cospicue risorse, ma soprattutto un convinto atto di fede da parte di molti sul ruolo fondamentale che può giocare la cultura a tenere e a rinvigorire la comunità. Una fede che, al momento, mi sembra piuttosto fiacca.
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Il cortile del Filarete
Ascoltare il paesaggio nel chiuso di una stanza
SALVATORE VECA
VITTORIO LINGIARDI Filosofo e Accademico italiano
Psichiatra, psicoanalista e accademico italiano
Cara Milano, ti scrivo. Ti scrivo dal mio luogo di clausura per pandemia da Covid-19. Sono a casa, nel mio studio a Porta Romana, e comincio la lettera per te con un piccolo esercizio memoriale, una versione terra-terra della “ricerca del tempo perduto”. Percorro come in sogno corso di Porta Romana. Mi tengo sul marciapiede di sinistra per avvalermi della compagnia della Torre Velasca, uno dei tuoi capolavori del secolo scorso a opera del leggendario bbpr. Ho sempre amato questo artefatto architettonico rastremato e superbo, che associo sistematicamente nella memoria al Pirellone di Giò Ponti e Pieluigi Nervi. San Nazaro è una delle quattro basiliche che il grande Ambrogio fece edificare, quando tu eri capitale dell’Impero romano d’Occidente. Basilica apostolorum, con la sua abside più tarda che scopri quando, da un vicolo a sinistra della facciata metafisica della basilica, entri in largo Richini. Ma prima, cara Milano, nel quasi-sogno mi appare con le sue luci e le sue leggendarie brioche Panarello. Devi sapere che, quando nei primi anni Sessanta del secolo scorso, ero studente di filosofia alla Statale, Panarello era il ritrovo per l’aperitivo di Enzo Paci, professore di Teoretica, e il nostro gruppo di allievi. Paci era stato uno dei più brillanti allievi della Scuola di Milano che ruotava attorno ad Antonio Banfi. Mi chiedo dove andassero a prendere l’aperitivo Vittorio Sereni e Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Antonia Pozzi o Dino Formaggio. La Facoltà di Lettere e filosofia, allora, era in via della Passione nella sede del Collegio delle Fanciulle, nella lunga attesa della Ca’ Granda. Forse il gruppo di Banfi andava al Taveggia? Al Taveggia d’antan, naturalmente.
Cara Milano, ti scrivo da Roma. Che treno dopo treno è diventata l’altra mia città. Oggi sono un bigamo metropolitano. E pensare che sono cresciuto nella fedeltà urbana, sempre a un passo dalla Crocetta, molto prima che ci scavassero la metropolitana, quando l’edicola dei giornali era la culla degli avvenimenti tra la fontanella verde del Comune e la statua di Don Calimero, costruita ai tempi della peste. Per quarant’anni la mia vita è ruotata attorno a quella confluenza di vie, Vigentina e Romana: le scuole infantili in via Quadronno, le medie in Corso di Porta Romana, il liceo in via Commenda. Quando gli studi universitari mi spostarono a Città Studi mi prese uno spaesamento, rientrato appena la pratica medica mi riportò in zona, al Policlinico, di nuovo in territorio materno. Non so se questa territorialità milanese mi ha fatto bene, sicuramente ha costruito il mio piacere di partire per tornare e la tendenza a tenere le cose sott’occhio. La mia infanzia milanese è fatta di marciapiedi e botteghe. I negozianti li ricordo per nome: Gigi, il fruttivendolo; Oreste, il macellaio; la signora Annoni della drogheria con le sue caramelle Rossana al posto del resto. Un’infanzia pedonale, dove la mia città, direbbe Walter Benjamin, «si apriva come un paesaggio» e mi «racchiudeva come una stanza». Cara Milano, assomigli al lavoro che ho scelto: ascoltare il paesaggio nel chiuso di una stanza.
Se entri in largo Richini e vai verso l’ingresso solenne della Statale, sulla destra sei accompagnato dagli archi della Ca’ Granda che evocano ora l’immagine dei chiostri all’interno. E poi, cara Milano, uno arriva al grande portone e si trova di fronte, nella sua grazia e nella sua vastità, il cortile del Filarete, l’architetto fiorentino che amava la virtù. Ai miei tempi, in fondo al cortile sulla destra avevi la Segreteria studenti. Se giravi ancora a destra, entravi in uno dei chiostri magici, dove c’era l’Istituto di Filosofia. Poi, tutto finiva lì, perché la superba serie dei chiostri era bloccata da un muro ed era in attesa paziente di restauro. Così, accadeva a noi studenti peripatetici di andare avanti e indietro, prima nel chiostro, poi nel cortile del Filarete. E discutevamo animatamente di filosofia con passione e con ardore con Pier Aldo Rovatti, Fabrizio Mondadori o Giorgio Lanaro e tanti altri, continuando a ruotare intorno alla vasta distesa del prato al centro del cortile. Ora, lo vedo il cortile del Filarete verso il crepuscolo, fra le sue luci e l’ombra. Mi sembra che il suo invito ospitale sia persistente e che tutto lì abbia l’aria di un singolare luogo delle memorie. Là ci devono essere, custodite e gelosemente nascoste, memorie, speranze, amori e illusioni, immagini di futuro, sussurri, sorrisi e risate, passioni consegnate al ricordo. Paul Valéry ci aveva insegnato che i monumenti devono “cantare”. E le città ci parlano, le città tessono i dialoghi possibili fra le persone. Questo, cara Milano, ti assicuro che l’ho proprio provato, là, nella rêverie del cortile del Filarete. Nello spartito della sua Rêverie Claude Debussy raccomandava a un certo punto: «Rallentando e perdendosi». Dopotutto, un suggerimento niente male per un flâneur ai tempi della clausura per pandemia da Covid 19. 142 | Lettera a Milano
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Attorno alla Richard ROBERTO CARCANO Ceo Zero_starting ideas
Mi chiamo Roberto Carcano e sono un baby boomer. Per la precisione sono nato nel giorno più noioso del secolo scorso: 11 aprile 1954. Lo ha stabilito l’algoritmo True Knowledge messo a punto dall’Università di Cambrige dopo aver elaborato 300 milioni di fatti del xx secolo. Con questa premessa ed essendo un milanese “arioso” non sono sicuro che Maurizio Cucchi vorrà davvero pubblicare la mia testimonianza. Io ci provo. Nasco a Pinzano, una piccola frazione di Limbiate, una decina di chilometri a nord di Milano. Allora era un nucleo storico con le corti contadine, l’odore delle stalle e tutto intorno campi lambiti dallo scorrere del canale Villoresi. Dunque, sono il classico figlio del boom economico, coi miei genitori che si fanno “la villetta”, progettata – si fa per dire – dal geometra del paese. I primi timidi contatti con la città arrivano con le superiori all’Itis Galvani di Niguarda; ma facevo la spola casa-scuola col mio vespino giallo ocra e di Milano percepivo solo gli echi, con qualche comparsata alle manifestazioni del ’68, quando avevo 14 anni e tentavo inutilmente di capire il movimento studentesco. Ascoltavo affascinato i miei compagni che si accaloravano parlando di Indro Montanelli, Camilla Cederna, Mario Capanna e i “padroni sfruttatori”. Gli studi tecnici non facevano per me ma il diploma in Elettronica ha avuto il merito di farmi trovare subito un lavoro da redattore alla fima (Fabbrica Italiana Macchine Aziendali, prima della guerra era Fabbrica Italiana Macchine Adrema, marchio tedesco) in via Legnano, di fronte all’Arena. Era il 1973, e quello fu il mio vero battesimo metropolitano. Trovavo la città eccitante e la fortuna di quel lavoro fu che divenne il mio trampolino per il lavoro che amo. Il mio capo guidava la pubblicità, un ambito che da subito mi attirò molto più della redazione tecnica. Si era laureato alla Cattolica, che era lì a due passi e teneva un corso di laurea serale, in Economia e Commercio, che mi permetteva di staccarmi dal lavoro nel tardo pomeriggio e fiondarmi a seguire le lezioni. Una su tutte era la più ambita: Economia e Tecnica della Pubblicità del professor Edoardo Teodoro Brioschi, già allora una leggenda, diventato poi il mio relatore di tesi e oggi mio grande amico.
Nel 1985 vivo per qualche mese tra Washington e San Francisco e, al ritorno, Milano mi sembra improvvisamente provinciale (detto da me!). Ma dura poco e poi arriva il 1990, l’anno della svolta: in quel periodo avevo l’ufficio in via Boccaccio (altra tessera del patchwork) e sul fronte sentimentale interrompo una convivenza decennale. Cerco casa, non so bene dove, e con quali soldi. Mi capita un annuncio per 80 mq su tre piani. Troppo folle per essere vero. Era vero. Colpo di fulmine. In via Morimondo al 9 c’era – e c’è – una vecchia corte contadina con all’interno poche abitazioni con il fascino “vecchia Milano”, di quella che una volta era periferia. Il venditore è un milanesone doc, proprietario del ristorante all’inizio della via. Al momento della proposta d’acquisto mi chiede: «Ti, te se minga un terùn?». È il mio battesimo in zona 6. In corso c’è un cambio generazionale: i miei anziani dirimpettai non hanno il bagno in casa, hanno la “turca” con lavandino, in cortile. Oltre il civico 11 è il deserto. Una via abbandonata da quando Ligresti qualche hanno prima aveva acquistato la Richard Ginori per poi chiudere la fabbrica e puntare al business immobiliare. Fino al 2005 la situazione della via e della zona resta cristallizzata. In quell’anno finalmente la ex Richard viene venduta, interamente ristrutturata e frazionata in unità adatte al terziario: prendo ufficio lì. Abito al 9 e lavoro al 26 di via Morimondo: abituato a via Boccaccio e poi a via Lanzone, temo l’effetto ghetto. Ma non succederà. Prima, se prendevi un taxi e dicevi via Morimondo dovevi aggiungere: «Poco dopo la Chiesa di San Cristoforo, di fronte alla Canottieri Olona». In breve tempo diventa invece uno dei luoghi più cool di Milano, pieno di showroom di moda, studi di fotografia e architettura, agenzie di modelli e società di comunicazione. E poi dove trovi un altro posto dove puoi fare canottaggio sotto casa?
La Cattolica coi suoi chiostri era il bello circondato dal bello. Ci andavo tutte le sere fino a tardi e ogni sabato mattina: respiravo a pieni polmoni – austerity permettendo – la bellezza del luogo e dell’esperienza. Un’università alla quale sono rimasto legato anche dopo la laurea, con frequenti incursioni di studio e di insegnamento. Nel frattempo avevo iniziato a lavorare come giovane copywriter nella mitica cpv Kenyon&Eckhardt in corso Europa. Atmosfera eroica dell’allora dorato mondo dell’advertising: una Olivetti Lettera 32 arancione sul tavolo per i testi in brutta, da passare poi alla segretaria per la messa in bella copia con una ibm elettrica “a pallina”. Milano, più che prendere per me un senso d’insieme, si assemblava come un patchwork di zone che faticavo a mettere in connessione. Girando in auto mi perdevo regolarmente. 144 | Lettera a Milano
In molte case si parla il milanese. Per strada, l’inglese. Nasce in me e in alcune persone intorno la consapevolezza di trovarci in un ecosistema dove l’architettura è rimasta sostanzialmente quella di un secolo prima, ma sottopelle i contenuti e i ritmi sono quasi completamente cambiati. Siamo sostanzialmente circondati da sconosciuti evoluti e ci viene voglia di conoscerli, di farci conoscere e provare a “fare sistema”. Per non essere voci isolate nell’immaginare di contribuire positivamente alla crescita di quello che non ha ancora la personalità di un distretto ma ne ha le potenzialità. Facciamo circolare la voce su questa nostra intenzione e col passaparola cominciamo a ritrovarci a piccoli numeri, la sera, nel mio ufficio. Capiamo che questa voglia è condivisa, che c’è chi ha già avuto esperienze Lettera a Milano | 145
spesso naufragate, e c’è chi conosce qualcuno che potrebbe essere interessato a portare idee. In via Watt scopriamo un gruppo di persone con il nostro identico pensiero: diventeranno l’altra metà della mela. In breve capiamo che le premesse ci sono, si tratta di passare ai fatti. Tutti abbiamo almeno un amico ingegnere: il mio si chiama Maurizio e ci aiuta a far nascere una associazione senza fini di lucro che chiamiamo Around Richard (Attorno alla Richard). Che sta non solo per la vecchia fabbrica, ma anche il viale Richard, la scuola materna Giulio Richard in via Watt e le case ex-operaie in via Lodovico il Moro. Around Richard è un atto d’amore per la zona nella quale viviamo e/o lavoriamo. Un’area delicata, semplice, con confini sfumati, porosi. Vogliamo prendercene cura, perché venga trattata con rispetto e sia valorizzata. I nostri primi soci vanno da via Lombardini a piazza Negrelli, dall’Alzaia del Naviglio Grande a via Ettore Ponti. In breve ci giungono segnali di interesse da cittadini e istituzioni. Cominciamo a essere vissuti come possibili partner per lo sviluppo di idee e progettualità legate al territorio. Diventiamo partner di Municipio 6 e collaboriamo col presidente Santo Minniti, e col mudec per il progetto di Street art “Guido Crepax”, tra il casello ferroviario di via Pesto e viale Troya. Ospitiamo un incontro con Pierfrancesco Maran, Stefano Boeri, Cino Zucchi, Gabriele Rabaiotti e Lorenzo Lipparini sullo sviluppo urbanistico del nostro distretto. Lanciamo la Richard Photo District con la presenza di Filippo Del Corno come panelist. Siamo un incubatore di idee e lanciamo delle campagne in affissione che invitano al rispetto e al decoro delle nostre vie: dalle deiezioni canine sui marciapiedi ai cassonetti svuotatasche che vengono usati come piccole discariche. Stabiliamo proficui rapporti di collaborazione con l’Università iulm e con l’Accademia di Comunicazione, la scuola John Kaverdash e l’Amsa.
scoprire parti del quartiere che ancora non conoscevo. Come quello che è diventato il mio tour preferito verso il parco Teramo e la Cascina Battivacco. Di quel giorno ricordo ancora l’annuncio “80 mq su tre piani” e quell’amore a prima vista, quel sentirsi subito a casa che non mi era mai capitato e che per la prima volta è diventato un rapporto stabile e duraturo (prima ero un po’ apolide) con uno spicchio di Milano che amo. Around Richard non ha subìto le grandi trasformazioni di CityLife o Gae Aulenti, anzi è apparentemente immobile, e grazie al vincolo dei Navigli, è rimasta se stessa fuori e ancora più ricca dentro. Ha fatto nascere nuove amicizie e ha acceso un nuovo spirito di solidarietà e partecipazione. Un grande amore. Ricambiato.
Dalle nostre riunioni nasce la scintilla di All Around Work, esposizione internazionale dedicata all’evoluzione degli ambienti lavorativi, con seminari e tavole rotonde (autunno 2020). Nel frattempo è arrivato il lockdown: non ho mai benedetto la scelta di vivere qui come in questo – ahimè lungo – periodo. Avere a disposizione a 200 metri da casa un ufficio grande e deserto con giardino ci ha permesso di non sentire quell’oppressione e quel senso di angoscia così diffusi. Soprattutto nella prima fase, con la bella stagione c’era una parvenza di normalità con quella frequentazione quotidiana estesa a mia moglie e socia e a mio figlio Maksim, che ha trascorso così i suoi ultimi mesi della terza media. Lavoro a scartamento ridotto, ogni giorno pranzo in giardino, gli ampi spazi del complesso ex Richard consentivano a Maksim di alternare studio e sgambate su skate o bici. Il garage sotterraneo deserto è stata un’ottima palestra per le prime lezioni di guida. Per me che sono nato in campagna, iniziare a guidare (su strade sterrate) quando ancora frequentavo le scuole medie era normale; nel 2020 a Milano, decisamente meno. Ma è stata un’altra benedizione, un altro motivo di gratitudine per il nostro distretto. Ma lockdown coi ritmi di lavoro improvvisamente rarefatti, ha anche voluto dire molto più running in solitaria, cioè occasioni per 146 | Lettera a Milano
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Brera, uno dei luoghi “mitici” di Milano JAMES BRADBURNE Direttore generale Pinacoteca di Brera
Prima di tutto, perdonatemi se mi prendo la libertà di scrivere. Vi conosco solo da pochi anni e non voglio sembrare presuntuoso. Tuttavia, ho ritenuto importante esprimere il mio affetto e la mia gratitudine per la vostra generosità negli ultimi quattro anni. Devo confessare che, pur avendo sentito parlare di voi, non ho avuto la possibilità di conoscervi, a parte uno o due brevi incontri, fino al mio arrivo nell’autunno del 2015, all’indomani della vostra meravigliosa Esposizione universale. Non ci ho messo molto a innamorarmi, anche se in passato avevo sentito recensioni contrastanti su Milano da parte dei miei amici italiani. Grigia, industriale, senza senso dell’umorismo. «Non scherzare» mi dicevano, «i milanesi non capiranno». Uno dei più grandi direttori di Brera, Ettore Modigliani, ha incontrato gli stessi pregiudizi. Scriveva nel 1913, in occasione dell’inaugurazione del Museo della Scala: «Vuole dunque una leggenda che Milano, tutta pervasa dalla febbre del lavoro e dedita alla conquista della ricchezza, non si interessi intimamente delle cose dell’arte, specialmente dell’arte antica; che la vita della Milano ricca pulsi solo animata dal rombo dei mille stabilimenti industriali; che i poli della sua attività siano l’officina o la fattoria, la Borsa e la Banca, il commercio e poi l’industria; e che i milanesi gustino poco i piaceri dell’arte, soprattutto delle arti figurative. Vuole una leggenda che qui una iniziativa industriale, la proposta di un affare, per quanto audace trovi pronti appoggi e capitali pronti; ma non così una iniziativa d’arte». La mia risposta potrebbe essere copiata dalla sua: «Ebbene è questa niente altro che una leggenda idiota già smentita mille volte dai fatti, che fa il paio con quella secondo la quale a Milano, tolto il Duomo, Brera, il Castello e il Cenacolo, non c’è altro d’interessante da vedere. E pure, vicina alla suggestione che emana dal fervore della sua vita industriale, sale dalla vecchia Milano una suggestione più intima data dalle sue bellissime chiese, dai suoi palazzi, dalle sue corti, dai suoi giardini, da quelle sue vie solitarie lungo il Naviglio immoto nelle quali non passa invano chi ha anima aperta a ricevere una sensazione di arte, di bellezza e di poesia, nella forma più intima e più tenera». Al contrario di tutta la sua cattiva stampa, che continua ancora oggi, Milano è l’unica vera città d’Italia: diversa, vitale, dinamica, pulsante di energia e alimentata da una sete di vita contemporanea nutrita dal design, dalla musica, dalla moda, dall’arte e dalla letteratura. Forse Milano non è una grande città, come Parigi o Londra, ma comunque una vera e propria città, capace di sostenere innumerevoli microculture di arte, finanza, industria, musica e letteratura. Potrei scrivere delle tante cose che amo di Milano, la sua eleganza, la sua discrezione, la sua riservatezza, la sua vitalità, la sua capacità di sorprendere, incantare, anche stregare. Potrei parlare dei suoi viali alla Haussmann; dei suoi cortili nascosti; delle sue fiere estroverse; dei suoi parchi tranquilli e dei suoi teatri vivaci. Ma invece parlerò di Brera, uno dei luoghi “mitici” di Milano, nel cuore del passato, del presente e del futuro della città. 148 | Lettera a Milano
Da quattro anni ho la fortuna di essere direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Nazionale Braidense, un matrimonio felice sia a livello istituzionale che personale. Entrambe le istituzioni sono espressione dell’Illuminismo e dei suoi valori di tolleranza, di sostegno ai diritti umani e alla società laica. Valori che condivido. Il Museo fu fondato dal giovane Napoleone come “Louvre d’Italia” al servizio dei giovani artisti contemporanei dell’Accademia; la Biblioteca fu fondata da Maria Teresa Asburgo dopo la soppressione dell’Ordine dei Gesuiti. Come professionista del museo e anche bibliofilo, è un privilegio aiutare a guidare entrambi secondo un’unica missione: riportare Brera nel cuore di Milano. Questi valori hanno aiutato Brera a sopravvivere a due guerre, tra cui i devastanti bombardamenti dell’estate 1943, e hanno guidato la ricostruzione di Milano dopo la guerra, compreso il restauro di Brera e del capolavoro di Leonardo, il Cenacolo. Questi valori non erano solo impliciti, ma facevano parte della vita quotidiana di Brera. Scriveva Fernanda Wittgens, la prima direttrice di un museo femminile italiano: «Perché Brera non è l’“hortus conclusus” del collezionista, il museo delle “preziosità”: Brera è una galleria nazionale di ampio tessuto storico, creata da Napoleone a “educazione del popolo” secondo un profondo pensiero illuministico che noi, eredi, non possiamo tradire». Cara Milano, pur essendo straniero, e non potendo ancora parlare italiano con l’eleganza e la precisione che merita, ho cercato a modo mio di preservare questi valori, e di far sì che si esprimano in tutto ciò che facciamo alla Pinacoteca e alla Biblioteca. L’intera collezione è stata reinstallata, per la prima volta dal 1978, con una nuova etichettatura e un maggiore accesso per tutti i suoi utenti. I nostri programmi si estendono non solo alle scuole, ma anche agli ospedali, alle case di riposo e agli ospizi. La biblioteca è un centro dinamico per la promozione della lettura e della ricerca, e sta sviluppando le sue collezioni contemporanee di periodici, letteratura per ragazzi e libri d’artista. Il nostro obiettivo è stato quello di mettere Brera nel cuore della città, dopo anni di abbandono, e di servire i cittadini di Milano dalla culla alla tomba. Ogni volta che qualcuno ha bisogno di Brera – per l’ispirazione, la consolazione, l’educazione, la partecipazione o anche il divertimento – noi siamo lì per servire. Ora, nel mezzo della più grande sfida che Milano ha affrontato dal Dopoguerra, dove le rovine non sono più fisiche, ma sociali, Brera è all’avanguardia nella creazione di valore con le sue collezioni online con BreraPlus+. Solo di recente, abbiamo completato il progetto di ricongiungerci alla città eliminando completamente i biglietti, e sostituendoli con una tessera che permette l’accesso ai tesori del Museo e della Biblioteca sia fisicamente, sia online. Concludo con le parole di un altro grande regista di Brera, forse il suo ultimo, Franco Russoli, morto inaspettatamente di infarto a 54 anni nel 1977. Nel 1956, un anno prima di diventare direttore di Lettera a Milano | 149
Lettera di Testori a un ragazzo di Milano GIUSEPPE FRANGI Giornalista, presidente Casa Testori
Brera, dopo la morte della sua mentore Fernanda Wittgens, disse: «Milano non è mai stata una città di ricordi, e in ogni epoca ha voluto essere in grado di rispondere pienamente alle esigenze e al carattere del tempo, essere sempre contemporanea di ogni momento storico, con aperto spirito civile e poetico». Godendo e vivendo nella foga del momento, nella buona e nella cattiva sorte, attraverso bombardamenti, devastazioni e pandemie, Milano è l’espressione perfetta dell’Italia contemporanea, e racchiude in sé il segreto della sua resilienza.
Questa è una lettera immaginaria che Giovanni Testori avrebbe potuto scrivere a un ragazzo della Milano 2021. «Carissimo Ivan, so per certo che tu non mi conosci o forse hai sentito il mio nome perché hai bazzicato quel parco che la città ha voluto intitolarmi. È un parco un po’ spelacchiato, in cui però mi riconosco: di fianco passa la ferrovia, e io ho vissuto sempre con la ferrovia davanti alla finestra di casa. E da lontano si vedono i gasometri della Bovisa, che sono ancora quelli dei miei tempi, nonostante i tanti sogni che si sono fatti di una loro rinascita. Ma a me piacciono così, con quei loro scheletri di metallo, affondati nel verde inselvatichito. Non è una questione di nostalgia, anche se mi ricordano un pittore che ho amato molto, Mario Sironi, altro nome che probabilmente a te dice poco o nulla (gli hanno dedicato una via davvero minima dalle parti del Monte Stella): per me quei gasometri rappresentano il simbolo di una città chiamata a fare i conti con la fatica di cambiare. Anche con i suoi fallimenti. Caro Ivan, non so tu, ma io penso che mi troverei un po’ straniero nella Milano di oggi. Certo è bella, moderna, efficiente, anche se ora tante sicurezze si sono incrinate dopo tutte le sofferenze di questa lunga pandemia. Per me, che sono stato scrittore e che ho sempre lottato per trovare e anche inventare parole che non fossero astratte ma dicessero le cose, contenessero la vita, questa Milano è una città rimasta senza una sua “parola”. So che stai pensando che questi sono ragionamenti un po’ astrusi per te. Tu hai le parole che ti servono per vivere, a differenza mia hai anche avuto modo di imparare l’inglese e quindi le tue parole hanno un orizzonte più largo. Voglio però farti qualche esempio concreto: nella vita sono sempre stato pendolare, in quanto arrivavo a Milano dal paese dove sono nato, Novate. Un viaggio breve sui binari delle Nord. Ricordo che guardando le facce delle persone che viaggiavano con me cercavo di immaginare le loro vite, o meglio il loro sentimento rispetto alla vita. Così la normalità e anche la scontatezza di quei volti si caricava ogni volta ai miei occhi di una profondità inattesa e misteriosa. Con quali parole dire quella profondità? Era un po’ la mia sfida, che non era solo letteraria ma anche umana. Per me Milano era la capacità di trovare quelle parole: Alessandro Manzoni per primo le aveva trovate, per tutti, e non solo per noi, con la sua scelta di “sciacquare i panni in Arno”. So che Manzoni non rientra tra le tue passioni, ed è un vero peccato. Mi piacerebbe leggertelo, a tu per tu, e farti capire quanto della tua vita c’è in quelle sue pagine… Veniamo ai tempi tuoi, quelli di oggi. E qui vorrei cambiare il “campione umano”. In questo anno anche tu sei stato testimone della grande paura disseminata dal virus. Certamente alla tua età anche il virus fa meno paura, perché hai più energie per combatterlo. Eppure penso che tu sia rimasto scosso da questa invasione del dolore nella vita di tutti. Si potrebbero raccontare mille e mille storie accadute in questi mesi recenti.
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La tua predisposizione al cambiamento MICHELE DE LUCCHI Designer, architetto e accademico italiano
Frammenti di una sofferenza che è diventata esperienza pervasiva, che ha un po’ ridisegnato anche il volto di Milano, che l’ha certamente “spiazzata”. Eppure Milano nel suo passato ha sempre saputo far i conti con il dolore, anche progettando la propria organizzazione sociale: pensa alla storia della Ca’ Granda che oggi è l’Università degli Studi, ma in origine era un ospedale, il più moderno per quei tempi, capace di mettere il malato al centro tanto da farlo sentire a “ca’”, a casa… E pensa che un milanese ha scritto quello che per me è il più grande romanzo del ’900 italiano intitolandolo proprio La cognizione del dolore (è Carlo Emilio Gadda, autore che a scuola non ha molto ascolto; c’è comunque uno slargo dedicato a lui vicino a Corso Sempione…). Il dolore non è inutile; sul dolore si costruisce una città migliore: la dedizione umana oltre che professionale di centinaia di medici e infermieri in questi mesi lo dimostra in modo palese. Certo, anche il dolore ha bisogno di parole per essere detto senza che resti intrappolato nel sentimentalismo. Ma le parole si generano da un’esperienza di vita e il mio augurio è che la vita dia a te la possibilità di trovare quelle parole. Caro Ivan, ti lascio con lo sguardo di nuovo rivolto a quei gasometri della Bovisa: mi accorgo che, con la loro sagoma scheletrita, sono l’emblema di tutta la fatica che la mia Milano ha fatto in questo anno. Non li toccherei. Piuttosto bisognerebbe tradurli in parole. Tuo Giovanni Testori»
Cara Milano, ti conosco bene e ti scrivo da milanese, anche se non lo sono più ufficialmente. Sono arrivato qui alla fine degli anni Settanta e, anche oggi che vivo sul Lago Maggiore, ti frequento giornalmente perché il mio studio professionale si trova in Brera. In questi anni, mi sono domandato spesso perché sei così amata, perché si parla così bene delle tue strade, delle tue piazze, della vitalità che anima i tuoi quartieri. Io stesso sono tra quelli che ti lodano ma, in tutta sincerità, devo pensare a fondo per individuare la ragione della mia ammirazione. Ci sono posti più belli di te, in Italia come in altre parti del mondo. Ci sono città più ricche di storia e di monumenti, luoghi con un clima migliore, con una socialità più semplice e allegra, con più partecipazione privata nella vita pubblica. Eppure in tanti ti considerano ricca di opportunità e sono sedotti da te. Sicuramente è merito del design, della moda, del bel vivere durante gli eventi, dei convegni, delle mostre e delle feste che accendono le tue vie e i tuoi palazzi. Ma questo non basta a spiegare il tuo successo. La stessa Expo, che è stata un’esperienza entusiastica, da sola non può spiegarlo. Credo che il motivo profondo del mio innamoramento sia la tua predisposizione al cambiamento, la tua capacità di essere sempre un po’ meglio. Quando sono arrivato eri decisamente un’altra cosa. Continuamente ti ho visto evolvere, rispondendo con ottimismo agli eventi storici, politici ed economici che hanno attraversato i decenni. Hai reagito alla crisi del petrolio e al terrorismo degli anni Ottanta. Sei cambiata negli anni Novanta di fronte alla consapevolezza della crisi ecologica e alla crescita dei movimenti ambientalisti. Ti sei lanciata verso il mondo durante la crisi economica dei primi anni Duemila e la tua vocazione internazionale ha continuato a fortificarsi negli ultimi anni, fino all’esplodere di questa disgraziata pandemia. Ogni volta hai fatto un passo in avanti. Ogni volta hai fatto vedere qualcosa in più, hai sedotto l’immaginazione grazie alla tua capacità di mettere in scena idee come altrove non si potrebbe vedere. Conosco stranieri che vengono qui proprio per godere di questo fremito interno che ti caratterizza. E riconosco lo stesso fremito in chi ti abita e ti frequenta: persone curiose di quello che succede attorno, persone proattive, capaci di reagire prontamente agli stimoli che offri. Durante il Salone del Mobile, ad esempio, tutti vengono qui per lasciarsi sorprendere da te e quello che ammirano non è la città del “compra e fuggi” o di una serata e via. Ammirano la Milano delle sollecitazioni intellettuali continue, che ci porta a coltivare un’idea di noi stessi proiettati verso il futuro. E allora Milano, accompagnaci ancora una volta in un mondo nuovo, diverso da quello di questi giorni, un mondo vitale e profondo come quello che ci hai sempre saputo far vedere.
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Particolare Torre Velasca. 154 | Lettera a Milano
Cantiere Palazzo Diamanti, Milano, 2012, olio su tela, 198×140 cm. Lettera a Milano | 155
Particolare Gasometro, Bovisa, Milano Torre Velasca, Milano, 2018, olio su tela, 143×121 cm. Alle pagine seguenti: Bovisa, Milano, 2018, olio su tela, 165×125 cm. 156 | Lettera a Milano
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Altrove, solo nella memoria NICOLETTA MONDADORI Scrittrice
Qualche giorno fa mi è capitato di prendere il tram alla solita fermata vicino alla casa di Arnoldo, quella in via Vigevano che è poco frequentata, per arrivare in piazza Medaglie d’oro. Bene, dopo pochi minuti arriva il 9, salgo pensando ad altro come spesso mi succede come se fossi su una nave lontana dalla riva, molto lontana. A un certo punto il tramviere mi chiama, cosa insolita: «Mi scusi signora io ho sbagliato, dovevo dirigermi al deposito perché ho finito il turno». «Mi lasci dove vuole per me va bene», e fin qui c’era solo una stranezza. L’altra l’ho vista quando mi sono girata, il tram era completamente vuoto, come un serpentone in una foresta, una luce strana si era diffusa dall’ultimo finestrino in fondo, quello più largo da dove entrava uno dei tramonti più belli di Milano. Il cielo viola e una striscia di rosa pallido cavalcava sopra e sotto come un delfino in mare. Che meraviglia, mi sono detta, un tram tutto per me e un sole declinante che mi rincorre. A volte in una città caotica e brulicante di gente come questa può capitare qualcosa d’insolito e straniante, tutto può succedere quando la vaghezza ti invade.
rina alla cassa, certa Ermida con occhi ridenti ci lasciava entrare gratis, eravamo noti persino alle formiche che Arnoldo seguiva con estrema attenzione mentre Giacomo s’incantava davanti al piccolo elefante e Sebastiano ammirava i cervi dalle lunghe corna intrecciate. Le corse in bicicletta che lasciavamo in una sorta di parcheggio sotterraneo che puzzava di pipì, le partite di calcio sui prati, erano vietatissime ma i vigili facevano finta di non vedere, i barboni erano nostri amici, ci raccontavano le loro storie affascinanti e forse anche inventate. Quando andavamo in via Lazzaretto con la mia amica che di figli ne aveva quattro, le prostitute – chiamate “passeggiatrici” da mia madre – ci consigliavano di prendere la pillola e accarezzavano i capelli dei bambini con un sorriso complice, allora ci sentivamo al sicuro e ci si divertiva con poco. Ora a Milano i compleanni sono festeggiati nei posti più impensabili, noi andavamo a vedere il film di Zorro nel cinema di corso Buenos Aires, con il gelato che sgocciolava sulle mani. Le stradine intorno hanno cambiato aspetto, non c’è più la desolazione e l’incuria d’un tempo, ora sembra un piccolo quartiere parigino.
Sono nata in uno dei primi grattacieli a Milano, in via Locatelli vicino a piazza della Repubblica. Lì accanto c’erano state le Varesine, negli anni ’70 e ’80 era un grande terrapieno in viale della Liberazione, dove, in qualche modo disordinato, vi erano i banchetti del Luna Park, le giostre e un ottovolante che volava in alto per poi velocemente, attraverso curve azzardate, tornare al punto di partenza. Ci andavo la domenica mattina con mia cugina, ci piaceva urlare durante la ripida discesa e poi una donnina con un grembiule bianco ci vendeva lo zucchero filato, i baracchini con il fucile a tappo per colpire dei barattoli messi in fila su due cartoni. Una volta ho vinto un grande orso di peluche. Ora c’è lo skyline di Porta Nuova che mi immalinconisce – non amo i grattacieli che mutano i confini del cielo, che lo invadono. Si è trasformata la città e non tutto quello che è stato costruito mi piace, mi sento smarrita come se la mia Milano fosse altrove, solo nella mia memoria.
Non mi sono abituata a tutti i poveri per strada avvolti da coperte e con un bicchiere di plastica per l’elemosina, loro dormono e si fidano di noi, ci sono anche molti italiani con pezzi di carta che sono preghiere, scritte dei loro fallimenti: «Ho perso il lavoro e ho tre figli da mantenere grazie». Altri si stendono all’interno di alcune banche per ripararsi dal freddo e noi siamo lì a fare il bancomat. Mi vergogno. Per non parlare delle lunghe code davanti alle mense, famiglie intere con borse e sacchetti da riempire di cibo, bambini trascinati e loro non sanno perché. Una in particolare in viale Piave confina con un albergo a cinque stelle, vi sono persone eleganti attese da autisti con grandi automobili che sfrecciano con i vetri oscurati, per non essere visti. Poi, all’improvviso rivedo con gli stessi occhi di un tempo i Giardini della Guastalla, con la vasta peschiera che risale al ’600, e proprio lì mi fermo a osservare l’antica bellezza di Milano.
Mi sembrava, da bambina, di vivere avvolta dalle nuvole, quando c’era la nebbia e dal nono piano non vedevo le strade, le persone e le luci gialle dei lampioni, nemmeno sentivo il rumore dei tram e delle automobili. Era come una sospensione del tempo che mi dava una grande felicità: potevo immaginare, inventarmi delle storie che poi negli anni avrei scritto. Quando uscivo osservavo con grande interesse il via vai delle persone, il loro modo di camminare, di vivere in una città in cui si alternavano palazzi dell’Ottocento a piccole case in vicoli sperduti. Una città misteriosa che ho imparato a conoscere camminando senza meta e scoprendo la bellezza di certi cortili interni inondati dai fiori bianchi del glicine attorcigliato ai balconi e le case di ringhiera affollate dall’edera rossastra. I Giardini Pubblici, non ancora dedicati a Indro Montanelli, erano per me una seconda casa quando ho avuto i miei tre figli, sulle panchine leggevo libri e lavoravo a maglia con le amiche tra un giro e l’altro allo zoo: quelli erano i nostri animali, i bambini li vedevano crescere e avevano dato un nome a tutti. La signo160 | Lettera a Milano
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Al numero sette di via Festa del Perdono STEFANO ZECCHI Filosofo, scrittore, giornalista
Non conoscevo Milano prima di arrivarci, nell’ottobre del 1964, per iscrivermi alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale. Venivo da Venezia, e generalmente un veneziano ritiene che la sua città sia il mondo intero, così il suo spirito ha due orientamenti precisi: o niente di interessante ritiene ci sia fuori dalla sua città che valga la fatica di muoversi, oppure come Marco Polo viaggia per far conoscere Venezia al mondo e intanto guardare ciò che succede fuori dalle mura domestiche (e possibilmente arricchirsi). La stragrande maggioranza dei veneziani è del primo tipo; di un Marco Polo redivivo, personalmente non conosco nessuno. Più semplicemente, ero un bravo studente liceale, incuriosito dalla filosofia: trovavo facile comprendere come si potesse scrivere un romanzo o un saggio di letteratura ma non riuscivo a immaginare come si potesse scrivere un libro di filosofia e pensavo che, semmai ne fossi stato capace un giorno, sarei diventato importante (ovviamente importante soltanto per me). Alla Statale insegnavano filosofi di grande fama: Paci, Geymonat, Cantoni, Untersteiner, Dal Pra. Solo a nominarli adesso, mi sembrano una grandiosa potenza di fuoco della filosofia. Al liceo avevo letto i libri di Paci e mi ero messo in testa di studiare con lui, ma, per poter fare questo, dovevo abbandonare Venezia. Sì, proprio abbandonare ciò che simbolicamente rappresentava Venezia per me come per tutti i veneziani che non siano della specie rara Marco Polo. Primo problema: l’alloggio. E dove finisco? Nel collegio dell’Università che si trovava a Sesto San Giovanni. Mi capite? Da Venezia a Sesto San Giovanni. Detto così, se uno pensa che sia un coglione, non gli si può dar torto. Per me – inutile spiegare il motivo – non c’era altra possibilità che andare ad abitare lì. Alla mattina partivo da Sesto e raggiungevo la Statale: ecco perché quell’Università ha incominciato a rappresentare un’isola estetica ed etica su cui prima mi ero gettato come un naufrago, e poi mi ci ero affezionato perché era diventata la mia Milano, quella che meglio conoscevo, quella che giornalmente mi salvava dal triste grigiore di Sesto (attenzione: siamo nel 1964).
Terminate le lezioni attraversavo di nuovo il cortile del Richini, chiacchierando con i miei compagni di corso, talvolta anche con i professori, per andare nell’istituto di Filosofia. Lo raggiungevo varcando un cortile adiacente a quello del Richini, più piccolo: entrando, mi si allargava il cuore. La bellezza rinascimentale del Filarete mi avvolgeva con il suo elegante porticato, il rosso cupo dei mattoni di fabbrica esaltava il bianco delle colonnine e degli archi a tutto tondo: la bellezza della mia Venezia abbandonata, la ritrovavo all’Università statale. Era diversa da quella che mi era tanto famigliare, non tanto per le ovvie differenze stilistiche, quanto perché la sua era una bellezza vivente, innervata dal pensiero filosofico di quei grandi intellettuali, maestri di noi, diffusa dal loro insegnamento. Alla Statale, grazie alle sue architetture e alla sua storia, ai filosofi e ai letterati che la frequentavano, ritrovavo una bellezza viva, piena di amore per lo studio e per la cultura, non quella monumentale bellezza ferma nel tempo, ieratica senza vitalità della città sulla Laguna. Terminati gli studi universitari, il Veneto mi richiamò nella sua terra, dove per dodici anni insegnai all’Università di Padova. Poi, il destino (o qualcosa di simile) mi riportò a Milano per insegnare nella “mia” Università statale. Rientrato dal portone numero sette di via Festa del Perdono, provai le stesse emozioni di vent’anni prima: erano trascorsi esattamente vent’anni, e la bellezza di quel palazzo, delle sue architetture, dei suoi porticati vennero di nuovo incontro per ricevermi, per dirmi che quell’eleganza, quella raffinatezza, quel grande stile che mi avevano accolto da ragazzo, erano ancora a mia disposizione per aiutarmi, adesso, a insegnare e a cercare, di nuovo, a non avere nostalgia della bellezza della mia Venezia, del mio Veneto. Ho finito lì la mia carriera accademica. Ogni tanto ritorno alla Statale con la scusa di andare in biblioteca, di trovare un amico e ricordo con quanto amore la sua bellezza mi abbia aiutato a crescere. Proprio così: la bellezza non salva il mondo, aiuta a crescere chi si è trovato per caso il privilegio di aver avuto un’educazione estetica.
Varcavo il grande portone al numero sette di via Festa del Perdono e ritrovavo la bellezza che avevo abbandonato a Venezia per amore della filosofia. Attraversavo il grande cortile seicentesco del Richini, dove si sovrappongono magnificamente lo stile gotico, rinascimentale e barocco, per entrare nella parte moderna, in cui si trovano le aule. Una parte dell’Accademia restaurata magnificamente da Liliana Grassi con una visione “monumentale”: grandi spazi ariosi, aule eleganti, nulla di angusto, come se gli studenti dovessero imparare, incominciando a respirare a pieni polmoni lo spirito della filosofia e della letteratura che aleggiava in quegli ambienti frequentati da grandi intellettuali. 162 | Lettera a Milano
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“Milàn brüta bèla” VIVIAN LAMARQUE Poetessa, scrittrice, traduttrice, pubblicista
Milàn brüta bèla avevo intitolato una mia poesia mezzo secolo fa. Poi Milano è diventata sempre più bella, bella quasi come quando Stendhal scriveva: «Presso il popolo di Milano, nato per il Bello, ci si occupa per un mese di seguito del grado di bellezza della facciata di una casa nuova». Dunque l’ossimoro oggi non vale più, è scaduto? Non del tutto. Del resto anche le altre metropoli del mondo restano irrimediabilmente belle a metà, al centro sì e nelle periferie no, cioè belle per chi nella bellezza già vive e non per chi del bello avrebbe bisogno come dell’aria. Le cose sotto tutti i cieli stanno così ovunque e non ci sono santi. Ieri osservavo una coda di una quarantina di persone, se ne stavano muti sotto la pioggia, con piccoli ombrelli da tre euro che durano tre giorni, fuori da un ufficio postale, di periferia naturalmente. Non c’era una circostanza particolare, da mesi, meno la pioggia, la scena si ripeteva: causa Covid possono entrare pochi alla volta. Età media: quasi vecchi, non sanno scaricare l’app degli appuntamenti ma conoscono bene l’app degli scaricati. Mentre tutti li ignorano, non tramonta mai l’incredibile pianeta dei volontari. A Vigevano è nato un gruppo incaricato di avvicinare i più malfermi e dire: «Se vuoi la faccio io la coda per te». Qualcosa mi dice che sto scivolando fuori tema, ma non completamente. Quei malfermi, malmessi sono gli stessi che poi faranno la spesa nel discount poco lontano, li ho visti con i loro carrelli, li ho visti calcolare occhio e croce il totale prima di arrivare alla cassa, in tempo per togliere dal carrello questo, no quello, anzi sì questo, tutto un togliere e rimettere negli scaffali. Ma stavo parlando di Milano bella. Quando sono su un tram proveniente da via Orefici e diretto verso via Torino, poco prima che svolti a destra mi alzo per vederlo entrare per un attimo dal finestrino: lui, il nostro Duomo speciale, così diverso da tutti. Ogni volta che lo vedo mi piace. Ho la fortuna che il replay per me è una prima visione, non mi abituo mai a niente. Comunque beati gli stranieri che ancora non l’hanno visto e che un giorno potranno vederlo dal vero per la prima volta. Anni fa ho pedinato una signora che avevo sentito chiedere dov’era la piazza (ora lo chiedono solo allo smartphone). Volevo vedere che faccia avrebbe fatto quando le sarebbe comparso, ma non ne ha fatta nessuna, non mi ha soddisfatta. Dal tram si vedrebbe bene anche il Castello, ma nessuno guarda più fuori dal finestrino, da nessun finestrino e neppure dalle finestre – sento che sto scivolando di nuovo fuori tema – non mi pareva vero quando un giorno su un treno una signora ecuadoriana mi ha detto: «Che bello fiume signora, come si chiama?».
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Tornando sul tram, quando si compie il percorso inverso, ciao Duomo, ciao Castello, ciao Ago filo e nodo e bei palazzi di Vincenzo Monti, ciao Arco della Pace e corso Sempione e piazza Firenze, scenderò di corsa alla prima fermata, prima che il lunghissimo rettilineo mi conduca implacabile sino al nostro Cimitero Maggiore, a Musocco. Nel frattempo le architetture, le luci, l’aria, tutto fuori dal finestrino del tram si è fatto diverso, le case, gli intonaci delle case, le persone, i vestiti delle persone, persino i volti delle persone: in centro non sono molto dissimili tra loro, si assomigliano un po’ tutti, ma più ti allontani dal centro, più variano le fisionomie, li osservi e ti pare di vedere meglio quello che gli manca invece di quello che hanno. Per primi riconosci i travolti dalle iniquità sociali, specie sulla circonvallazione che uso parecchio, dove ho scritto Sulla 90 i continenti. Ma nemmeno loro sono tutti uguali, alcuni per miracolo sembrerebbero essere usciti da traversate spaventose quasi illesi, quasi intatti, li riconosci dagli occhi, sono i miti. Categoria mia preferita. Il tram che mi è più caro è il n° 1, per anni mi ha portata avanti e indietro in via Manin. A Palazzo Dugnani salivo la bella scalinata della Civica Scuola Manzoni, affacciata sulla fontana dei Giardini Pubblici e sullo Zoo, carcere dal quale, durante le interrogazioni, ci chiamavano e chiamavano le foche e ogni tanto ruggiva un leone come un uccellino in gabbia. Anni dopo, salivo in soggezione una scalinata simile: nel palazzo sul marciapiede opposto avevano infatti sede la Guanda e la Società di Poesia, avevo Teresino sotto il braccio. Anche la mm 1, la più vecchia, mi è cara. Mi portava al QT8, quartiere che ha offerto a mia figlia Miryam una infanzia meno cittadina, villette con orti e giardini, stradine senza auto, e per vicino di casa aveva addirittura un mago, il Mago Zurlì. La mm 1 mi portava in un baleno anche al lavoro, scendevo in Cairoli, insegnavo in istituti privati di via Dante, dalle finestre vedevamo pezzettini di Duomo. Poiché Milano è città che accoglie, chiudo inviando un saluto alla prima casa che qui mi accolse, era in via Boscovich, lì mi aprì le sue braccia, avevo nove mesi, arrivavo in treno dalla Val di Fiemme. Milano è stata la mia città d’adozione, non tanto per dire, nel vero senso della parola. Con la sua accoglienza mi ha fornita di una caldaia di cui ero sprovvista, impianto autonomo, di riserva, funziona ancora oggi, me lo porto sempre dentro. P. S.: Non ho scritto una vera e propria lettera, eppure il post scriptum c’è, e con tre desideri: che bombardino le sale gioco, che scoloriscano le scritte sui muri, che vengano soccorsi i vecchini privi di app. Più un quarto da parte di Stendhal: che almeno un naviglio, almeno mezzo, possa tornare a riveder le stelle.
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Veduta Milano, 2017, olio su tela, 103×85 cm. 166 | Lettera a Milano
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A fronte: particolare, Torre Velasca, Milano, 2018, olio su tela, 143×121 cm. Particolare, Naviglio Ticinese, Milano, 2016, olio su tela, 150×123 cm. 168 | Lettera a Milano
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Particolare, Velasca gialla, Milano, 2017, olio su tela, 141×107 cm. A fronte: particolare, Velasca – via Larga, Milano, 2017, olio su tela, 172×143 cm. 170 | Lettera a Milano
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La bellezza suprema che non ti aspetti ANGELO CRESPI Giornalista, scrittore, critico d’arte
Cara Milano, se mi fermo anche per un solo istante, nel centro del centro che è piazza Duomo, centro topografico e simbolico della città, proprio di fronte alla cattedrale e alle sue tremila cinquecento statue addossate le una alle altre, e chiudo gli occhi, sento palpitare intorno la bellezza dell’arte e mi conforta questa prossimità, quasi che la potessi abbracciare tutta con un semplice gesto e farla mia; mi sovrasta, mi atterrisce la magnificenza di questo patrimonio di cui spesso non siamo consapevoli, neppure noi di Milano, tanti capolavori concentrati in uno spazio così piccolo e, mentre con la mente divago intorno, le mani, sembra, possano toccare le opere tanto mi sono vicine: giusto pochi metri sulla destra, nel palazzo dell’Arengario, dentro il museo del Novecento, percepisco nella sua frenetica immobilità, immotus nec iners, il bronzo di Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, sento il rigore delle tele metafisiche di de Chirico, mi esalto con Modigliani, scorgo in tralice il soffitto illuminato da Lucio Fontana, e se vagheggio sulla mia sinistra, oltrepassando d’un balzo la galleria, in piazza della Scala, nelle Gallerie d’Italia ritrovo Canova, Hayez, Segantini, Previati, e ancora Boccioni, Fontana, ma basta continuare su via Manzoni, per altri 50 metri, e al Poldi Pezzoli mi si parano la commovente Madonna del libro di Botticelli, il profilo sinuoso del Ritratto di giovane Dama del Pollaiolo, il San Nicola di Piero della Francesca, e poi se insisto altri pochi metri, in una via parallela, al Bagatti Valsecchi, ecco la Santa Giustina di Giovanni Bellini, e basterebbero altri due minuti per arrivare a Villa Reale, in via Palestro, ancora Canova, Hayez e il suo algido Ritratto di Matilde Juva Branca e quello conosciuto di Alessandro Manzoni, e poi una conturbante Cleopatra di Mosè Bianchi, un paesaggio di Segantini, alcune tele di Angelo Morbelli, le sculture di Medardo Rosso, e ancora il Novecento di Balla, Boccioni, Casorati, Marino Marini, Carrà, Sironi, Morandi.
Ma pur stando fermo, qui davanti al Duomo, girovagando in tondo posso godere, immaginando, lo spazio curvo della Scala del Piermarini, gli affreschi festosi di Giovanbattista Tiepolo a Palazzo Clerici, o farmi beatamente ingannare dal finto coro disegnato da Bramante in Santa Maria presso San Satiro, in via Torino, capolavoro assoluto della prospettiva rinascimentale. Potrei in pochi istanti raggiungere Sant’Ambrogio, austero esempio dell’arte romanica, oppure la monumentale basilica paleocristiana di San Lorenzo alle Colonne, spingermi in pochi istanti fino a Sant’Eustorgio e fermarmi nella cappella Portinari, esempio magnifico dell’architettura del Rinascimento. Tutto così compresso, affastellato, un patrimonio assoluto, altre migliaia di opere d’arte antica e moderna, centinaia di luoghi di cultura, tra teatri e chiese, monumenti e palazzi, biblioteche, tutte in così poco spazio, una circonferenza di neppure un chilometro. Ed è la grandezza da scoprire di Milano, la sua bellezza meno celebrata, che nessuno esalta, perché ci siamo abituati, abituati a non vantarci nel pieno spirito meneghino, a non dirlo, perché parlare – dalle nostre parti – è fiato. Eppure è tutta questa bellezza che ha generato creatività, che è stata la scintilla dei settori in cui Milano è capitale internazionale della contemporaneità, di quel made in Italy che qui trova giusto mezzo tra arte e industria, e che ci permettono di stratificare ulteriore bellezza e senso, alla Triennale per esempio, il luogo più prestigioso al mondo per il design e l’architettura, al Piccolo Teatro, uno dei più importanti teatri d’Europa, al Museo della Scienza, luogo mitico che conserva memoria della nostra capacità anche nei settori più distanti dall’arte, ma non da essi separati.
Se però lascio questa direttrice e dal punto in cui sono in Duomo mi volto invece verso via Dante, anche solo con la mente, a volo, posso sognare giusto pochi metri da me le sale dell’Ambrosiana con la canestra di frutta di Caravaggio, la più celebre natura morta di sempre, il musico di Leonardo e, impagabile, il cartone della scuola di Atene di Raffaello. Nel castello Sforzesco, di cui posso misurare i merli e le torri, mi inginocchio davanti alla Pietà Rondanini di Michelangelo, esempio tardo della grandezza dell’artista che non finendo la propria opera forse presagiva la modernità. Poco più in là, proseguendo lungo corso Magenta da una porticina entro nella chiesa di San Maurizio, tutta affrescata da Bernardino Luini, magnifica nella sua ritrosia, che preannuncia giusto cinquecento metri più in giù, i fasti di Santa Maria delle Grazie e al suo interno il Cenacolo, l’affresco di Leonardo da Vinci, nella sua primigenia evanescenza mito dell’arte di tutti i tempi. Ma riprecipitando al Duomo, posso lanciare lo sguardo oltre la galleria questa volta però in direzione Brera e in cinque minuti a piedi, se lo volessi, potrei raggiungere l’Accademia e, salutato nel cortile l’imponente Napoleone in effige d’Apollo di Canova, ammirare al primo piano il Cristo Morto di Mantegna, la Pietà di Bellini, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, la Cena in Emmaus di Caravaggio, la Pala Montefeltro di Piero della Francesca. 172 | Lettera a Milano
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Lettera sulla città ELIO FRANZINI Filosofo e accademico italiano
Marx e Baudelaire, pressoché contemporanei, vivono nei medesimi anni le aporie della metropoli, il primo rilevandone gli scarti sociali e il secondo la varietà che annuncia una modernità irriducibile. Entrambi ne colgono la contraddittorietà, inaugurando una tradizione di riflessione sulla città che ancora oggi non si spegne e che ha illustri protagonisti quali Simmel, Benjamin o Bauman. Il fascino è evidente: la città è un insieme di passaggi, o di reti, che generano un’immagine multiforme, in cui è difficile riconoscersi o perdendo se stessi nel molteplice o ritagliandosi una porzione di spazio in cui il soggetto non si senta straniero. Godere della folla, scrive proprio Baudelaire, è un’arte che non tutti possiedono, che forse ha bisogno, per poter vivere, di conquistare il gusto del travestimento e della maschera. In ogni caso, la metropoli costringe ad affinare la capacità contraddittoria, o schizofrenica, di saper resistere sia in solitudine sia in moltitudine, essendo spettatori, o protagonisti, di contemporanei processi di aggregazione e disgregazione. Milano, in apparenza, o come numero di abitanti, non è una metropoli. Tuttavia, è oggi ben più popolata della Parigi di Baudelaire e ha della metropoli tutte le caratteristiche interiori e, sempre più, esteriori. La città – la piccola città o la città architettonicamente unitaria – è una grande narrazione: le sue strade raccontano una storia, certo stratificata, ma facilmente leggibile, quasi fosse un libro. La metropoli, invece, e Milano in particolare, ondeggia sempre più verso il postmoderno, non solo perché vive una frantumazione che non può essere narrata, ma perché i suoi quartieri mutano in modo vorticoso e parlano, al loro stesso interno, linguaggi irriducibili, e non solo nelle cosiddette “periferie”. Mancano i punti di riferimento, mancano sempre più linguaggi di comune identificazione storica intergenerazionale: il Cinema Rubino (unica sala cinematografica milanese aperta al mattino e dunque luogo elettivo per chi “bigiava” la scuola) o le Varesine sono termini che un quarantenne oggi non comprenderebbe, anche se fanno parte della storia recente di Milano. L’Isola non è più tale e si crea al suo centro una piazza che non è luogo di passaggio, ma il paradosso di un evento cui si accede tramite una scala mobile e che, per di più – vero paradosso urbanistico – volge le spalle alla funzione pubblica, cioè alla Stazione Garibaldi. Gli esempi potrebbero essere infiniti, e si finirebbe per disputare se Milano sia una metropoli postmoderna (e lo è, una delle poche al mondo, perché in ogni quartiere avveniristico permangono ancora citazioni del passato, e viceversa) o una grande città che sta vivendo, sin dagli anni Trenta del Novecento (si pensi alla pittura futurista), l’unica autentica e profonda “modernizzazione” del nostro Paese. In ogni caso, Milano non si lega – o non si lega più – ed è per questo metropoli, nella sua plurifattorialità stilistica, a uno sguardo unitario e, se proprio lo si cerca, si adatta soltanto a quel processo di azione reciproca che Simmel vedeva come essenza della vita metropolitana. Dobbiamo quindi constatare, con nostalgia, astio o compiacimento, che da quando la modernità, o la post-modernità come sua forma estrema, ha catturato Milano, la città è protagonista (o vittima) di un’esplosione continua, che implica sempre più processi di estraneazione o di non riconoscimento. Una fotografia aerea di piazza Giulio Cesare di quindici anni fa confrontata con 174 | Lettera a Milano
la realtà attuale sembrerebbe antica di cent’anni. È scomparso un mito – la Fiera campionaria – ma, come insegna Barthes, i miti d’oggi subentrano l’uno all’altro con grande velocità. Siegfried Kracauer negli anni Trenta del Novecento indicava come obiettivo dell’intellettuale la distruzione delle forze mitiche, intorno e dentro di noi, cioè le rappresentazioni consolidate e stabili della vita umana che fanno apparire ciò che è storico e contingente come naturale e immodificabile. In questo senza dubbio Milano rivela la sua forza intellettuale e il suo carattere illuminista, dal momento che lo spirito dell’Illuminismo consiste proprio nel condurre una critica sociale per distruggere le forze mitiche. E quindi Milano è rinnovata costruzione di miti, creati ovviamente per essere distrutti. Mithologies di Barthes riprende questa istanza affermando che la semiologia deve essere una semioclastia, cioè un’analisi critica dei segni manipolatori prodotti dalla ideologia. L’analisi semiologica va condotta su oggetti e fenomeni della società: senza dubbio Barthes privilegia le manifestazioni della quotidianità, quindi della vita cittadina. Facile ipotizzare quel che direbbe Barthes se fosse interrogato sul nostro tema: si tratta di smascherare l’ideologia nella sua forma più sottile e pervasiva, quale si mostra nell’ovvietà quotidiana, che fa passare come “naturale” ciò che tale non è, ma è prodotto dell’artificio e della costruzione. Il mito è un meccanismo di mascheramento con cui la società scambia per naturale ciò che è essenzialmente culturale e storico; è un sistema di comunicazione, un sistema semiologico secondo: un segno diventa a un secondo livello (quello del mito) il significante di un altro significato. La significazione mitica svuota i segni preesistenti, facendoli regredire allo stato di forme vuote, pronte ad accogliere le significazioni parassitarie del mito. La falsificazione del mito consiste dunque nell’introdurre nel segno, di norma arbitrario, una motivazione, basata su una qualche forma di analogia. “Tre torri” è analogo alla “Fiera campionaria”. Si tratta comunque di sistemi semiologici secondi. Che dire allora? Perché, sino a qui, chi ha la benevolenza di leggere potrebbe anche pensare che colui che scrive sta riproducendo l’uomo blasé di Simmel, cioè l’abitante classico della metropoli, disincantato, indifferente, scettico, persino un poco annoiato quando gli si chiede di descrivere un luogo della propria città. Un uomo che non è certo più il “dandy” di Baudelaire perché è consapevole di avere visto troppo per avere molto desiderio di vedere ancora, di costruire nuovi miti. Si tratta solo, in definitiva, di descrivere gli spazi, avendo l’accortezza che tale descrizione non sia frantumazione del senso dello spazio della rappresentazione cittadina, ma solo messa in rilievo di alcuni elementi del suo senso, che concorrono forse a delinearne una essenza, che può manifestarsi soltanto attraverso la descrizione di esperienze soggettive e parcellari. Non è così o, almeno, non è così soltanto. Ha ancora un senso, infatti, nel disincanto della metropoli, non essere indifferenti e cercare di cogliere alcuni nessi, alcuni nodi, qualche rete, parziali punti di vista, in Lettera a Milano | 175
grado, tuttavia, di afferrare nuclei di senso delle cose, del nostro modo di vederle, conoscerle, considerarle. Il nostro spazio possiede una sua “forma simbolica”, che allude a orizzonti di senso ancora vivi e viventi.
zione significa mettere concretamente in campo una rete di solidarietà e sinergie che la crisi deve rafforzare e non distruggere. Milano, al di là dell’apparenza, ha molte forme nuove, ma ancora una voce sola.
Il nostro spazio circostante non è allora un mondo da spiegare, né qualcosa da riprodurre con esattezza, o da mitizzare, bensì un senso da interrogare, che sempre qualcosa dice sulla nostra identità. Così, proviamo a guardare un punto di Milano, apparentemente irriconoscibile – un altro luogo che più della metà della popolazione milanese non riuscirebbe a identificare, e dunque a localizzare, se lo si chiamasse con il suo nome storico: la Centrale del Latte. Oggi, del tutto distrutta, ospita gli affascinanti edifici dell’Università Bocconi ed essi sono uno dei simboli di una verità ormai acquisita: riflettere su Milano significa pensare al Paese intero. Appare qui infatti Milano come motore dell’innovazione, come costante “esperimento” per condurre su territori nuovi e inesplorati. Ebbene, in questo nuovo assoluto, in cui è scomparsa ogni traccia del passato, cerchiamo però, e troviamo, anche l’elemento simbolico che dona identità, la permanenza dell’identità, e dunque fa pensare. Le persone in coda per un pasto o qualche genere alimentare a Pane Quotidiano (in viale Toscana, a fianco dell’Università Bocconi come prima erano a fianco della Centrale del latte), sono sempre lì, anche se ormai variegato è il colore della pelle e le lingue. Le code non sono il risultato della pandemia. Abito nella zona da tanti anni e assicuro che vi sono sempre state, anche se con volti diversi. Sono il segnale che dobbiamo guardare, per ricordare l’identità della nostra metropoli, anche a una Milano per troppo tempo obliata o addirittura scotomizzata. Una Milano che muta i suoi segni esteriori, ma che deve mantenere intatta la forza dei suoi simboli. Il fatto che ora Pane Quotidiano sia a fianco di un’università (quasi fusa in essa), e non di una “fabbrica” (in quella zona, quando ero ragazzino, si sentivano ancora le sirene alle 8, alle 12 e alle 17, che segnavano gli orari di ingresso, pausa e uscita degli operai) induce infatti un pensiero nuovo, forse un nuovo modello di narrazione della città futura, uno scenario in cui innovazione scientifica e solidarietà possano coniugarsi. Questo è il futuro, un futuro che dovrà far comprendere che una crisi – la crisi che stiamo vivendo ma, più in generale, un’idea di crisi inseparabile dalla mobilità metropolitana – ha elementi di positività solo se stimola sia percorsi di analisi sia processi di sviluppo, gettando semi per nuove idee e nuovi comportamenti. Il tempo del “guarda e fuggi” è finito: bisogna invece cercare rinnovati modelli, osservando i particolari cittadini non con disincanto annoiato, ma come simboli di problemi generali, partendo dalla complessità di Milano e dalle sue contraddizioni, per trasformarle in risorse: investire in ricerca e forma176 | Lettera a Milano
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A fronte: particolare, Torre Velasca. 178 | Lettera a Milano
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A fronte: particolare, Velasca – Porta Romana, Milano, 2018, olio su tela, 164×115 cm. Particolae, Velasca – piazza Missori, Milano, 2018, olio su tela, 163×125 cm. 180 | Lettera a Milano
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Particolare Porta Nuova, Milano. 182 | Lettera a Milano
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testi critici
Urban Sceneries FLAMINIO GUALDONI Critico d’arte, storico dell’arte e docente italiano
Marina Previtali lavora da anni, con ossessione dolce, intorno al tema della visione urbana come dimensione paesistica introiettata ormai nella nostra coscienza di moderni: che è tuttavia, anche, interrogazione tutt’altro che ovvia sulla pittura e la sua necessità in un tempo in cui l’idea di città è stata campo radiante di pensiero e visione (dalla “città aggressiva” di Arnold Toynbee alla “lussuria geometrica” di de Chirico, giusto per citare) di cui s’è fatta infine interprete primaria la fotografia, capace di cogliere e riscrivere «eleganza, squallore, curiosità, monumenti, facce tristi, facce trionfanti, potenza, ironia, forza, decadimento, passato, presente, futuro di una città», come voleva Berenice Abbott. Previtali ha scelto un approccio diversamente centrato, che scruta il suo autobiografico sentirsi abitante della città in quanto membro della civitas, la comunità consapevole di se stessa, e insieme come individualità continuamente straniata, in una complessa trama sentimentale sempre in bilico tra intendimento di Milano come luogo dell’anima e sospetto che i suoi luoghi altro non siano che sceneries, scenografie di solitudine irrevocabile. L’artista si ritrova nel dipingerla, Milano, affidando alle materie aspre, alle pennellate materiate, ai soprassalti energetici del gesto, lo stream affettivo e di pensieri che la anima. Che sia un “a tu per tu” è detto dalla totale assenza della presenza umana. Certo, è una tradizione ormai di genere, l’evidenza snudata dei luoghi, almeno da Charles Sheeler in poi: ma qui non è in gioco la fascinazione dell’architettonico, la condizione ammirata dell’artificio del costruire, bensì l’anima dei luoghi, un vedere, un esserci che si vorrebbe partecipe ma che si ritrova come distanziato irrevocabilmente, come una presenza còlta e subito perduta. Solo la pittura può rendere questa condizione, il cui paradigma mimetico, pur mantenendosi saldo, si carica di brividi emotivi, d’una concentrazione meditativa profonda e continua: si chiede più come guardare che cosa. Questo è il fascino sottile dei dipinti di Previtali, la loro vera raison d’être.
Particolare Ponte Richard Ginori. 186 | Lettera a Milano
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Il gioco dinamico della città MAURIZIO CUCCHI Poeta, critico letterario, traduttore, pubblicista
Uno degli aspetti più belli e singolari di questa città, Milano, per come la vede Marina Previtali nella sua vivace ricostruzione, insieme fedelissima e quanto mai libera, è nelle molteplici increspature che presenta, vale a dire nel gioco dinamico dei suoi contorni. Contorni che non sono lisci, lineari, ma sempre in rilievo materico, come in una sorta di vitale non finito, che esprime – io credo per necessità immediata e quasi senza intenzione – l’originale interpretazione dell’artista. E dunque il suo modo di sentire e raccontarci quel paesaggio, nel suo interno mutare, o nel suo spalmarsi nella mente, in modo quasi onirico, e non di meno esatto, nella molteplicità cangiante delle sue parvenze. Certo, possiamo osservare in queste opere, la strenua attività di incessanti lavori in corso, dove la fantasmagoria di colori si impone nel dettaglio, si fa sentire nelle superfici minime come in più ampie distese, fino alle indicazioni, ai segnali stradali, a quelle imponenti masse materiche dove non si ravvisa traccia di essere umano. E questo è un preciso carattere del lavoro di Marina, che a mio avviso non vuole rendere disumano il paesaggio, ma vuole proporlo nella sobrietà antiretorica di un carattere locale, dove il soggetto è tanto più autentico e sano quanto meno subisce il banale desiderio di mettersi in mostra, lasciando invece il meglio di sé nel corpo di un ambiente che ne rivela l’operosità, il lavoro, la nobiltà dell’umana fatica. Una fatica che si intuisce bene, per esempio, nella verticalità protesa in uno sforzo costante, una tensione attivissima, della quale, in fondo, è difficile cogliere il senso. O, paradossalmente, è forse più agevole e naturale considerarlo inesistente, in un mare di forme dove talvolta qualcosa sembra volersi ergere immotivata e vistosa. La bravura dell’artista è anche nella sua onesta volontà di modificare il paesaggio pur conservandone i tratti di evidente riconoscibilità in molti elementi anche notissimi, dove il nuovo, il vecchio e l’antico coesistono, come se il tempo avesse ormai tutto assorbito in sé, come se l’insieme delle vedute ci provenisse da un futuro che non conosciamo, che possiamo solo immaginare o inventare, ma che può conservare, pur con qualche traccia di interna decomposizione, ciò che la storia ha giustapposto e forse appiattito nel pensiero umano. O viceversa colorizzato con violenza attraverso i meccanismi aperti del sogno e della fantasia. E magari sotto un cielo irreale e irrealistico, un cielo giallo eppure senza sole, dove la torre svetta, bellissima e insensata, e dove le mille finestre appaiono come loculi o geometrici depositi, disordinatamente uguali e ancora senza presenza neppure infima di figure umane. Insomma, Marina Previtali ci offre un suo modo acuto e sensibile di vedere la nostra città, un modo che ci aiuta a capirla meglio e di cui dovremo tenere conto con riconoscenza e affetto.
Ponte Richard Ginori. 188 | Lettera a Milano
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Intorno alla Torre Velasca STEFANO ZUFFI Storico dell’arte
Torre Velasca, Milano, 2021, olio su tela, 137×170 cm. 190 | Lettera a Milano
Abito in Porta Romana da più di vent’anni, e la finestra della mia cucina inquadra la Torre Velasca. Ogni mattina la saluto, mentre preparo il caffè in sua compagnia. È diventata come un faro, un osservatorio meteorologico, un totem intorno al quale immaginare come si svolgerà la giornata. Ci sono momenti magici, in cui il calcestruzzo aranciato di rivestimento avvampa letteralmente di note di rosso e di rosa, mentre le finestre sembrano incendiate dal sole; ci sono giorni in cui il “torracchione” a forma di fungo se ne sta lì, torpido e solenne, immerso nella solitudine; e ci sono ancora occasioni, sempre più rare, in cui il colosso scompare avvolto nella nebbia: è lì, a due passi, ma non si vede. Francamente non mi chiedo se la Torre Velasca sia un capolavoro dell’architettura della ricostruzione, un omaggio alla tradizione sforzesca oppure, come suppone un tabloid inglese, se sia da catalogare fra gli edifici più brutti del pianeta. Mi piace che stia lì, punto e basta; non mi preoccupo di dare una definizione del suo stile (brutalista? funzionalista?), e sono contento che sia stata inaugurata proprio nell’anno in cui sono nato, è insomma una mia coetanea: certo non può più essere considerata un esempio di architettura “contemporanea”, ma ancora per un po’ non può ovviamente essere nemmeno considerata “antica”! Nella pittura di Marina Previtali la Torre Velasca è spesso la protagonista assoluta della scena urbana. Si impone con tutta l’evidenza di una sagoma inconfondibile: è una presenza eloquente, evidente, ma non ingombrante. Nei quadri di Marina Previtali, alcuni dei quali si sviluppano coraggiosamente su formati molto notevoli, la Torre Velasca si inserisce in modo organico e diretto in una fitta maglia cittadina, resa con piena adesione al vero, e insieme sempre nuova per taglio, densità, luce, colore, contesto. In alcune occasioni la Torre Velasca è ripresa da un punto di vista ravvicinato, i dettagli sono indagati con meticolosa cura, quasi come se si trattasse di uno studio architettonico; in altri casi, è solo un dettaglio (pur sempre riconoscibilissimo!) sullo sfondo di una distesa di tetti; a volte è l’elemento saliente di un dinamico contesto ambientale, in piena evoluzione. Questa piacevole varietà circonda e sottolinea l’immutabilità tetragona del grattacielo, un possibile contrasto che si risolve sempre in una sostanziale accettazione reciproca, una situazione davvero molto milanese! I dipinti di Marina Previtali partono da una tecnica paziente, “classica”: una attenzione al dettaglio del tutto controcorrente rispetto alla esecuzione sbrigativa e sommaria che troppi artisti hanno adottato nel recente passato: ma non si tratta affatto di un asettico virtuosismo formale. Marina Previtali non propone immagini in trompe-l’œil, non si affida al freddo e anonimo dettaglio oggettivo. L’impaginazione della scena, il punto di osservazione, la gamma dei colori, l’uso delle luci, spesso molto limpide, sono di volta in volta scelte molto precise: la Torre Velasca (a cui si accompagnano, nei dipinti più recenti, le nuove “torri” dello skyline milanese del terzo millennio) è il colossale termometro di uno stato d’animo, la testimonianza muta e insieme vibrante di un sentimento personale e cittadino. Come ha notato con finezza Maurizio Cucchi, i quadri di Marina Previtali sono ricchi, densi, fitti; ma non c’è nessuna figura umana. È vero, ma ci rendiamo conto di questa assenza solo quando qualcuno ce lo fa notare. Le tele hanno una vitalità immediata, mostrano una attività fremente, e ci viene da dare per scontaLettera a Milano | 191
to che questa animazione sia “sostenuta” da un brulicante formicaio umano. Invece non è così, e possiamo interrogarci a questo punto se la città abbia di fatto una sua propria, autonoma vita, a prescindere dalla presenza degli abitanti. È il dinamismo intrinseco della “città che sale” che entusiasmava Boccioni, è il pulsare del “cuore” auscultato con passione da Alberto Savinio. Così stiamo entrando a poco a poco dentro alle scene urbane dipinte da Marina Previtali. Abbiamo superato il primo e piacevole impatto: fin da lontano abbiamo riconosciuto facilmente, quasi con un sorriso un po’ complice, luoghi ed edifici che ci sono cari, che appartengono alla geografia dei nostri ricordi e della realtà. Adesso però viene il momento di fare un passo avanti. Non siamo più “fuori” dal quel contesto, visitatori che passeggiano soddisfatti in una galleria d’arte. Proprio l’assenza di persone ci “chiama” all’interno dei paesaggi urbani. È in questo secondo e più prezioso livello che mi pare di trovare la chiave poetica dei dipinti di Marina Previtali: l’invito a superare l’immediata soddisfazione visiva e a passare a una più diretta. Personale partecipazione. La città come luogo dell’impegno e della vita, uno scenario in cui siamo chiamati a entrare non come spettatori, ma come protagonisti.
Particolare Torre Velasca, Milano, 2021. 192 | Lettera a Milano
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dialoghi di milano
Ciclo di conferenze svolte presso Galleria Previtali arte contemporanea, 15 novembre 2018 - 18 aprile 2019
Relatori Flaminio Gualdoni, Giuseppe Iannaccone, Mimmo di Marzio, Antonio Addamiano, Stefano Zuffi, Angelo Crespi, Luigi Mascheroni, Filippo Del Corno, Maurizio Cucchi, Giacomo Manzoni, Roberto Brivio, Enrico Beruschi, Gianluigi Colin, Giangiacomo Schiavi, Elena Pontiggia, Nicoletta Colombo, Ugo La Pietra, Silvano Petrosino, Mauro Magatti, Italo Rota, Evaristo Beccalossi, Giovanni Lodetti, Lorenza Baroncelli, Stefano Boeri
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Immagini di città FLAMINIO GUALDONI
Storico dell’arte, critico d’arte, pubblicista
Ha scritto Aldo Rossi a proposito di Mario Sironi e del suo pathos enfatico che quelle della sua pittura sono «architetture senza tempo che, a dispetto del programma, solo un futurista ci poteva dare».
Probabilmente i suburbi cantati dalla pittura digrignante di Sironi sono l’emblema dell’immagine di città europea, tanto quanto le case di legno allineate lungo prati polverosi di Edward Hopper lo sono
Mario Sironi, Il Gasometro, Milano, 194, collezione Giovanardi, oggi al Mart di Rovereto.
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dell’America delle solitudini e degli orizzonti slontanati. Eppure è proprio la pittura dei padri del Futurismo, di Balla e Boccioni, a cogliere nella città che si espande con la forza di una macchina ottimista il senso di ciò che allora s’intendeva per modernità. Nelle loro periferie, in quel crescere inquieto degli edifici che divora la campagna, è leggibile la polarità dello sguardo che tutto
il secolo, in stagioni e modi diversi, rivolgerà al paesaggio urbano e all’idea stessa di città: da un lato una sorta di ambiguo amore per le sorti progressive, dall’altro il senso di smarrimento intellettuale che il cambio di scala va generando, nell’inghiottirsi del métron umano entro ulteriori “interminati spazi”: è l’inizio del dominio della misura, la sconfitta della proporzione. «Canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle
Umberto Boccioni, Periferia, 1909, collezione privata.
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capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi»: così recita il Manifesto Futurista, e nella pittura nuova di Boccioni la città si fa, a pieno titolo macchina straniante. Se ancora la città della “vie moderne” impressionista è scenario confidente dell’uomo, qui, così come per altri versi nel sogno di natura perfetta degli espressionisti tedeschi, il divorzio dell’arte europea dalla città si fa irrevocabile. In fondo, se di una nostalgia intende ragionare la metafisica di De Chirico, essa è per spazi urbani che, come i rinascimentali, facciano da scenario alla commensuratio dell’umano. Ed è la lezione che colgono i più acuti esponenti del Novembergruppe e del Rote Gruppe tedesco, Grosz, Dix e Beckmann su tutti, i quali ripartono proprio dalla visione metafisica per forzarla a mimesi discrepante dell’urbano, e cogliere la dismisura il senso di violenza che lo spazio esercita sull’uomo: la città è un totale antropico che, alla fine, espelle il suo creatore. In questa chiave si può leggere, da un lato, sia il raggelarsi visivo della Neue Sachlichkeit tedesca, sia la visionarietà feroce che si traduce in linguaggio cinematografico nel memorabile Metropolis di Fritz Lang, 1926: a sua volta influente sull’arte a venire, a cominciare da Ben Shahn negli Stati Uniti. La vicenda americana è, nella prima metà del secolo, tendenzialmente diversa. La metropoli è il nuovo mondo, come cantano le fotografie, assai più che i quadri, di un Charles Sheeler erede di Stieglitz, e quelle più note di
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Berenice Abbott. Ma la città è soprattutto “The Town”, aggregato urbano complice della natura in cui la misura umana è ancora percepibile. The Town and the City di Jack Kerouac, 1950, contrappone perfettamente e con umori hopperiani, in letteratura, il valore della nostalgia regionalista a quanto conflagrazioni urbane come Chicago e New York hanno imposto all’immaginario. E mi piace pensare che Paul Strand, girando per le strade di Luzzara con Cesare Zavattini per fotografare Un paese, 1955, facesse ragionamenti simili a quelli di Kerouac.
dilatazioni del grandangolo o delle compressioni del teleobiettivo né dei colori artefatti dei filtri».
Nel secondo dopoguerra lo sguardo cinematografico, e solidalmente quello fotografico, si fanno in effetti arbitri del rappresentare, dunque del trascrivere con ragionamento il mondo circostante, a fronte della lunga stagione non oggettiva della pittura.
In anni recentissimi lo spazio pare farsi nuovamente barocco, conflagrante, scomposto. La riappropriazione della città avviene per percorsi trasversali. Tra questi emblematico è quello di Krzysztof Wodiczko, il quale usa degli spazi urbani come scenari delle proprie operazioni operando con forte senso politico sulla misura dello spazio urbano. Egli sostiene: «In the 1980s, there emerged influences from critical urban geography and the ideas of uneven development, urban struggle, and cultural resistance. Artists began to think critically about art in relation to development in a city and the lives of its people. Questions of representation also emerged. How should a particular social group or stratum be represented? More artists became directly involved in the lives of the inhabitants of cities».
La Naked City di Weegee è a un tempo figlia di Grosz e madre degli incubi metropolitani di James Ellroy e Ridley Scott, lontanissima ormai dal mondo di un Walker Evans o dal senso confidente di corpo e spazio di un europeo come Robert Doisneau. Le generazioni nuove elaborano uno sguardo ormai definitivamente delucidato e slontanato, analitico senza invettiva e senza giudizio, nei confronti dell’idea di città. Maestro della nuova stagione è Gabriele Basilico. «Il fotografo deve stare sempre attento a non contraddire ciò che l’occhio vede, non deve essere influenzato o distorto da sentimenti, da incrostazioni o da ideologie culturali, né da ricordi o da altro, non deve prevaricare né forzare, ma essere appunto contemplativo, con uno sguardo lento, che mette a fuoco e coglie tutte le cose, che si impossessa e rende protagonista lo spazio; l’occhio diventa tutt’uno con il medium fotografico, neutrale e senza pregiudizi come la sua macchina, una macchina anch’essa normale, che non ha bisogno delle
Dagli anni Sessanta, è Basilico ad affermare la nuova misura del rappresentare, senza le implicazioni lucidamente concettuali tipiche di Bernd e Hilla Becher ma con una affine, implacabile oggettività. La scuola tedesca degli Andreas Gursky, dei Thomas Struth, di Candida Höfer, viene dai Becher tanto quanto dalla lezione del grande maestro milanese.
Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, 1978-1980.
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Collezionismo e mercato dell’arte MIMMO DI MARZIO - GIUSEPPE IANNACCONE - ANTONIO ADDAMIANO Giornalista - Collezionista - Gallerista
MIMMO DI MARZIO: Come nasce la passione per la collezione? GIUSEPPE IANNACCONE: L’arte è ben presto diventata una passione, ma le origini del mio interesse in questo affascinante ambito sono più legate a una sorta di necessità; l’arte è stata, soprattutto inizialmente, distrazione e cura dell’anima. Le prime visite settimanali ai musei e nelle gallerie alleviavano lo stress che il lavoro comportava giornalmente, appassionatomi sempre di più, ho deciso di voler comprendere meglio il panorama artistico italiano e dedicarmi allo studio dei testi di Storia dell’Arte. Più studiavo, più comprendevo le dinamiche degli attori della storia attuale come di quella precedente, lentamente cresceva in me la voglia di essere un attore attivo di questo ambito specifico; lo studio così, dopo aver capito di cosa mi piaceva circondarmi, si trasformò in acquisizione di opere e in prestiti presso esposizioni pubbliche. M. D. M.: Qual è il fil rouge che tiene unita la sua collezione? G. I.: Al centro della mia collezione c’è e rimarrà sempre l’uomo, o ciò che mi piace definire “realismo”, senza la consueta considerazione che se ne fa in ambito artistico; realismo come una ripresa dell’uomo e della donna come fossero dei poliedri dalle mille sfaccettature, da indagare e ammirare, con i loro lati chiari e quelli più
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nascosti, come lo sono i moti dell’animo e l’intima emotività. Il fil rouge legato all’uomo e alla donna riesce anche adunire magistralmente i due corpus di opere della mia collezione, l’arte dei primi anni del xx secolo e la parte più contemporanea, perché in ogni singola opera si palesa, più o meno chiaramente, la necessità di esprimersi e di far emergere le gioie, le sconfitte, i bisogni e le angosce dell’anima di ogni essere vivente. M. D. M.: Com’è cambiata oggi la “caccia amorosa” agli artisti rispetto a ieri? G. I.: Non credo di poter sostenere che la caccia amorosa sia cambiata, per essere tale, deve condensare su di sé una certa dose di passione, tenacia, studio e, non posso nasconderlo, un po’ di sano disincanto, tutte caratteristiche presenti trent’anni fa come ora. Se la caccia amorosa rimane una costante, sono però cambiate le modalità, un tempo era più complicato capire dove fossero le opere e il mio nome, ancora sconosciuto, non mi permetteva di aprire le porte giuste. Ora, essendo uno dei pochissimi collezionisti dell’Espressionismo italiano degli anni Trenta, le opere mi vengono proposte più facilmente e mi è relativamente più facile prendere una decisione. Certo, riuscire a far comprendere ad alcuni collezionisti che il valore di mercato è ben diverso dal valore storico, e affettivo, è complicato, a volte ci riesco, a volte no.
M. D. M.: Per acquisire un’opera d’arte ci si affida a un gallerista o si compra all’asta? G. I.: Entrambi, ma è difficile che acquisisca un’opera di un artista mai avuto in collezione in asta; questo perché, collezionando in gran parte giovani artisti, normalmente mi affido alle gallerie per le nuove acquisizioni. Ci tengo a sottolineare l’importanza delle gallerie nel sistema dell’arte, esse sono come i pilastri di un palazzo, che sorreggono e credono in prima persona nel lavoro dei loro artisti. Il buon collezionismo non può scavalcare il loro grande operato, a meno che non si parli di artisti ancora sconosciuti o senza galleria. M. D. M.: C’è un quadro che avrebbe voluto avere nella sua collezione ma che non è riuscito a concretizzare? G. I.: Mi capita spesso di pensare alle opere che avrei voluto ma che, per diverse ragioni, non sono riuscito a conquistare; soprattutto nei miei primi anni da collezionista, una volta individuato il capolavoro, trascorrevo ore al telefono per convincere i collezionisti a cedermi l’opera oppure per coinvolgere i galleristi nella ricerca dell’opera e dei suoi proprietari. Non tutto sempre andava a buon fine, come con l’opera di Scipione Risveglio della bionda Sirena, all’epoca chiedevano una cifra troppo alta e che non mi potevo permettere; poi è passata alla collezione Cerutti per approdare oggi in un luogo magnifico come il Castello di Rivoli; mi arrendo solo di fronte alle istituzioni pubbliche, quella è l’arte di e per tutti e va unicamente preservata. Mi sarebbe piaciuta anche una scultura di Manzù, un capolavoro
si intende, ma a oggi faccio ancora fatica a trovarne, di qualità e al giusto prezzo. M. D. M.: Quanti anni dovrebbe avere un’artista per far parte della sua collezione? G. I.: Non le nascondo la mia particolare attenzione verso i giovani artisti, ma non credo sia mai stata una questione di età, si entra in collezione quando si ha alle spalle una serie di caratteristiche ben definite, in cui l’età dell’artista ricopre importanza fino ad un certo punto. Questa mia propensione può tramutarsi in un’arma a doppio taglio: da un lato la certezza di una buona galleria e di una poetica ragionata e ben studiata, mi garantisce di poter trovare dei capolavori e delle opere incredibilmente rappresentative di quell’artista, dall’altra parte scommettere su un giovane artista, o perlomeno, con alle spalle poca esperienza e pochi riscontri in ambito di mercato, risulta un vero e proprio tuffo nel vuoto. Posso dire però che questo leggero velo d’incertezza fa parte di quel guizzo di emozioni che caratterizza una nuova acquisizione a cui non potrei rinunciare, ed è anche quell’emozione che molti anni fa fece entrare in collezione opere di Kehinde Wiley o di Lynette Yiadom Boakye, oggi ben conosciuti dal grande pubblico ma che allora nessuno conosceva. M. D. M.: Il suo prossimo impegno, dove lo vede protagonista? G. I.: Il mio prossimo impegno mi vede attivo alla gam di Torino dove, tra pochi giorni, inaugurerà un’esposizione in cui una settantina di opere della collezione tra le due guerre verranno messe in relazione con le opere
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dei Musei Reali e della Galleria di Arte Moderna di Torino. Purtroppo il periodo non ci permette di allestire nuove mostre in studio. Nonostante questo sono molti i progetti che stiamo portando avanti, tra cui, un importante lavoro di pubblicazione sulle opere di arte contemporanea presenti in collezione che, spero, riuscirà a stupire.
ANTONIO ADDAMIANO Quando ho avviato la mia attività nel 2006, ho scelto gli artisti con cui collaborare secondo dei criteri molto semplici. Fidandomi della mia preparazione, insieme al gusto personale come collezionista e ponendo una grande attenzione alla storicizzazione degli artisti in relazione al loro mercato, ho costruito una squadra che negli anni si è evoluta insieme alla galleria. Nella mia vita lavorativa ancora oggi seguo questi principi; il mio è un lavoro totalizzante e non potrei gestire la mia attività in maniera diversa o troppo distante da quello che è la mia personale visione. Devo però fare una premessa. Vorrei accennare alla mia formazione, che, sotto un certo punto di vista, è la mia esperienza di vita. Nella mia famiglia, l’arte e tutto ciò che le ruota attorno, era, ed è, parte della quotidianità. Mio padre, infatti, era docente di pittura all’Accademia di Brera (dal 1977 al 2007). Allo stesso tempo aveva la sua carriera di artista, viaggiava moltissimo. Anche se non li ho vissuti, c’è da ricordare che gli anni ’70 sono stati anni di grande fermento. Nascevano iniziative importanti, che andavano consolidandosi. Ricordiamo che Art Basel è nata nel 1970, e anche la rivista Arte (ai tempi era Bolaffi Arte). Milano e l’intera Italia negli
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anni ’80 hanno poi vissuto un vero boom del settore dell’arte, tanto che praticamente chiunque poteva acquistare opere per la propria casa o diventare un collezionista. In questo clima, seguendo il lavoro di mio padre tramite mostre pubbliche e private, ho visto produrre libri e cataloghi oltre ad acqueforti e litografie, molto in voga a quell’epoca. La consapevolezza della complessità di questo mondo mi è arrivata piano piano, crescendo con me da quando ero ragazzino. Le persone che mio padre frequentava più spesso, erano diventati volti noti. Piano piano ne comprendevo i ruoli e i caratteri. Galleristi, curatori, editori, direttori di musei e altri artisti, più e meno famosi.
collezione è quella che proporrei anche a chi inizia. Magari alcuni nomi prima di altri o alcuni “periodi” prima di altri ma, anche se l’attenzione al mercato è il mio secondo imperativo, la mia galleria non ha mai proposto artisti secondo un estremo approccio speculativo, da tenere in caveau o gli “artisti del momento”, ma ho basato comunque le scelte sulla diversificazione con un occhio al rapporto qualità/prezzo. Quindi ritorno alla base, cioè il gusto personale. Indubbiamente nell’arte contemporanea la conoscenza della storia (la storia-critica) degli artisti e delle loro vicende personali, ne influenza la nostra percezione. Parlo di quando davanti a un quadro si esclama “capolavoro” non potendo scindere l’appeal storico da quello estetico.
Dagli anni ’90 ho iniziato a seguirlo molto, in Italia e anche in Europa. Ho visitato moltissime fiere d’arte, mostre nelle gallerie private e negli spazi pubblici, le case d’asta, oltre, ovviamente, ad alcuni dei grandi musei delle capitali europee. A ogni visita imparavo qualcosa di nuovo, guardando con attenzione tutti i dettagli, non solo delle opere esposte, ma anche cogliendo informazioni da un’etichetta o una pubblicazione. Facendo un salto al presente, le informazioni che può avere un operatore del settore, difficilmente le può trovare un collezionista. Per questo il nostro ruolo (di galleristi) rimane un punto di riferimento di cruciale importanza. La somma delle mie esperienze mi ha portato ad avere una visione chiara di come avrei costruito una collezione. Ovviamente è una visione personale e credo che quello del gallerista sia uno dei mestieri più soggettivi che esista.
Rimanendo sulla questione estetica, ci sono poi degli artisti che, a priori, spiccano “esteticamente” su ogni altro, che fanno colpo anche sulla persona meno preparata al mondo dell’arte. Ci sono artisti e opere che hanno “quel qualcosa in più” ma, paradossalmente, non sempre sono poi premiati dal mercato. Però ci sono estetiche che hanno creato delle tendenze, intorno alle quali si sono sviluppati dei gruppi, italiani, europei, mondiali. Quando l’idea è forte, inevitabilmente attrae. Purtroppo, oggi ci sono molti giovani artisti che attingono a piene mani a quelle ricerche del passato che hanno un appeal decisamente contemporaneo, ovvero che hanno un’espressione artistica senza tempo… Questo spesso confonde chi approccia da zero il mondo dell’arte e del collezionismo. Faccio un esempio estremo, che spero non esista ma, è come se un artista di oggi riproponesse il Cubismo, facendo magari dei quadri bellissimi e complessi ma senza valore innovativo, storico, culturale e con riferimenti storici banali, privi di personalità o di una lettura artistica autentica. E qui, chiudo il discorso.
Deve essere fruibile, cioè una collezione da vivere tutti i giorni, il cui valore aggiunto è sicuramente proprio questo principio della godibilità. La “mia”
Guardando gli artisti che negli anni ho selezionato, ci sono ricerche molto diverse, che spesso abbracciano momenti storici e gruppi decisamente diversi: Zero, Optical, Analitica, Concettuale, Informale… Tradotto in termini meno tecnici potremmo definirli: minimalisti, geometrici, monocromi, astratti o figurativi. Ho impostato la mia galleria come se fosse una collezione sempre in divenire ma il mio ruolo come gallerista è anche quello di fare una scelta ponderata in base al mercato degli Artisti in un determinato momento. Questa frase un po’ astratta cosa vuol dire: come nella costruzione di un portafoglio azionario è buona norma informarsi sullo stato di salute delle aziende da inserire in portafoglio, degli artisti non è sufficiente conoscerne la storia. Individuato quindi un artista o una serie di artisti che incontra il nostro gusto, cosa fondamentale per goderne tutti i giorni, e avere quindi quel valore aggiunto che soltanto l’arte può dare, devo capire se il mio investimento potrà mantenere un valore oppure quanto sono risposto a rischiare. Da cosa è formato il mercato di un artista? Dalle gallerie che lo rappresentano con mostre e curatori, dalla presenza nelle collezioni pubbliche e private, dalle fiere d’arte dove vengono solitamente proposte le sue opere, dal volume di scambio nel mercato secondario attraverso art dealer oppure case d’asta nazionali ed eventualmente internazionali. Attenzione, questo è puro mercato e non vuol dire che l’artista abbia un valore storico (a supporto del valore economico), comunque questo parametro andrebbe valutato anche ricordandosi dell’età dell’artista in esame. Altre domande o indagini che dovremmo fare sono le seguenti: in quali musei è esposto, in quali mostre storiche è apparso, ha partecipato a biennali importanti o a premi di rilevanza nazionale/internazionale?
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Esiste un archivio? Da chi è gestito? Mi viene in mante quando da ragazzo frequentavo molto lo studio di Salvo, uno dei miei primi artisti, e lui comprava spesso opere antiche dicendo: «Non è possibile che questi artisti, che sono i miei maestri, costino meno delle mie opere!». Costruire una collezione oggi non so se è più semplice
italiano era molto più “chiuso” ma il numero di scambi interni era sicuramente alto, quindi anche il numero degli Artisti nazionali considerati di valore collezionistico era sicuramente più alto. Con l’avvento di Internet e della digitalizzazione, con il fatto che tutti parliamo ormai un poco di inglese e viaggiare è diventato estremamente semplice, il mercato dell’Arte è diventa-
Arte e Natale a Milano
o più complesso di 15 anni fa. In passato il mercato
to improvvisamente mondiale.
“Natale a Milano” non è il titolo di un cinepanettone di cassetta, ma un’occasione per ripensare a qualche momento particolare dell’arte e dalla storia della nostra città.
STEFANO ZUFFI
Storico dell’arte, saggista
Il robusto pulpito romanico della basilica di Sant’Ambrogio poggia su un sarcofago tardoro-
mano, realizzato nella seconda metà del
secolo, quando Mediolanum ospitava la corte imperiale. Per una antica ma tutt’altro che confermabile tradizione, si riteneva avesse custodito le spoglie del generale Stilicone; gli archeologi preferiscono chiamarlo “sarcofago a porte di città”, per lo sfondo urbano in cui sono inquadrati i poderosi personaggi che sbaliv
Sarcofago “a porte di città”, detto “di Stilicone”, particolare di Cristo Bambino nella mangiatoia con ai lati il bue e l’asino, basilica di Sant’Ambrogio, seconda metà del iv secolo.
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Frontale di sarcofago, Milano, particolare della Natività, i Magi osservano la stella, Traditio Legis, le Marie al sepolcro, incredulità di san Tommaso, Santa Maria dei Miracoli presso San Celso, iv secolo.
zano fuori dai lati principali. Su un lato minore, lo spiovente triangolare del coperchio ospita una scena tenera e semplice: Gesù Bambino nella culla, stretto nelle fasce, tra il bue e l’asinello: questo è probabilmente il più antico presepe della nostra città. Possiamo partire da qui per qualche suggerimento. L’editto emanato nell’anno 313 dall’imperatore Costantino nella nostra città ha consentito libertà di culto a tutte le religioni: a beneficiarne sono stati soprattutto i cristiani: nel giro di alcuni decenni, al tempo dell’imperatore Teodosio, il cristianesimo sarà addirittura proclamato religione ufficiale del declinante Impero. Un altro sarcofago del iv secolo è esposto in una bella chiesa milanese, il santuario di Santa Maria dei Miracoli, o “Santa Maria presso San Celso”. Il sarcofago si trova in corrispondenza del transetto sinistro, in una cappella dove spicca la bella pala dell’Assunta di Camillo Procaccini. Il sarcofago è utilizzato quasi in funzione di altare, addossato alla parete di fondo: è un’opera insigne, e la raffigurazione sulla fonte è di eccezionale interesse iconografico, che anticipa successivi sviluppi dell’arte paleocristiana a Ravenna. Al centro si svolge la scena della Traditio Legis: Cristo affida il Vangelo ai santi Pietro e Paolo. Tutti i personaggi indossano le toghe dell’abbigliamento classico. Sulla destra sono raffigurati due episodi che ricordano la morte e la Resurrezione del Signore: le Marie che si recano al sepolcro vuoto e Tommaso che allunga il dito per 206 | Lettera a Milano
Adorazione dei Magi, particolare del dittico eburneo detto “delle cinque parti”, Museo del Duomo, vi secolo.
saggiare la ferita sul costato di Cristo risorto. A sinistra, invece, ecco le scene natalizie: Gesù Bambino avvolto nelle fasce mentre riposa nella capanna, e i tre Magi, raffigurati non come re ma come saggi orientali con il cappello frigio, che scrutano il cielo per seguire il percorso della stella cometa. Gli stessi berretti sono indossati da tre personaggi, molto probabilmente i Magi, che compaiono su una delle facce della “capsella degli Apostoli”, la scatola-reliquiario in argento dorato sbalzato, capolavoro dell’oreficeria imperiale della fine del iv secolo, voluta da sant’Ambrogio e in origine destinata alla basilica di San Nazaro, oggi gemma del Museo Diocesano. Un oggetto di meravigliosa bellezza, con diverse scene di intenso naturalismo classico, e sul fondo una scritta graffita, pare, da sant’Ambrogio in persona. Inevitabile a questo punto attraversare corso Italia e dirigersi verso Porta Ticinese, verso l’insigne basilica di Sant’Eustorgio che è legata al culto dei Re Magi, e ogni anno, il giorno dell’Epifania, è la meta di una popolare processione. Per particolare privilegio e come omaggio ai Magi, sulla punta del campanile non è collocata la tradizionale croce, ma una stella a più punte. Inoltre, al momento dell’insediamento, il primo atto ufficiale dell’insediamento di ogni nuovo arcivescovo di Milano è la celebrazio-
Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, elevati al rango di sovrani, sono diventati indispensabili presenze esotiche nei presepi. Le reliquie, provenienti dal Medio Oriente, sono state per secoli conservate nel massiccio sarcofago di granito, con la scritta sepulcrum trium magorum (tomba dei tre Magi), che si trova in fondo alla Cappella dei Magi, corrispondente al transetto destro della basilica eustorgiana.
Manifattura milanese, Capsella degli Apostoli (o “Capsela di San Nazaro”), iv secolo, Museo Diocesano.
ne di una Messa in Sant’Eustorgio, per recarsi solo successivamente in Duomo. Protagonisti del suggestivo episodio all’inizio del Vangelo, con il viaggio seguendo l’indicazione di una stella cometa per raggiungere Betlemme e rendere omaggio e portare doni a Gesù appena nato, all’inizio del Vangelo, i Magi erano sapienti orientali, esperti in astronomia. Nelle Sacre Scritture non si indica il numero, il nome o la regalità, ma la tradizione popolare ha via via arricchito la loro identità:
Il sepolcro, però, è vuoto. Nel 1162, dopo l’assedio e la conquista di Milano da parte dell’imperatore Federico Barbarossa, le spoglie dei Magi vennero trasferite dall’indifendibile basilica di Sant’Eustorgio all’interno delle mura, nella chiesa di San Giorgio a Palazzo: ma la caduta della città sotto l’esercito imperiale non ne impedì il saccheggio. Le reliquie dei Magi furono considerate un prezioso bottino di guerra, e portate via. Secondo una devota tradizione, qualche resto osseo sarebbe stato conservato dai milanesi sfollati a Brugherio: ne resta una traccia nei busti-reliquiari barocchi in argento conservati nella locale chiesa parrocchiale, chiamati “i tre ometti”. Con un lungo viaggio processionale ricco di soste e di tappe attraverso i passi alpini, la Francia e il fiume Reno, gli scheletri dei Magi furono portati nella cattedrale di Colonia, dove venne presto avviata la realizzazione di un sontuoso reliquiario, capolavoro Lettera a Milano | 207
Nicolas de Verdun, Reliquiario dei Magi, fine del xii secolo, Duomo di Colonia, Germania.
il carro si arrestarono improvvisamente appena fuori Milano, nelle vicinanze della popolare Porta Ticinese, nell’area dove sarebbe sorta la basilica. Una delle testimonianze più significative è il Trittico marmoreo del 1350, collocato proprio sull’altare accanto al sepolcro dei Magi. Si tratta di un ottimo lavoro dei Maestri Campionesi, il gruppo di artisti che di fatto monopolizza l’attività della scultura trecentesca in Lombardia, fino ad avere un ruolo di primo piano nell’avvio e nella conduzione del cantiere architettonico e decorativo del Duomo.
Il cosiddetto “sarcofago dei Magi”, basilica di Sant’Eustorgio.
assoluto dell’oreficeria medievale, opera del grande artefice mosano Nicolas de Verdun. I milanesi hanno invano chiesto la restituzione: solo dopo secoli e grazie alle insistenze del cardinal Ferrari qualche piccolo frammento osseo (ma, pare, prelevato da ciascuno dei tre scheletri) è stato restituito a sant’Eustorgio nel 1903, ed è oggi conservato nell’urna di bronzo della cappella. D’altra parte, il destino dei Magi è quello di viaggia208 | Lettera a Milano
re. Il loro itinerario al tempo della nascita di Gesù, ma anche l’avventuroso trasferimento a Milano del loro pesante sarcofago sono illustrati più volte nella basilica di Sant’Eustorgio. Nella lunetta sulla facciata è raffigurata la Madonna con il Bambino e i Re Magi, mentre all’interno della chiesa il capitello romanico del terzo pilastro a destra mostra, in modo ingenuo ed efficace, un angelo che aiuta il vescovo Eustorgio a trasportare il pesantissimo sarcofago dei Re Magi. Secondo la leggenda, i buoi che trainavano
Arca di San Pietro Martire, basilica di Sant’Eustorgio.
Sant’Eustorgio è un vero tempio della cultura trecentesca e presenta una completa rassegna di opere dei maestri venuti a Milano dai laghi dell’Alta Lombardia: una ventina d’anni prima dell’esecuzione del trittico, i Campionesi avevano affiancato il pisano Giovanni di Balduccio nell’esecuzione della straordinaria Arca di San Pietro Martire (collocata Lettera a Milano | 209
Maestri Campionesi, Trittico dei Magi, 1350, basilica di Sant’Eustorgio
La facciata della basilica di Sant’Eustorgio.
nella Cappella Portinari), capolavoro assoluto della scultura gotica in Lombardia, e in seguito si confermeranno attivissimi nella realizzazione a più mani dell’Ancona della Passione sull’altar maggiore e delle tombe viscontee nelle cappelle gentilizie del lato destro. Il Trittico dei Magi è un esempio efficace della concretezza e, insieme, della fantasia dei Campionesi. La storia si dipana con chiarezza, grazie a un vivace spirito narrativo. Le figure sono di proporzioni robuste, com’è nella tradizione campionese, e il gusto visconteo, attento alle finezze e ai dettagli descrittivi, rende la lettura del trittico una vera delizia: indimenticabili sono i personaggi “minori” (i cagnolini che accompagnano curiosi il corteo, gli stallieri 210 | Lettera a Milano
che sferzano i cavalli, l’asino e il bue del presepe che affondano il muso nella mangiatoia “liberata” dal Bambino), distribuiti un po’ dovunque, conferma divertente di quella inesauribile attenzione verso la realtà che caratterizza attraverso i secoli l’arte in Lombardia. Pur nella prevalente impostazione “lombarda”, tuttavia, si riconoscono facilmente gli esiti del contatto con Giovanni di Balduccio, nella chiave di un’eleganza raffinata, già del tutto ispirata al gusto delle corti internazionali. Esemplare, come vedremo, è la figura del più giovane dei re Magi. Il Trittico è composto da tre pannelli trapezoidali in forte rilievo, delle medesime dimensioni: sul fastigio, si alternano gugliette decorative, diverse figure e un tondo con la Crocifissione. La storia prende av-
vio nel pannello di destra, con la faticosa cavalcata in salita dei Magi. La guida del convoglio è presa dal più anziano dei tre, quello che riceve direttamente in sogno la visione dell’angelo. La scena del sonno dei Magi, nell’angolo destro del primo pannello, è un momento altissimo, non solo per la virtuosistica calata dell’angelo in scorcio, ma anche per il diverso e disinvolto atteggiarsi dei tre dormienti, attorniati dai paggi. Il re più giovane, all’estrema destra, distende le labbra in un lieve sorriso: nella allegoria delle “tre età dell’uomo”, spesso sottesa alle figure dei Magi, il giovane re imberbe simboleggia la spensieratezza e l’ardore dell’adolescenza. Il percorso del corteo affronta un valico di montagna, che mette a dura prova staffieri e cavalcature: il re più anziano, a cavallo, è visto di spalle, mentre un paggio poggia la mano sul posteriore del destriero, quasi per incoraggiarlo. La scena centrale è ambientata nella grotta di Betlemme: Maria presenta il Bambino ai Magi, mentre Giuseppe si occupa di raccogliere i doni. I re si sono tolti le corone (e così possiamo ammirare l’acconciatura “aerodinamica” del secondo re): il più anziano
sta baciando il piedino del Bambino, mentre il più giovane, sempre un po’ imbarazzato, si sta sfilando il guanto. Notevolissima è la accurata esecuzione degli abiti. Nella parte alta, coro e orchestra degli angeli intonano il Gloria, nella totale indifferenza dell’asino e del bue. Il terzo pannello, infine, presenta il re Erode in trono, attorniato da loschi cortigiani. I Magi formano un fronte compatto davanti all’infido sovrano: i due più anziani parlano, il più giovane se ne sta zitto zitto, con le mani in tasca (imperdonabile mancanza di etichetta!). Dietro, i cavalli sono inquieti, e gli stallieri devono dar mano alle fruste. Un dettaglio interessante si nota osservando i due paggi che accompagnano i Magi: sui loro cappelli compare, ricamata, la stella di Betlemme. Un’ultima annotazione: il trittico è datato 1350. In quella data, l’Europa intera stava appena risollevandosi dalla terribile epidemia di peste che l’aveva flagellata nel 1348-49. Milano era stata l’unica città risparmiata dal morbo, e l’attività artistica non aveva conosciuto soste. Gli affreschi di Viboldone (1349) Lettera a Milano | 211
e il trittico di Sant’Eustorgio (1350) possono essere letti anche in questa chiave. Restando nel settore Romana-Ticinese, ritorniamo a San Nazaro, fondata da sant’Ambrogio come “basilica degli Apostoli” e dotata della capsella argentea di cui abbiamo accennato all’inizio. Protetta da un vetro, la pala lignea dispone di un’illuminazione
su cerniere; decorate su entrambe le facce, le ante potevano essere dipinte oppure scolpite (ma con un aggetto minore rispettto alla cassa centrale). Inoltre, gli altari lignei del gotico nordico erano spesso completati da una predella e da una cimasa.
dall’alto che ne permette una buona godibilità. Allo stato attuale delle ricerche, è difficile stabilire il grado di autenticità della struttura architettonica della scena, specie nella parte interna.
integri è molto ridotto: l’iconoclastia protestante, la fragilità stessa del materiale, i mutamenti di gusto, l’ingiustificato prevalere della pittura sulla scultura in un’ipotetica e perniciosa “gerarchia” delle arti hanno provocato una quasi totale dispersione degli antichi complessi.
Altro aspetto da affidare al parere di un restauratore è la fin eccessiva “freschezza” delle dorature. Il dibattito fra i grandi scultori del tiglio sull’opportunità di colorare e dorare le figure è uno dei momenti più interessanti della scultura tedesca rinascimentale. Veit Stoss prediligeva la policromia (salvo abbandonarla in extremis proprio nell’ultima opera, l’altare della Vergine nel Duomo di Bamberga), Riemenschneider preferiva lasciare in evidenza il tono caldo e naturale del legno di tiglio. Nel caso milanese, siamo in una posizione intermedia: i personaggi non sono colorati, e il bel tono scuro del legno viene arricchito da abbondanti dorature, stesi su mantelli, copricapi, stivali e negli elementi strutturali della capanna. Ovviamente dorati sono anche i vistosi recipienti con i doni dei Magi. La scultura è la parte centrale (la “cassa”) di un altare a sportelli, la tipica struttura artistica e devozionale diffusa a nord delle Alpi, nei Paesi di lingua tedesca, durante il Quattrocento e il primo Cinquecento. Tali complessi erano formati essenzialmente da due parti principali: la cassa, sempre in rilievo, e due o più “sportelli” o ante laterali mobili montate
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Il numero di altari giunti fino a noi sostanzialmente
L’Adorazione dei Magi di San Nazaro presenta una scena unitaria ma sostenuta da pilastrini dorati che le conferiscono una curiosa forma a trittico. La scena è infatti contenuta all’interno di una capricciosa, complicatissima aula gotica traforata, autentico tour de force di invenzione architettonica e di bizzarria inventiva. Questa estrema complicazione dell’architettura è uno degli elementi più interessanti per la determinazione della data e per risalire all’eventuale ambito creativo. La presenza di un fondo traforato è infatti un’indicazione molto precisa, collegandosi alla Cassa del Sacro Sangue (o dell’Ultima Cena), scolpita da Tilman Riemenschneider nei primissimi anni del Cinquecento e conservata nella chiesa di San Giacomo a Rothemburg. L’autore della cassa di San Nazaro ha certamente visto questo straordinario modello in Franconia, ma ha ulteriormente complicato l’architettura, e soprattutto ha rinunciato alla composta, nobile interiorità di Riemenschneider per dare invece ai personaggi un allegro brio festoso. La scena raffigura il momento dell’arrivo dei Magi a Betlemme. Nello sfondo roccioso (non partico-
Scultore tedesco, Adorazione dei Magi, particolare, inizio del xvi secolo, chiesa di San Nazaro Maggiore.
larmente ben risolto, specie per la visibilità delle giunture fra i vari blocchi lignei che compongono l’altorilievo) è raffigurato il movimentato seguito dei Magi. La scena principale, spartita in tre dagli snelli pilastrini gotici, è molto più convincente. Particolarmente elegante risulta la rotazione delle figure disposte quasi in cerchio intorno alla Madonna col Bambino. La capanna è una strana e sbilenca costruzione
rustica, col tetto di paglia e una precaria struttura. Un pilastrino della capanna, peraltro, presenta un raffinato fusto classico e un capitello scolpito: è un rimando alla antichità greco-romana che non viene cancellata con la nascita di Cristo, ma anzi ne costituisce uno dei supporti. Il gruppo della Madonna col Bambino è di una bellezza davvero memorabile: si direbbe quasi che la Lettera a Milano | 213
Vergine, con la sua serena tranquillità e con una punta di concentrata serietà, imponga alle figure circostanti un controllo sui gesti e sulle espressioni, mentre i personaggi che si trovano ai lati appaiono progressivamente più animati man mano che ci si allontana dal centro della scena. In questa Madonna mi pare che si possano riconoscere motivi desunti da Dürer, così come nella rallentata gestualità, nel ritmo calmo e meditato dei tre Magi e di san Giuseppe. Queste considerazioni farebbero proporre un’esecuzione tedesca per questa scultura. In tal caso, penso che si debba fissare l’esecuzione entro il 1528, autentico annus horribilis per l’arte tedesca, che se-
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gna la fine della grande stagione del rinascimento teutonico e dell’esecuzione di altari lignei. Nell’area milanese esiste un solo altare ligneo tardogotico paragonabile a quello di San Nazaro: il polittico proveniente dalla chiesa parrocchiale di Annone Brianza, opera di una bottega di intagliatori anversesi, depositato presso il Museo Diocesano, completo in ogni sua parte ma realizzato alcuni decenni più tardi rispetto al presepio di San Nazaro.
Comporre Milano
E così, tra Porta Romana e Porta Ticinese, ricomincia il nostro giro alla scoperta delle antiche origini del “Natale a Milano” e della festa dei Magi.
Uno dei mali più gravi del nostro tempo è l’analfabetismo: si pensa che chiunque possa esprimersi senza prima aver acquisito le competenze linguistiche necessarie. Sul piano della musica, e della musica leggera in particolare, la cosa appare più evidente. Il confronto tra una qualsiasi partitura di Cole Porter o del nostro Giovanni Danzi con una di quelle più diffuse tra i giovani, evidenzia la scarsa qualità di queste ultime: una marmellata linguistica con rime da Corriere dei Piccoli e con un accompagnamento musicale non coerente. La definizione “pop” alla musica leggera rinvia all’aggettivo “popular” ma la creatività del popolo una volta sapeva inventare cose mirabili nel campo della musica. Si trattava di un’elaborazione continua avvenuta nei secoli partendo dal basso, senza coinvolgere gli intellettuali; oggi, invece, avviene il contrario: il popolo subisce quello che i mass media gli impongono sulla base di preordinate strategie commerciali. Nella trasmissione di una cultura anche popolare, la formazione del gusto è invece fondamentale. Oggi ci si abitua a un livello estetico sempre più scadente in cui si scambia la semplice espressione delle proprie emozioni con la poesia, senza prima aver acquisito le competenze più elementari del linguaggio che una tradizione creatrice ha elaborato e affinato nel tempo. È triste vedere come non solo ci si arrenda a tale scadimen-
MAURIZIO CUCCHI - FILIPPO DEL CORNO - GIACOMO MANZONI
MAURIZIO CUCCHI Poeta
to ma che anche lo si trasformi consapevolmente in moda, per raggiungere settori sempre più ampi del pubblico, in una sorta di circolo vizioso deteriore. Il successo di pubblico non è certamente connesso alla scarsa qualità di un’opera come dimostrano i capolavori musicali del secolo xix, ampiamente diffusi tra il popolo. Il mercato di oggi, tuttavia, indirizza l’interesse del pubblico su prodotti puramente commerciali, venduti come arte. Domina un conformismo generalizzato in cui ci si crede originali, indossando la stessa divisa preconfezionata e si scambiano dilettanti quasi analfabeti per autentici poeti.
FILIPPO DEL CORNO Assessore alla cultura di Milano Sul piano culturale, nella distinzione tra apocalittici e integrati proposta da Umberto Eco, mi colloco personalmente tra questi ultimi. La mia argomentazione si articola su tre livelli, l’ultimo dei quali tocca il tema di Milano, oggetto della nostra comune riflessione. Il primo livello riguarda la distinzione e la gerarchia tra generi, fondamentale nella storia delle arti. Già il compositore e teorico Paolo Castaldi, affermava che l’espressione “musica leggera” non gli piaceva perché supponeva una musica “pesante”, che era il campo del suo lavoro artistico. Preferiva invece dividere la musica tra composizioni scritte secondo il gusto dell’autore da quelle elaborate secondo il gusto di chi la ascolta.
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Un’opera d’arte è tale quando esprime un pensiero e un linguaggio autonomi dal giudizio che ne verrà dato in seguito, in quanto espressione del punto di vista originale del suo autore; qui si collocherebbe il discrimine che distingue una creazione artistica “alta” da una commerciale. Al contrario, un’opera composta astraendo da una specifica volontà espressiva del suo autore ma tenendo conto di chi la ascolterà è un prodotto d’uso destinato espressamente a un pubblico. Si eviterebbe così la contrapposizione gerarchica che stabilisce la superiorità di certi linguaggi rispetto ad altri e si potrebbe adottare quello sguardo plurale che permette un maggiore equilibrio nella valutazione, lasciando anche alla storia il compito di selezionare il meglio della produzione in una prospettiva di lunga durata. Dell’imponente produzione delle tragedie greche in realtà ci è rimasto solo un florilegio di Eschilo, Sofocle ed Euripide; non conosciamo gli altri testi che costituivano il contesto in cui è emerso il valore dei più grandi tragici. La storia qui ha avuto la funzione di selezionare le opere ritenute qualitativamente migliori. Oggi ci lamentiamo che il panorama artistico è affollato di prodotti di scarsa qualità ma occorre ricordare che questa produzione non è stata ancora sottoposta al vaglio della storia. La seconda parte della mia argomentazione verte sul riconoscimento che la molteplicità dei linguaggi costituisce una ricchezza straordinaria da salvaguardare il più possibile; essa ci mette in relazione con una grande varietà di linguaggi e di opere d’arte. Oggi possiamo avvalerci liberamente di una vasta gamma di codici espressivi in modo dialettico e costruttivo, pur con il rischio di incorrere in una certa saturazione degli stimoli. In tal senso, si comprende l’importanza di un percorso di formazione che fornisca adeguati strumenti di orientamento attraverso i quali avvicinare i linguaggi
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più diversi con scelte consapevoli e responsabili. In tal direzione la scuola italiana dovrebbe liberarsi di una visione nozionistica delle conoscenze, e fornire invece strumenti di comprensione critica della realtà in rapporto alla storia del pensiero e delle arti; da questo punto di vista l’espulsione della musica dal quadro dei saperi scolastici è particolarmente grave. Inoltre, andrebbe rivisto il sospetto che grava sul successo commerciale di un’opera d’arte. Si pensi a che cosa rappresentava l’esperienza teatrale di William Shakespeare dal punto di vista dei consumi culturali dell’epoca: lo scrittore si comportava nella creazione quotidiana del proprio repertorio come un autore che oggi definiremmo di blockbuster. Doveva assumersi il rischio d’impresa per sostenere il teatro Globe e per questo il rapporto con il suo pubblico non era non molto diverso da quello intrattenuto dai creatori di successi cinematografici commerciali con il loro. Non sempre il successo commerciale è indice di scarsa qualità dell’opera d’arte. Il terzo livello del mio discorso riguarda la città di Milano delle cui politiche culturali sono in parte responsabile dal 2013. Qui il principio dell’incoraggiamento della molteplicità di esperienze artistiche si rivela particolarmente fecondo. L’esperienza dei Pomeriggi Musicali diretti da Luciano Berio e da Bruno Maderna che in passato ha permesso di aggiornare il pubblico italiano sulle novità della musica contemporanea rivive anche oggi con i concerti di Milano Musica e con la programmazione del Divertimento Ensemble o dell’Ensemble Sentieri Selvaggi. Senza dimenticare gli straordinari interpreti che recentemente hanno eseguito in prima assoluta Finale di partita di György Kurtág. Certo è vero che l’industria del consumo usa strumenti sempre più invasivi che impongono al pubblico prodotti di qualità a volte deteriore, realizzati secondo il
gusto di chi è destinato a recepirli. Tuttavia, si tratta di un fenomeno ricorrente nella storia e che oggi appare più negativo per l’invadenza di un sistema mediatico pronto a sollecitare consumi con una imponente dotazione tecnologica. Non tutto ciò che l’industria propone è però costruito per soddisfare bisogni elementari di consumo: la musica rap ad esempio riflette in modo significativo il disagio delle generazioni più giovani; suggerisce ai suoi fruitori un’identificazione che ha una profondità ben più ampia di quella promossa da un consumo indotto, anche grazie a una vena autoriale evidente. In conclusione, il nostro tempo si caratterizza per una pluralità dei linguaggi artistici che suggerisce un giudizio articolato e non scontato sull’arte contemporanea, basato sulla constatazione che lo sviluppo tecnologico inarrestabile amplierà ancora di più la possibilità di moltiplicare sia i codici espressivi sia gli strumenti per comprenderli. Il compito di una persona di cultura è allora capire e dominare l’epoca contemporanea e le sue espressioni, e non subirle e demonizzarle.
GIACOMO MANZONI Compositore Milano ha una millenaria storia musicale; in questa occasione mi preme soffermarmi in particolare sul Novecento, secolo in cui ho vissuto più di metà della mia vita. La città è stata un centro di grande importanza musicale, non solo aggiornata alle novità internazionali ma anche capace di contributi originali. A cominciare dal Futurismo, ben rappresentato da Luigi Russolo che, pur non essendo milanese, lavorò a Milano introducendo – ben prima di John Cage – l’idea che la musica potesse essere fatta con i rumori della vita e non con
suoni musicali; egli inventò i famosi intonarumori. Le sue innovazioni suscitarono l’interesse di Stravinskij e di altri musicisti che eseguirono suoi concerti anche in Francia, in Germania. Nel 1948, poi, a Milano si tenne un celebre congresso di musica dodecafonica che sollecitò le istituzioni musicali, per esempio i Pomeriggi Musicali, a eseguire musica contemporanea, discretamente messa in repertorio accanto ad autori classici. Per noi giovani costituì un punto di riferimento grazie al quale potemmo apprezzare Hindemith, Schönberg, Webern. In seguito, l’Orchestra della Rai fece conoscere al pubblico milanese musica contemporanea, anche la meno nota. Inoltre, si può ricordare come Milano sia stata la culla della musica elettronica in Italia, quando nel 1955 Berio e Maderna fondarono lo studio di fonologia. La sede in corso Sempione era frequentata da chi, come noi, era interessato alle sperimentazioni: dopo cena vi si potevano vedere al lavoro Berio, Maderna, Stockhausen, Castiglioni, Clementi e imparare da loro. Naturalmente anche La Scala fu molto attenta alla musica contemporanea. Durante la gestione di Antonio Ghiringhelli, fino al 1973, non mancarono nella programmazione non solo Alban Berg, Schönberg, Stravinskij, Prokoviev, Hindemith, ma anche Nono e Berio. Per quanto riguarda la musica popolare, richiamata da Cucchi, va notato che in quegli anni essa assumeva forme che potevano eccellere e rimanere così nel repertorio storico-culturale; poi fu schiacciata dal predominio dei mezzi di comunicazione di massa. Si può dire che la stessa musica colta fioriva su un sostrato popolare: i canti della mala milanese approdavano al Piccolo Teatro grazie alle rielaborazioni di Strehler, Gaber, Dario Fo, Mina che ne valorizzarono originalità e inventiva. Perciò non è escluso che anche oggi la sensibilità musicale popolare possa esprimersi nella produzione di musicisti acclamati dai media. Il mio intervento termina con due perorazioni. La prima riprende
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l’accorato invito di Cucchi e Del Corno a promuovere la formazione musicale della cui importanza mi sono reso conto anni fa, quando in metropolitana ho sentito un adolescente chiedere a un coetaneo chi mai fosse tale Johann Sebastian Bach, storpiandone peraltro il nome. La seconda è un mio chiodo fisso, e chiede la realizzazione di una grande mostra sulla storia della musica a Milano, dal Canto ambrosiano alle esperienze sperimentali degli ultimi anni del Novecento. Lo dico con un filo di imbarazzo perché non c’è oggi una istituzione stabile a Milano che con continuità proponga la musica contemporanea. Le pur nobili iniziative in
questo campo sono in realtà poca cosa in confronto con quanto si fa nel resto d’Europa. Come compositore, mi rammarico che nessuno si sia preoccupato di ovviare al criminoso scioglimento dell’Orchestra Rai nel 1992. Mi sembra quasi un’umiliazione per la nostra città che uno dei maggiori centri di Europa non abbia un complesso stabile con orchestra e coro – a parte La Scala. Spero che gli amministratori locali possano presto ridare alla musica quel posto che merita a Milano, iniziando magari proprio dall’allestimento di questa mostra che invano propongo a politici e personaggi della cultura, senza sortire purtroppo alcun effetto.
Comicità e opera ENRICO BERUSCHI - ROBERTO BRIVIO
ENRICO BERUSCHI Comico L’altro giorno raccontavo a mia nipote dello sfollamento a Milano durante la guerra, non avevo ancora 4 anni e abitavo in via Tibaldi. Su dei carri carichi di mobili la gente partiva per la campagna per evitare i bombardamenti. Io andavo invece nella casa dei miei nonni, tutti i giorni, finché non l’hanno demolita per fare spazio a una nuova costruzione… Racconto queste cose di Milano perché trovo sia utile per i giovani conoscere com’era la città subito dopo la guerra. Un disastro unico, chiese, case, sventrate, strade squassate, piene di polvere. Si respirava nell’aria odore di polvere da sparo per quante bombe erano state lanciate su Milano. C’era tanta miseria in giro che sembrava di stare ai tempi grigi dei Promessi Sposi. Eppure nel ricordo di quei terribili momenti mi vedo giovane, con tanta voglia di vivere e di ricominciare.
ROBERTO BRIVIO Attore, regista, drammaturgo Contrariamente a Beruschi ho 60 anni di teatro alle spalle. Ho iniziato nel ’59. Beruschi ha citato i Promessi Sposi, io ho sostenuto un esame per passare dalla Cattolica alla Bocconi, superandolo brillantemente per aver parlato di come Manzoni sia stato tradotto in tea-
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tro. Il Ghislanzoni scrive: «Fra due catene di continui monti serpeggiando selva di come il lago, di limpido rumor perenne fonti, in esso come splender lucente riflettono l’imago (???)». Citando questi versi, che nessuno conosceva, sono riuscito a superare l’esame. Quali teatri ho aperto a Milano? Il Refettorio, il Cabaret in San Maurilio. Al Refettorio ho fatto delle cose fantastiche a inizio anni ’70, inaugurando i cabaret letterari. Allora era difficile. Come quando ho portato in giro per l’Italia i canti goliardici, i canti più sporchi che si possono trovare nelle canzoni popolari. Sono canzoncine rifatte che parlano di sesso. Portavo in giro la mia compagnia con gli attori che indossavano magliette bianche con scritto “pene al pene”. Quando vado in tournée porto sempre in tasca dei proverbi milanesi. Il napoletano è simpaticissimo, il romano è duro, il siciliano è meno comprensibile, il veneto corre, ma il milanese ha un humus particolare. È lapidario e ogni parola ha il sale dell’umorismo. Mi sono reso conto che col passare degli anni non riesco più a scrivere in italiano. Se devo fare un pezzo per Il Giorno lo penso e lo scrivo in milanese. Da quando ho iniziato a lavorare ho fatto anche tanti spettacoli. L’altro giorno mi è capitato in mano il curriculum di un attore e ho letto «ha lavorato con…, con la regia di…» e mi sono reso conto che nella mia vita ho costruito sempre tutto io. Ho fatto regia, ho scritto commedie, le ho recitate, ho aperto teatri. Ho comicizzato un po’ tutto.
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Non parlo mai di intelligenza, non mi sono mai detto di essere intelligente. Se guardo questi quadri di Marina Previtali, penso che siano straordinari ma non dico che la pittrice è intelligente. Dico che ha passione, che fa le cose col cuore mettendoci la testa. Lavora con professionalità. Vorrei stare sul palcoscenico almeno fino a 120 anni con la forza e il coraggio che ho adesso. Quanti attori sono arrivati all’età di 90 anni recitando? Tanti. Tempo fa mi ha telefonato Il Giorno dicendomi che il comune di Milano voleva togliere i tram e sostituirli con autobus ecologici. Mi hanno chiesto cosa ne
pensassi io che avevo scritto una canzone Quando sono morto voglio un codazzo di tram. Ho deciso di scrivere un’altra canzone sul comune di Milano e di fare un disco da vendere insieme al Giorno. Il disco è uscito e la canzone è stata pubblicata. Un mese dopo mi ha telefonato il direttore Sandro Mayer e mi ha chiesto di curare una rubrica in milanese. Unico giornale in Italia che pubblica articoli in lingua dialettale. Posso dire di essere un milanese arioso, parlo il milanese come prima lingua e il friulano come seconda. Ho sposato una milanese ma sull’altare ho detto “sì” in friulano e sono felice così.
“La lettura” del quotidiano GIANLUIGI COLIN - GIANGIACOMO SCHIAVI
GIANLUIGI COLIN Art director Tutti conoscono il legame strettissimo tra il Corriere della Sera e Milano. In questa città il Corriere è nato. E via Solferino, sede della redazione, è da sempre autentico sinonimo di Corriere. Basta dire a un qualsiasi tassista di farsi portare in via Solferino 28 e lui risponderà subito: «Deve andare al Corriere?». Ho rivisto recentemente alcune foto del primo Novecento, prima che i Navigli fossero coperti e sono stato avvolto da una emozione intensa pensando alla magia di quei giorni in cui grandi chiatte al Tumbun de San Marc portavano alla tipografia le enormi bobine di carta, pronte per essere stampate. Il Corriere della Sera ha raccontato, come nessun altro quotidiano, la vita e la storia di questo tormentato Paese; lo ha fatto attraverso lo sguardo e la penna delle sue firme, con la sensibilità dei suoi straordinari inviati speciali, con l’indiscutibile qualità dei suoi cronisti e soprattutto con una completezza d’informazione che non aveva pari in Italia. Il Corriere è sempre stato una istituzione e si è consolidato nel tempo come un giornale che ha saputo cogliere lo spirito, la forza ideale, ma anche le tensioni e le contraddizioni dell’intera società del nostro Paese. Un giornale che ha sempre saputo coniugare tradizione e spinta verso la modernità. Il mio ruolo principale al Corriere è stato quello di costruire l’architettura delle notizie. Potremmo dire che per più di trent’anni ho “vestito” il Corriere: ne ho dise-
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gnato la struttura visiva, scelto le foto, costruito i modelli di titolazione e definito le gabbie per le gerarchie delle notizie. Insomma, ho fatto quello che oggi si definisce “art director.” E ho sempre cercato di svolgere questo compito con passione, ben consapevole della responsabilità che quel lavoro implica. Qualche nota biografica? Arrivo a Milano nel 1979, a 23 anni. Vengo da Pordenone, dalla redazione del Piccolo di Trieste, dove da anni faccio la migliore scuola di giornalismo: la gavetta. Entro in redazione a 17 anni, come fotografo di cronaca, mentre studio ancora al liceo. Finito il liceo mi iscrivo ad Architettura a Venezia ma continuo a collaborare: imparo tutto guardando come lavorano i colleghi, la strada. E la vita di redazione insegna a capire che cosa significa fare un pezzo rapidamente e cosa significa davvero “costruire” un giornale. Imparo la pratica in redazione, faccio titoli, impagino, continuo a fotografare, sviluppo le foto e dopo averle stampate le porto in stazione consegnandole al capotreno affinché possano arrivare in tempo alla redazione centrale. È una stagione oggi inimmaginabile, in qualche modo avvolta da una cornice epica, densa del mito del giornalista che detta il pezzo a braccio e che racconta il mondo sull’onda di una visone appassionata e romantica: non ci sono macchine fotografiche digitali, non ci sono telefonini, non c’è soprattutto internet. A Milano arrivo nel 1979 per puro caso alla redazione milanese de Il Piccolo illustrato (allora gruppo rcs), un
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redattore viene beccato a rubare una macchina per scrivere. È licenziato in tronco. Così, da un giorno all’altro, proprio quando non vedevo prospettive nella mia redazione friulana e avevo deciso di trasferirmi a Venezia per laurearmi in Architettura, mi viene proposta la tanto desiderata assunzione, a Milano. Mi do molto da fare: oltre al Piccolo collaboro al Mattino, quotidiano di Napoli. Talvolta i meccanismi di assunzione nei giornali hanno qualcosa di imperscrutabile. È anche il mio caso. Che può diventare un monito e un insegnamento per le nuove generazioni. Un caporedattore, che conoscevo solo di vista, un giorno mi vede mentre entro in via Solferino 28, giocherellando sul marciapiede tra i panettoni con la valigia in mano. Mi sono sempre chiesto come mai scelse me per l’assunzione. Qualche anno dopo, rispondendo alla mia curiosità, rispose: «Uno che entra nel posto di lavoro così felice, non mi romperà mai le balle». Solo molti anni dopo, quando mi sono trovato a dover scegliere il profilo giusto tra chi assumere, ho capito davvero la brutale verità di quella risposta. Francamente non avrei mai pensato che sarei entrato al Corriere della Sera più per il mio buon carattere che per la mia professionalità. Comunque, nel tempo a seguire, spero di aver dimostrato che qualcosa ero capace di fare… Un’altra nota curiosa: Franco Di Bella, il primo giorno di lavoro, mi squadra e sorridendo dice: «Finalmente una faccia pulita in questo giornale». Il paradosso vuole che solo dopo tre mesi sia costretto a dimettersi per le inchieste sulla loggia massonica P2. Questa è la breve storia del mio approdo al Corriere: ho portato con me lo stupore e la passione di un ragazzo di provincia, ma anche il senso di responsabilità e la co-
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scienza del privilegio di lavorare nel tempio del giornalismo italiano. Una cosa che mi ha sempre emozionato è la consapevolezza che il quotidiano, ogni quotidiano, costruisce il grande racconto dell’oggi. Me lo ha fatto capire soprattutto Alberto Cavallari, grande direttore chiamato da Pertini alla direzione del Corriere dopo lo scandalo della P2. Era uno dei grandi inviati, che con Biagi, Montanelli, Corradi, per citare solo qualche nome, avevano fatto grande la storia del quotidiano di via Solferino. Cavallari aveva un’esperienza internazionale, ma era in verità un giornalista col passo dello scrittore e con una sensibilità e una visione etica davvero unica. Io avevo l’età dei suoi figli e dei suoi studenti della Sorbona. Dopo la chiusura dell’Illustrato, ho lavorato alla redazione Interni, dando una mano a impaginare e titolare. Un giorno Cavallari mi incrocia, mi convoca nella sua stanza e mi fa un piccolo esame: mi chiede quale fotografia avrei pubblicato in prima pagina. Io rispondo con l’incosciente e sconsiderata sicurezza che si ha a vent’anni. «Da domani vieni a lavorare con me in prima pagina», mi dice il direttore. Tutto quello che so lo devo a lui. Per tre anni gli sono stato a fianco in uno dei momenti più drammatici del Corriere della Sera. Erano i giorni di quella che è stata definita la “Battaglia di via Solferino”, del governo Craxi e degli attacchi scomposti e personali alla figura del direttore, c’era l’amministrazione controllata, Scalfari in quei giorni chiedeva la chiusura del giornale e la sua messa in liquidazione, mentre Cavallari firmava con assegni del suo conto corrente l’acquisto dell’inchiostro per la stampa. Anche la politica milanese attaccava il giornale, accusandolo di essere un covo di comunisti, cosa peraltro non vera. Il clima che si respirava a Milano negli anni ’80, anni del terrorismo, è stato molto duro e formativo.
Erano gli anni di piombo: non c’era giorno che non si dovesse trattare la notizia di un assassinio. Venivano uccise personalità della politica, della cultura, del sindacato, delle forze armate, dello stesso giornalismo. E non dimentichiamoci che un lutto l’abbiamo vissuto in casa: Walter Tobagi è stato assassinato proprio in quegli anni. In quel clima avere una barra dritta era fondamentale e Cavallari era la persona giusta per tante ragioni. Tra i suoi molti libri, aveva scritto un illuminante saggio che raccoglieva le sue lezioni alla Sorbona, pubblicato poi da Feltrinelli, dal titolo La fabbrica del presente che raccoglie delle lezioni d’informazione pubblica. Quelle lezioni hanno rappresentato per me una vera guida all’etica del giornalismo e una chiave per comprendere la complessità dei meccanismi dell’informazione. Cavallari mette in luce, scardina e analizza il sistema del “fare un giornale” e ci rivela i più nascosti meccanismi. La sua tesi è che qualsiasi racconto giornalistico è sempre filtrato da insospettabili “campi di forza”. Ogni titolo, ogni articolo, tutta la struttura editoriale non è altro che conseguenza di questi invisibili campi che condizionano la linea politica del giornale, la sua struttura editoriale, il suo stesso linguaggio. Così, la proprietà, la pubblicità, la formazione ideologica del direttore, la politica, l’economia, tutto questo insieme concorre a definire la strategia editoriale in cui si identificano i lettori ideali. Così si comprende che la totale indipendenza di un giornale è una vera utopia. La stampa cerca di inseguire una visione di libertà, verità e indipendenza, ma anche quando cerca di inseguire l’onestà intellettuale, non è mai davvero libera dai poteri e dai condizionamenti. Tutti i giornali subiscono condizionamenti, legati soprattutto agli spostamenti degli assetti azionari delle proprietà, quindi del mondo dell’economia e ovviamen-
te alle innumerevoli trasformazioni degli equilibri della politica. Ma quello che desidero sottolineare è che bisogna sempre saper valutare con attenzione i messaggi celati nelle pagine. Dovremmo avere sempre un’attenzione particolare ai dettagli apparentemente marginali: a chi firma gli articoli, a come sono trattati i temi sociali, a come il giornale si schiera su argomenti caldi, su quelli di carattere etico o sociale. Dal tema dell’immigrazione alla Tav, dall’eutanasia alla discussione sulla fecondazione o sul matrimonio gay, per fare solo qualche esempio. Su questi temi importanti, dalla forte connotazione ideologica, si misurano i “campi di forza”. Basti ricordare come nel passato La Repubblica, giornale punto di riferimento della sinistra, (come ci appaiono lontani quei giorni) ha subito un notevole calo di copie proprio quando al governo c’era D’Alema. Il quotidiano fondato da Scalfari sembrava aver perso ogni mordente e il lettore, che si aspetta dal proprio quotidiano una dimensione critica, se n’è accorto subito, rimanendone deluso. Oggi, questo fenomeno si sta manifestando in modo ancor più potente con il cambio di proprietà, essendo passato dal gruppo Espresso alla famiglia Agnelli e con una conseguente linea politica più moderata. Parlando del Corriere della Sera, è più difficile definire una precisa linea politica. Il Corriere non è mai stato un “giornale-partito”. Per sua storia e tradizione il Corriere si è sempre posto come un giornale “istituzionale”, vicino alle posizioni del governo, ma mantenendo sempre una autonomia di critica e difendendo sempre una posizione di libertà sulla possibilità di pubblicare ogni tipo di notizia, anche le più scomode. Sono le stesse pagine del giornale a confermarlo. Il giorno in cui arrivarono i nomi delle liste della P2, in cui c’erano i nomi dell’editore e dello stesso direttore, fu proprio Di Bella a dire in riunione, di fronte all’imbarazzo dei colleghi: «Pubblichiamo tutto». Oppure, quando, nel 1994, presidente del Consi-
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glio Silvio Berlusconi, il Corriere non esitò a pubblicare lo scoop dell’avviso di garanzia proprio nel giorno in cui Berlusconi apriva il G8 a Napoli. E ricordo ancora: durante una riunione Ferruccio De Bortoli, di fronte a una notizia particolarmente delicata, disse a tutti: «Facciamo nostro il motto scritto accanto alla testata del The New York Times: “All the News That’s Fit to Print”, tutte le notizie che meritano di essere pubblicate». Fino ad ora abbiamo parlato dell’osservatorio privilegiato all’interno del quotidiano di via Solferino. Mi è stato chiesto di accennare anche alla mia ricerca artistica, di fatto naturale prosecuzione della mia attività di art direrctor, di giornalista e inventore di immagini. Vorrei condividere un passo di un testo di John Berger, grande scrittore, storico dell’arte, raffinato intellettuale. L’ho intervistato alcune volte e nel tempo è maturata un’amicizia feconda. Berger ci parla di un quadro dipinto da Hieronymus Bosch: il Trittico del Giardino delle delizie, o Il Millennio, conservato al Prado: «L’orizzonte è del tutto assente. Non c’è continuità tra le azioni, non ci sono pause né percorsi, non c’è un disegno, un passato, un futuro. C’è solo il clamore di un presente contraddittorio e frammentario. Le sorprese e le sensazioni sono ovunque, ma manca una qualsiasi via d’uscita. Niente porta a niente: tutto si interrompe. Siamo di fronte auna specie di delirio spaziale. Confrontate questo spazio con quello dell’inserto pubblicitario standard, o del notiziario tipo della cnn, o di qualsiasi commento alle notizie del giorno proposto dai mezzi di informazione di massa. La stessa incoerenza, la stessa giungla di emozioni sconnesse tra loro, lo stesso parossismo. La profezia di Bosch annuncia l’immagine del mondo che ci viene comunicata oggi dai media sotto l’impatto della globalizzazione, con il suo criminale bisogno di vendere incessantemente. Somigliano entrambe a un puzzle i cui miseri pezzi non
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stanno insieme». La lettura di questo testo mi ha confermato la necessità di riflettere anche artisticamente sul sistema dei media. Berger, parlando in particolare de Il giardino delle delizie ci mette di fronte all’assenza di un orizzonte, dove il tempo appare convulso e insieme sospeso, non vi è un disegno, un passato, un futuro. C’è solo il clamore di un presente frammentato; le sensazioni di un mondo in divenire sono ovunque, ma manca una qualsiasi via d’uscita. Siamo di fronte a un autentico delirio, non riusciamo a trovare i nostri punti cardinali. Ma non accade così anche quando ascoltiamo le notizie nei telegiornali? Oppure quando sfogliamo un quotidiano? E vi troviamo le notizie di cronaca, di politica, di spettacolo, cultura e sport che si mescolano offrendoci un senso di saturazione e conseguente assuefazione? Tutto appare mescolato in una successione convulsa dove non si coglie più una linea di demarcazione tra finzione e realtà. E dal quale siamo spinti a fuggire. Sempre più siamo parte di un grande puzzle, di un mondo costituito da miseri pezzi. Berger ci ricorda come i tasselli di questo puzzle non stanno più insieme; la loro disposizione crea una mancanza di senso che richiama l’idea di un nuovo ordine che solo la coscienza del lettore può riuscire a dare. Una coscienza che dobbiamo tenere sempre viva. GIANGIACOMO SCHIAVI Giornalista Riparto da Cavallari. Ha scritto un saggio intitolato Il grande rumore. L’informazione è un indistinto frastuono che non orienta, ma disorienta. Siamo sotto assedio, bombardati dalle notizie che spesso non sono notizie: sono fake news, pubblicità occulta, casi personali. Siamo passati da Gutenberg a Zuckerberg, dalle Gazzette a Face-
book. Il mondo dei giornali è come scartavetrato. Niente è più come prima. La comunicazione è stata rivoluzionata da otto miliardi di schede dello smartphone, più della popolazione mondiale. Il mestiere di giornalista non è più quello di prima. Deve radicalmente ristrutturarsi. Come avvenne negli anni Cinquanta, quando Dino Buzzati nel suo Giornale segreto aveva intuito il cambiamento di una società che voleva “vedere” la comunicazione: ai giornali serviva una comunicazione più visiva con la quale leggere la realtà. Oggi anche i codici degli smartphone sono superati, è il momento di Instagram: siamo arrivati alle foto con didascalie da mettere in rete. Il nostro ruolo di giornalisti, per sopravvivere, deve entrare molto più in connessione con le persone. Non ci sono altre strade. Bisogna creare un contesto in cui la qualità e la profondità si incrociano con l’utenza, cioè il lettore, e incrociandosi si crea il contatto. Questo accade già negli Usa. Nei principali quotidiani americani hanno capito che se non c’è empatia con i lettori e un contatto diretto fra chi scrive la notizia e chi la riceve, viene meno quel rapporto di fiducia che si chiama credibilità. Questa empatia offre un vantaggio competitivo: l’informazione si distacca dai codici promozionali, non è condizionata dal marketing. Oltreoceano è stata fatta un’operazione che è anche un investimento sul futuro: i grandi giornali hanno le competenze estese che servono per creare un prodotto diverso. Allo stato dei fatti non abbiamo tante scelte: un giornalista da solo fa poca strada, deve lavorare in pool. Il cronista solitario o l’inviato speciale non possono più bleffare con l’arte di arrangiarsi. Fino a qualche anno fa ai nostri inviati si chiedeva di portare la croce e dire messa: dovevano scrivere di tutto. Oggi per essere credibili non si può essere generici: bisogna conoscere bene un luogo, i fatti, le persone. Non serve arrampicarsi sui muri, sei scoperto un minuto dopo.
Lavorare in un giornale oggi è come lavorare in tv. Si progetta insieme. Lavorare con Gianluigi Colin come art director vuol dire mettere insieme diversi punti di vista, vuol dire modificare, cambiare la trama del progetto. Insieme a noi due ci può essere anche un terzo uomo, non giornalista: anche un cittadino, che poi sarebbe la cosa migliore, perché è più immerso nelle situazioni reali rispetto a chi sta in redazione, attaccato al computer. Oggi la genesi e la sequenza di certe notizie è questa: il mio panettiere scrive su Facebook che Mario Monti ha una macchina francese e si domanda come mai il premier italiano ha comprato una macchina d’Oltralpe. Il dubbio è il seguente: non dovrebbe viaggiare con un’auto made in Italy? La cugina del panettiere legge questa notizia sul web e manda una mail al quotidiano di riferimento dicendo che anche lei è indignata. Un altro aggiunge la parola: vergogna! Partono le reazioni. Uno “smanettone” del web inizia a raccogliere queste suggestioni e le riporta nel suo ipotetico quotidiano online. Poi comincia a condividere. Col passaparola la notizia diventa sempre più attrattiva fino a che arriva all’orecchio di un quotidiano nazionale che la riporta in prima pagina: «Rissa sul web per la macchina di Mario Monti». A questo punto s’innesca un meccanismo che coinvolge anche la politica: gli uffici della Presidenza del Consiglio organizzano un incontro per discutere sulla nazionalità dell’auto di Mario Monti. La smentita rischia di diventare un’altra notizia, e così si crea un corto circuito che tiene tutti prigionieri. L’unico modo per non restare intrappolati è uscire fuori da questo schema e costruire una notizia con altri format. Per fare questo però ci vuole del tempo. Il tempo oggi non esiste per i giornali. Al Corriere, in passato, il lavoro di inchiesta dava risultati pratici in termini di copie. Alfio Russo, direttore dal ’63 al ’68, ne conquistò 80 mila mandando in giro in Italia le grandi firme: Indro Montanelli, Piero Ottone e Alberto Caval-
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lari che diventeranno direttori del Corriere, Gianfranco Piazzesi e Giovannino Russo. L’inchiesta sull’Italia delle regioni dura due anni. Sulla Lombardia, ad esempio, vengono pubblicati venti articoli firmati da Montanelli, tutt’ora di grande attualità. Milano viene descritta come un porto franco, una città ricca, una città che non ti chiede nulla, generosa con tutti, un’America senza crudeltà. Per fare questo tipo di lavoro serve tempo, un’agenda con personaggi da intervistare, la capacità di scavare, il gusto della scoperta. A volte per qualificare un giornale basta avere qualcosa di vero e di serio e interessante da leggere. I lettori ne apprezzano il valore e si identificano nelle cronache fatte con la suola delle scarpe. G. C.: Varrebbe la pena ricordare come nasce ogni mattina il giornale: nella riunione di redazione ogni caporedattore fa la sua proposta, si discute, si presentano le opportune obiezioni poi si manda sul posto un inviato per raccogliere informazioni e fare le verifiche del caso. Il problema per un giornalista è reperire gli strumenti per recuperare le fonti più appropriate, anche perché, nonostante la sua bravura, non avrà mai la possibilità di comprendere appieno quello che sta accadendo, per poterlo raccontare ai lettori. Inoltre, la crisi economica impedisce che si possano investire tempi e risorse sufficienti e impiegare cinque giornalisti per fare inchieste a tutto tondo. Ma non si può neanche investigare la realtà con uno solo. G. S.: Il problema oggi per i cronisti è questo: quando arrivi sul posto il telefonino ti ha già fregato. Ti sei scapicollato in auto o in aereo ma quando arrivi un cittadino qualunque ha già postato qualcosa su Instagram e ti ha anticipato. Quindi non solo devi raccontare qualcosa che non hai compreso nei giusti termini ma
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devi soprattutto raccontare dei fatti su cui altri hanno già parlato condividendone le emozioni. È questo il grande rebus. Bisogna sapersi inserire dentro questo meccanismo e saperlo fare bene. Serve uno scatto qualitativo. Trent’anni fa ci si adagiava sul fatto che il giornalista era il primo a sapere e l’unico detentore della notizia; quello che si leggeva sul giornale lo sapeva solo il giornalista, il quale in teoria poteva anche barare. Il tema della credibilità diventa dunque, molto importante. Il giornale così inteso come quello che dà copertura su tutti i fatti, va reinventato a partire dal rapporto fiduciario con il lettore, quasi come fosse un rapporto personale. Per il lettore poter interloquire con te che hai creato la notizia è importante. Vuole capire com’è stata strutturata la notizia, qual è la riflessione che c’è dietro. G. C.: All’interno di un giornale non c’è la piena consapevolezza delle difficoltà che il nostro stesso mestiere è costretto ad affrontare. Un direttore che ha tentato di scardinare la routine quotidiana è Ferruccio De Bortoli, il quale ha invitato al giornale una serie di intellettuali esterni per promuovere un confronto con altre visioni e mettersi in discussione. Un tempo, invece, il giornale si creava avvicinando un articolo all’altro. Si mettevano delle striscioline di carta che venivano incollate con della cera, in maniera artigianale. Cavallari non era solo un grande intellettuale ma anche uno che amava l’artigianalità; restava fino a mezzanotte a costruire con tutti noi il giornale. Dopo di lui nessun altro direttore è venuto in tipografia; si è creata una linea di demarcazione. È venuta meno, forse, la consapevolezza che fare il giornale non è solo pensiero ma anche psicologia: si tratta di parlare con chi ha trattato le fonti e lavorare con lui a stretto braccio fino a mezzanotte.
G. S.: Il giornale ti parla usando il linguaggio della contemporaneità. Se ci voltiamo indietro e riguardiamo le pagine, ci troviamo uno specchio dei tempi. Osservando quello che il giornale scrive ti rendi conto di come nel corso degli anni gli stessi pezzi di città, nello stesso periodo, sono stati raccontati in modo completamente diverso. La denuncia di un giornale è qualcosa che resta. Quando in camper abbiamo fatto il giro per i 24 quartieri di Milano abbiamo registrato la voce di tanti cittadini, ci raccontavano un pezzo della loro città vissuta. La voce di queste persone è stata una fonte importante. Oggi le fonti principali di un giornale sono il Comune, la Regione, la questura, i carabinieri, i pompieri e tutto quello che crea movimento. Ma non basta più. Girando per Milano abbiamo trovato molti nuovi cittadini, quelli che nessun brogliaccio di Questura ti racconta; e abbiamo visto gli aspetti negativi del cosiddetto Bronx di Ponte Lambro. In ogni quartiere abbiamo trovato associazioni di cittadini che si danno da fare. Qualcuno ci ha detto: «Voi raccontate solo le storie di 1.000 persone ma qui ne abitano 25.000». Questo ci ha fatto pensare che molto di quello che si racconta sul giornale è una rappresentazione riduttiva della realtà. Al lettore inondato da troppe notizie, dal grande rumore di Cavallari, il giornalista deve dare una bussola credibile. Torniamo al tempo di lavoro, alla ricerca delle fonti, alla serietà professionale. E alla presentazione delle notizie. Bisogna catturare “le immagini” che diano il senso della realtà nel suo divenire. G. C.: Va aggiunto che nel giornalismo la fotografia non è una didascalia che accompagna il testo, ma è essa stessa una forma di informazione. Giangiacomo è una persona che ha creduto e crede in una qualità diversa dell’informazione. Infatti, è l’inventore dell’inserto Buone notizie.
G. S.: L’inserto Buone notizie nasce dalla volontà di uscire dal cortocircuito informativo per raccontare anche il bene, quello che la retorica giornalistica aveva classificato come notizia minore. Il giornale ti scarica addosso, quasi sempre, solo violenza e negatività. Sono gli stessi lettori a sollecitare più notizie positive. La buona notizia è una pepita d’oro in un fiume di fango. Vale come esempio. Una spinta me l’ha data il direttore de La Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò. Avevo raccontato la storia di un barbone che si era riscattato ed era diventato un angelo della bontà, mettendo in piedi, con le sue sole forze, un servizio di assistenza ai malati di dialisi. Cannavò mi disse: «Non pensi che stiamo sbagliando tutto raccontando solo storie di vite sbagliate? Perché non raccontare altre storie positive?». Cannavo è andato in giro per l’Italia a raccontare storie di riscatto. Ha cominciato con Alex Zanardi: l’addio alle corse, il coraggio di vivere dopo l’incidente, la volontà di mettersi in gioco e affrontare le nuove sfide della vita. Al Corriere la difficoltà iniziale è stata quella di convincere i colleghi: molti sostengono ancora che le notizie positive non sono notizie. G. C.: Si trattava di spezzare la visione secondo la quale non è vera notizia quella di una umanità che si riscatta. Persiste infatti l’idea che un’umanità esista culturalmente solo se c’èlo scandalo a farla emergere come notizia. G. S.: Biagi ha fatto nell’80 un’inchiesta sul Belpaese. Andava tutto male, e così è andato a cercare qualche notizia positiva. Non sopportava più l’idea che l’Italia fosse solo dipinta con colori neri e bui. Ma questo altro giornalismo va fatto con passione e con il cuore. Bisogna crederci. Altrimenti si fa della retorica e si scrive aria
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fritta. La prima buona notizia l’ho scritta per sciogliere il ghiaccio, perché nessuno la trovava. È la storia di un angelo di Milano, l’angelo invisibile. Una persona generosa che, nel completo anonimato, interveniva quando c’erano dei casi irrisolvibili come quello di un disperato che dormiva in auto, malato di tumore. O della pensionata che non ce la faceva più a vivere. O il nonno delle case popolari che chiedeva aiuto per i nipotini. O il neonato che doveva essere operato per una malattia rara. Ogni volta telefonava, risolveva il caso e spariva. Lo ha fatto tante volte. Non cercava pubblicità. Ma era una buona notizia e per questo l’ho pubblicata. È accaduta una cosa pazzesca. La notizia è stata ripresa dai giornali spagnoli, francesi e da tutta Italia hanno iniziato a chiamarmi perché volevano sapere di questo strano Angelo. Il resto è stato facile. Oggi c’è un bellissimo inserto che
si chiama Buone notizie diretto da Elisabetta Soglio. Il tema delle good news è esploso. Lo ha ripreso anche il Washington Post con un inserto a parte che viene pubblicato la domenica e inviato a pagamento ai lettori che lo desiderano (il direttore dice che le notizie della domenica devono essere per forza positive dopo sei giorni di notizie tristemente negative). C’è anche un giornale giapponese che dedica due pagine alle notizie positive e questo tiene attaccati al giornale soprattutto i giovani. In sostanza, per fare buon giornalismo bisogna scardinare vecchie consuetudini. Vuoi capire Milano? Devi metterti in viaggio con i pendolari del tram 14. Si scopre sempre qualcosa viaggiando con la gente. Essere curiosi e catturare immagini, come in un quadro. Il giornalismo deve saper guardare e raccontare.
Fatti di lettere ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI Giornalista, scrittrice
È antica tradizione milanese quella di scrivere ai giornali, tradizione mai davvero andata perduta: sopravvive in buona salute anche nei tempi digitali in nome dei quali si direbbe che in rete si trova risposta a tutte le domande per cui non ci sarebbe più bisogno di apposite rubriche. Per non parlare degli innumerevoli blog, dei forum di conversazione, dei social media che avrebbero potuto azzerare il flusso della corrispondenza. E invece no, il flusso continua, il flusso resiste. Rispetto al passato l’unica vera differenza sembra stare nel fatto che oggi – da vari anni ormai – scrivono anche le donne che prima affidavano i loro pensieri esclusivamente alle riviste femminili e non ai quotidiani come gli uomini. Addirittura, adesso potrebbero essere la maggioranza le signore che sottopongono le loro questioni ai quotidiani. E se un tempo la rubrica dei lettori veniva tendenzialmente snobbata, considerata alla stregua della posta del cuore, ora, dopo che l’hanno firmata grandi principi del giornalismo (uno per tutti: Indro Montanelli) è diventata colonna ambitissima per i colleghi e, per i lettori, non raramente in assoluto primo “pezzo” da consultare. Scrivono dunque i milanesi e le milanesi, in tempi di Covid, di lockdown, di zona rossa anche più di prima. L’obbligo di stare chiusi in casa favorisce gli sfoghi, le arrabbiature, le indignazioni che, mettendole per iscritto, un poco, forse, si attenuano. Inviano (per fortuna) so-
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prattutto mail, e non più lettere a mano o dattiloscritte; magari, se sono anziani – e in maggioranza lo sono, probabilmente perché hanno più tempo dei giovani – mandano dall’indirizzo di posta di un figlio, di un nipote. Chi nei giornali è preposto a rispondere ai lettori, si sente porre quasi sempre la stessa domanda: come è cambiata negli anni la mentalità dei milanesi? Fondamentalmente, è l’unica risposta possibile, non è affatto cambiata; cambiati sono invece i problemi della città: e cambiati, di conseguenza, sono i bisogni, i desideri, le paure. Inutile dire che al momento, momento in verità ormai assai lungo, le lettere parlano di Covid e, dunque, di tamponi, di vaccinazioni, di mascherine male indossate, di assembramenti a rischio contagio. Però oltre ai messaggi sul Covid (che passerà) non ha mai smesso di arrivare la cosiddetta posta di tutti i giorni, quella dei milanesi che denunciano, per lo più con grande foga, le negatività della metropoli. Che sono, soprattutto, la maleducazione di chi insudicia la città (graffitari in testa), l’arroganza di chi pretende soltanto diritti, l’indifferenza se non la scortesia che capita d’incontrare a certi sportelli. In primo luogo, dunque, le lettere testimoniano una condivisibile severità nei confronti dei concittadini villani. Segue lo scontento per l’opera dell’Amministrazione: e cioè mezzi pubblici non abbastanza frequenti, verde trascurato, pulizia insufficiente di strade e parchi e giardini, parcheggi introvabili, piste ciclabili che rubano spazio ai posteggi, monopattini troppo numerosi e troppo perico-
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losi, insicurezza di certe periferie. Onnipresente, soprattutto di questi tempi, il tema salute: liste d’attesa interminabili per accedere a delle analisi, medici umanissimi e medici troppo spicci, infermiere pazienti e infermiere nervose. Il lato migliore che si coglie dalle lettere dei lettori è quella loro sana indignazione, quella voglia di giustizia, quel non rassegnarsi al degrado, quello scandalizzarsi per le pecche della città e dei suoi abitanti. Sono minoranza questi milanesi fustigatori via posta? Sono
“voce” che grida nel deserto questi cittadini che vorrebbero una Milano più pulita, più curata, più rispettata? Chissà. Suggestivo e non del tutto improbabile è immaginare che dietro a ciascuno di questi lettori scribacchini ci siano una famiglia, dei parenti, un gruppo di amici e conoscenti che la pensano come lui, non più, dunque, voce solitaria nel deserto.
Milano tra arte e architettura ELENA PONTIGGIA - NICOLETTA COLOMBO
ELENA PONTIGGIA Storica dell’arte Nel marzo 1920, poco più di un secolo fa, Sironi espone per la prima volta, in una galleria di fortuna (uno scantinato in via Dante, a Milano, a cui si accedeva entrando in un negozio di apparecchiature elettriche), i Paesaggi urbani, che sono uno dei vertici della sua arte. Ne presenta tre, che chiama semplicemente Paesaggi. Non sono luoghi ridenti: non hanno aiuole, vene d’acqua, viali alberati, luci, vetrine e sono immersi in un colore che è quello della terra e della pietra. La loro durezza è una metafora dell’esistenza, perché non è la periferia a essere dura, ma la vita. Il loro significato ultimo è però propositivo: case e fabbriche sembrano cattedrali laiche e danno un’idea di imponenza, di solidità, di durata. La loro solidità ha qualcosa di eterno che fa da contrappunto alla drammaticità dell’immagine. Chi, quel marzo 1920, fosse entrato nella galleria Arte e, abituato alle città sfarfalleggianti degli Impressionisti (se non a quelle frenetiche dei Futuristi e a quelle enigmatiche ma luminose della Metafisica), avesse visto i Paesaggi di Sironi, li avrebbe sicuramente trovati tristi. Capita anche adesso. Occorre invece non equivocare sulla loro asprezza. Può aiutarci, allora, analizzare come li descriveva Margherita Sarfatti in quegli stessi giorni, perché la sua lettura non nasceva solo dal suo intuito critico, ma anche dalla conoscenza dell’artista e dalle discussioni che si accendevano nel suo salotto. Ed è una lettura in cui il pittore si riconosceva, vista la continuità
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e l’intensità del loro sodalizio intellettuale. Sironi, scrive dunque Margherita nel cataloghino della collettiva, riporta «gli aspetti tumultuari e confusi della vita moderna […] verso l’ordine e l’armonia»1. «Sironi – osserva ancora –, da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre […] gli elementi e lo stile di una bellezza e di una grandiosità nuove. È lui l’artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta «luxe, ordre et beautè. Le ha glorificate […] con una comprensione contenuta e semplice […] dei loro elementi tragici»2. La scrittrice individua dunque nei Paesaggi urbani, oltre agli elementi tragici che notano tutti, qualcosa di più difficile da notare: quella che chiama, con espressione nietzscheana e dannunziana, la glorificazione. Sironi, intende dire, infonde nelle sue dolorose periferie un senso di forza e di armonia. La città sironiana, del resto, è anche la metafora della volontà di costruire, intesa come un imperativo categorico e un compito etico, costi quello che costi. Il vero soggetto dei Paesaggi urbani è l’architettura stessa, non perché rappresentano degli edifici ma perché edificano delle forme. Tutta l’Europa avverte in questi anni un desiderio di costruzione e di ricostruzione, in senso ideale non meno che concreto. E anche Sironi, come tutti gli artisti dell’epoca, vuole “costruire”. Non per niente Bontempelli, in un racconto pubblicato su Le Industrie Italiane Illustrate nello stesso 1920, scrive: «Ogni tanto bisogna rifornirsi di sostantivi e di
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aggettivi. Prima della guerra c’erano le parole “sensibilità”, “dinamico”, “musicale”; oggi invece le pietre basilari del vocabolario critico sono “costruito”, “corposo”, “architettura”»3. E anche Margherita Sarfatti, sempre nel 1920, osserva: «Costruire: una paroletta da nulla a dirla così: ma… per enunciarla come un programma, ci voleva del coraggio [...]. Che cosa si propone ora il manipolo dei pittori di avanguardia italiani? Costruire, essi vi rispondono»4. Costruire, dunque. Ma che cosa? Sironi riprende dalla sua stagione futurista l’idea di una città totalmente contemporanea. La sua metropoli non ha centro storico, monumenti antichi, tracce del passato remoto o prossimo. È composta solo dalla testuggine delle case, dalla trama delle strade e delle rotaie, dagli inarcamenti dei cavalcavia e, poi, dai segni del lavoro industriale: gli obelischi delle ciminiere, le basse fabbriche dai tetti a triangolo, le gru a trave mobile, i tralicci, le cisterne. Dalla stagione metafisica, invece, riprende l’atmosfera sospesa, carica di presagi, gravata da una misteriosa immobilità. Biciclette, macchine, tram, treni, camion appaiono bloccati e i pochi uomini che si scorgono restano fermi sulle vie deserte. La città non è il luogo della comunità, ma della solitudine.
M. Sarfatti, catalogo della mostra alla Galleria Arte, Milano 1920. M. Sarfatti, 1920, ora in Il Novecento Italiano, a cura di Elena Pontiggia, Milano 2003, p. 27. 3 M. Bontempelli, “Pescecanea”, in Le Industrie Italiane Illustrate, Milano, settembre-novembre 1920, ora in Id., Opere scelte, Milano 1987, p.182. 1 2
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M. Sarfatti, Funi (ottobre 1920), ora in Pontiggia 2003, p. 32.
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NICOLETTA COLOMBO Storica dell’arte A Milano il dibattito sull’arte negli anni Trenta era fortemente caratterizzato da un clima generale di entusiastica sperimentazione e di contatti con la realtà nazionale ed europea. La grande attività fiorita sul versante delle imprese architettoniche e dei correlati interventi plastici, pittorici e decorativi di ambito monumentale, sia di tipo civile che religioso, era la risposta di una città di grande riferimento come il capoluogo lombardo, costante contraltare del polo romano, alla necessità del regime di sostenere un modello sociale di tipo aulico, rinforzato dalla identificazione con modelli di grandi civiltà storicizzate come quella romana e greca, affermative dei miti senza tempo sostanziati nell’opera, ovvero nel monumento quale emblema concretizzato di un ideale collettivo. Il grande entusiasmo, che sorgeva dalla fine degli anni Venti e proseguiva oltre la chiusa dei Trenta, scaturiva da una serie di motivazioni: il miraggio del principio di unità delle arti espresso dal muralismo di Mario Sironi, Achille Funi, Massimo Campigli, Carlo Carrà, l’adozione di estetiche elaborate da architetti di mediazione tra la tradizione e il razionalismo architettonico più rigoroso, come era il caso di Gio Ponti o dei continuatori della tradizione neoclassica lombarda, aggiornata sugli esempi di un novecentismo in revisione, come quello di Giovanni Muzio. Era il decennio per antonomasia dei piani regolatori e di soluzioni urbanistiche che promuovevano per l’appunto la nascita di una scienza nuova del vivere, l’urbanistica, prepotentemente affermata in prospettiva nazionale e internazionale nella mostra riservatale in occasione della vi Triennale al Palazzo dell’Arte di via-
Paolo Mezzanotte, Palazzo della Borsa, 1927-1932.
le Alemagna, sede delle gloriose Triennali milanesi degli anni Trenta, la v (1933), la vi (1936) e la vii (1940). Accanto al funzionalismo, sostenuto dai giovani architetti ispirati ai modelli innovativi dei colleghi d’Oltralpe, si affermavano gli esempi del monumentalismo ufficiale, secondo cui gli artisti, pittori, affrescatori, scultori, decoratori, affiancavano gli architetti per confermare il concorso dell’arte nella costruzione della civiltà, nella osservanza di un senso etico inteso come impegno morale finalizzato alla formazione e alla comunicazione dei valori civili comunitari.
Il rinato principio dell’orgoglio italiano, che rimandava alla grande tradizione romana, ai valori della razza, ai modelli culturali italici e alla celebrazione di un forte spirito collettivo, era elemento propulsivo di una volontà edificatrice sostanziata nei cantieri di pregnanza emblematica, quali i palazzi delle poste, delle borse valori, niversità, stazioni ferroviarie, tribunali, case del fascio, e ancora di centri sportivi, piscine, ospedali, ecc., opere in cui la decorazione entrava non in formula aggiuntiva, ma come attività paritaria all’architettura a partire dalla iniziale progettazione. Grandi imprese te-
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Giannino Castiglioni, Cristo Re, Università Cattolica del Sacro Cuore.
stimoniavano la febbrile vis costruttiva in cui Milano era situata, in prospettiva nazionale, al timone di comando, in gemellaggio antagonistico con Roma. Tra il 1930 e il 1931 presso il Palazzo Mezzanotte o Palazzo della Borsa, lavoravano gli scultori Leone Lodi, Silvio Zaniboni e Geminiano Cibau, che vi collocarono sia nell’interno che all’esterno dell’edificio, altorilievi, gruppi scultorei e formelle simboliche. In piazza Missori, il Palazzo della Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali eretto da Marcello Piacentini, si arricchiva dei rilievi scultorei di Antonio Maraini e di 234 | Lettera a Milano
alcune lunette lignee dipinte da Cipriano Efisio Oppo, entrambe figure autorevoli del regime. Presso l’Università Cattolica di largo Gemelli, tra il 1930 e il 1932, lo scultore Giannino Castiglioni collocava in facciata il bronzeo Cristo Re, mentre il giovanissimo Giacomo Manzù arricchiva la Cappella del Sacro Cuore con altorilievi, la Cappella del Collegio con una primitivistica statua in gesso e i tabernacoli con rilievi simbolici in oro sbalzato. La Stazione Centrale di Milano, inaugurata nel 1931, era decorata da statue allegoriche di Armando Violi, da rilievi di Castiglioni, Bazzoni, da piastrelle ceramiche dipinte da Basilio Cascella, da affreschi di Mar-
Basilio Cascella, Padiglione Reale della Stazione Centrale.
cello Nizzoli, da vetrate di Tevarotto, e da altri interventi minori. Il Palazzo di Giustizia, eretto da Marcello Piacentini tra il 1936 e il 1939, accoglieva un centinaio di opere decorative tra affreschi, encausti, mosaici, altorilievi, bassorilievi, sculture, eseguiti dai più importanti artisti italiani del tempo; il Palazzo costituisce senza dubbio il maggior complesso iconografico dell’arte italiana tra le due guerre: opere sul tema della giustizia, del Bene e del Male, della colpa e del giudizio. L’Ospedale Niguarda Ca’ Granda, costruito alla fine degli anni Trenta, ospitava parecchi lavori: nel cortile antistan-
te l’edificio, due monumentali gruppi scultorei di Arturo Martini e di Francesco Messina, nella Cappella della Annunciata bassorilievi di Marchini, Parini, Francesco Wildt e vetrate di Carpi, Sironi, Salietti, Bucci, Monti, De Grada, Salvadori, ecc. Ancora rilievi scultorei di Bortolotti, Bossi, Vedani, Pizzi e nel Palazzo degli Uffici, altre vetrate, affreschi, sculture, rilievi. Nella sede della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde di via Verdi, oggi Intesa Sanpaolo, lavoravano Achille Funi, che nel 1940 realizzava un prezioso mosaico allegorico sulla cupola della Sala Riunioni, e Giacomo Manzù, che scolpiva stemmi-bassorilievi nel portiLettera a Milano | 235
Francesco Messina, gruppo scultoreo di San Carlo Borromeo, Ospedale Maggiore Niguarda Ca’ Granda.
co esterno del palazzo costruito da Giovanni Muzio, e all’interno cesellava un prezioso grande orologio dorato, con i simboli zodiacali. Il Palazzo dell’Amministrazione Provinciale di via Vivaio veniva decorato da Salvatore Saponaro con preziosi bassorilievi marmorei scanditi in formelle, mentre Ivo Soli realizzava due grandi bassorilievi in marmo sulle pareti esterne laterali di via Vivaio. Tra il 1938 e il 1942 Giovanni Muzio costruiva il Palazzo del Popolo d’Italia (poi denominato Palazzo dei Giornali) di piazza Cavour, sulla cui facciata Sironi collocava un gigantesco bassorilievo in marmo e uno di dimensioni ridotte, in porfido rosso, sul balcone. 236 | Lettera a Milano
Nel 1941, nel salone dell’Auditorium al quinto piano veniva collocato lo storico mosaico di Sironi. L’Italia Corporativa, originariamente composto per la vi Triennale di Milano del 1936 e poi presentato alla Esposizione Universale di Parigi del 1937. Tra il 1940 e il 1941, Giuseppe Pagano costruiva l’Università Commerciale Luigi Bocconi e chiamava alla decorazione lo scultore Leone Lodi per i bassorilievi esterni, riservando gli interni alle sculture in grès di Arturo Martini, agli affreschi di Adriano Spilimbergo, alle maioliche di Nino Strada, ai rilievi ceramici di Salvatore Fancello.
Giacomo Manzù, stemmi in porfido. Palazzo delle Colonne di via Verdi, Milano.
Mario Sironi, bassorilievo marmoreo al Palazzo dei Giornali di piazza Cavour, Milano.
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Leone Lodi, rilievo in pietra presso l’Università Bocconi, Milano.
In questo sintetico excursus, che per motivi di spazio trascura molte altre tappe non meno importanti, non va dimenticato un polo fondamentale della Milano artistica: il Cimitero Monumentale, che anche negli anni qui considerati si arricchiva di contributi preziosi di Lucio Fontana, Fausto Menotti, Giannino Castiglioni, Carlo Bonomi, Leone Lodi, Antonio Maraini, Francesco Messina, Franco Lombardi e di altri. 238 | Lettera a Milano
Un ultimo, quanto incompleto cenno, meritano le chiese cittadine, anch’esse al centro degli interventi degli artisti nel decennio dei ’30: affreschi di Achille Funi nella chiesa di San Giorgio al Palazzo, vetrate di Guido Marussig e formelle di Franco Lombardi nel Tempio Civico di San Sebastiano, pannelli di Aldo Carpi e statue di Leone Lodi nella chiesa di Santa Maria del Suffragio, pala bronzea e fonte
Aldo Carpi, vetrata nell’abside della Chiesa centrale dell’ Ospedale Maggiore Niguarda Ca’ Granda.
battesimale di Fausto Melotti nella basilica di San Babila, fonte battesimale di Giacomo Manzù in Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, mosaici di Gian Filippo Usellini nel Santuario di Sant’Antonio da Padova di via Farini, vetrate di Usellini in Santa Maria Incoronata di corso Garibaldi, vasca battesimale di Franco Lombardi nella Basilica di Sant’Ambrogio, ecc.
Da questo sommario elenco, che è impossibile qui ampliare nei dettagli, emerge quale fosse il fervore costruttivo e il dialogo interdisciplinare che la nostra città offriva come esempio di probità alla propria cittadinanza, alla nazione e a quella platea internazionale che numerosa confluiva da ogni dove nel capoluogo lombardo in occasione delle Triennali milanesi al Palazzo dell’Arte. Lettera a Milano | 239
Milano da abitare UGO LA PIETRA
Architetto, designer, artista
«Viviamo affollate solitudini» Con questa definizione ho cercato di spiegare ormai da tempo il fenomeno sempre più crescente dei milanesi che esprimono il bisogno di stare insieme. È ormai sotto gli occhi di tutti la necessità dell’individuo urbanizzato di trovare momenti di collettivizzazione. Il numero crescente di singol, la famiglia sempre meno unita, la perdita delle relazioni di quartiere (dovuta a sempre più importanti presenze di gruppi sociali disomogenei) ha fatto crescere il bisogno di “stare insieme” negli spazi collettivi. Milano negli ultimi anni ha dato alcune risposte in questo senso: dagli spazi occasionali per le “cene in città” ad aree nuove o ristrutturate come la Darsena, piazza Gae Aulenti fino alla crescita sempre più esponenziale di locali di ristoro che accolgono un numero sempre più alto non solo di abitanti ma anche di turisti. È un fenomeno che all’apparenza è percepito come un fatto positivo, ma dietro questa immagine di animata e rinnovata capacità di “accogliere” si celano grandi problemi mai affrontati e quindi ancora da risolvere. 1. Architetti e amministratori ci invitano ad abbandonare l’idea di un parco urbano contemporaneo e ad assistere al cambiamento delle stagioni guardando il verde
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sui grattacieli, o accontentandoci di veder crescere le palme nel grottesco giardinetto di piazza Duomo (su modello dei giardinetti urbani di fine Ottocento). 2. Milano è l’unica città europea che non ha mai avuto un progetto di illuminazione urbana. Ogni strada ha un proprio tipo di lampada/lampione, proprio come l’infinità di tipologie di dissuasori che caratterizzano le nostre strade e piazze. 3. Da quando è nata, all’inizio degli anni Ottanta, la disciplina dell’Arredo urbano è anche stato istituito l’Assessorato all’arredo urbano. Per ora gli elementi che caratterizzano lo spazio urbano sono quasi sempre “segnaletica e attrezzature” che segnano violenza e separatezza.
“piazze italiane”; sono, di fatto, un insieme di incroci (di vie e di tram) che producono un’infinità di isole pedonali impraticabili. Sarebbe un bel tema progettuale per i giovani progettisti delle nostre facoltà di Architettura.
periferia, che non riesce a fare sistema utilizzando il grande patrimonio culturale (vedi la vecchia idea fine anni Sessanta del Prof. Russoli sulla “Grande Brera” ripresa da un progetto La Pietra/Magistretti negli anni Ottanta e mai realizzata).
Altri temi importanti sarebbero da affrontare ma il più sentito da troppi anni, soprattutto dal mondo culturale, è il bisogno di costituire gruppi di operatori in grado di proporre “programmi culturali” per l’arte, per l’ambiente e per la comunicazione.
Che infine non riesce a sfruttare queste nuove tensioni in merito ai gruppi sociali che hanno sempre più bisogno di spazi per socializzare dando alle nuove generazioni strumenti e occasioni progettuali per abitare la città (espandere la personalità dell’individuo e/o del gruppo sociale, dare identità e significato ai luoghi). Una pratica progettuale che non sembra interessare gli architetti (impegnati sempre più a celebrarsi con grandi strutture), ai designer (impegnati a produrre un sempre più ampio numero di oggetti da consumare), agli artisti (ormai solo ed esclusivamente presi dalla scalata al “sistema dell’arte”).
Il fenomeno “spontaneo e aggressivo” del “Fuori Salone” è l’espressione più evidente di una città che non vuole o non sa darsi delle regole, che non riconosce la sua vera natura (città orizzontale e città delle acque: si costruiscono grattacieli, si coprono i navigli) che non guarda con attenzione alle potenzialità (ai valori), alla
4. Milano è l’unica città al mondo che ha destinato una vasta area del proprio territorio urbano al commercio all’ingrosso, generando traffico di mezzi per il carico e lo scarico (negozianti di tutta Italia vengono ad approvvigionarsi ogni giorno, anche il sabato e la domenica, dai grossisti collocati nel centro della città). Tra l’altro sarebbe buona cosa non chiamare più via Paolo Sarpi “isola pedonale” visto che tutte le mattine è interamente occupata da furgoni che riforniscono i tanti negozi all’ingrosso della via. 5. Milano è una città radiocentrica ed è per questo che le nostre piazze non hanno nulla a che fare con le
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Scene teatrali e architetture metropolitane ITALO ROTA Architetto
Oggi la cosa più interessante da fare con le persone con cui condividiamo un destino è operare pensando. Innanzitutto, si tratta di vivere sempre nuove esperienze per poi dare forma alle idee: ritengo che il “progetto” sia un’espressione tipicamente culturale che è in via di estinzione. Oggi realizzare un’idea segue un processo completamente diverso dal percorso logico necessario a realizzare un progetto, anche nella sua veste di formulazione. In questo momento storico è molto importante “imparare facendo”: i problemi che si presentano sulla scena sono nuovi, e il 99% delle conoscenze finora accumulate dall’esperienza non è utile per risolverli. Si crede che far evolvere delle soluzioni che già conosciamo e che abbiamo già sperimentato sia la scelta vincente. In realtà, questo insistere sul “già dato” implica un grande spreco di energie e una minore creatività; creatività che invece è essenziale per risolvere i nuovi problemi. Questa mia convinzione risponde a un’altra “piccola” questione: come è possibile risolvere i problemi di urbanistica e di architettura all’interno di uno spazio fortemente antropizzato? È una domanda sollecitata oggi dal desiderio di salvaguardare eticamente il nostro operato. Ci chiediamo se continuare a costruire sia ancora lecito in un mondo così densamente edificato, o se invece non si debba sentire l’obbligo morale di non fabbricare. Per ottemperare a tale esigenza, non solo bisogna essere creativi e conoscere le nuove tecnologie, ma si devono pensare anche gli “esseri umani” come
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parte integrante della costruzione. Si parla a questo proposito di architettura sociale, non intendendo tanto una visione sociologica dell’architettura, quanto il pensare lo stesso corpo umano come “materiale” di edificazione. In Europa questo problema è poco sentito perché gli spazi urbani non sono così densamente popolati, ma è sufficiente visitare un’esposizione fieristica a Milano, la domenica mattina, per comprendere come la concentrazione di tanti corpi costituisca essa stessa un’architettura. A ciò si aggiunge un’altra considerazione, il nostro pianeta vive un momento particolare; il pianeta sta lavorando in toto per cercare di costruire la propria intelligenza. L’intelligenza del pianeta è basata sui dati che sono le nostre vite; questo è qualcosa di altamente problematico. Il legame tra la nostra intelligenza e quella del pianeta sta accelerando il processo di evoluzione, determinando il futuro dell’umanità. Probabilmente questa relazione tra intelligenze ci permetterà di costruire il cambiamento biologico necessario alla sopravvivenza degli umani sulla terra. Fra trenta anni, se i dati confermeranno le tendenze in atto, non ci sarà più futuro per la nostra specie. Potremmo, allora, progettare “un bel ricordo” per la specie che ci succederà. Tutto ciò esercita chiaramente una grande influenza sul “fare” la città e l’architettura. Una prima conseguenza consiste nella sparizione dello spazio esterno, inteso come geografia, estensione incognita, e nella convinzione che si viva continuamente in uno spazio interno.
Non potendo più uscire dal pianeta, essendo questo sempre più piccolo e sottoposto a controllo, anche la cartografia è costretta a riprodurre la realtà in scala reale e, in conseguenza di ciò, l’architettura ha perso il senso della relazione fra la dimensione interna e quella esterna degli spazi. L’evoluzione degli elementi dell’architettura ci ha portato a immaginare processi innovativi. Si possono elencare alcuni elementi architettonici che, innovando, si sono aggiunti agli elementi classici, dall’antichità alla modernità. Ad esempio, la porta girevole: quale organizzazione degli spazi suggerisce una porta che gira? Qual è l’interno e l’esterno? È una barriera che, però, introduce in un interno il mondo esterno, producendo un cambiamento negli stessi rapporti umani. Non è strano che un’invenzione che nasce per l’interno non si prenda cura della relazione interno-esterno? Un altro esempio è costituito dalla scala mobile, che annulla l’idea di livello. Noi ci spostiamo nello spazio in tre dimensioni. L’idea di spostarsi in uno spazio tridimensionale è diventata fondamentale nella sua semplicità: abbiamo l’alto, il basso, la destra e la sinistra, ma anche il sopra e il sotto. Le architetture più innovative lavorano sulla capacità delle nuove generazioni di muoversi istintivamente in queste dimensioni. Pensiamo alla “grande scatola” creata dall’elettricità che ha avuto effetti sorprendenti sull’umanità: ha allungato il giorno e ha creato una zona intermediaria nella nostra mente. Altro elemento è l’effetto “sandwich” indotto dalla climatizzazione che si crea sulle nostre teste; essa contiene luce, energia, strumenti contro gli incendi, ecc. Non siamo sufficientemente consapevoli che viviamo in un mondo in cui a dettare le nostre scelte nel campo dell’architettura sono le serie televisive, come
prima lo è stato il cinema. Questi strumenti mediali permettono di viaggiare nel tempo e nello spazio, nelle relazioni interpersonali, ma anche inducono particolari stati d’animo. L’architetto sembra essere diventato inutile perché molto spesso le persone arredano la propria casa in funzione delle suggestioni che ricevono dall’esterno, lasciandosi convincere che arredare il proprio spazio interno da sé sia la cosa migliore che si possa fare. Inoltre, tanti umani dedicano più cura alla propria vita e sono più autonomi, destinando alla sistemazione relazionale degli oggetti la maggior parte del loro tempo. Queste sono le nuove tendenze che stanno cambiando il mestiere di chi si definisce architetto, tra cui va registrato però anche un ritorno al passato, al periodo precedente alla nascita delle scuole di architettura, perché oggi chiunque può costruire pezzi di città. La conoscenza delle tecniche non è più alla base della realizzazione di una parte di città, non è più essenziale alla realizzazione di un progetto. È interessante sapere che negli anni a venire saranno molti i registi di cinema a cui verrà chiesto di costruire spazi urbani; e non perché capaci di creare scenografie ma perché sanno valorizzare gli ambienti, conoscendo l’animo umano meglio di alcuni architetti. È una verità importante che le scuole devono riconoscere, perché molte di esse si ostinano a insegnare discipline che invece dovrebbero eliminare rimuovendo, con esse, anche la distanza fra allievo e maestro. L’urgenza dei cambiamenti sollecita quindi la creatività e la spinge a risolvere i problemi che si presentano. Tutto questo rappresenta una sfida sostanziale al lavoro dell’architetto come tradizionalmente inteso: molti diventano architetti per il desiderio di costruire adoperando il cemento o disegnando schizzi con una matita. Ma oggi cosa significa “costruire” la città, senza però
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edificarla in senso tradizionale, e dove sta il piacere orgasmico di una creatività di questo tipo? Siamo obbligati a lavorare per sottoscrivere un contratto sociale con gli altri. Bisogna cogliere le nuove forme di vita. Il problema della natura è la vita, non la forma della vita. Bisogna capire nei prossimi anni su cosa si fondi questo contratto sociale. Sono questi i temi alla base della costruzione di una collettività che attualmente non è omogenea, non ha una forma definita, non segue confini amministrativi, politici, storici, ma configura scenari determinanti per gli interessi vitali. Per esempio, quali sono i confini di Milano? Non è certo il confine amministrativo; difatti alcune zone della città potrebbero essere escluse da essa perché semplicemente scollegate. Potremmo con ciò definirci dei piccoli utopisti, intendendo con tale definizione qualcuno che è ottimista senza sapere perché. Il momento presente esige da noi un ottimismo che ci porta a progettare nuovi oggetti, nuove situazioni, soprattutto ambienti che delimitano uno spazio che dev’essere trasformabile, riciclabile, rimovibile; terminato l’uso un terreno deve essere liberato. Oggi non c’è più la necessità di creare monumenti imperituri; non se ne vede più l’utilità. Non a caso i grattacieli appartengono ora alle banche; nessuna industria innovativa sognerebbe mai di erigere un grattacielo perché questa realtà edificativa apparentemente nuova, in realtà, è una forma arcaica della modernità, anche se vi si aggiungono alberi. Il problema oggi non è affidarsi alla migliore architettura che abbiamo conosciuto, ma far leva su qualcosa di completamente nuovo. Altro tema è quello delle nuove tecnologie che ci consentirebbero di reinventare e utilizzare meglio le enormi quantità di volumi edificati negli ultimi venti anni.
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Vaste zone delle metropoli contengono ampie parti inabitate perché esse rappresentano un investimento che perderebbe valore, se abitato. A Calcutta c’è una nuova città che è ancora recintata, alla quale, all’esterno, viene dato ogni giorno il suo valore sul mercato, in quanto è denaro in forma di costruito. I nostri studi di architettura oggi dovrebbero operare per scelte individuali: ognuno fa quello che ritiene più opportuno in rapporto al destino del pianeta. L’avvenuta dissoluzione dell’architettura ha prodotto frammenti enzimatici, dove per enzimatico si intende quel nutrimento che laddove sia presente produce energia. Ci sono frammenti enzimatici che oggi l’architettura può produrre in certe situazioni, ed è un po’ questa la realtà che io vivo. Il fermento vitale di cui vive il nostro lavoro ci induce ad apprezzare anche le relazioni con persone molto antipatiche, a condizione che esse siano molto intelligenti, dal momento che professionalmente non è necessario uscire a cena o bere un caffè con loro. I problemi attuali sono così rilevanti e complessi che un aiuto, da qualunque parte provenga, è ben accetto. Lavorare con un gruppo di amici non consente spesso di risolvere un problema grave perché si tende a cercare il compromesso tra diverse idee, mentre è invece importante scegliere una soluzione ben definita, che può essere avanzata da persone con diverse competenze. Questa è la mia idea di lavoro in un team dove sono presenti professionisti capaci di multiformi abilità e conoscenze.
è pensare al benessere delle persone, in funzione del quale ci si deve trattenere dal produrre architetture banali e inutili. Infine, va rilevato che l’apparenza classica della modernità è finita, nel senso che oggi non è più necessario affrontare un tema con uno specifico linguaggio; lo si può “dire” con infiniti linguaggi diversi. In sé il linguaggio non è interessante: oggi possiamo guardare ad un elemento architettonico classico come una colonna, e reinterpretarlo con un linguaggio totalmente contemporaneo. È quello che ci ha insegnato l’arte concettuale, vedi le zone milanesi Garibaldi e Repubblica. Il tempo presente propone sfide interessanti. Si pensi ai due miliardi e mezzo di telefonini a cui nei prossimi anni se ne aggiungeranno altri tre miliardi; la maggior parte di questi saranno venduti nelle aree più povere e poco alfabetizzate del pianeta. Come si organizzerà la comunicazione tra le persone attraverso i telefonini, quando ancora una parte consistente di esse sono analfabete (in Italia il 20%)? L’uso dello smartphone può essere associato alla condizione di non saper leggere; e le stesse persone che usano il telefonino senza saper leggere abitano poi la metropoli. La nostra vita sta cambiando e il mestiere di architetto con essa. Ancora, mi sembra intrigante che le differenze fra chi ha 15
anni e chi ne ha 75, fra un italiano e un cinese, si stiano attenuando. Non si tratta della globalizzazione ma di un mondo che è diventato più piccolo, in cui persone diverse ma che vivono nello stesso tempo e nelle stesse condizioni, vivono problemi simili. Le metropoli cambiano a partire dal basso, perché è così che sono sempre cresciute. La stessa Milano è stata trasformata dalle esigenze dei suoi cittadini, ad esempio da quelle legate alla salute. Tutte le città avanzate hanno un ottimo sistema sanitario fondato non solo sulle prestazioni mediche ma anche su un’idea più ampia di salute che comprende la consapevolezza del proprio benessere. Si avvia così un processo virtuoso per il quale l’individuo cittadino mangia meglio, si prende più cura di sé, esige una migliore mobilità e trasportistica, e vede in tal modo innalzarsi la qualità della propria vita. Le metropoli in movimento positivo si muovono dal basso, anche se sono lontane o guidate da governi nazionali che ne ostacolano la crescita: Shenzen è molto deviante rispetto al governo di Pechino, San Diego lo è rispetto a quello di Washington e il Vaticano rispetto al governo di Roma. Nonostante il disinteresse verso quanto deciso nelle capitali, le disfunzioni e gli elementi di squilibrio, le città non si fermano e crescono. Questo è un qualcosa su cui riflettere.
In questo quadro l’errore nella nostra attività non è un fallimento, ma è un passaggio necessario alla sperimentazione, è un investimento per un’idea successiva; anche i giovani ne devono essere consapevoli. Il metodo scientifico prevede la possibilità dell’errore, perché questo porta con sé una soluzione futura. L’importante
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Il cuore sportivo di Milano EVARISTO BECCALOSSI - GIOVANNI LODETTI - FABRIZIO BERNINI
FABRIZIO BERNINI Poeta
GIOVANNI LODETTI Calciatore
Evaristo Beccalossi e Giovanni Lodetti sono tra i migliori calciatori che Milano ha espresso nel corso del tempo, sia dal punto di vista sportivo che umano. Sono il simbolo di una città che ha saputo fare della competizione tra due squadre di calcio una rivalità sana, capace di valorizzare le diversità per trarne tutto ciò che di buono da esse può venire. Questi atleti, spesso impegnati nel derby, sono proprio l’emblema di un gioco civile e vissuto nel rispetto del fair play, che dona ai tifosi una costruttiva distrazione dalle fatiche e dalle alienazioni. L’umanità che emerge da loro è l’umanità del calcio che, nella pratica sportiva o in una tifoseria, vive la relazione con l’altro all’insegna dell’incontro, riconoscendolo diverso e al contempo vicino, come avviene in una famiglia. Per questo, si sono accorti della potenzialità poetica del calcio autori come Umberto Saba, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Milo De Angelis e Maurizio Cucchi, che hanno fatto di questo gioco la metafora di delicati passaggi esistenziali e sociali, descrivendo squadre come il Milan e l’Inter come piccoli mondi che da luoghi circoscritti si aprono su orizzonti più vasti, all’insegna di una rivalità costruttiva.
Ripensando alla mia carriera calcistica riconosco di aver avuto la fortuna di giocare nei vent’anni che forse sono stati per lo sport italiano il periodo più bello. Per me il calcio è stata una di quelle attività il cui scopo è il divertimento nel vero senso del termine. Ho vissuto tutti i momenti della mia carriera calcistica all’insegna della gioia e della passione, dagli inizi nel campo dell’oratorio all’impegno crescente nel mondo dello sport, fino alla soddisfazione di aver vinto la Coppa dei campioni cinquant’anni fa. In ciò sono stato molto fortunato, come lo è stato Evaristo Beccalossi dopo, nella sua carriera: abbiamo vissuto la gioia di giocare con compagni di squadra, diventandone amici e divertendoci. Allora non ci si stancava mai e tutto era più semplice: i genitori non erano ansiosi, ci seguivano da lontano e ci permettevano di sfogarci liberamente. Ricordo che da ragazzo partivo di domenica mattina alle sei e mezzo con la borsa sulle spalle, per giocare al centro sportivo Scarioni, e tornavo a casa alle 19; se avessi fatto tardi, i miei genitori mi avrebbero rimproverato perché ci si aspettava tutti per cena. I miei familiari non nutrivano ambizioni per la mia carriera di calciatore, né speravano che mi arricchissi. Ricordo ancora quando portai a casa il primo premio di 120.000 lire per un derby – per fare un confronto, allora mio padre guadagnava 40.000 lire al mese –; per l’eccitazione nel tragitto di ritorno a casa continuavo a contare in tasca i 12 bigliet-
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toni del mio premio. Sedutomi a tavola per cena, tutto orgoglioso consegnai i soldi a mio padre e lui, dopo averli contati mi disse: «Bravo Giuanin, te si sta bravo!». E con perfetta noncuranza si mise in tasca tutto il denaro. E io che speravo che mi lasciasse qualcosa… Rammento che il primo contratto lo ottenni insieme a quattro altri ragazzi: il direttore tecnico Gipo Viani ci chiese che cosa volessimo e noi gli parlammo del contratto; e lui ci disse: «Dovreste essere voi a pagarci per farvi giocare». Poi ci propose una cifra – inferiore a quella che speravamo – ribadendo che se non fossimo soddisfatti della proposta, da Asiago, dove eravamo in ritiro, potevamo tranquillamente tornare a casa. Sono state lezioni di vita che ci hanno fatto capire che per diventare calciatori, si doveva essere disposti al sacrificio: l’intenso allenamento, la cura per la propria salute e il fisico, tutto ciò che si doveva fare per essere efficaci nel contrastare l’avversario. In ogni caso avevamo una grande gioia nel cuore. Al confronto, oggi il calcio mi pare molto diverso: c’è più seriosità. I più giovani subiscono maggiormente le pressioni e le attese ansiose dei genitori, sono meno ingenui e disposti a vivere l’esperienza calcistica come un divertimento, sono esigenti riguardo alle gratificazioni, la preparazione ha un taglio quasi scientifico. Mi è stato chiesto che cosa pensassi della proposta di sostituire San Siro con due stadi, uno per il Milan e l’altro per l’Inter. Penso che sia più opportuno conservare San Siro, magari con le necessarie modifiche. Bisogna rispettare le tradizioni e io sono affezionato allo stadio in cui ci si recava tutti insieme, giocatori e tifoserie mescolate. Ricordo che una sera, dopo una vittoria della mia squadra tre a zero con due miei gol, me ne andai da San Siro attraverso l’unica uscita e un gruppo di interisti, dopo avermi riconosciuto, mi disse: «Pensa ti che il pirletta qui ha fatto gol!», io mi girai e risposi: «Ciapa su e porta a ca’». Una vera soddisfazione! La costruzione di due stadi impedireb-
be questo genere di esperienze fraternizzanti perché conterrebbero meno spettatori e i posti sarebbero assegnati prevalentemente agli abbonati legati alla squadra che li gestisce. Tra i miei ricordi più vivi la vittoria del derby giocato domenica 15 novembre 1964. Rammento la formazione dell’Inter: Sarti, Guarneri, Facchetti, Tagnin, Burgnich, Picchi, Jair, Mazzola, Suarez, Corso e Milani. La nostra del Milan era composta da Mora, Benitez, Ferrario, Rivera, Noletti, Maldini, Barluzzi, Pelagalli, Fortunato, Trapattoni e da me, Lodetti, con il numero 11. Anche in quell’occasione l’uscita da San Siro fu una cosa molto semplice: ad attendermi c’era solo mio fratello, e io portavo con me la borsa preparata per il ritiro. Allora i ritiri erano molto rigorosi; non c’era alcuna comodità. L’ora del rientro serale nelle proprie camere era fissata severamente per le 22:30, ma insieme ad alcuni amici – ricordo Anguilletti, Sormani, Curtani e Malatrasi – spesso bevevamo una bottiglia di Champagne di nascosto. Una volta fummo beccati da Nereo Rocco che, invece di rimproverarci, ci chiese nel suo dialetto triestino perché non avessimo invitato anche lui. Questo per far capire il clima informale che si respirava in quegli anni nel mondo del calcio.
EVARISTO BECCALOSSI Calciatore Sebbene sia io più giovane, conosco Giovanni Lodetti da molti anni; per me è sempre un maestro e sono contento di essermi spesso ritrovato con lui a commentare il calcio in televisione. Condivido tutto quello che ha detto sulla nostra esperienza giovanile dello sport. Spesso ho a che fare con i giovani e ciò che mi sconcerta di più non è tanto la differenza nelle condizioni di vita, quanto la mancanza per loro di credibili punti di riferimento, di autentici valori. Noi che venivamo
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dalla provincia, figli di operai, e ricordavamo ancora la fame, potevamo contare su figure autorevoli che ci indicavano il cammino. I nostri ragazzi oggi, invece, ammirano gli idoli sportivi – come a suo tempo mio figlio ammirava Beckham – e pensano subito di essere dei fenomeni, senza sottomettersi onestamente a una disciplina e confrontarsi con autentici maestri. In realtà, molti di loro sono ben disposti, ma faticano a trovare persone all’altezza delle loro problematiche, capaci di valorizzare la loro singolare personalità. Si confida troppo nella preparazione tecnica, dimenticando la formazione umana. Ho visto il programma di un ritiro per una squadra di diciannovenni: lo staff comprendeva otto persone (lo psicologo, il nutrizionista, il macht analysis ecc.). Oggi anche la stesura del contratto viene seguita da uno stuolo di persone, tra cui avvocati e commercialisti, perché ogni giocatore è una vera e propria azienda. Noi al confronto eravamo più ingenui, ma imparavamo lo spirito di sacrificio da autentici campioni – ho una grande riconoscenza verso Rivera, Sivori, Mazzola… – ed eravamo più disposti a divertirci con semplicità. Personalmente ricordo che a 22 anni vivevo da solo a Milano e quando entravo nei negozi per le esigenze della vita quotidiana ricevevo talora degli sfottò o
dei complimenti per le mie prestazioni sportive. Dopo gli allenamenti si andava con gli amici a passeggiare in piazza Duomo o nei cabaret. Anche i giornalisti allora erano più rispettosi nei nostri confronti e ci facevano domande più pertinenti, anche rispetto al nostro livello di cultura. Oggi pretendono una disponibilità incondizionata, specialmente in televisione. Rimpiango un po’ il maggiore ordine che regnava ai tempi della nostra giovinezza. Allora era tutto più semplice. Per quanto riguarda il futuro di San Siro, sentimentalmente preferirei che rimanesse in piedi – ai tempi, per noi, era La Scala dello sport – ma, realisticamente, mi rendo conto che attualmente la gestione del calcio richiede una diversaorganizzazione. Il merchandising, i diritti televisivi, la gestione degli spazi commerciali suggerirebbero l’opportunità che ogni squadra avesse il suo stadio, con una capienza inferiore ma con maggiori comodità e soprattutto sicurezza per gli spettatori. Nella mia vita ho avuto la soddisfazione di essere stato spesso protagonista di un derby, e ora a 62 anni, vorrei solo, da innamorato del calcio, che questo mondo fosse frequentato da persone più credibili, disposte a mettere ordine in quella che è stata la passione della nostra vita.
La Triennale di Milano STEFANO BOERI - LORENZA BARONCELLI Architetto - Direttore artistico Triennale di Milano
La Triennale è un’istituzione nata nel 1923 a Monza, poi ha trovato collocazione all'interno del Parco Sempione di Milano; la sede attuale è stata inaugurata nel 1933. La Triennale fu istituita originariamente per ospitare esposizioni culturali e di design. Nei primi 40 anni della sua vita essa ha prodotto eventi ogni tre anni in occasione delle esposizioni internazionali, ma era, ed è rimasta, soprattutto un centro di ricerca. La Triennale è un’istituzione che fa parte del
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(Bureau International des Expositions), l’ente che organizza le esposizioni, a partire dall’Expo di Parigi (1889) quando fu costruita la Torre Eiffel, fino all’Expo di Milano del 2015. Al tempo stesso ospita espressioni di diversi linguaggi della produzione culturale; dal 1990 accoglie non solo mostre ma anche eventi teatrali avendo al suo interno un teatro. Le sono familiari quindi il linguaggio del design, dell’architettura, dell’arte, del teatro e della musica. Con il tempo ha raccolto la più importante collezione di oggetti di design in Italia, ma comprende al suo interno anche spazi espositivi, una sala da ballo, il teatro, un ristorante, un museo di grande importanza e un’area dedicata ai dibattiti, per Milano e non solo. La posizione all’interno del Parco Sempione ha facilitato lo sviluppo di relazioni molto strette con la città, a partire dai padiglioni che si trovano nel parco: la Torre Branca, costruita da Gio
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Ponti, il Bar Bianco e l’Acquario civico, edificati nel 1933, lo stesso anno dell’inaugurazione del palazzo della Triennale. Le esposizioni triennali sono quindi, come gli Expo, luoghi in cui si discutono i temi di attualità e dove vengono sperimentati i diversi linguaggi nel campo delle nuove tecnologie. Il nostro ingresso alla Triennale è stato caratterizzato dalla scelta di costruire relazioni forti con le altre istituzioni culturali della città, nella convinzione che si debba collaborare, facendo proprio delle sinergie uno dei nostri punti di forza. Alcune sono già attive: ospitiamo infatti la stagione di musica contemporanea de La Scala, stiamo ora lavorando con la Pinacoteca di Brera, con il Museo nazionale della scienza e della tecnologia. Il progetto “Parco delle culture” nasce per coordinare le attività culturali da realizzare nel Parco Sempione insieme a tutte le istituzioni che si affacciano sul parco (il Castello, il Piccolo Teatro, lo Strehler, l’Acquario civico). Collaboriamo anche con la Fondazione Feltrinelli e la Fondazione Prada. Allargando l’orizzonte abbiamo intrecciato rapporti con gli enti culturali che operano nel mondo con l’obiettivo di far conoscere la Triennale come istituzione internazionale. La xxii Triennale internazionale è infatti stata organizzata in collaborazione con il moma; con Hans Ulrich Obrist della Serpentine Gallery abbiamo allestito una mostra prevista per il gennaio 2020, ma abbiamo collaborato anche con
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la Tate Modern. L’ambizione è quella di fornire un servizio alla città, di aiutare i milanesi a interloquire culturalmente con il resto del mondo. Le esposizioni internazionali vertono su due elementi principali, come accade per esempio per la Biennale di Venezia: una mostra tematica, scelta dal curatore nominato, e le partecipazioni internazionali. Nel 2019 l’esposizione è stata curata da Paola Antonelli, senior curator del moma, la quale ha scelto come titolo Broken Nature, riflettendo su come il design possa contribuire a risanare il rapporto fra uomo e natura. Nella situazione di sofferenza che sta vivendo la Terra a causa dei cambiamenti climatici ci siamo chiesti, con formule un po’ provocatorie ma sicuramente stimolanti, come ognuno di noi possa contribuire, attraverso l’impegno personale, alla cura del nostro pianeta. Accanto alla mostra, come presenze internazionali, hanno partecipato Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, e Marco Balich. Il concetto centrale delle riflessioni di Mancuso è la Plant Blindness, cioè come l’essere umano abbia perso la capacità di comprendere l’importanza del mondo vegetale nel bioma sulla terra, non percependo perciò lo stato di pericolo in cui versano molte specie vegetali. La cecità umana nei confronti delle piante dipende dal fatto che esse hanno seguito un’evoluzione diversa rispetto alla nostra. Esse ci appaiono incomprensibili, pur avendo in realtà sviluppato una serie di capacità molto interessanti anche per noi, in termini di adattamento rispetto alle altre forme di vita vegetale e alle altre specie viventi; in tal modo sembra che abbiano sviluppato una propria e originale socialità. Tra i Paesi europei partecipanti c’è l’Austria presente con un progetto di depurazione delle acque reflue per un loro riutilizzo pubblico.
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L’Olanda ha contribuito con un’installazione molto divertente; si tratta di una performance in cui un corpo viene messo sottovuoto modificandone curiosamente le forme; questa esperienza stimolerebbe la produzione di ormoni che creano empatia. Nel padiglione Australia, un gruppo di ricerca collettivo ha scoperto che l’agenzia incaricata della tutela di una barriera corallina è legata ad una serie di multinazionali checontribuiscono alla sua stessa distruzione. Per le partecipazioni internazionali è il ministro degli Esteri italiano che invita i suoi colleghi ministri degli altri Paesi europei. La nostra collezione del Museo del Design non è sicuramente completa, perché fino a poco tempo fa in Triennale non era mai stata avviata una riflessione su cosa sia e come si componga una collezione. Quando si è insediato il nuovo staff i suoi componenti hanno sentito il bisogno di completare il Museo del Design italiano e di renderlo permanente, in modo da assicurare il potenziamento di una nuova collezione. La raccolta è stata realizzata nel corso delle occasioni storiche che la Triennale ha avuto. Tra i suoi successi ricordiamo la x Triennale del ’54 con le opere dei fratelli Castiglioni, la mostra del ’95 sul disegno industriale e quella del ’96 sul design italiano dagli anni 1964 al 1990. Quando si è insediato il nuovo staff è stato avviato un lavoro di selezione del materiale, non potendo esporre tutti i 1600 pezzi della collezione. Si è deciso innanzitutto di restringere il criterio di esposizione degli oggetti in mostra, limitandolo al periodo di produzione tra il 1946 e il 1981. È il tempo del
boom economico, quando l’Italia si affermava come Paese all’avanguardia nel campo del design. Abbiamo particolarmente valorizzato il 1981, anno dell’inaugurazione di Memphis, una mostra che raccoglieva un collettivo di designer tra cui spiccava Ettore Sottsass. È il periodo in cui gli stili si rinnovano, e la produzione globale registra il successo del design italiano, realizzato da aziende italiane con designer italiani. Pensando al futuro della collezione della Triennale, la sfida più grande oggi è capire che cosa sia il design italiano. Grazie anche al contributo del ministro della Cultura abbiamo deciso di avviare un concorso per l’ampliamento dell’edificio, perché lo spazio a disposizione non è più sufficiente. Verrà fatto un allargamento ipogeo che si estenderà sotto il giardino della Triennale con cui si dovrebbero recuperare 6000 mq di superficie. Il moma dedica solo il 20% dei suoi spazi all’esposizione, la Triennale invece, destina a questo scopo il 70% della sua estensione, e solo il 30% a usi istituzionali. Nel progetto di espansione vorremmo superare la divisione tradizionale fra spazio di esposizione e spazio di deposito, facendo in modo che anche quest’ultimo possa essere fruibile dal pubblico. Un altro frutto della collaborazione tra la Triennale e la città di Milano è la decisione presa con il sindaco Giuseppe Sala e con l’assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran di spostare l’Urban Center dalla Galleria Vittorio Emanuele alla Triennale. La collocazione dell’Urban Center nella Galleria Vittorio Emanuele conferiva a quello spazio una rilevanza prevalentemente turistica. Dopo una seria riflessione, la Triennale ha riletto la storia dei proprio con-
tributo ai cambiamenti che hanno coinvolto la città di Milano. Così nel ’33 essa si interrogava su come aprire lo stile architettonico locale alle influenze internazionali, un esempio è stato Piero Portaluppi con la “Casa per il sabato degli sposi” o la “Casa di vacanze per un artista” di Giuseppe Terragni (padiglioni costruiti nel Parco Sempione). Così è successo anche nel ’47, subito dopo la guerra, con l’viii Triennale, quando fu costruito il QT8 dopo un lungo dibattito su come il calcestruzzo armato potesse favorire un maggior benessere abitativo della gente, garantendo democraticamente a tutti una casa e una buona qualità di vita. Siamo all’inizio del boom economico. A questo punto, assieme al sindaco ci siamo domandati come l’Urban Center potesse trasformarsi in un vero e proprio spazio di dibattito pubblico su Milano. Abbiamo promosso un concorso di progettazione che è stato vinto da Matteo Ghidoni. La domanda da cui siamo partiti e che cosa sia un Urban Center. Una prima suggestione è arrivata dal plastico di Shanghai che racconta la città – spesso la grande difficoltà di chi governa una città è far vedere cosa succede fra le sue mura, e l’immagine classica più utilizzata è quella del grande plastico –. Studiando poi ci siamo accorti che l’Urban Center di Londra è un vero centro di ricerca, in cui studiosi e ricercatori universitari si riuniscono per riflettere su quello che deve essere il futuro della città. Un altro esempio molto interessante che abbiamo studiato è quello di Città del Messico: si tratta di un luogo di partecipazione, di condivisione, di cittadinanza. I suoi spazi non sono visitabili in sé, ma il suo staff si muove per la città, organizzando workshop spontanei che hanno l’obiettivo di trasformare le sollecitazioni del territorio in progetti indirizzati agli amministratori,
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Appendice ALESSANDRO MENDINI Architetto, designer, artista
cercando, allo stesso tempo e in direzione contraria, di spiegare le scelte progettuali dell’amministrazione pubblica ai cittadini. L’obiettivo della Triennale è quindi quello di raccontare la Milano del 2030. La nostra proposta di Urban Center lo vede come uno spazio aperto dove le persone possono ritrovarsi per raccontare le storie, i bisogni della città e interrogarsi sulle sue trasformazioni; un luogo dove si possa fare ricerca in collaborazione col Politecnico di Milano.
Al riguardo sarà avviata sul sito della Triennale una raccolta di idee progettuali proposte dai cittadini sulla base della quale avviare un programma di dibattito e di ricerca multidisciplinare. Inoltre, stiamo promuovendo concorsi e partnership, ad esempio con i comuni di Parabiago e di Monza, per iniziative volte a ripensare spazi o promuovere nuove letture del territorio. In tutto ciò la Triennale risponde alla sua vocazione di strumento di ricerca al servizio della città.
Sono nato a Milano, ci vivo da 84 anni, e non ho mai pensato di cambiare città. Milano è una città un po’ brutta, un po’ piccola, un po’ antipatica, un po’ violenta. Però contiene quell’humus misterioso che ha permesso di crescere a tutto il mio immaginario, e che proprio non troverei altrove. È un misto di fredda poesia delle strade, di tradizioni culturali, di subconscio, di pittori del ’900, di storia dell’architettura un po’ gelata, di grandi e storici designer, di gloriose riviste di architettura. Io sono lì dentro e vivo lì dentro, talvolta bene e anche a disagio. Frequento poco le persone, sto a casa la sera, la società borghese ufficiale è brutta e mi rende timido. Frequento invece una Milano immaginaria, che nasce dentro di me nei sogni notturni. In quel modo cammino per strade che non esistono, entro in chiese fantasma, vado a comperare il pane in negozi sconosciuti, surreali, trovo oggetti, incontro persone simpatiche, e tutto avviene stando seduto sul mio comodo divano kitsch, e leggendo romanzi di autori lontani. Io sono cioè come quegli animali che sono capaci di stare solo all’interno di un certo microclima, per esempio nel buio ovattato di una caverna, e se escono alla luce non sopravvivono. Del resto il “designer milanese” è un animale in via d’estinzione. E poi un dato curioso: io come architetto non ho quasi mai costruito nulla a Milano. Non mi è mai capitato di alzarmi la mattina e andare in un mio cantiere a piedi o in tram… I miei lavori sono sempre lontani, anzi lontanissimi…
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Disegno Magazine, Londra, dicembre 2015
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Milano nel tempo
Ringraziamenti
ALESSANDRO MENDINI
Da architetto, quali luoghi di Milano a tuo avviso rivestono un particolare fascino e perché? Milano non è una gran bella città, è dura, un po’ triste, anonima, malsana. Il suo fascino semmai è sottile e nascosto, va cercato di secolo in secolo e di luogo in luogo, attentamente. Certo, per me come per altre persone che amano l’ingenuità, è ancora il Duomo la meraviglia di Milano. Milano nel tempo: c’è un periodo, che ovviamente hai vissuto, (anni ’60, ’70, ’80 ecc.) al quale sei particolarmente legato? Perché? Mi seduce la Milano dei miei ricordi lontani, non la Milano di oggi: è quella dell’infanzia che mi provoca fascino e nostalgia. Anni ’30 e anni ’40, marciapiedi assolati, poche bellissime automobili, dignità dell’architettura moderna, le barchette a vela nella fontana dei giardini pubblici, il povero leone ruggente nello zoo accanto.
Un ringraziamento particolare a /A special thanks to: Si ringraziano l’Assessore alla Cultura di Milano Filippo Del Corno, il Comune di Milano, la Camera di Commercio di Milano, Antonio Addamiano, Ludovica Baldrighi, Evaristo Beccalossi, Fabrizio Bernini, Stefano Boeri, Enrico Beruschi, Isabella Bossi Fedrigotti, Fabio Bressan, Roberto Brivio, Gianluigi Colin, Nicoletta Colombo, Angelo Crespi, Maurizio Cucchi, Mimmo Di Marzio, Sebastiano Grasso, Flaminio Gualdoni, Giuseppe Iannaccone, Ugo La Pietra, Giovanni Lodetti, Silvia Maccari, Mauro Magatti, Gianni Maimeri, Giacomo Manzoni, Monica Mariani, Luigi Mascheroni, Alessandro Mendini, Silvano Petrosino, Manfredo Pinzauti, Valeria Poggi, Elena Pontiggia, Alessandra Redaelli, Italo Rota, Marco Sala, Giangiacomo Schiavi, Floriana Spalla, Claudio Tarantola, Stefano Zuffi. Un sincero ringraziamento a Editoriale Jaca Book, al personale, in modo particolare agli editori Vera Minazzi e Sante Bagnoli.
Se potessi cambiare una cosa di Milano cosa cambieresti? Vorrei cambiare l’anima troppo arida di tutta Milano, che progressivamente si è trasformata in violenza e intolleranza. Consiglieresti di visitare Milano a uno straniero perché... È ovvio, consiglierei a qualsiasi straniero di visitare Milano: per il Duomo, per Leonardo e Sant’Ambrogio, per la qualità altissima della moda e del design. Se Milano fosse un colore... Se socchiudo occhi, vedo una Milano grigia tanto nel suo aspetto fisico, quanto nella mentalità dei suoi attuali abitanti. Milano oggi dal punto di vista dell’offerta culturale. Per produrre tensione energetica e vero interesse, l’offerta culturale deve essere vasta, libera e creativa. Queste condizioni si producono a Milano per via privata e capillare, solo nella moda e nel design. Le istituzioni ufficiali, come ad esempio la Scala, si limitano ad alti ruoli istituzionali ma evitano di affrontare i territori inesplorati della ricerca. Sette – Corriere della Sera – Giugno 2003
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