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Alessandro Sallusti Cara Milano

indigeni e milanesi immigrati parlavano insieme, giocavano insieme, facevano amicizie, si sposavano. A Torino, come poi ho potuto constatare, non era successo niente del genere. I “napuli” (che poi erano quasi tutti calabresi) da una parte e i torinesi dall’altra, senza luoghi in comune, senza una lingua in comune. La Milano degli anni Sessanta e Settanta di cui ho nostalgia, al di là di un cinema o di un ristorante che non c’è più, è quella dell’integrazione e della mescolanza fra gente di diversa provenienza.

Cara Milano, da questo punto di vista mi piacerebbe proprio rivederti come ti ho vissuto cinquant’anni fa. Ce la farai a darmi questa soddisfazione? 323 passi separano il luogo dove sono nato e dalla casa in cui vivo. Abito in corso Buenos Aires dal 1952, qui stanno le mie radici, e di questa strada voglio parlare perché parlando di lei – sì, al femminile, perché la sento così mutevole ma determinata come una donna – si parla di Milano.

«Milano, un America senza crudeltà» scriveva Guido Piovene in Viaggio in Italia (1957) e chi più di corso Buenos Aires ha un’aria così “yankee”?

Già Ernest Hemingway nella primavera del 1918, per ritrovare un po’ di calore di casa, scappava dall’ospedale militare per passeggiare in corso Buenos Aires. E qui, dove oggi si trova il teatro Elfo Puccini, si esibì alla fine dell’800 Buffalo Bill con il suo circo di pellerossa.

In questa rambla lunga un poco più di un miglio si può trovare di tutto: negozi, teatri, empori, night club, hotel, ristoranti e centri benessere. In sintesi un grande centro commerciale a cielo aperto dove qua e là non mancano piccole gemme di architettura (su tutte il grattacielino di Piero Bottoni).

Il mio stradone, con i marciapiedi arriva a 28 metri di larghezza, da sempre cerniera tra centro e periferia, e la frontiera tra questi due mondi è Porta Venezia.

E quello che attrae e stordisce, camminando a ogni ora, è la valanga umana che si muove da un capo all’altro della strada, una massa di persone di ogni età, sesso e provenienza. Se immaginassimo di imbandierare il Corso con le bandiere delle etnie che ogni giorno lo attraversano, avremmo una immagine di quanto Milano è città-mondo (da ricordare che in città risiede il più alto numero di consolati del pianeta).

Il fiume favoloso

CARLO MONTALBETTI

Direttore Comieco

Corso Buenos Aires non è minimalista, è pieno di oggetti, insegne, striscioni, orologi pubblici (qui sono proporzionalmente il maggior numero cittadino), e colori (venite a vedere la casa “sudamericana” al n° 25) che cozzano tra loro ma come per miracolo poi trovano, come Milano sa fare, il modo di convivere.

Corso Buenos Aires è trasformista: nei momenti di maggior traffico e confusione il Corso si presenta come un grande Big Mac pronto per essere divorato in fretta, mentre la sera, tutto illuminata, la strada si trasforma in un luna park.

E la vita di quartiere?

C’è, ma si addensa nelle vie laterali, più borghese in via Morgagni, più pop in Benedetto Marcello da cui è possibile in pochi passi raggiungere la stazione Centrale.

Una vita di quartiere ricca di umanità (fate un salto al campo bocce di via Morgagni) e di chiese (sono 3 le parrocchie e quella di S. Francesca Romana è la più popolata in Italia), ma che ha poco da spartire con corso Buenos Aires dove la vita scorre come sul fiume, impetuosa e cangiante.

Con l’ arrivo del coronavirus anche corso Buenos Aires, come tutta la città, ha cambiato drasticamente abitudini e prospettiva.

Nel silenzio delle giornate, dove si sentono per la prima volta distintamente il cinguettio degli uccelli e il gracchiare delle cornacchie, è emersa la sua seconda natura, quella che sta da sempre nel suo nome, “Arie Buone”, ed è quella che ci indica il futuro.

Sono settimane che il traffico di umanità e mezzi è scomparso, o si affaccia raramente, e ci siamo convinti che questo serpentone di asfalto sia l’inizio di un grande fiume che porta dritto, e in poche decine di minuti a piedi, al cuore della città. Da piazza Argentina si può vedere il molo d’attracco del nostro “fiume favoloso”: è la torre Velasca che svetta nitida e guerriera.

Ora, con l’aria più pulita e senza il polveroso rumore del traffico è possibile immaginare la trasformazione di corso Buenos Aires nel primo miglio verde della città dove camminare, pedalare e usare i mezzi pubblici, e le vetture elettriche saranno le modalità per muoversi, fare comunità continuando a commerciare e fare affari. Se si appoggia una patata sulla terra, dopo un po’ ci si accorge che la patata ha messo radici. Senza semina, senza cure, senza niente. È ciò che a me accadde con Milano.

Arrivai 46 anni fa, chiamato dal Corriere della Sera. A quei tempi, mi muovevo fra Bologna (dove ricoprivo un incarico di insegnamento all’Università) e Roma, dove avevo appena chiuso un periodo di perfezionamento con una borsa di studio. Non avevo idea di quanto il soggiorno milanese mi sarebbe piaciuto e di quanto sarebbe durato.

Dopo qualche mese, con qualche sorpresa, mi resi conto della novità: avevo messo radici. Stavo bene. Il clima umano mi piaceva. E la prova del nove era inconfutabile: riuscivo a immaginare il mio futuro solo in questa città. Per un po’ resistette l’idea di avere una base anche a Londra. Ma poi cadde anche quella.

Mi sono chiesto a lungo il perché del naturale amore per Milano. E alla fine sono giunto alla conclusione che il motivo è molto semplice. Milano non è affatto la piccola New York affannosa e violenta che veniva raccontata dai luoghi comuni dei tempi (cinema, giornalismo e via dicendo), e non era neppure la metropoli “alienata” di un film che pure ho amato, come La Notte di Michelangelo Antonioni.

Milano è una città borghese di respiro abbastanza ampio e tollerante, assai meno aggressiva di molte “piccole capitali” italiane. C’è posto per tutti. C’è rispetto per le diversità. Se si vuol vedere gente, come diceva Nanni Moretti, la si vede; se non si desidera farlo, il rispetto, e in certi casi l’affetto, non cambiano. Spesso, i meriti vengono riconosciuti, e normalmente ciò accade senza avarizia. Una specie di educazione secolare della città vuole che le eccellenze diano convincente prova di understatement. Non per nulla il verbo normalmente usato è splendido ed eloquente: “non tirarsela”.

Al contrario, se in questi anni mi sono un po’ arrabbiato con Milano, è per una sua specie di autolesionismo. A mio avviso, la nostra città meritava più gloria di quanta non ne abbia ricevuta nella letteratura, nella musica (Scala esclusa, anzi talora inclusa), nel teatro, nell’architettura e nelle arti visive.

Ma forse sbaglio. Forse, la via del successo per Milano è proprio affidata all’understatement, e al “merito paziente” che viene riconosciuto sul lungo termine. Milano è una metropoli, ma è la più piccola delle metropoli del mondo. Niente a che fare con i milioni di abitanti non dico di Londra o New York, ma nemmeno di San Paolo, di Città del Messico o di Mumbai. È per questo che non vorrei mai vivere altrove.

Per vedere se le sue timidezze verranno adeguatamente riconosciute come meriti. Meriti grandi, ma tutto sommato affabili e – ripeto – generosi.

Milano

FLAVIO CAROLI

Accademico, storico dell’arte, critico d’arte

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