LETTER TO MILAN

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Il fiume favoloso CARLO MONTALBETTI Direttore Comieco

indigeni e milanesi immigrati parlavano insieme, giocavano insieme, facevano amicizie, si sposavano. A Torino, come poi ho potuto constatare, non era successo niente del genere. I “napuli” (che poi erano quasi tutti calabresi) da una parte e i torinesi dall’altra, senza luoghi in comune, senza una lingua in comune. La Milano degli anni Sessanta e Settanta di cui ho nostalgia, al di là di un cinema o di un ristorante che non c’è più, è quella dell’integrazione e della mescolanza fra gente di diversa provenienza. Cara Milano, da questo punto di vista mi piacerebbe proprio rivederti come ti ho vissuto cinquant’anni fa. Ce la farai a darmi questa soddisfazione?

323 passi separano il luogo dove sono nato e dalla casa in cui vivo. Abito in corso Buenos Aires dal 1952, qui stanno le mie radici, e di questa strada voglio parlare perché parlando di lei – sì, al femminile, perché la sento così mutevole ma determinata come una donna – si parla di Milano. «Milano, un America senza crudeltà» scriveva Guido Piovene in Viaggio in Italia (1957) e chi più di corso Buenos Aires ha un’aria così “yankee”? Già Ernest Hemingway nella primavera del 1918, per ritrovare un po’ di calore di casa, scappava dall’ospedale militare per passeggiare in corso Buenos Aires. E qui, dove oggi si trova il teatro Elfo Puccini, si esibì alla fine dell’800 Buffalo Bill con il suo circo di pellerossa. In questa rambla lunga un poco più di un miglio si può trovare di tutto: negozi, teatri, empori, night club, hotel, ristoranti e centri benessere. In sintesi un grande centro commerciale a cielo aperto dove qua e là non mancano piccole gemme di architettura (su tutte il grattacielino di Piero Bottoni). Il mio stradone, con i marciapiedi arriva a 28 metri di larghezza, da sempre cerniera tra centro e periferia, e la frontiera tra questi due mondi è Porta Venezia. E quello che attrae e stordisce, camminando a ogni ora, è la valanga umana che si muove da un capo all’altro della strada, una massa di persone di ogni età, sesso e provenienza. Se immaginassimo di imbandierare il Corso con le bandiere delle etnie che ogni giorno lo attraversano, avremmo una immagine di quanto Milano è città-mondo (da ricordare che in città risiede il più alto numero di consolati del pianeta). Corso Buenos Aires non è minimalista, è pieno di oggetti, insegne, striscioni, orologi pubblici (qui sono proporzionalmente il maggior numero cittadino), e colori (venite a vedere la casa “sudamericana” al n° 25) che cozzano tra loro ma come per miracolo poi trovano, come Milano sa fare, il modo di convivere. Corso Buenos Aires è trasformista: nei momenti di maggior traffico e confusione il Corso si presenta come un grande Big Mac pronto per essere divorato in fretta, mentre la sera, tutto illuminata, la strada si trasforma in un luna park. E la vita di quartiere? C’è, ma si addensa nelle vie laterali, più borghese in via Morgagni, più pop in Benedetto Marcello da cui è possibile in pochi passi raggiungere la stazione Centrale.

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