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Ambrogio Borsani Ventisei indirizzi a Milano
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
Di Milano mi interessa più la rappresentazione che la realtà
ALESSANDRO MENDINI*
Architetto, designer, artista
Cerco le sensazioni evanescenti e oniriche derivanti non dalla materia fisica della città, ma invece dal suo aspetto astratto, mentale, nebuloso, oppure pieno di sole, un suo esistere indiretto e solo pensato. Mario Sironi, Carlo Carrà, Achille Funi. E poi Lucio Fontana, Saul Steinberg, Dino Buzzati. Quando ero all’università vedevo talvolta sui marciapiedi Carrà e Funi, mi sembravano come due monumenti che camminavano chiacchierando in via Brera. Oppure andavo allo studio di Fontana in corso Monforte, e stavo a guardarlo mentre bucava le tele, usando punteruoli invece che pennelli. Una volta mi regalò una tela. Oppure scrutavo Alberto Savinio dopo la sua opera Alcesti di Samuele alla Scala, e mi faceva paura come fosse quel gufo grigio nel quale si è raffigurato nel noto autoritratto. Oppure mia zia Marieda collezionista mi mandava in piazza Amendola dove abitava da solo Sironi malato, a portargli le medicine. Le lasciavo alla base del grattacielo, il portiere le metteva nell’ascensore e citofonava. Allora Sironi le ritirava al dodicesimo piano. Fu così che non vidi mai Sironi di persona.
Non ho mai pensato di cambiare città. Milano è una città un po’ brutta, un po’ piccola, un po’ antipatica, un po’ avara, un po’ violenta. Però contiene quell’humus misterioso che ha permesso di crescere a tutto il mio immaginario, e che proprio non troverei altrove. È un misto di fredda e schematica poesia, di tradizioni contrastanti, di subconscio, di architettura un po’ gelata, di gloriose storie di designer e riviste di architettura. Io vivo lì dentro, un po’ bene, un po’ male, sto a casa la sera, la società borghese ufficiale mi sembra meschina, l’Expo è stata reazionaria, nessuna contestazione alla Triennale, Enzo Mari viene dimenticato. Allora invece frequento una Milano immaginaria e analoga, che nasce dentro di me in ripetuti sogni notturni, sempre molto uguali. In quel mondo che non c’è e che proprio non appartiene alla mia reale toponomastica, cammino per strade che non esistono, sono sempre le stesse e sembrano essere fra la Stazione Centrale e piazzale Loreto. Allora entro in chiese fantasma, vado a comperare il pane in negozi sconosciuti e surreali, trovo nelle vetrine oggetti metafisici, incontro persone simpatiche che ormai conosco bene, e tutto avviene stando seduto sul mio comodo divano kitsch, dopo essermi addormentato su romanzi di autori lontani nel tempo e nel luogo.
Un aneddoto particolare – ma questo è vero –, un ricordo che ha coinciso con cinque anni della mia vita. Quando molto tempo fa fui direttore della rivista Domus, mi recavo tutti i giorni alla redazione della rivista, presso la storica sede dell’editoriale. La sede era romantica ed era fuori Milano, verso la pianura umida a sud, vicino ai prati lucidi delle risaie. Uscendo tutti i giorni da Milano, trenta minuti di automobile, mi astraevo dalla città, e vivevo per tutto quel tempo in uno spazio concettuale come inesistente, e in uno spazio fisico agricolo, una bolla di decompressione. Si andava a mangiare lì attorno in trattorie di campagna, talvolta cucinavano sadicamente le rane fritte. Fu in questo luogo isolato, ma carico e ricco delle storie di Casabella e di Domus che conobbi tutti i più celebri architetti, e centinaia di giovani designer, che venivano come in un pellegrinaggio a visitare la redazione, testimone autorevole di un certo genere di Milano. E nell’andata e ritorno in automobile, un’ora di Tetralogia di Wagner, registrata alla Scala da Wilhelm Furtwängler, oppure qualche cosa d’altro.
E poi i personaggi che abitano il Cimitero Monumentale, il luogo più romantico che io abbia visitato. Ci andavo da bambino con il sole o con la pioggia, con il caldo o con la neve, tenuto per mano, a portare i fiori sulla piccola ma bellissima tomba dei miei nonni, disegnata da un signore che mi dicevano essere famoso, l’architetto Piero Portaluppi, che aveva disegnato pure la nostra casa. Percorrevo il lungo viale con soggezione e con la paura di incontrare degli scheletri, e uno dopo l’altro apparivano assurdi e affascinanti monumenti di buoi e agnelli in bronzo, degli spettri, dei fantasmi, un mix di micro-architetture, di languide enormi figure dolenti in marmo, di angeli, di simboli, di lacrime di pietra dorata, di croci, una situazione extraumana. La somma, il catalogo pietrificato, il trionfo della morte dei grandi borghesi e degli industriali di Milano, quelli veri che ora non ci sono più, allineati in un patchwork di piccoli giardinetti e micro-palazzi. Una trionfale rappresentazione fuori dalla logica e dal contesto, la quadrettatura per un gioco a scacchi fuori scala. Una enorme città in miniatura, un luogo ricchissimo di amore. Perché una volta i borghesi di Milano per essere veri e tali, dovevano comprare in parallelo il palco al Teatro alla Scala e la tomba al Monumentale, con frasi retoriche e firme di illustri architetti. E talvolta ora ho dei sogni più recenti. Mi figuro per esempio di essere un nuovo King Kong abbracciato alla guglia del luccicante grattacielo di César Pelli, per guardare il Monte Rosa oltre la Brianza.
Marzo 2016,
* Il lettore troverà in Appendice altri due testi sul rapporto tra Alessandro Mendini e Milano: un contributo per Disegno Magazine, Londra, dicembre 2015 e l’intervista rilasciata a Sette nel giugno del 2003.
Veduta Milano, 2011, olio su tela, 210×121 cm. Alle pagine seguenti: Velasca – Piazza Missori, Milano, 2016, olio su tela, 156×114 cm.
Veduta Milano – Piazza San Babila, 2018, olio su tela, 165×138 cm.
MAURIZIO CUCCHI
Poeta, critico letterario, traduttore, pubblicista
È sempre più la tua lingua, la tua parola, che mi entra dentro. È il tuo territorio, sei tu, cara città, nelle tue varie forme, che parli in me, come se io fossi un tuo anonimo interprete e minimo portavoce fedele. Ma vengo ora a spiegarmi meglio, in modo meno approssimativo o confuso.
Non ho mai parlato la tua bellissima e poetica lingua. I miei parlavano tra loro in milanese e con me rigorosamente in italiano. Così si usava allora, seguendo un nobile progetto che Manzoni aveva reso concreto nella meraviglia della sua opera. Certo, ho letto con passione, tante volte e in tempi diversi, il grande Maggi, e poi Balestrieri, Parini e soprattutto Porta e Tessa. Ma, oltre le esperienze letterarie, il mio milanese era ben poca cosa, del tutto irrilevante, insomma. Il mio lessico potenziale minimo, eppure... eppure...
Adesso che appartengo alla categoria degli anziani, un tempo onorata e oggi pressoché vilipesa, sempre più sento in me l’affiorare dell’antica e mirabile lingua delle generazioni che mi hanno preceduto. Sempre di più – restando in effetti men che misero il mio lessico – mi capita di uscire (persino autocompiaciuto) in piccole battute nel tuo civilissimo dialetto gallo-italico, o mia città. So che al massimo potrei rivolgere in questo idioma un piccolo discorso alla mia gatta Zoe, eppure ne provo un senso di appartenenza soddisfatta. Non posso, a questo punto, introdurre una considerazione quasi ovvia.
Proprio Delio Tessa poneva in un’epigrafe queste parole: «Riconosco e onoro un solo maestro, il popolo che parla». È che, allora (il poeta morì nel 1939), la lingua veniva creata dal basso, mentre oggi, ormai, il popolo non è più creatore di linguaggio, ma semplice fruitore passivo, volgare imitatore di un parlato orribile generato dai media. E la parola milanese ha perduto ogni vitale alimento, ed è dunque, ormai, pressoché azzerata.
Ma tornando alle mie piccole vicende, ricordo che tempo fa mi ero detto di considerarmi o sperarmi come qualcosa, come un normale oggetto, di appartenente alla città, cara Milano. Come una tua panchina, magari una di quelle che spesso vedo nel vialetto che costeggia Sant’Ambrogio, che oggi è anche la mia parrocchia, E più il tempo passa e più questa bella ambizione elevata viene in me a confermarsi.
Carissima Milano, sono arrivato a te per amore...
QUIRINO PRINCIPE
Critico musicale, musicologo, traduttore e saggista
«…smarrirà la strada com’uom che sogna.» Arrigo Boito
Cara Milano,
posso cominciare così? È troppo confidenziale? Penso che non lo sia. Da quel martedì 2 ottobre 1962, giorno in cui mi hai accolto, ho coltivato il desiderio di rivolgermi a te, prima o poi, come a una persona. Ma è probabile che ogni città, ogni borgo, ogni villaggio, reagisca per simpatia o antipatia, con empatia o con estraneità. Per favore, niente equivoci. Non sto usando un vecchio arnese della retorica: la collaudata apostrofe che dà del “tu” a entità astratte, del tipo: «O Tu (più familiarmente: «Ehi, tu…»), giustizia, dove sei?». Simili attrezzi dell’eloquio (per me, più che un eloquio, questo nostro vorrebbe essere il tentativo di un colloquio in cui alla fine, vedrai, faccio la voce grossa) li uso soltanto quando scherzo. Qui mi concedo il lusso di parlarti seriamente, e il discorso non ti darà piacere. Non è il caso di applicare i modelli del De Oratore o del Brutus anche perché temo che, purtroppo, tu non conosca più il latino. (Eppure, soltanto quarant’anni fa… te la ricordi, la libreria antiquaria di corso Magenta? ... Quella del Lattuada, l’ometto sosia di Carlo Delle Piane, quello che rispondeva a monosillabi o con rutti e mugolìi e con uno scatto del mento mi indicava quel mucchio informe per terra nel semibuio dove si accatastavano sublimi cinquecentine col marchio autentico di Aldo Manuzio, magari col vetusto ex libris e la firma autografa di Angelo De Gubernatis o di Giuseppe Carpani, accanto a costosissime edizioni nuove di zecca, Oxford University o la Teubner di Lipsia, o Les Belles Lettres, o le anastatiche di Forni…). Ma suvvia, basta con il flashback. Non divaghiamo.
No, se mi permetto di “tueggiarti”, muovo da una mia convinzione che nulla ha a che fare con l’uso della retorica, antica arte del Trivio, e perciò salda, indispensabile e benemerita ancor più che l’Arma per antonomasia. L’idea che un centro abitato sia un essere cosciente e pensante non è, per me, un als ob…, un “come se…”: non è similitudine né analogia né metafora. Semmai, è il riprodursi reale, sorprendentemente alius et idem come il Sole nel Carmen saeculare di Orazio, di un archetipo, o di una symbolische Form, che, una volta scavalcati dalla percezione i dislivelli dimensionali, ci fa riconoscere, lasciandoci stupefatti, quasi lo stesso sistema, lo stesso meccanismo in funzione che agisce nell’Universo la cui forma eloquente è la spirale. È il microcosmo che implacabilmente ripete il macrocosmo. I fisici ci dicono che un batterio (la ministra Fedeli diceva “battère”, ma… sorvoliamo!) può avere la lunghezza di metri 10-9 ossia un miliardesimo di metro ossia un milionesimo di millimetro, e che, in un elementare rapporto proporzionale, la dimensione per esempio di un virus sta alla statura di un nanerottolo umano quale io sono, come simmetri-
camente il suddetto nanerottolo sta a una distanza cosmica di metri 109 ossia un miliardo di metri ossia un milione di chilometri, poco meno di tre volte (1.153.200 chilometri) la distanza dalla Terra alla Luna (che misura 384.402 chilometri). Sono persuaso che a ogni sobbalzo di moltiplicazione per 1000 (o di multiplo di 1000), a ogni salto a un superiore o inferiore ordine di grandezza, si riproduca una individualità cosciente, illusoriamente convinta di possedere il libero arbitrio. Così Borges in Ajedrez: Dios mueve al jugador, y éste, la pieza. Que Dios detrás de Dios la trama empieza de polvo y tiempo y sueño y agonias?
Mi convince la celebre ipotesi di Gea: il nostro pianeta come individuo pensante. A noi, suoi batteri, sta infliggendo un castigo? Si sta “disinfettando”, usando il Covid-19 per eliminarci così come io nanerottolo uso il cotone idrofilo e l’alcol per disinfettare un mio taglietto sul pollice? Salgo lungo la scala della grandezze: la stella Sole e il suo sistema planetario sono, insieme, una testa pensante che magari s’innamora? Una stella, per esempio Antares, che domani esplode come supernova è un cosmico innamorato che si suicida sparandosi alla tempia poiché la sua ragazza, Sirio, lo ha piantato per un altro, quel bellimbusto di Algol? Salgo ancora: la nostra Galassia è una testa pensante, attualmente infuriata poiché deve preparare i documenti per la dichiarazione dei redditi? E i circa 100 miliardi di stelle (il nostro Sole compreso…) che la compongono sono le molecole di cui è fatta la sua bile di contribuente in subbuglio? Ora scendo lungo gli ordini di grandezza: ogni batterio del mio corpo è una testa pensante? È molto probabile. I miei milioni di miliardi di batteri sono riusciti a dar vita a una maggioranza di governo? E i loro sindacati che ne pensano? Nei loro giornali televisivi, danno notizia che è stata fotografata da un loro telescopio, a distanza, la loro stessa galassia, la Nanus Horribilis 2048? E mostrano la foto di quella galassia, che ovviamente è la mia foto, quella della mia carta d’identità?
Detto questo, cara Milano, sarebbe strano se non mi rivolgessi a te con il “tu”. Colgo subito l’occasione per dirti che la sera di quel martedì 2 ottobre 1962, scendendo dal treno, sentìi una benevola eccitazione e un misterioso benessere. Non mi influenzò sgradevolmente il fatto che io arrivassi a te, dalla mia Gorizia, città deliziosa, dal clima ideale (die österreichsche Nizza, la chiamavano gli arciduchi austriaci che vi svernavano, e lo stesso Kaiser, l’onesto Franz Josef), dall’aria sempre limpida e profumata di tiglio e di rose, e che a 19 anni, subito dopo la laurea, mi fossi spostato a Belluno, altra città limpidissima, tutta laghi alpini e cime dolomitiche accanto a montagne cadorine. A Gorizia avevo la comodità della mia casa di famiglia, a Belluno un bellissimo lavoro di professore nel Liceo Classico. Per giunta, cara Milano, scendendo dal treno su un marciapiede della tua Stazione Centrale fui investito da una zaffata di odore di carbone untuoso misto a un sentore di uova marce, e mi sentii subito bisunto e affumicato dal pulviscolo nero che entrava dappertutto. Accoglievi così. Oggi, non più. La verità è che, diversamente da molti altri accorsi allora (anni del boom!) da ogni parte d’Italia, del miracolo economico non m’interessava un fico secco. Non per lavoro ero arrivato fino a te: a Gorizia avevo il mio guscio sicuro, a Belluno una professione che mi rendeva felice, e allievi del Liceo (qualcuno, respinto alla maturità, era più vecchio di me) con cui ho stretto amicizie sempre e ancora vive. No: a te, carissima Milano, arrivai spinto da un movente supremo: l’amore. Stavo inseguendo una che abitava in via San Michele del Carso n. 18, e non mi voleva: lo credo bene, bastava guardarmi! Eppure, alla fine… factum est.
Insomma, nella bellissima Gorizia profumata di tiglio e di rose avevo sofferto dolori a catena: la guerra, la fuga da “sfollato” in un villaggio di campagna, metà della mia famiglia sterminata nelle foibe dalle maledette bande di Tito (durante la guerra civile nella ex Jugoslavia anni Novanta sobbalzavo di gioia a ogni notizia di reciproche stragi tra serbi, croati, bosniaci, e simili: posso anche “rispettare” quei popoli, ma li odio, e l’odio è la più vigorosa e nobile fra le mie passioni), la morte di mia madre quando avevo 15 anni, altre malattie e sciagure di persone care. Da quando vivo nel tuo spazio-tempo, cara Milano, ossia negli ultimi 58 anni della mia vita, ho vissuto le esperienze più belle: il grande e unico amore, il matrimonio felice e illuminato in zone alte della mente e del cuore (durato 60 anni, fino a pochi mesi fa), i figli, la nuora e la nipote (tutti musicisti e impegnati nel teatro o nel cinema: si può avere di più?) che chiunque sognerebbe. E ancora: il mio lavoro d’insegnante nel Liceo, nel Conservatorio, nell’Università, nelle case editrici, al Sole 24 Ore, i miei libri, che per il poco che valgono sono parte di me, e li devo anche a te, al tuo “stile di città”. E ancora: le mie belle battaglie come consigliere di amministrazione (sempre gratuito) alla Scala, ai Pomeriggi Musicali, allo splendido Teatro Fraschini di Pavia, alla Casa di Riposo Giuseppe Verdi. Aggiungo: l’unica città italiana in cui la qualità di vita pubblica e funzionale sia almeno tollerabile e migliorabile, sovente buona, talvolta ottima, persino esaltante. Soltanto in te sarei potuto vivere, e in nessun altro luogo. Strano, ma è così. Ti ringrazio, Milano.
E ora, la pars destruens che ti avevo promesso. Non voglio ferirti, né tirarti le orecchie, ma soltanto esortarti. Ho molto sofferto, fremendo d’ira, quando sei stata bacchettata da chi non era neppure degno di “sciogliere il legaccio dei tuoi calzari”. Chi ti ha umiliata e offesa ti ha affibbiato un nomignolo oltraggioso: “Tangentopoli”. A certi imbecilli farabutti brillavano gli occhi mentre sbraitavano: «Ah, ah, ah, pure a Milano ci sta la mafia!». Ed era verissimo: infatti, la mafia erano loro, o almeno ne rappresentavano il “look”, le movenze, il suono, l’eco. Ti posso assicurare che nel dicembre 1993, trovandomi per una delle mie solite conferenze in una città italiana lontana da te più di mille chilometri, essendo presentato dopo la lectio a un signore azzimato e impomatato che mi disse tendendomi la mano: «Ah, lei è di Milano… beh, come si vive a Tangentopoli?», gli risposi con un manrovescio sulla guancia che lo scaraventò a terra. Il bicchiere di aperitivo che stava tenendo in mano volò via, cadde e s’infranse con un paradisiaco fragore e in un sovreccitante nugolo di frammenti di vetro, per non parlare degli schizzi di analcolico che raggiunsero alcuni fra