Di Milano mi interessa più la rappresentazione che la realtà ALESSANDRO MENDINI* Architetto, designer, artista
Cerco le sensazioni evanescenti e oniriche derivanti non dalla materia fisica della città, ma invece dal suo aspetto astratto, mentale, nebuloso, oppure pieno di sole, un suo esistere indiretto e solo pensato. Mario Sironi, Carlo Carrà, Achille Funi. E poi Lucio Fontana, Saul Steinberg, Dino Buzzati. Quando ero all’università vedevo talvolta sui marciapiedi Carrà e Funi, mi sembravano come due monumenti che camminavano chiacchierando in via Brera. Oppure andavo allo studio di Fontana in corso Monforte, e stavo a guardarlo mentre bucava le tele, usando punteruoli invece che pennelli. Una volta mi regalò una tela. Oppure scrutavo Alberto Savinio dopo la sua opera Alcesti di Samuele alla Scala, e mi faceva paura come fosse quel gufo grigio nel quale si è raffigurato nel noto autoritratto. Oppure mia zia Marieda collezionista mi mandava in piazza Amendola dove abitava da solo Sironi malato, a portargli le medicine. Le lasciavo alla base del grattacielo, il portiere le metteva nell’ascensore e citofonava. Allora Sironi le ritirava al dodicesimo piano. Fu così che non vidi mai Sironi di persona. Non ho mai pensato di cambiare città. Milano è una città un po’ brutta, un po’ piccola, un po’ antipatica, un po’ avara, un po’ violenta. Però contiene quell’humus misterioso che ha permesso di crescere a tutto il mio immaginario, e che proprio non troverei altrove. È un misto di fredda e schematica poesia, di tradizioni contrastanti, di subconscio, di architettura un po’ gelata, di gloriose storie di designer e riviste di architettura. Io vivo lì dentro, un po’ bene, un po’ male, sto a casa la sera, la società borghese ufficiale mi sembra meschina, l’Expo è stata reazionaria, nessuna contestazione alla Triennale, Enzo Mari viene dimenticato. Allora invece frequento una Milano immaginaria e analoga, che nasce dentro di me in ripetuti sogni notturni, sempre molto uguali. In quel mondo che non c’è e che proprio non appartiene alla mia reale toponomastica, cammino per strade che non esistono, sono sempre le stesse e sembrano essere fra la Stazione Centrale e piazzale Loreto. Allora entro in chiese fantasma, vado a comperare il pane in negozi sconosciuti e surreali, trovo nelle vetrine oggetti metafisici, incontro persone simpatiche che ormai conosco bene, e tutto avviene stando seduto sul mio comodo divano kitsch, dopo essermi addormentato su romanzi di autori lontani nel tempo e nel luogo. Un aneddoto particolare – ma questo è vero –, un ricordo che ha coinciso con cinque anni della mia vita. Quando molto tempo fa fui direttore della rivista Domus, mi recavo tutti i giorni alla redazione della rivista, presso la storica sede dell’editoriale. La sede era romantica ed era fuori Milano, verso la pianura umida a sud, vicino ai prati lucidi delle risaie. Uscendo tutti i giorni da Milano, trenta minuti di automobile, mi astraevo dalla città, e vivevo per tutto quel tempo in uno spazio concettuale come inesistente, e in uno spazio fisico agricolo, una bolla di decompressione. Si andava a mangiare lì attorno in trattorie di campagna, talvolta cucinavano sadicamente le rane fritte. Fu in questo luogo isolato, ma carico e ricco delle storie di Casabella e di Domus che conobbi tutti i più celebri architetti, e centinaia di giovani designer, che venivano come in un pellegrinaggio a visitare la redazione, testimone 110 | Lettera a Milano
autorevole di un certo genere di Milano. E nell’andata e ritorno in automobile, un’ora di Tetralogia di Wagner, registrata alla Scala da Wilhelm Furtwängler, oppure qualche cosa d’altro. E poi i personaggi che abitano il Cimitero Monumentale, il luogo più romantico che io abbia visitato. Ci andavo da bambino con il sole o con la pioggia, con il caldo o con la neve, tenuto per mano, a portare i fiori sulla piccola ma bellissima tomba dei miei nonni, disegnata da un signore che mi dicevano essere famoso, l’architetto Piero Portaluppi, che aveva disegnato pure la nostra casa. Percorrevo il lungo viale con soggezione e con la paura di incontrare degli scheletri, e uno dopo l’altro apparivano assurdi e affascinanti monumenti di buoi e agnelli in bronzo, degli spettri, dei fantasmi, un mix di micro-architetture, di languide enormi figure dolenti in marmo, di angeli, di simboli, di lacrime di pietra dorata, di croci, una situazione extraumana. La somma, il catalogo pietrificato, il trionfo della morte dei grandi borghesi e degli industriali di Milano, quelli veri che ora non ci sono più, allineati in un patchwork di piccoli giardinetti e micro-palazzi. Una trionfale rappresentazione fuori dalla logica e dal contesto, la quadrettatura per un gioco a scacchi fuori scala. Una enorme città in miniatura, un luogo ricchissimo di amore. Perché una volta i borghesi di Milano per essere veri e tali, dovevano comprare in parallelo il palco al Teatro alla Scala e la tomba al Monumentale, con frasi retoriche e firme di illustri architetti. E talvolta ora ho dei sogni più recenti. Mi figuro per esempio di essere un nuovo King Kong abbracciato alla guglia del luccicante grattacielo di César Pelli, per guardare il Monte Rosa oltre la Brianza.
Marzo 2016,
* Il lettore troverà in Appendice altri due testi sul rapporto tra Alessandro Mendini e Milano: un contributo per Disegno Magazine, Londra, dicembre 2015 e l’intervista rilasciata a Sette nel giugno del 2003.
Lettera a Milano | 111