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Floriana Spalla Milano, Covid 19
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
vetrine cercano di esorcizzare quella nebbia da sempre legata all’immagine invernale della città (anche se ora non la si vede più neppure in periferia).
Con me ti sei dimostrata sempre città accogliente, cara Milano, e hanno fatto da collante le grandi feste, il Natale con le sue artistiche luminarie, le fiere, in particolare quella degli Obej Obej in occasione della ricorrenza del patrono sant’Ambrogio, il Carnevale e la sfilata dei carri, tutte occasioni per un giro di svago in centro con gli amici e per bere una cioccolata calda.
Insomma, mia cara Milano, con i tuoi ambienti e la tua dinamicità ti sei legata al mio cuore, mi hai dato tanto in termini professionali e relazionali, per cui posso dichiarare che io ho bisogno di te, ma anche tu hai bisogno di me, del mio impegno di cittadino, della mia amicizia. E con questa consapevolezza sarai sempre la mia bella e generosa città adottiva, bella come la Madonnina che tutti ci guarda, ci protegge e ci consola dalla guglia più alta del Duomo. Ti do del tu, come sempre, e ti parlo come si parla a una donna, una donna amata che ci accompagna da una vita intera, la più fedele di tutte le donne. Di una donna così si ama tutto: i silenzi, i segreti, le ferite, il dolore, tutto ciò che sappiamo di lei e anche quello che non sappiamo con precisione ma che intuiamo per istinto. E tu, Milano, sei una donna piena di ferite e di segreti. La ferita costituisce la tua essenza. Appartieni alla stirpe delle città distrutte, quelle che vengono frantumate in continuazione dalla storia e poi rinascono dalle loro ceneri, portando però un trauma misterioso dentro le sue pietre. Era il 1162 quando Federico Barbarossa ti rase al suolo e da allora le distruzioni si moltiplicarono fino alle bombe del 1943 e a quella di piazza Fontana. Anche il segreto costituisce la tua essenza, corrisponde ai tuoi interni meravigliosi, ai giardini che nascondi gelosa, ai tuoi cortili, al tuo pudore e al tuo piangere, che non è mai esibito ma è trattenuto e velato, avviene sempre dietro le quinte e non conosce il lamento fatto in piazza, come in tutte le creature che abbiamo scelto.
Sei avvolta nell’ombra, Milano, e la tua zona d’ombra mi è cara, ancora più della tua anima illuminista. Certo, sei la città del Verri e del Beccaria, la città dell’impegno sociale e civile. Ma sei anche la città della Scapigliatura e della pallida giostra di poeti suicidi, di Delio Tessa e di Alberto Savinio, la città del trauma e della fiaba, la città di Franco Loi, che ancora adesso si aggira di notte nei prati di Città Studi e canta le interminabili partite di calcio e la nostra infinita giovinezza. A proposito di Città Studi, devo dire che è una parte di te a cui anch’io sono legato profondamente e ogni volta che passo dalle parti del Parco Lambro e della sua leggendaria montagnetta, qualcosa mi scuote nell’origine, come se lì e soltanto lì fosse cominciata la vita autentica, come se in quei poveri campetti polverosi fossero incise le linee del nostro nome e del nostro destino.
Milano, la tua periferia è un mondo. Non è solo periferia di qualcosa, non è solo periferia rispetto a un centro. Tutto il Novecento ci mostra che la Breda, la Falk, la Marelli, il tuo cuore industriale, non sono meno importanti di piazza della Scala. La tua periferia ha molte forme e molti volti. C’è la tua periferia storica: Baggio, Affori, la Bovisa. C’è la tua periferia sperimentale e legata alle Avanguardie, come QT8 o la Bicocca. C’è una periferia di vasti spazi, come San Leonardo o la Comasina, dove ho ambientato certe scene di solitudine, certe passeggiate silenziose e tossiche. Altre scene di solitudine affollata, piena di luci e di bar avevano bisogno di quartieri gremiti, fitti di voci e negozi. Per esempio via Pacini o viale Monza o le multisale dell’hinterland, i tuoi non luoghi, carichi di presente senza storia, di gesti alienati e seriali, che duemila persone compiono nello stesso spazio e nello stesso giorno.
Quando ho cominciato a insegnare nel carcere di Opera, verso la fine degli anni Novanta, ho scoperto una parte di te che avevo sempre sottovalutato, ho scoperto che sei davvero una città d’acqua, come diceva Stendhal tanto tempo fa. Ho visto le tue risaie in via Selvanesco o al Parco Sud, ho passato interi
Ti do del tu
MILO DE ANGELIS
pomeriggi tra i tuoi grilli e le tue rane, tra fiumi e torrenti, laghi e laghetti, idroscali e vedovelle, tutto un mondo acquatico che ha dato vita al tuo respiro. Forse l’ossessione di riaprire i Navigli, che ogni sindaco puntualmente rinnova, riguarda questo mondo. Forse i tuoi morti tornerebbero tra noi con i navigli risorti. Forse senza questo mondo non esisterebbero le abbazie che ti circondano e che si sono dissetate in quei corsi, non esisterebbero le tue roccaforti, l’agricoltura che ti ha nutrito per secoli, non esisterebbe neppure il cuore pulsante del tuo centro storico: l’acqua scorre sotto le strade della moda, percorre corso Venezia, può risucchiare da un momento all’altro negozi e boutique, modelle, splendide e vanitose fanciulle che precipitano da una passerella ed entrano nel gorgo.
Cara Milano, sei una donna amata. A volte gioco con le tue vocali, ti chiamo Miluna, Milina o Milena e mi incanto come un bambino a ripetere il tuo nome. Io poi non credo ai mutamenti, tendo da sempre a vedere ciò che resta fermo nei tempi, ciò che mostra lo stesso volto nel susseguirsi delle stagioni, lo stesso colore nel caleidoscopio dei suoi pastelli. Sei ancora la Ninetta del Verzee e sei Renzo Tramaglino in mezzo alle urla e ai tumulti, sei la madre di Cecilia, sei la Laide di Dino Buzzati in corso Garibaldi e sei il tossico di Testori che muore alla Stazione Centrale in un viavai di gente frettolosa, sei Vittorio Sereni che sale le rampe di San Siro per una partita della sua Inter. E sei il grigio, colore tra i miei prediletti. Mi hai insegnato tutte le gradazioni del grigio: il grigio chiaro degli ospedali, il grigio scuro delle fabbriche, fino al grigionero dei tuoi cieli tempestosi, che talvolta diventano bianchi di nebbia e vapore: i muri della Breda o della Falck, i gasometri di Rho, gli istituti professionali, le sagome gigantesche degli ipermercati, i grandi stili dell’industria, come in certi quadri di Sironi, una periferia di metano e di palestre, di cinema rionali, di oratori e lunapark, di tornei e di balere. Con la presenza di grandi amici, compagni di strada, di squadra, di scuola. Anime che un tempo mi hanno parlato. Ombre che continuano a parlarmi. Milano cara, com’è che sei diventata la città del mio cuore e stavo per scrivere “Milano mia virgola cara”? Sì, è vero, sono venuta al mondo in una clinica che si chiamava (e si chiama ancora) Città di Milano dopo essere stata nella pancia di mia madre mentre scappava sui tetti di Aleppo, e ho vissuto i primi mesi della mia vita in un grande e bell’albergo in piazza Repubblica, il Principe di Savoia, che c’è ancora (anche se da quando è stato ristrutturato non mi emoziona più come ha fatto per anni, quando andavo a trovare mio padre che d’estate, mentre la famiglia era al mare, traslocava lì, perché c’era l’aria condizionata e si prendevano cura di lui – ricordo che Gaetano Afeltra viveva lì la maggior parte del suo tempo pur avendo casa e famiglia, ma questo ora non c’entra o forse sì perché un grande albergo a Milano che sa coccolare i suoi clienti non è un dettaglio da poco per parlare di te, Milano mia!). Vivevamo in albergo perché da un momento all’altro si poteva o si doveva ripartire. Il Giappone era l’idea, ma intanto, giorno dopo giorno, non riuscivamo a staccarci da te. Era il ’48 ed eri in piena effervescenza.
Si parlava francese in casa e a scuola, ma ai Giardini Pubblici mi ero fatta molti amici e le ore passate sulle rocce o nei piccoli fossati lungo via Palestro erano l’inizio del mio legame con te. L’avrei capito molto tempo dopo ripensando con dolore al deposito di biciclette che non c’era più da dove sbucava Colombino, un clochard elegantissimo perché le nostre tate portavano i vestiti che i nostri papà non mettevano più ma che magari erano solo fuori moda. Sì, voglio dire che ho sempre creduto di essere una straniera, una bambina di passaggio a Milano e che solo cominciando a lavorare al Piccolo Teatro avevo scelto te come la mia città. Bene, ora che per la prima volta, scrivendoti, scopro che il mio legame di appartenenza è nato da subito, dalla mia infanzia e si è solo rafforzato sempre di più negli anni accanto ai grandi milanesi che ho avuto la fortuna di avere come maestri, amici inseparabili e compagni di vita e di avventure lavorative, bene, ora parliamo di te e di quello che stai attraversando in questo periodo di trasformazione delle nostre vite.
Dopo aver ispirato esortazioni a non fermarti e a non aver paura, sei stata travolta da una quantità di problemi da affrontare e che, come succede sempre quando ci si rivolge a te, dovevi essere capace di risolvere. Perché si pensava: «Hai fatto sempre la prima della classe, ora dimostrale le tue qualità!». E come chiunque viene ingiustamente accusato hai saputo tacere, abbassare la testa e tirare avanti con un’ondata di calore umano che traboccava da ogni tua strada deserta. Sapevi che prima o poi avresti superato l’emergenza e avresti cominciato a guardare al futuro senza aver paura di cambiare. Nella tua storia sei riuscita a rialzarti sempre, accettando le sfide che ogni cambiamento necessario richiedeva. E oggi ti stai interrogando mentre da ogni parte anziché l’attesa che arrivi “la” soluzione, sta ricominciando a vibrare il tessuto delle tue iniziative culturali e i tuoi “operatori”(mi piace la parola “operatori”perché sta così bene poi con “operosi”) i tuoi “operatori operosi” sono in movimento… La senti questa tensione di chi non fa finta di riprendere dal punto lasciato ma cerca nuove strade? Mah! Forse io scrivo così solo per ridare coraggio a me, senza illusioni o ipocrisia. Dopo aver fatto di tutto, te lo giuro di tutto, per riportare il sorriso sulla
Guardare oltre le nuvole
ANDRÉE RUTH SHAMMAH
Regista teatrale
faccia dei tuoi cittadini aprendo le braccia – oh, pardon, le porte delle nostre sale negli spazi all’aperto ma anche le porte delle sale al chiuso! – ecco sono io che ora all’apertura della stagione vera e propria, all’apertura delle scuole, alla fine del periodo sospeso delle vacanze mi interrogo, inquieta sul perché una certa ansia si stia impadronendo di me. Un po’ so rispondermi: la sensazione che i punti di riferimento stiano cambiando mi destabilizza. Chi sarà il sindaco non è argomento da poco. E l’assessore alla cultura? E il nuovo direttore del Piccolo? E il Covid non c’entra… Anche il Teatro alla Scala avrà un nuovo comandante al timone.
Chi mi aiuterà, con chi allearmi per scovare le nuove energie, quei giovani che dovranno amarti come ti hanno amato tutti quelli con i quali sono cresciuta io? Da sola non potrò essere capace di stanarli e dare loro gli spazi necessari per crescere, confrontarsi, prendersi le responsabilità necessarie…
Quel silenzio che invade ancora il tuo centro nelle ore di punta è un effetto transitorio della pandemia o è un declino quasi inesorabile della vita in una città metropolitana come sei tu? Saprai cambiare per essere a misura delle donne, visto che ormai sembra che molte analisi riconoscano che questo migliorerebbe la qualità della vita di tutti? Una città con ancora pochissime vie al femminile, tu Milano devi cominciare a dare alle vie un po’ di nomi di donne illustri (ce ne sono, oh sì, ce ne sono), tu che come città d’acqua sei grembo materno, tu che hai una Maria che brilla nel tuo cielo, devi ritrovarla la tua anima femminile e realizzare, per fare un esempio, quella bella possibilità lanciata dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo e ripresa subito dal tuo sindaco, di avere tutto ciò che serve a 15 minuti di distanza: scuola/ufficio/spesa/ teatro.
Io poi non sono una urbanista o una sociologa e forse, per arrivare a creare con te quel contatto autentico che dovrebbe appartenere alla tua natura profonda (e alla mia), cercherò di confidarti che immagine ho di te davanti agli occhi o nella memoria e che a Milano lascio e ritrovo quando torno da un viaggio e più esattamente e semplicemente quale parte di te sei tu per me…
Non è facile. Subito, arrivano i giardini pubblici e le rocce e via Guastalla la sinagoga centrale e mio padre, il giorno di Kippur con il suo grande tallet (dove mi nascondevo per non vedere cosa producevano i suoni dello shofar nell’aria diventata pesante dopo un intero giorno di preghiere e di digiuno)… Ma questo cosa c’entra con te? Non lo so, forse la ricchezza di culture, la libertà di sentirsi a casa… Poi, arrivano le vie delle case dove ho abitato da bambina, via Domenichino e l’Ecole sainte Jeanne d’Arc e più in là verso San Siro, Le Lycée français de Milan. Non capisco come questi luoghi che non frequento da moltissimo tempo siano voluti emergere oggi in questa mia lettera dedicata a te. Forse sì, voglio dirti grazie per avermi concesso una infanzia felice nelle mille contraddizioni della storia della mia famiglia. L’autenticità che ho voluto non poteva che farmi partire da lì. Ora avanti spedita! La mia Milano parte da via Brera e arriva in via Pierlombardo, costeggiando volta per volta gli edifici, a seconda del traffico e della strada che in macchina decido di percorrere, e mi è familiare in ogni mattone o crepa di ogni muro tra via Vasari, via Botta e appunto via Pierlombardo. È lì che io ti conosco davvero. Il Parenti fondato nel 1972, inaugurato il 16 gennaio del 1973, la piscina Botta annessa al teatro e diventata i Bagni Misteriosi, la gente del quartiere che prima non ci amava perché portavamo vita e dunque rumore e parcheggi difficili ma ora sorride ogni volta che mi vede passare. In ogni stradina intorno a quella che nella mia fantasia anni fa chiamavo “città-della luna”, ti ho vista cambiare, ogni giorno diventare più bella e più viva, non perché come intorno a casa mia in via Brera sentivo parlare inglese francese o giapponese, piuttosto perché, mese dopo mese, in tutti questi anni, la zona si è riempita di giovani! È sui giovani che vorrei salutarti oggi, pregandoti di fare in modo che si prendano cura di te. Sono sicura che se ovunque la vita riprenderà dedicando molte più attenzioni e risorse e facilitazioni perché ovunque, in ogni quartiere, si sviluppino quelle che genericamente vengono chiamate iniziative culturali, centri di aggregazione per mostre, concerti, laboratori di fotografia, di scultura, danza, disegno, angeli di carta, piccoli giardini da far nascere e letture ad alta voce e radio da ascoltare insieme e lezioni di taglio o clarinetto, insomma far vivere la fantasia liberamente senza schedarla in design week o altro risvolto economico. Sono sicura che tutta l’energia positiva che potrebbe svilupparsi porterebbe anche sviluppo economico in tante e variegate direzioni ma in modo diverso, non so spiegarti come e perché… È come un risvolto e non un obiettivo.
Ora Milano mia, cara, ti devo lasciare perché devo rimettermi al lavoro e ho già usato fin troppe parole. A te piacciono i fatti e il modo migliore per esprimerti la mia gratitudine è rimettermi al più presto a preparare nei minimi dettagli – a te piacciono le cose ben fatte, la prossima stagione del mio teatro. E se, ognuno dei tuoi cittadini fa il proprio lavoro con passione e ispirazione, ogni spicchio di città sarà collegato all’altro dallo stesso rispetto e dagli stessi valori. Tanti frammenti per fare un tutto e nei frammenti e nel tutto, ci sei tu. Ma tu non approfittare troppo di questa nostra dedizione e fai autocritica tutte le volte che ce ne sarà bisogno.
Io ti auguro oggi la lucidità di guardare oltre le nuvole. A presto!
Mettiti di profilo, Milano
ALBERTO PELLEGATTA
Poeta
Una città come te ha avuto molti ammiratori anche tra artisti e letterati, non ultimo il grande Alberto Savinio con Ascolto il tuo cuore, città. Mi rivolgo direttamente a te come lui. Apparentemente una città è solo un insieme di cose ma chi però vorrà fare attenzione, noterà che gli oggetti corrispondono a volti e momenti che affondano nell’intimità di ciascuno di noi, rendendo i luoghi urbani veri e propri organismi pulsanti. Il tuo ritmo, Milano, pausato dalla grande pianura, risentito nelle montagne dell’immediato orizzonte e intenerito nei gialli delle facciate tradizionali, detta il tempo ai tuoi abitanti, e coincide con i loro accenti più distesi. Non possiamo guardarti negli occhi, madre circolare, perché nei tuoi canali interrati si stratificano troppi ricordi. Meglio guardarti di lato. E in questo sono facilitato, perché sono nato al centro del tuo profilo più recente, Porta Garibaldi, una zona storica che l’urbanistica degli ultimi decenni ha trasfigurato.
Nei primi esperimenti in versi a sedici anni, mi rivolgevo al mio quartiere come a un amico. Meno trafficato del resto della città, schermato da una ferrovia che ci difende dai discotecari di corso Como, l’Isola preserva un mondo di botteghe, librerie, atelier d’artisti e piccoli teatri. Un quartiere di lavoratori, di tanti operai e di famiglie industriali come i Borghi della Ignis e prima ancora gli Janecke e gli Heinemann. Non a caso hai una delle maggiori concentrazioni di Liberty della città, sei un catalogo citofonico dell’architettura. Attraverso lo stile si può tornare indietro nel tempo, come insegna Giovanni Raboni per un’altra parte della città – quando dalla modernità commerciale di corso Buenos Aires emerge un brano del Lazzaretto manzoniano. E così all’Isola si retrocede dagli avveniristici palazzi che dettano la nuova cadenza alla città intera e attraggono frotte di turisti (con l’avanguardia ecosostenibile del Bosco verticale e la bella piazza di César Pelli, con il nuovo parco all’olandese) fino al Razionalismo: l’enfant prodige Giuseppe Terragni ha firmato qui le sue uniche residenze milanesi, per i galleristi del Milione, i Ghiringhelli, in piazzale Lagosta. Indietro fino al chiostro romanico della chiesa della Fontana, circondato da un giardino che accoglie i passanti e concede loro momenti di quiete e riflessione dai tempi di Carlo d’Amboise.
Il nostro rapporto, Milano, è sempre stato eccellente, come con uno zio simpatico e rassicurante, anche se poco espansivo e discreto. Mi immedesimo nelle tue piazze meno conosciute, nelle vie intricate e medioevali, nei giardini napoleonici. In ogni tuo luogo, anche nei meandri notturni dei bar scomparsi, vedo una parte della mia storia. Dove ti trasformi, sostituendo a un giardino un palazzo vertiginoso, riconosco gli scorci rimasti identici, come i cani ricordano i pali.
Nella fama internazionale che hai riconquistato da pochi anni ci sono aspetti irrisolti, ma certo non si può dire che tu non abbia un’idea di futuro. Basta guardare come hai risolto la recente crisi migratoria: con la tradizionale disposizione all’accoglienza dei tuoi abitanti. Erano in molti, in quei giorni, come in altre emergenze, a lavorare volontari per aiutare degli sconosciuti in difficoltà. Come suggerisce il neurobiologo Stefano Mancuso, dovremmo pensare alla città come a una pianta, non come a un animale. La città non ci assomiglia, è resiliente e in grado di crescere senza spostarsi, non è ingorda di risorse ma energeticamente autonoma.
Non possiamo non parlare, infine, della recente pandemia che ha colpito con particolare forza la nostra regione, ricordandoci quanto sia fragile e semplice la bellezza, come quelle passeggiate che per mesi, chiusi nelle nostre case per decreto, non abbiamo potuto fare. Forse per l’inquinamento, che rimane uno dei tuoi principali difetti, il virus pandemico ha fatto strage nelle case di riposo, negli ospedali, negli uffici, nelle metropolitane. Ricorderemo per sempre i mesi di quarantena, la paura, il sospetto, il distanziamento fatto di segnali sui pavimenti a un metro l’uno dall’altro e le code fuori dai supermercati, i cerchi disegnati sui prati e i tavoli a sbarrare l’entrata dei negozi, le panchine e le aree verdi recintate, le mascherine sul viso come un ospedale a cielo aperto. Abbiamo forse intuito a quale velocità il consumo di risorse naturali ci stia estinguendo. Tu, impallidita nel silenzio, hai svuotato le tue vie come i polmoni durante lo spavento.
Ti ripropongo, per salutarti e concludere, cara Milano, i versi che ho scritto a diciott’anni per te. Intrecciano una storia familiare alla storia di tutti, evocando la guerra e tornando al nostro presente in notturna:
Erba devota, coltivata con cura nel convento. I piatti, le mani, il metallo nei cesti liturgici.
Ma in fondo era un nero soffice non era verde. Tu forse avevi in mano un lumino, mentre crescevano, fotosintetici, i nostri disordini. Impenetrabile dolce del tabacco nei legni assolti. Le lumache sui tuoi ponti. E la notte che si bagna come un geranio nero.
A fronte: Porta Nuova, Milano, 2012, olio su tela, 136×178 cm.
Alle pagine seguenti: Palazzo Diamante, Milano, 2016, olio su tela, 170×115 cm.
Alle pagine precedenti: Porta Nuova, Milano, 2012, olio su tela, 172×125 cm.
Tetti su Milano, 2018, olio su tela, 148×130 cm.
SERGIO UBBIALI
Teologo
Cara Milano, da quasi cinquant’anni condivido la successione dei fatti di cui sei l’originale protagonista, lo faccio osservando le piccole vicende o i grandi accadimenti sulla base del sensibile punto di vista della religione, se non proprio della fede. Il riferimento alla religione non rappresenta qualcosa d’estraneo allo sguardo quotidiano della gente, a pieno diritto la sagoma del Duomo (con la settecentesca Madonnina, il capolavoro di Giuseppe Perego) appartiene alle immagini pronte a significarvi in maniera oltremodo felice cosa tratteggia lo stile milanese. Parecchie occasioni del tortuoso tragitto di quell’attrattiva mondiale, quale il Duomo diventa, risentono delle multiformi fasi del considerevole cammino dell’avventura umana dei milanesi, le varianti del comportamento generale trasmettono durature incisive tracce al Duomo. Durante le epoche precedenti spetta in ogni caso alla basilica di Sant’Ambrogio, l’attraente chiesa luogo di sepoltura del vescovo Ambrogio, la missione di chiamarvi in causa gli elementi della religione per il giusto assetto dell’atmosfera cittadina. Il progetto della basilica di Sant’Ambrogio ha all’origine il desiderio, ancora meglio l’energia, del vescovo Ambrogio, che, nelle burrascose vicissitudini del momento, testimonia il sogno comune per la scomparsa definitiva dei nocivi cortocircuiti allora erompenti. Cosa ostacoli, addirittura arresti, il movimento creativo ascrivibile alle non trascurabili attitudini umane, costituisce per il globale clima milanese la peggiore delle sfortune possibili. Con questo la pretesa del massimo impegno, con l’ovvia antitesi al superficiale atteggiamento curioso, spettatore indifferente alle richieste in atto, raffigura la costante dell’esserci come sei (cosa vorrai esserci), Milano.
Mediante eccellenti parole il “milanese” Leonardo dichiara come «tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro» (se ne intravede d’altronde l’obbiettiva legittima ragione nell’acuto ideale della consegna, alcuni secoli dopo, da parte di Friedrich Nietzsche, il quale, fra le taglienti espressioni di Also sprach Zarathustra allinea la notifica su «si ripaga male un maestro, se si resta solo il suo allievo»). Questa vigile sottolineatura spiega i passaggi, talora dal notevole spessore, della storia del costume milanese, la provvida spinta dell’umanesimo, trasparente tensione o autorevole registro connaturale alla religione, entra in dialogo con le stimolanti realistiche domande dei soggetti esistenti. Allora il costruttivo cambiamento delle cose non istituisce la questione intrisa di seccanti fastidiosi obblighi ma segnala la condotta normale per chiunque non archivi la vita comune, quasi esprimesse il pericolo a ogni maniera prioritario. Fedele a quest’impegnativo obiettivo, Milano, tu non avvantaggi volentieri le formule, eleganti ma dopotutto fatue, di chi vi sfodera aride ribellioni agli sconvenienti ostacoli della vita, tanto quella individuale quanto quella pubblica. Il favore prevalente asseconda le linee capaci del tangibile contrasto all’infausta sequela dei gravi sviluppi negativi volta a volta emergenti. Lasciando da parte i consigli dell’intemperante schiera dei moralisti dalla sgradevole saccenteria, tu, Milano, identifichi nell’intraprendente verifica del possibile la scelta da preferirvi con eccelsa decisione. In primo piano custodisci la qualificante centratura sull’uomo concreto, non difendi in forme generiche l’uomo, ma vi sottolinei la carica incomparabile d’ogni nome proprio. La difesa di tutti emergerebbe alla fin fine sterile se i gesti tacessero la serena fiducia verso la singola persona. Il cospicuo patrimonio delle fatiche intellettuali milanesi concorre alla fortunata diffusione di questo suggerimento virtuoso, le manovre dell’intellettuale non cadono in irresolute analisi fumose, del tutto lontane dall’interagirvi con le tappe dell’effettivo cammino delle vicende (favorevoli o poco favorevoli). La meta del lavoro intellettuale resta la cultura, ne sorveglia lo straordinario valore, ne garantisce la dote fondamentale educando alla pratica del pensiero capace dell’appropriata direttrice a fronte della congiuntura dei sempre variabili fenomeni umani. In tale specifica prospettiva l’uomo di cultura non programma la sola ansia per il sistematico incessante accumulo d’idee, d’argomenti, di nuove visioni, dimenticando come cultura significhi retto orientamento nella vita (meglio ancora in ordine alla vita). L’uomo di cultura sa scegliervi, mira alla proposta d’interventi mai casuali, condivisibili come tali da parte degli altri esseri umani.
Pure a Milano la prestigiosa epoca del Settecento parlava della cultura dell’Occidente sulla scia del provocatorio paradigma conoscitivo dell’enciclopedia. Il gusto per l’enciclopedia torna nei nostri giorni di gran moda, obbedendo, cosa fin troppo ovvia, a ragioni differenti dall’imponente persuasione pedagogico educativa dell’illuminismo settecentesco. La recente apertura ai meticolosi materiali delle enciclopedie assicura al lettore la diligente raccolta degli aggiornamenti opera dei professionisti della ricerca, ma l’approccio alle variegate letture procede privo della pur necessaria logica unitaria. L’individuo vi assume la figura di chi debba eleggervi in forma privata il principio unificatore dell’estesa serie di contenuti fruibili in maniera comunque non organica. Il gioco della discussione infinita prende il posto dell’autentica disanima del principio garante dell’effettiva intesa reciproca, il pregio delle molte lingue lascia il campo alla frattura dei settarismi.
Il “governo” dell’area cittadina porta il titolo, non da ora, di “comune”, e l’Europa, attraversando indecisioni o timori, lo riceve dall’Italia. Quanto abbia insomma di “comune” la gente a Milano sancisce la questione degna d’ogni interesse, a cosa equivalga o come annunciarne il risanante beneficio, è l’altra questione seria per i dibattiti responsabili. Nessun’altra domanda diventa determinante nel corso della storia quanto quella (mai esauribile, mai cancellabile) relativa all’uomo dalle autentiche caratteristiche umane, il messaggio della lettura classica sull’esistente suggeriva l’espressione sintetica di «quanto è bello l’uomo quando è uomo». La teologia, ovvero la disciplina del mio insegnamento accademico, con solide ragioni spiega come in ogni caso la riuscita dell’uomo (umano) non sta alla fine dei nostri tentativi, ma ce la testimonia (vivendola) la promessa assoluta di Chi pronuncia per noi la parola ultima, autorevole in quanto salvifica, sulla vita.