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Alberto Pellegatta Mettiti di profilo, Milano

Brera, dopo la morte della sua mentore Fernanda Wittgens, disse: «Milano non è mai stata una città di ricordi, e in ogni epoca ha voluto essere in grado di rispondere pienamente alle esigenze e al carattere del tempo, essere sempre contemporanea di ogni momento storico, con aperto spirito civile e poetico». Godendo e vivendo nella foga del momento, nella buona e nella cattiva sorte, attraverso bombardamenti, devastazioni e pandemie, Milano è l’espressione perfetta dell’Italia contemporanea, e racchiude in sé il segreto della sua resilienza. Questa è una lettera immaginaria che Giovanni Testori avrebbe potuto scrivere a un ragazzo della Milano 2021.

«Carissimo Ivan, so per certo che tu non mi conosci o forse hai sentito il mio nome perché hai bazzicato quel parco che la città ha voluto intitolarmi. È un parco un po’ spelacchiato, in cui però mi riconosco: di fianco passa la ferrovia, e io ho vissuto sempre con la ferrovia davanti alla finestra di casa. E da lontano si vedono i gasometri della Bovisa, che sono ancora quelli dei miei tempi, nonostante i tanti sogni che si sono fatti di una loro rinascita. Ma a me piacciono così, con quei loro scheletri di metallo, affondati nel verde inselvatichito. Non è una questione di nostalgia, anche se mi ricordano un pittore che ho amato molto, Mario Sironi, altro nome che probabilmente a te dice poco o nulla (gli hanno dedicato una via davvero minima dalle parti del Monte Stella): per me quei gasometri rappresentano il simbolo di una città chiamata a fare i conti con la fatica di cambiare. Anche con i suoi fallimenti.

Caro Ivan, non so tu, ma io penso che mi troverei un po’ straniero nella Milano di oggi. Certo è bella, moderna, efficiente, anche se ora tante sicurezze si sono incrinate dopo tutte le sofferenze di questa lunga pandemia. Per me, che sono stato scrittore e che ho sempre lottato per trovare e anche inventare parole che non fossero astratte ma dicessero le cose, contenessero la vita, questa Milano è una città rimasta senza una sua “parola”. So che stai pensando che questi sono ragionamenti un po’ astrusi per te. Tu hai le parole che ti servono per vivere, a differenza mia hai anche avuto modo di imparare l’inglese e quindi le tue parole hanno un orizzonte più largo. Voglio però farti qualche esempio concreto: nella vita sono sempre stato pendolare, in quanto arrivavo a Milano dal paese dove sono nato, Novate. Un viaggio breve sui binari delle Nord. Ricordo che guardando le facce delle persone che viaggiavano con me cercavo di immaginare le loro vite, o meglio il loro sentimento rispetto alla vita. Così la normalità e anche la scontatezza di quei volti si caricava ogni volta ai miei occhi di una profondità inattesa e misteriosa. Con quali parole dire quella profondità? Era un po’ la mia sfida, che non era solo letteraria ma anche umana. Per me Milano era la capacità di trovare quelle parole: Alessandro Manzoni per primo le aveva trovate, per tutti, e non solo per noi, con la sua scelta di “sciacquare i panni in Arno”. So che Manzoni non rientra tra le tue passioni, ed è un vero peccato. Mi piacerebbe leggertelo, a tu per tu, e farti capire quanto della tua vita c’è in quelle sue pagine…

Veniamo ai tempi tuoi, quelli di oggi. E qui vorrei cambiare il “campione umano”. In questo anno anche tu sei stato testimone della grande paura disseminata dal virus. Certamente alla tua età anche il virus fa meno paura, perché hai più energie per combatterlo. Eppure penso che tu sia rimasto scosso da questa invasione del dolore nella vita di tutti. Si potrebbero raccontare mille e mille storie accadute in questi mesi recenti.

Lettera di Testori a un ragazzo di Milano

GIUSEPPE FRANGI

Giornalista, presidente Casa Testori

Frammenti di una sofferenza che è diventata esperienza pervasiva, che ha un po’ ridisegnato anche il volto di Milano, che l’ha certamente “spiazzata”. Eppure Milano nel suo passato ha sempre saputo far i conti con il dolore, anche progettando la propria organizzazione sociale: pensa alla storia della Ca’ Granda che oggi è l’Università degli Studi, ma in origine era un ospedale, il più moderno per quei tempi, capace di mettere il malato al centro tanto da farlo sentire a “ca’”, a casa… E pensa che un milanese ha scritto quello che per me è il più grande romanzo del ’900 italiano intitolandolo proprio La cognizione del dolore (è Carlo Emilio Gadda, autore che a scuola non ha molto ascolto; c’è comunque uno slargo dedicato a lui vicino a Corso Sempione…). Il dolore non è inutile; sul dolore si costruisce una città migliore: la dedizione umana oltre che professionale di centinaia di medici e infermieri in questi mesi lo dimostra in modo palese.

Certo, anche il dolore ha bisogno di parole per essere detto senza che resti intrappolato nel sentimentalismo. Ma le parole si generano da un’esperienza di vita e il mio augurio è che la vita dia a te la possibilità di trovare quelle parole. Caro Ivan, ti lascio con lo sguardo di nuovo rivolto a quei gasometri della Bovisa: mi accorgo che, con la loro sagoma scheletrita, sono l’emblema di tutta la fatica che la mia Milano ha fatto in questo anno. Non li toccherei. Piuttosto bisognerebbe tradurli in parole.

Tuo Giovanni Testori» Cara Milano, ti conosco bene e ti scrivo da milanese, anche se non lo sono più ufficialmente. Sono arrivato qui alla fine degli anni Settanta e, anche oggi che vivo sul Lago Maggiore, ti frequento giornalmente perché il mio studio professionale si trova in Brera. In questi anni, mi sono domandato spesso perché sei così amata, perché si parla così bene delle tue strade, delle tue piazze, della vitalità che anima i tuoi quartieri. Io stesso sono tra quelli che ti lodano ma, in tutta sincerità, devo pensare a fondo per individuare la ragione della mia ammirazione.

Ci sono posti più belli di te, in Italia come in altre parti del mondo. Ci sono città più ricche di storia e di monumenti, luoghi con un clima migliore, con una socialità più semplice e allegra, con più partecipazione privata nella vita pubblica. Eppure in tanti ti considerano ricca di opportunità e sono sedotti da te. Sicuramente è merito del design, della moda, del bel vivere durante gli eventi, dei convegni, delle mostre e delle feste che accendono le tue vie e i tuoi palazzi. Ma questo non basta a spiegare il tuo successo. La stessa Expo, che è stata un’esperienza entusiastica, da sola non può spiegarlo.

Credo che il motivo profondo del mio innamoramento sia la tua predisposizione al cambiamento, la tua capacità di essere sempre un po’ meglio. Quando sono arrivato eri decisamente un’altra cosa. Continuamente ti ho visto evolvere, rispondendo con ottimismo agli eventi storici, politici ed economici che hanno attraversato i decenni. Hai reagito alla crisi del petrolio e al terrorismo degli anni Ottanta. Sei cambiata negli anni Novanta di fronte alla consapevolezza della crisi ecologica e alla crescita dei movimenti ambientalisti. Ti sei lanciata verso il mondo durante la crisi economica dei primi anni Duemila e la tua vocazione internazionale ha continuato a fortificarsi negli ultimi anni, fino all’esplodere di questa disgraziata pandemia. Ogni volta hai fatto un passo in avanti.

Ogni volta hai fatto vedere qualcosa in più, hai sedotto l’immaginazione grazie alla tua capacità di mettere in scena idee come altrove non si potrebbe vedere. Conosco stranieri che vengono qui proprio per godere di questo fremito interno che ti caratterizza. E riconosco lo stesso fremito in chi ti abita e ti frequenta: persone curiose di quello che succede attorno, persone proattive, capaci di reagire prontamente agli stimoli che offri. Durante il Salone del Mobile, ad esempio, tutti vengono qui per lasciarsi sorprendere da te e quello che ammirano non è la città del “compra e fuggi” o di una serata e via. Ammirano la Milano delle sollecitazioni intellettuali continue, che ci porta a coltivare un’idea di noi stessi proiettati verso il futuro. E allora Milano, accompagnaci ancora una volta in un mondo nuovo, diverso da quello di questi giorni, un mondo vitale e profondo come quello che ci hai sempre saputo far vedere.

La tua predisposizione al cambiamento

MICHELE DE LUCCHI

Designer, architetto e accademico italiano

Particolare Torre Velasca. Cantiere Palazzo Diamanti, Milano, 2012, olio su tela, 198×140 cm.

Particolare Gasometro, Bovisa, Milano

Torre Velasca, Milano, 2018, olio su tela, 143×121 cm.

Alle pagine seguenti: Bovisa, Milano, 2018, olio su tela, 165×125 cm.

Altrove, solo nella memoria

NICOLETTA MONDADORI

Scrittrice

Qualche giorno fa mi è capitato di prendere il tram alla solita fermata vicino alla casa di Arnoldo, quella in via Vigevano che è poco frequentata, per arrivare in piazza Medaglie d’oro. Bene, dopo pochi minuti arriva il 9, salgo pensando ad altro come spesso mi succede come se fossi su una nave lontana dalla riva, molto lontana. A un certo punto il tramviere mi chiama, cosa insolita: «Mi scusi signora io ho sbagliato, dovevo dirigermi al deposito perché ho finito il turno». «Mi lasci dove vuole per me va bene», e fin qui c’era solo una stranezza. L’altra l’ho vista quando mi sono girata, il tram era completamente vuoto, come un serpentone in una foresta, una luce strana si era diffusa dall’ultimo finestrino in fondo, quello più largo da dove entrava uno dei tramonti più belli di Milano. Il cielo viola e una striscia di rosa pallido cavalcava sopra e sotto come un delfino in mare. Che meraviglia, mi sono detta, un tram tutto per me e un sole declinante che mi rincorre. A volte in una città caotica e brulicante di gente come questa può capitare qualcosa d’insolito e straniante, tutto può succedere quando la vaghezza ti invade.

Sono nata in uno dei primi grattacieli a Milano, in via Locatelli vicino a piazza della Repubblica. Lì accanto c’erano state le Varesine, negli anni ’70 e ’80 era un grande terrapieno in viale della Liberazione, dove, in qualche modo disordinato, vi erano i banchetti del Luna Park, le giostre e un ottovolante che volava in alto per poi velocemente, attraverso curve azzardate, tornare al punto di partenza. Ci andavo la domenica mattina con mia cugina, ci piaceva urlare durante la ripida discesa e poi una donnina con un grembiule bianco ci vendeva lo zucchero filato, i baracchini con il fucile a tappo per colpire dei barattoli messi in fila su due cartoni. Una volta ho vinto un grande orso di peluche. Ora c’è lo skyline di Porta Nuova che mi immalinconisce – non amo i grattacieli che mutano i confini del cielo, che lo invadono. Si è trasformata la città e non tutto quello che è stato costruito mi piace, mi sento smarrita come se la mia Milano fosse altrove, solo nella mia memoria.

Mi sembrava, da bambina, di vivere avvolta dalle nuvole, quando c’era la nebbia e dal nono piano non vedevo le strade, le persone e le luci gialle dei lampioni, nemmeno sentivo il rumore dei tram e delle automobili. Era come una sospensione del tempo che mi dava una grande felicità: potevo immaginare, inventarmi delle storie che poi negli anni avrei scritto. Quando uscivo osservavo con grande interesse il via vai delle persone, il loro modo di camminare, di vivere in una città in cui si alternavano palazzi dell’Ottocento a piccole case in vicoli sperduti. Una città misteriosa che ho imparato a conoscere camminando senza meta e scoprendo la bellezza di certi cortili interni inondati dai fiori bianchi del glicine attorcigliato ai balconi e le case di ringhiera affollate dall’edera rossastra.

I Giardini Pubblici, non ancora dedicati a Indro Montanelli, erano per me una seconda casa quando ho avuto i miei tre figli, sulle panchine leggevo libri e lavoravo a maglia con le amiche tra un giro e l’altro allo zoo: quelli erano i nostri animali, i bambini li vedevano crescere e avevano dato un nome a tutti. La signorina alla cassa, certa Ermida con occhi ridenti ci lasciava entrare gratis, eravamo noti persino alle formiche che Arnoldo seguiva con estrema attenzione mentre Giacomo s’incantava davanti al piccolo elefante e Sebastiano ammirava i cervi dalle lunghe corna intrecciate. Le corse in bicicletta che lasciavamo in una sorta di parcheggio sotterraneo che puzzava di pipì, le partite di calcio sui prati, erano vietatissime ma i vigili facevano finta di non vedere, i barboni erano nostri amici, ci raccontavano le loro storie affascinanti e forse anche inventate. Quando andavamo in via Lazzaretto con la mia amica che di figli ne aveva quattro, le prostitute – chiamate “passeggiatrici” da mia madre – ci consigliavano di prendere la pillola e accarezzavano i capelli dei bambini con un sorriso complice, allora ci sentivamo al sicuro e ci si divertiva con poco. Ora a Milano i compleanni sono festeggiati nei posti più impensabili, noi andavamo a vedere il film di Zorro nel cinema di corso Buenos Aires, con il gelato che sgocciolava sulle mani. Le stradine intorno hanno cambiato aspetto, non c’è più la desolazione e l’incuria d’un tempo, ora sembra un piccolo quartiere parigino.

Non mi sono abituata a tutti i poveri per strada avvolti da coperte e con un bicchiere di plastica per l’elemosina, loro dormono e si fidano di noi, ci sono anche molti italiani con pezzi di carta che sono preghiere, scritte dei loro fallimenti: «Ho perso il lavoro e ho tre figli da mantenere grazie». Altri si stendono all’interno di alcune banche per ripararsi dal freddo e noi siamo lì a fare il bancomat. Mi vergogno. Per non parlare delle lunghe code davanti alle mense, famiglie intere con borse e sacchetti da riempire di cibo, bambini trascinati e loro non sanno perché. Una in particolare in viale Piave confina con un albergo a cinque stelle, vi sono persone eleganti attese da autisti con grandi automobili che sfrecciano con i vetri oscurati, per non essere visti.

Poi, all’improvviso rivedo con gli stessi occhi di un tempo i Giardini della Guastalla, con la vasta peschiera che risale al ’600, e proprio lì mi fermo a osservare l’antica bellezza di Milano.

Al numero sette di via Festa del Perdono

STEFANO ZECCHI

Filosofo, scrittore, giornalista

Non conoscevo Milano prima di arrivarci, nell’ottobre del 1964, per iscrivermi alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale. Venivo da Venezia, e generalmente un veneziano ritiene che la sua città sia il mondo intero, così il suo spirito ha due orientamenti precisi: o niente di interessante ritiene ci sia fuori dalla sua città che valga la fatica di muoversi, oppure come Marco Polo viaggia per far conoscere Venezia al mondo e intanto guardare ciò che succede fuori dalle mura domestiche (e possibilmente arricchirsi). La stragrande maggioranza dei veneziani è del primo tipo; di un Marco Polo redivivo, personalmente non conosco nessuno.

Più semplicemente, ero un bravo studente liceale, incuriosito dalla filosofia: trovavo facile comprendere come si potesse scrivere un romanzo o un saggio di letteratura ma non riuscivo a immaginare come si potesse scrivere un libro di filosofia e pensavo che, semmai ne fossi stato capace un giorno, sarei diventato importante (ovviamente importante soltanto per me).

Alla Statale insegnavano filosofi di grande fama: Paci, Geymonat, Cantoni, Untersteiner, Dal Pra. Solo a nominarli adesso, mi sembrano una grandiosa potenza di fuoco della filosofia.

Al liceo avevo letto i libri di Paci e mi ero messo in testa di studiare con lui, ma, per poter fare questo, dovevo abbandonare Venezia. Sì, proprio abbandonare ciò che simbolicamente rappresentava Venezia per me come per tutti i veneziani che non siano della specie rara Marco Polo.

Primo problema: l’alloggio. E dove finisco? Nel collegio dell’Università che si trovava a Sesto San Giovanni. Mi capite? Da Venezia a Sesto San Giovanni. Detto così, se uno pensa che sia un coglione, non gli si può dar torto. Per me – inutile spiegare il motivo – non c’era altra possibilità che andare ad abitare lì. Alla mattina partivo da Sesto e raggiungevo la Statale: ecco perché quell’Università ha incominciato a rappresentare un’isola estetica ed etica su cui prima mi ero gettato come un naufrago, e poi mi ci ero affezionato perché era diventata la mia Milano, quella che meglio conoscevo, quella che giornalmente mi salvava dal triste grigiore di Sesto (attenzione: siamo nel 1964).

Varcavo il grande portone al numero sette di via Festa del Perdono e ritrovavo la bellezza che avevo abbandonato a Venezia per amore della filosofia. Attraversavo il grande cortile seicentesco del Richini, dove si sovrappongono magnificamente lo stile gotico, rinascimentale e barocco, per entrare nella parte moderna, in cui si trovano le aule. Una parte dell’Accademia restaurata magnificamente da Liliana Grassi con una visione “monumentale”: grandi spazi ariosi, aule eleganti, nulla di angusto, come se gli studenti dovessero imparare, incominciando a respirare a pieni polmoni lo spirito della filosofia e della letteratura che aleggiava in quegli ambienti frequentati da grandi intellettuali. Terminate le lezioni attraversavo di nuovo il cortile del Richini, chiacchierando con i miei compagni di corso, talvolta anche con i professori, per andare nell’istituto di Filosofia. Lo raggiungevo varcando un cortile adiacente a quello del Richini, più piccolo: entrando, mi si allargava il cuore. La bellezza rinascimentale del Filarete mi avvolgeva con il suo elegante porticato, il rosso cupo dei mattoni di fabbrica esaltava il bianco delle colonnine e degli archi a tutto tondo: la bellezza della mia Venezia abbandonata, la ritrovavo all’Università statale. Era diversa da quella che mi era tanto famigliare, non tanto per le ovvie differenze stilistiche, quanto perché la sua era una bellezza vivente, innervata dal pensiero filosofico di quei grandi intellettuali, maestri di noi, diffusa dal loro insegnamento. Alla Statale, grazie alle sue architetture e alla sua storia, ai filosofi e ai letterati che la frequentavano, ritrovavo una bellezza viva, piena di amore per lo studio e per la cultura, non quella monumentale bellezza ferma nel tempo, ieratica senza vitalità della città sulla Laguna.

Terminati gli studi universitari, il Veneto mi richiamò nella sua terra, dove per dodici anni insegnai all’Università di Padova. Poi, il destino (o qualcosa di simile) mi riportò a Milano per insegnare nella “mia” Università statale.

Rientrato dal portone numero sette di via Festa del Perdono, provai le stesse emozioni di vent’anni prima: erano trascorsi esattamente vent’anni, e la bellezza di quel palazzo, delle sue architetture, dei suoi porticati vennero di nuovo incontro per ricevermi, per dirmi che quell’eleganza, quella raffinatezza, quel grande stile che mi avevano accolto da ragazzo, erano ancora a mia disposizione per aiutarmi, adesso, a insegnare e a cercare, di nuovo, a non avere nostalgia della bellezza della mia Venezia, del mio Veneto.

Ho finito lì la mia carriera accademica. Ogni tanto ritorno alla Statale con la scusa di andare in biblioteca, di trovare un amico e ricordo con quanto amore la sua bellezza mi abbia aiutato a crescere. Proprio così: la bellezza non salva il mondo, aiuta a crescere chi si è trovato per caso il privilegio di aver avuto un’educazione estetica.

“Milàn brüta bèla”

VIVIAN LAMARQUE

Poetessa, scrittrice, traduttrice, pubblicista

Milàn brüta bèla avevo intitolato una mia poesia mezzo secolo fa. Poi Milano è diventata sempre più bella, bella quasi come quando Stendhal scriveva: «Presso il popolo di Milano, nato per il Bello, ci si occupa per un mese di seguito del grado di bellezza della facciata di una casa nuova». Dunque l’ossimoro oggi non vale più, è scaduto?

Non del tutto. Del resto anche le altre metropoli del mondo restano irrimediabilmente belle a metà, al centro sì e nelle periferie no, cioè belle per chi nella bellezza già vive e non per chi del bello avrebbe bisogno come dell’aria. Le cose sotto tutti i cieli stanno così ovunque e non ci sono santi.

Ieri osservavo una coda di una quarantina di persone, se ne stavano muti sotto la pioggia, con piccoli ombrelli da tre euro che durano tre giorni, fuori da un ufficio postale, di periferia naturalmente. Non c’era una circostanza particolare, da mesi, meno la pioggia, la scena si ripeteva: causa Covid possono entrare pochi alla volta. Età media: quasi vecchi, non sanno scaricare l’app degli appuntamenti ma conoscono bene l’app degli scaricati. Mentre tutti li ignorano, non tramonta mai l’incredibile pianeta dei volontari. A Vigevano è nato un gruppo incaricato di avvicinare i più malfermi e dire: «Se vuoi la faccio io la coda per te». Qualcosa mi dice che sto scivolando fuori tema, ma non completamente.

Quei malfermi, malmessi sono gli stessi che poi faranno la spesa nel discount poco lontano, li ho visti con i loro carrelli, li ho visti calcolare occhio e croce il totale prima di arrivare alla cassa, in tempo per togliere dal carrello questo, no quello, anzi sì questo, tutto un togliere e rimettere negli scaffali.

Ma stavo parlando di Milano bella. Quando sono su un tram proveniente da via Orefici e diretto verso via Torino, poco prima che svolti a destra mi alzo per vederlo entrare per un attimo dal finestrino: lui, il nostro Duomo speciale, così diverso da tutti. Ogni volta che lo vedo mi piace. Ho la fortuna che il replay per me è una prima visione, non mi abituo mai a niente.

Comunque beati gli stranieri che ancora non l’hanno visto e che un giorno potranno vederlo dal vero per la prima volta. Anni fa ho pedinato una signora che avevo sentito chiedere dov’era la piazza (ora lo chiedono solo allo smartphone). Volevo vedere che faccia avrebbe fatto quando le sarebbe comparso, ma non ne ha fatta nessuna, non mi ha soddisfatta.

Dal tram si vedrebbe bene anche il Castello, ma nessuno guarda più fuori dal finestrino, da nessun finestrino e neppure dalle finestre – sento che sto scivolando di nuovo fuori tema – non mi pareva vero quando un giorno su un treno una signora ecuadoriana mi ha detto: «Che bello fiume signora, come si chiama?». Tornando sul tram, quando si compie il percorso inverso, ciao Duomo, ciao Castello, ciao Ago filo e nodo e bei palazzi di Vincenzo Monti, ciao Arco della Pace e corso Sempione e piazza Firenze, scenderò di corsa alla prima fermata, prima che il lunghissimo rettilineo mi conduca implacabile sino al nostro Cimitero Maggiore, a Musocco. Nel frattempo le architetture, le luci, l’aria, tutto fuori dal finestrino del tram si è fatto diverso, le case, gli intonaci delle case, le persone, i vestiti delle persone, persino i volti delle persone: in centro non sono molto dissimili tra loro, si assomigliano un po’ tutti, ma più ti allontani dal centro, più variano le fisionomie, li osservi e ti pare di vedere meglio quello che gli manca invece di quello che hanno. Per primi riconosci i travolti dalle iniquità sociali, specie sulla circonvallazione che uso parecchio, dove ho scritto Sulla 90 i continenti. Ma nemmeno loro sono tutti uguali, alcuni per miracolo sembrerebbero essere usciti da traversate spaventose quasi illesi, quasi intatti, li riconosci dagli occhi, sono i miti. Categoria mia preferita.

Il tram che mi è più caro è il n° 1, per anni mi ha portata avanti e indietro in via Manin. A Palazzo Dugnani salivo la bella scalinata della Civica Scuola Manzoni, affacciata sulla fontana dei Giardini Pubblici e sullo Zoo, carcere dal quale, durante le interrogazioni, ci chiamavano e chiamavano le foche e ogni tanto ruggiva un leone come un uccellino in gabbia. Anni dopo, salivo in soggezione una scalinata simile: nel palazzo sul marciapiede opposto avevano infatti sede la Guanda e la Società di Poesia, avevo Teresino sotto il braccio.

Anche la mm 1, la più vecchia, mi è cara. Mi portava al QT8, quartiere che ha offerto a mia figlia Miryam una infanzia meno cittadina, villette con orti e giardini, stradine senza auto, e per vicino di casa aveva addirittura un mago, il Mago Zurlì. La mm 1 mi portava in un baleno anche al lavoro, scendevo in Cairoli, insegnavo in istituti privati di via Dante, dalle finestre vedevamo pezzettini di Duomo.

Poiché Milano è città che accoglie, chiudo inviando un saluto alla prima casa che qui mi accolse, era in via Boscovich, lì mi aprì le sue braccia, avevo nove mesi, arrivavo in treno dalla Val di Fiemme. Milano è stata la mia città d’adozione, non tanto per dire, nel vero senso della parola. Con la sua accoglienza mi ha fornita di una caldaia di cui ero sprovvista, impianto autonomo, di riserva, funziona ancora oggi, me lo porto sempre dentro.

P. S.: Non ho scritto una vera e propria lettera, eppure il post scriptum c’è, e con tre desideri: che bombardino le sale gioco, che scoloriscano le scritte sui muri, che vengano soccorsi i vecchini privi di app.

Più un quarto da parte di Stendhal: che almeno un naviglio, almeno mezzo, possa tornare a riveder le stelle.

Veduta Milano, 2017, olio su tela, 103×85 cm.

A fronte: particolare, Torre Velasca, Milano, 2018, olio su tela, 143×121 cm.

Particolare, Naviglio Ticinese, Milano, 2016, olio su tela, 150×123 cm.

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