Lettera di Testori a un ragazzo di Milano GIUSEPPE FRANGI Giornalista, presidente Casa Testori
Brera, dopo la morte della sua mentore Fernanda Wittgens, disse: «Milano non è mai stata una città di ricordi, e in ogni epoca ha voluto essere in grado di rispondere pienamente alle esigenze e al carattere del tempo, essere sempre contemporanea di ogni momento storico, con aperto spirito civile e poetico». Godendo e vivendo nella foga del momento, nella buona e nella cattiva sorte, attraverso bombardamenti, devastazioni e pandemie, Milano è l’espressione perfetta dell’Italia contemporanea, e racchiude in sé il segreto della sua resilienza.
Questa è una lettera immaginaria che Giovanni Testori avrebbe potuto scrivere a un ragazzo della Milano 2021. «Carissimo Ivan, so per certo che tu non mi conosci o forse hai sentito il mio nome perché hai bazzicato quel parco che la città ha voluto intitolarmi. È un parco un po’ spelacchiato, in cui però mi riconosco: di fianco passa la ferrovia, e io ho vissuto sempre con la ferrovia davanti alla finestra di casa. E da lontano si vedono i gasometri della Bovisa, che sono ancora quelli dei miei tempi, nonostante i tanti sogni che si sono fatti di una loro rinascita. Ma a me piacciono così, con quei loro scheletri di metallo, affondati nel verde inselvatichito. Non è una questione di nostalgia, anche se mi ricordano un pittore che ho amato molto, Mario Sironi, altro nome che probabilmente a te dice poco o nulla (gli hanno dedicato una via davvero minima dalle parti del Monte Stella): per me quei gasometri rappresentano il simbolo di una città chiamata a fare i conti con la fatica di cambiare. Anche con i suoi fallimenti. Caro Ivan, non so tu, ma io penso che mi troverei un po’ straniero nella Milano di oggi. Certo è bella, moderna, efficiente, anche se ora tante sicurezze si sono incrinate dopo tutte le sofferenze di questa lunga pandemia. Per me, che sono stato scrittore e che ho sempre lottato per trovare e anche inventare parole che non fossero astratte ma dicessero le cose, contenessero la vita, questa Milano è una città rimasta senza una sua “parola”. So che stai pensando che questi sono ragionamenti un po’ astrusi per te. Tu hai le parole che ti servono per vivere, a differenza mia hai anche avuto modo di imparare l’inglese e quindi le tue parole hanno un orizzonte più largo. Voglio però farti qualche esempio concreto: nella vita sono sempre stato pendolare, in quanto arrivavo a Milano dal paese dove sono nato, Novate. Un viaggio breve sui binari delle Nord. Ricordo che guardando le facce delle persone che viaggiavano con me cercavo di immaginare le loro vite, o meglio il loro sentimento rispetto alla vita. Così la normalità e anche la scontatezza di quei volti si caricava ogni volta ai miei occhi di una profondità inattesa e misteriosa. Con quali parole dire quella profondità? Era un po’ la mia sfida, che non era solo letteraria ma anche umana. Per me Milano era la capacità di trovare quelle parole: Alessandro Manzoni per primo le aveva trovate, per tutti, e non solo per noi, con la sua scelta di “sciacquare i panni in Arno”. So che Manzoni non rientra tra le tue passioni, ed è un vero peccato. Mi piacerebbe leggertelo, a tu per tu, e farti capire quanto della tua vita c’è in quelle sue pagine… Veniamo ai tempi tuoi, quelli di oggi. E qui vorrei cambiare il “campione umano”. In questo anno anche tu sei stato testimone della grande paura disseminata dal virus. Certamente alla tua età anche il virus fa meno paura, perché hai più energie per combatterlo. Eppure penso che tu sia rimasto scosso da questa invasione del dolore nella vita di tutti. Si potrebbero raccontare mille e mille storie accadute in questi mesi recenti.
150 | Lettera a Milano
Lettera a Milano | 151