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Alessandra Redaelli Come ti sei fatta bella

Sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita

LUCA FORMENTON

Editore e accademico italiano

«… i corsi l’uno dopo l’altro desti di Milano dentro tutto quel vento.» Vittorio Sereni

Cara Milano, per me sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita. Ti ho lasciata da piccolo e sono ritornato da adolescente.

Via Moscova negli anni Cinquanta attraversata per andare a giocare ai giardini pubblici e sbirciare da un buco tra assi sconnesse, come nella famosa fotografia di Cartier Bresson, le macerie della guerra, finita da poco; lo zoo, l’odore di paglia bagnata delle gabbie dei leoni e il pony con il carretto, le automobiline di ferro a pedali a noleggio dietro il Museo di Storia Naturale, le foglie schiacciate dell’autunno.

Cara Milano, alle sette della mattina il grido dello stracciaio e gli organetti in città. Gli anni Sessanta come l’Ottocento. La scuola Rinnovata Pizzigoni al ponte della Ghisolfa, tutti in giardino con i vetrini affumicati a guardare l’eclissi di sole del 1961.

Un primo giro con la nonna da un capolinea all’altro della metropolitana (la “metro” per i milanesi), linea rossa appena inaugurata. Era un’epoca in cui le lettere, il telex e i telefoni, in genere neri e pesanti, non erano ancora stati sostituiti dal web, dalle mail e dai cellulari. Erano i tempi della Arnoldo Mondadori Editore in via Bianca di Savoia 20: per noi ragazzi dei primi anni Cinquanta un indirizzo magico, forse la casa di Paperino e Pippo, e il posto dove spedire la richiesta per la promozione a lupetto delle Giovani Marmotte. Poi un vuoto, l’esilio dorato in una provincia veneta, e il ritorno nel buio degli anni Settanta. Le grandi nebbie, il 15 sferragliante, preso in piazzale Baracca, per San Siro, grande fantasma a strisce avvolgenti prima degli scempi di “Italia ’90”. Qualche vecchia piccola pensione in zona Loreto, via Porpora, vicino al liceo, Hotel Cuba, Villa Xenia, dove pensare di entrare e perdere l’identità per sfuggire ai conflitti della politica e dell’anima. O ascoltare le opere con le cuffie nella nastroteca della Sormani e studiare i tomi di filologia nelle aule polverose del Circolo Filologico e andare all’ultimo spettacolo dell’Obraz, che cominciava all’una di notte, con le sedie strettissime, dopo il toast dal signor Moscatelli, nel locale di corso Garibaldi, con il video-jukebox e Gianni Morandi. Pomeriggi nascosti in prima galleria alla Scala, ad ascoltare in silenzio assoluto le prove dell’Otello di Carlos Kleiber. La Scala, da dove non avrei voluto mai uscire, dove avrei voluto vivere tra quinte, retropalco, camerini e buca d’orchestra.

Cara Milano, per un giovane amante di letteratura, moderato attivista politico, poeta mancato, sei stata in quegli anni Settanta un porto accogliente, antico e moderno, da Bonvesin della Riva a Giò Ponti. È stato difficile abbandonare quei giorni e affrontare quelli apparentemente grigi del lavoro. Corso di Porta Romana, la Crocetta, Panarello, sullo sfondo la Torre Velasca, immortalata per sempre da Sordi che cade nella tromba dell’ascensore («Che fa Marchese, spinge?»), gli uffici de Il Saggiatore in via San Senatore e, al piano di sopra, le spazzole dei fratelli Ponzini.

Cara Milano, oggi mi divido tra il Naviglio Grande, un bel posto dove abitare, lo guardo all’alba, deserto, con i refoli di vento che sollevano la polvere delle notti di folla, la nuova Isola, un aguzzo downtown contemporaneo, l’idea della metropoli finalmente arrivata, e via Melzo dove approdo ogni mattino, che nonostante l’invasione del nuovo, rimane sempre un po’ il Vicolo del Mortaio di Mahfuz, dove ancora tutti conoscono tutti.

Cara Milano, so che ora non ti lascerei per un’altra città…

La Milan dei ghisa, della scighera e dei tram

LORENZO MAFFIOLI

Direttore sanitario aziendale dei Sette Laghi

Cara Milano, ci conosciamo da oltre mezzo secolo e ci frequentiamo con un meccanismo ferro-calamita che fa sì che, nonostante i distacchi forzati, questi non possano che essere transitori e instabili.

Ma perché questa attrattività? Il destino ha voluto che ancora nel grembo di mia madre mi trasferissi da Como a Milano perché mio padre aveva vinto un concorso all’ospedale Niguarda e, subito dopo la nascita, medicina, ospedali, Milano si sono intrecciati nello scorrere dei giorni. Indubbiamente, a Milano la sanità è una delle dee che rendono importante la metropoli. La rendono famosa, invidiata, apprezzata e nel contempo criticata, processata, maltrattata. Fin da bambino accompagnavo mio padre tra i padiglioni del Niguarda. Era un’opera monumentale già allora. Monumentale in tutti i sensi. Il rigoroso succedersi di quelle lastre di marmo in stile mussoliniano ne facevano intuire anche al primo approccio che lì non si scherzava. E così era. Tutti lavoravano con grandissima serietà e rispetto dei ruoli e i pazienti con le loro famiglie erano fiduciosi e grati ai medici e agli infermieri (“Al dottor e al confessor besogna nascond nagott”).

L’unico momento di festa era, per me bambino, quando in occasione dell’Epifania, si andava nell’ospedale hub (c’era già!), al Policlinico, e lì, a fronte di un biglietto, veniva dato un dono a ciascun figlio di ciascun dipendente della Ca’ Granda. Anche questa era la grandezza di una Milano (e di un’Italia) che non c’è più! Tutto questo faceva famiglia: era la “Milan cun’t el cœur in man”. La Milan dei “ghisa”, della “scighera” e dei tram.

Sembra una Milano lontana anni luce da quella di oggi. Era una grande città, ricca, accogliente, piena di potenzialità, solidarietà, affetto. La città dei cantastorie, degli Svampa, dei Gaber, dei Simoncini: una città che poteva apparire romantica ma che era aperta alle Avanguardie. Frequentando, sempre a quell’epoca, con mia mamma e Bruno Gandola, l’Accademia di Brera, si sentiva un brulicare di esperienze, di idee, di contestazione (la metà degli anni Sessanta), si vedeva che il modo di pensare, di vivere, di colorare il mondo assumeva forme mai viste prima, dilatate, sfumate, reinventate in giochi di luce e di ombre sotto il cielo dell’innovazione.

Si correva in bicicletta ad Affori, alle montagnette, su strade sterrate, ma in sicurezza. Ora sono comparse piste ciclabili con percorsi improbabili, tra buche e stop improvvisi su strade di grande scorrimento, disegnate da urbanisti quasi ispirati da un’arte astratta della viabilità onirica.

Cara Milano, oggi ti ritrovo cresciuta, una grande bella metropoli, evoluta con l’adolescenza socialista e la crescita di stampo liberale morattiano. Da Brera al bar Magenta, alla movida dei Navigli, ai giardini verticali e i grattacieli di cristallo ti si ritrova ora in una dimensione adulta e internazionale, ma in qualche modo, più algida. E così gli ospedali. Sono cresciuti, erogano prestazioni più moderne, hanno camere più confortevoli, rispondono al meglio alla domanda di sanità. Ma hanno perso, per una serie di motivazioni ben note da un punto di vista di evoluzione di economia sanitaria quel ruolo che, inconsciamente, avevano, in passato, di una visione olistica del paziente. Oggi rispondono puntualmente e precisamente al bisogno acuto del paziente. Tutto il resto è compito di altri. Dal punto di vista di economia sanitaria è assolutamente giusto. Ma gli altri sono insufficienti e poco creativi. La mia vecchia Milano era anche quella dei Martinitt e della Baggina, quella grande mamma che dava una mano a chi non ce la faceva. Ma con il tuo aiuto, i Martinitt hanno dato figli che hanno contribuito a far crescere l’intera Italia. Cara Milano, hai la forza, il potenziale e la credibilità per dare impulso a tutta l’Italia nella rinascita post-Covid: ciò che si è sviluppato con te è sempre cresciuto e ha sempre rappresentato una guida per lo sviluppo della nazione.

Quello che ti si chiede oggi è ancora una volta di essere il modello di sviluppo economico e morale, ma per fare questo devi guardare oltre, far sviluppare gli embrioni di quella innovazione liberale e umana che hanno reso attrattivo il nostro modo di vivere e operare.

È vero, il mondo è cambiato e forse hai ragione tu. Non c’è più spazio per il romanticismo e bisogna fare un po’ di scorza sennò i mercati internazionali ti mangiano. Ma siamo davvero sicuri che debba essere così? Tertium non datur? Sono sicuro che qualcosa si sta già muovendo nella tua mente e nel tuo cuore e sei pronta alla rinascita. Forza!

Tuo affezionatissimo.

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