LETTER TO MILAN

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Sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita LUCA FORMENTON Editore e accademico italiano

«… i corsi l’uno dopo l’altro desti di Milano dentro tutto quel vento.» Vittorio Sereni

Cara Milano, per me sei molti luoghi, immagini e stagioni della vita. Ti ho lasciata da piccolo e sono ritornato da adolescente. Via Moscova negli anni Cinquanta attraversata per andare a giocare ai giardini pubblici e sbirciare da un buco tra assi sconnesse, come nella famosa fotografia di Cartier Bresson, le macerie della guerra, finita da poco; lo zoo, l’odore di paglia bagnata delle gabbie dei leoni e il pony con il carretto, le automobiline di ferro a pedali a noleggio dietro il Museo di Storia Naturale, le foglie schiacciate dell’autunno.

Porta Romana, la Crocetta, Panarello, sullo sfondo la Torre Velasca, immortalata per sempre da Sordi che cade nella tromba dell’ascensore («Che fa Marchese, spinge?»), gli uffici de Il Saggiatore in via San Senatore e, al piano di sopra, le spazzole dei fratelli Ponzini. Cara Milano, oggi mi divido tra il Naviglio Grande, un bel posto dove abitare, lo guardo all’alba, deserto, con i refoli di vento che sollevano la polvere delle notti di folla, la nuova Isola, un aguzzo downtown contemporaneo, l’idea della metropoli finalmente arrivata, e via Melzo dove approdo ogni mattino, che nonostante l’invasione del nuovo, rimane sempre un po’ il Vicolo del Mortaio di Mahfuz, dove ancora tutti conoscono tutti. Cara Milano, so che ora non ti lascerei per un’altra città…

Cara Milano, alle sette della mattina il grido dello stracciaio e gli organetti in città. Gli anni Sessanta come l’Ottocento. La scuola Rinnovata Pizzigoni al ponte della Ghisolfa, tutti in giardino con i vetrini affumicati a guardare l’eclissi di sole del 1961. Un primo giro con la nonna da un capolinea all’altro della metropolitana (la “metro” per i milanesi), linea rossa appena inaugurata. Era un’epoca in cui le lettere, il telex e i telefoni, in genere neri e pesanti, non erano ancora stati sostituiti dal web, dalle mail e dai cellulari. Erano i tempi della Arnoldo Mondadori Editore in via Bianca di Savoia 20: per noi ragazzi dei primi anni Cinquanta un indirizzo magico, forse la casa di Paperino e Pippo, e il posto dove spedire la richiesta per la promozione a lupetto delle Giovani Marmotte. Poi un vuoto, l’esilio dorato in una provincia veneta, e il ritorno nel buio degli anni Settanta. Le grandi nebbie, il 15 sferragliante, preso in piazzale Baracca, per San Siro, grande fantasma a strisce avvolgenti prima degli scempi di “Italia ’90”. Qualche vecchia piccola pensione in zona Loreto, via Porpora, vicino al liceo, Hotel Cuba, Villa Xenia, dove pensare di entrare e perdere l’identità per sfuggire ai conflitti della politica e dell’anima. O ascoltare le opere con le cuffie nella nastroteca della Sormani e studiare i tomi di filologia nelle aule polverose del Circolo Filologico e andare all’ultimo spettacolo dell’Obraz, che cominciava all’una di notte, con le sedie strettissime, dopo il toast dal signor Moscatelli, nel locale di corso Garibaldi, con il video-jukebox e Gianni Morandi. Pomeriggi nascosti in prima galleria alla Scala, ad ascoltare in silenzio assoluto le prove dell’Otello di Carlos Kleiber. La Scala, da dove non avrei voluto mai uscire, dove avrei voluto vivere tra quinte, retropalco, camerini e buca d’orchestra. Cara Milano, per un giovane amante di letteratura, moderato attivista politico, poeta mancato, sei stata in quegli anni Settanta un porto accogliente, antico e moderno, da Bonvesin della Riva a Giò Ponti. È stato difficile abbandonare quei giorni e affrontare quelli apparentemente grigi del lavoro. Corso di 54 | Lettera a Milano

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