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Mauro Bersani La Milano degli anni Sessanta e Settanta
from LETTER TO MILAN
by Jaca Book
Come ti sei fatta bella...
ALESSANDRA REDAELLI
Scrittrice, giornalista, critico d’arte
Povera Milano, così duramente colpita insieme alla sua regione da questa pandemia che ha messo in ginocchio il mondo. E poi bistrattata, reietta. Non te lo meriti.
Ma ne uscirai presto. E tornerai al tuo splendore.
Ti hanno sempre dipinta come una città fredda, ma la verità è che non lo sei. I tuoi quartieri, i tuoi scorci più autentici, quelli che sono stati risparmiati da quel fenomeno urbano che per certi versi sta rendendo uguali tutte le città del mondo (le stesse catene di ristoranti e di bar, gli stessi negozi di abbigliamento, dalle grandi firme al mass market), offrono angoli di accoglienza e di eccellenza unici, solo tuoi. E lì ancora qualcuno lo trovi che parla la “tua” lingua, e che ti indica il “prestinè” o che ti dice che i “ghisa” sono appena passati, e che se non ti fermi troppo a lungo, un’occhiata alla tua macchina la dà lui.
E poi come ti sei fatta bella, Milano. Quando sono nata, la mia zona, quella che ancora oggi resta “mia”, era quasi periferia: si sentiva il treno passare, l’atmosfera di quartiere era tangibile. Ora anche qui sono fiorite le architetture eleganti che ti hanno resa famosa nel mondo. Che hanno cambiato il tuo orizzonte (quello che i più “à la page” chiamano skyline). Ti guardavo dalla terrazza di una baita in alto, sopra Brunate, una domenica subito dopo la fine del lockdown. Il palato solleticato da selvaggina e polenta, i sensi attutiti da un bicchiere di rosso corposo. Fuggita anch’io, insieme ad altri milanesi, dalle tue vie che in quei mesi avevamo vissuto come una prigione. Era una giornata limpida, e a un certo punto, in lontananza, ho visto una selva di grattacieli strani, attorcigliati, piegati come da un vento misterioso. Eri tu, con questa tua nuova faccia così internazionale, così glamour, con i tuoi edifici griffati che arrivano al cielo. Il Duomo non si vedeva più. Quello che una volta era il tuo simbolo si era ridotto a una capannuccia poco più grande di quella in cui aveva trovato rifugio la Sacra Famiglia. La tua Madonnina ora piantonata da questi watussi di cristallo e di cemento. Quella Madonnina che una volta, tanto tempo fa, era stato il limite oltre il quale non si poteva costruire.
Mi hai fatto uno strano effetto. L’orgoglio, certo, per questo tuo nuovo volto così elegante e raffinato: la bellezza impeccabile di una modella pronta per entrare in passerella con la sua falcata da pantera. Ma anche un pizzico di nostalgia per quella che eri. Oggi ci sei anche tu, Milano, tra le città più amate dai turisti. Ci stiamo abituando anche noi a vedere le frotte di americani con la faccia rubiconda e i pantaloni fantasia che sciamano per le tue vie. E che magari si sorprendono per la puntualità e l’efficienza dei tuoi mezzi pubblici, visto che l’ultima volta che erano stati in Italia, a Roma, era stata tutta un’altra musica. Ripartono carichi di sacchetti griffati, con gli occhi scintillanti, un po’ stanchi, ma felici. E speriamo che nel loro girovagare abbiano toccato anche Palazzo Reale con le sue mostre, il Museo del Novecento con la nostra storia artistica più recente, la Pinacoteca di Brera, magari, con la sua pittura antica.
E se avanza del tempo – perché no? – anche l’Hangar Bicocca e la Fondazione Prada. Perché l’arte contemporanea non ce l’hanno solo loro. Perché qui noi, nel regno di Miuccia, abbiamo un paio di Damien Hirst, un Jeff Koons e un’opera di Mona Hatoum che meritano; per non parlare dell’architettura di Rem Koolhaas, poi, che fa loro da cornice. E speriamo che qualcuno abbia loro suggerito, tra un salto da Prada e uno da Louis Vuitton, di mettere la testa dentro quel cortiletto, di lato, su via Torino, e di entrare in Santa Maria presso San Satiro. Per rimanere a bocca aperta davanti al capolavoro illusionistico di Bramante. Gratis. Anche senza un sacchetto griffato da portare via.
Sono cresciuto a risotto e racconti nella capitale immorale d’Italia
JACOPO FO
Scrittore, attore, regista, fumettista, blogger
Il risotto è un piatto geniale perché ci puoi mettere dentro di tutto.
Mio padre in questo era estremista: qualunque cosa ci fosse in frigorifero, frutta compresa, rischiava di finire nel risotto, a meno che mia madre non lo fermasse.
Mio padre pur essendo di origine alessandrina come mia madre, mi comunicò l’idea che vivere a Milano fosse una sorta di privilegio perché era stata un fulcro della ribellione. A Milano, nel ’300, le prime donne che rifiutarono matrimoni combinati ebbero l’idea di diventare suore e crearono uno dei primi conventi. Alcuni padri vedendo gli accordi matrimoniali andare in fumo avevano assaltato con i loro armigeri il convento per riprendersi le preziose figlie. Allora sant’Ambrogio aveva schierato la milizia vescovile per difendere i diritti delle suore. Quel gesto lo rese famoso, un femminista estremo. E si sparse la voce in tutta Europa: le donne possono salvarsi da un matrimonio forzato diventando suore e la Chiesa le difende con le armi!!! I conventi iniziarono a diffondersi ovunque; e fu nei conventi che si sviluppò la cultura al femminile con grandi letterate che operarono una rivoluzione narrativa senza la quale forse non avremo avuto il Dolce Stil Novo.
Alla fine del 1100 furono i Milanesi a fissare alle aste gli attrezzi da lavoro e a inventare così le alabarde; le usarono per battere l’imperatore Barbarossa a Legnano e distruggere per la seconda volta il suo esercito; la prima volta lo avevano massacrato ad Alessandria, città sull’acqua, costruita apposta come trappola dai popolani di Milano.
L’invenzione dell’alabarda determinò l’esito vittorioso di una serie di rivolte, la usarono gli svizzeri per sconfiggere un altro imperatore tedesco e guadagnarsi l’indipendenza e pure gli olandesi, nella battaglia des Ésperons d’Or. Dopodiché fu chiaro che la cavalleria pesante non era più in grado di dominare i campi di battaglia e i feudatari dovettero venire a patti con i popolani.
Poi c’era la Milano dei gappisti, quei partigiani che in piccoli gruppi andavano a giustiziare gli ufficiali nazisti; storie che mi raccontava la madre di mio padre che li aveva ricuciti dopo gli scontri a fuoco.
Ma quando mi affacciai all’età adulta Milano era ben altra cosa. Scomparsi i canali navigabili che ne facevano una Venezia di pianura, avvelenata dallo smog, teatro di attentati e scontri violenti nelle strade, a volte tra ribelli e forze del potere, a volte tra gruppi di comunisti. A me una volta mi picchiarono i fascisti, una volta i comunisti, che ce l’avevano con me perché ero comunista anche io. I comunisti mi fecero più male. Milano diventò per me un luogo di paura. Un posto doloroso dopo che mia madre fu rapita e seviziata da un gruppo di fascisti agli ordini dei servizi segreti deviati. L’ultimo mio sogno milanese fu spento dalla polizia quando irruppe a Macondo, un centro culturale alternativo meraviglioso (affittato regolarmente, non occupato). Sequestrarono per un’intera notte più di mille persone. Ma già me n’ero andato a Roma a lavorare alla rivista Il Male.
Di lì poi, nel 1979, mi trasferii a nord di Perugia, vicino a un paesino che si chiama Casa del Diavolo. Una casa di pietra diroccata sulle colline, boschi a perdita d’occhio e l’idea balzana di costruire una specie di monastero culturale alternativo, umanista ed ecologico. E sono ancora qua. E benedico ogni giorno l’essere scappato dalle città.
Guardo Milano da lontano.
Mi chiedo come sia stato per i milanesi rivedere il cielo azzurro durante la quarantena. Come possano ora accettare di respirare di nuovo lo smog. Ma soprattutto mi chiedo come sia possibile che tanti amici milanesi siano entusiasti di questi nuovi grattaceli, che danno prestigio alla città. Ecco come è possibile che una cosa insensata e brutta come un grattacielo possa “dare prestigio”. Ma ai milanesi piacciono, e vengono fin dalle periferie per prendersi un caffè sotto quei falli di cemento armato.
Una ventina di anni fa avevamo realizzato un piano che prevedeva che tutte le aree ferroviarie e industriali dismesse diventassero parchi, la riapertura dei canali e il taglio drastico dell’inquinamento, (taglio dello spreco energetico delle case, stop alle auto, più trasporti pubblici e biciclette). Mio padre si candidò alle primarie del Pd come sindaco, portando questo programma. Solo il 25% degli elettori del Pd gli diede il voto. Quando passo per Largo Marinai d’Italia mi ricordo che lì c’era la stazione di Porta Vittoria con annessa area verde incolta e recintata. C’era un buco nella recinzione e andavamo a far l’amore in quel parco selvaggio, con grandi alberi, che circondava i binari, uno spazio enorme che si estendeva verso la periferia. Adesso ci sono palazzi, strade asfaltate, costruzioni non finite, cantieri sgarrupati. Anche qui tanto spazio verde scippato alla città per far largo agli speculatori…
Sono convinto che alla lunga questo modello di sviluppo andrà a sbattere contro le aspirazioni della gente. Forse la “Milano da bere”, edonista reganiana, alla fine sarà travolta dai desideri delle persone che vogliono respirare bene e godersi la vita.
Forse un bel giorno troppa gente vorrà mangiare cibi veri e non la cromia elegante dei piatti (i gamberi sontuosamente serviti con la nebbia del ghiaccio secco intorno, fanno schifo o no?). Forse scopriranno che il vino buono non è quello che costa di più. E il ritmo frenetico della vita moderna non fa bene agli innamorati. Il fitness in una palestra esclusiva con le nanopolveri non è il massimo del lusso. Quella che ti vendono i critici d’arte è solo speculazione. E quelli del mondo della moda hanno una deformazione della libido che li spinge ad allevare povere ragazze anoressiche convinti che facciano “scic”.
E speriamo che oggi i milanesi almeno facciano molto sesso. Ma quello vero e non le 50 sfumature di nulla.
Cibo finto, aria finta, arte finta, donne finte, sesso finto. Milano è una città finta, bandiera nazionale del nulla montato a panna e delle ingiustizie sociali.
Quando sono pessimista penso che a Milano inizieranno a vendere l’aria pura come a Pechino; magari la porteranno direttamente dalla cima delle Alpi, trasportata grazie a un enorme tubo trasparente: un’ariadotto. Ma solo i ricchi potranno respirarla perché sarà molto cara.
Vedremo…
Ma io resto speranzoso.
Cari milanesi, quando deciderete di trasformare le strade asfaltate della vostra città in boschi e canali avvisatemi che vengo a darvi una mano. Cara Milano, è dal 1948 che mi accogli nelle tue braccia. Avevo dieci anni, essendo nato a Budapest nel 1938, quando il Partito comunista sottomise l’Ungheria secondo modalità staliniste e mio padre fu dichiarato “nemico del popolo”, essendo un socialdemocratico che rifiutava di confluire nel Partito. Per evitare di venire deportati in un campo di lavori forzati, fuggimmo in modo rocambolesco e chiedemmo asilo politico all’Italia. Mio Padre parlava sette lingue, e generosamente Milano l’accolse come impiegato in un’azienda d’import-export. Fino al 1976 fummo apolidi, lo Stato ungherese ci aveva privati della nazionalità.
In quell’anno uscì in America il mio primo libro di poesie (Il guanto del sicario, Out of London Press) in italiano e inglese. Inviai il volume al Presidente Saragat, che in una lettera invitò me e i miei genitori a Roma, dove ci fu concessa la nazionalità italiana, per i miei meriti poetici.
Nel 1968, mentre i giovani contestatori inneggiavano a Lenin, Stalin e Mao e consideravano la poesia un lusso borghese, con Ugo Carrega, il poeta visuale, fondammo il “Centro Suolo” per la vita e diffusione della poesia sperimentale. Ciò avvenne in via Benedetto Marcello a Milano in una cantina da dove stabilimmo rapporti con poeti d’avanguardia di tutto il mondo. Agli inizi degli anni ’70, nella Galleria Il Mercato del Sale, col poeta Nanni Cagnone ogni martedì demmo vita a incontri sulla “Pratica della Lettura”. Nel 1972 sposai Luisetta Brera e ci stabilimmo in viale Romagna dal trionfale duplice filare di alberi.
Negli anni 1978-79, presso il Club Turati, in Brera, col poeta Cesare Viviani organizzammo i due seminari sulla “Poesia degli anni ’70” con la partecipazione dei maggiori poeti italiani. Nel 1994, nel Teatro Filodrammatici di Milano, con Giuseppe Conte, Stefano Zecchi e Roberto Carifi fondammo il “Movimento Mitomodernista”, per una poesia fondata sui valori della Bellezza e sulla lotta per la rinascita morale del paese.
Nel 2006, Stefano Zecchi, quale assessore della cultura di Milano chiamò Giancarlo Majorino, Maurizio Cucchi, Roberto Mussapi, Antonio Riccardi, Alda Merini e me a fondare, quale comitato direttivo, La Casa della Poesia di Milano. Negli ultimi anni, quale sviluppo del mitomodernismo, con Paola Pennecchi, Flaminia Cruciani, Pietro Berra, Mirna Ortiz e Chicca Morone fondai il Movimento Internazionale Poetry and Discovery, ritenendo che la diffusione in azioni pubbliche della poesia sia fondamentale per la rigenerazione della civiltà. Via Ozanam è la prima via dove incontrai l’amore. Piazza Risorgimento è il luogo dove vissero i miei genitori.
Il ristorante “Luigi” negli anni ’50 ospitava la squadra dell’Inter, dove conobbi il bomber magiaro Stefano Nyers e Mariolino Corso. In via Ricordi c’è un’Osteria dove ancora oggi incontro la realizzazione dei miei sogni, come tali, quasi segreti.
Lettera a Milano
TOMASO KEMENY
Poeta, scrittore, critico letterario, traduttore, drammaturgo e accademico ungherese naturalizzato italiano