3 minute read

Clero secolare, clero regolare

4. Una cruenta battaglia campale descritta nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, XIII secolo. Musée Condé, Chantilly.

5. Una scena del Lancelot di Chrétien de Troyes.

6. Prete che comunica un cavaliere, controfacciata della cattedrale di Reims. combattimento: aveva infatti bisogno di un gruppo di accoliti, di aiutanti, di apprendisti («scudieri»). Il miles dei secoli X-XI era un guerriero violento, privo di leggi e di freno, che guerreggiava contro antagonisti appartenenti al suo stesso livello socio-politico e istituzionale; si era ancora ben lontani da quell’immagine dello chevalier – in effetti per molti versi destinata a restare un Idealtypus – che si sarebbe poi defi nita sul piano morale e comportamentale. Ciò pone la questione del defi nirsi storico e della plausibilità concreta dell’etica cavalleresca. Ma essa, ancor prima di venir proposta in termini positivi, venne delineata nel corso dei secoli XI-XII dal suo contrario, cioè da quel che il cavaliere, per poter dirsi tale, non doveva fare. Se le prime e più chiare espressioni dell’etica cavalleresca si possono leggere nei canoni espressi dalla Chiesa dell’XI secolo, che sono poi i veri e propri patterns dell’ideologia cavalleresca, ne consegue che il latro, il raptor, il praedo, l’effractor pacis – insomma il violatore della Pax e della Tregua Dei stabilite dalla Chiesa per dar sollievo a un’Europa dilaniata dai contrasti – è il precedente e il modello del Raubritter, il cavaliere-predone che diventerà più tardi l’«anticavaliere», l’avversario del guerriero cristiano. Non si deve sottovalutare il lavoro anche propagandistico attraverso il quale la Chiesa riuscì a imporre questa rivoluzione etica, dalla quale nacque un miles concettualmente nuovo, al punto da potersi defi nire con l’espressione – sin lì usata nel linguaggio monastico e mistico – di miles Christi. Alla demonizzazione del Raubritter concorse la mobilitazione di tutta una serie di valori e di risorse, ivi compresa la rilettura di leggende che affondavano le radici nella mitologia celtico-germanica e che costituivano parte di un patrimonio folklorico diffuso nell’Europa altomedievale. Tra XI e XIII secolo le cronache e la letteratura epica registrano sovente, con molte variabili, il caso del cavaliere che, pur condividendo con i fratelli d’arme la dignità cavalleresca iniziaticamente (o quanto meno cerimonialmente) acquisita e la conoscenza dei riti e delle competenze professionistiche che ciò comporta, non ne condivide però l’ossequio alla normativa etica. Normativa che non corrisponde ancora a nulla di rigorosamente professato, ma che fa comunque parte di quell’insieme etico-comportamentale dal quale nascerà il cosiddetto «sistema dei valori cavallereschi». La complessa fi gura del trasgressore proietta la sua ombra sull’intera letteratura cavalleresca medievale e rinascimentale, fi no a cristallizzarsi in personaggi e addirittura in dinastie precise.

RITI E COSTUMI Con la coscienza dell’appartenenza a un’élite, a un corpo in qualche misura separato dal resto della società, la cavalleria medievale sviluppò pure una sua cultura che condusse anche a un’etica e a una produzione letteraria specifi ca (chansons de geste, romanzi cavallereschi). Con la formalizzazione del diritto feudale anche l’ingresso nella cavalleria comincerà a essere regolato da norme: in principio, presumibilmente, forme varie di iniziazione, più tardi (almeno a partire dall’XI secolo) cerimonie più formalizzate, sebbene ancora semplici. È il rito che in italiano si chiama «addobbamento», da un termine originariamente germanico rimasto anche nella lingua inglese, che prevedeva due cose: la concessione delle armi e un segno, una leggera ferita rituale (magari semplicemente uno schiaffo o un colpo sulla nuca o sulla spalla del neocavaliere: i testi italiani la chiamano «collata»); simile alla alapa militaris, lo schiaffo che si dava al soldato romano, e che nel rito cristiano della cresima (che rende, appunto, «soldati di Cristo») si era trasformato in una specie di carezza, che l’offi ciante fa con la

5

6

This article is from: