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Verso la marginalità

12. Santa Elisabetta veste gli ignudi e assiste gli ammalati. Walraff-Richartz Museum, Colonia.

13. San Francesco nudo per le vie di Assisi, miniatura dalla Legenda Maior. Istituto Storico dei Cappuccini, Roma.

14. L’assistenza ai lebbrosi da una miniatura della Franceschina della Porziuncola, Assisi. te un mese – era lasciato a eretici e a testimoni per presentarsi. Trascorso quel periodo si avviava l’inchiesta relativa ai sospetti che non si erano spontaneamente rivolti agli inquisitori. Gli imputati sospetti di particolare pericolosità, o anche solo dichiarati inclini alla fuga, venivano fatti arrestare. Benché si potesse condannare un imputato anche sulla base delle prove, la Chiesa preferiva la confessione: per questo, i giudici potevano a loro discrezione adottare anche mezzi costrittivi: la carcerazione preventiva, che poteva essere indurita dall’incatenamento, dal digiuno, dalla veglia forzata. Se le prove non erano suffi cienti né a condannare, né a scagionare l’imputato, e la detenzione non aveva indotto l’imputato a confessare, si poteva ricorrere alla tortura. Se l’imputato confessava sotto tortura, egli era obbligato a confermare il contenuto della sua confessione più tardi, a tormento fi nito. La conferma veniva trascritta nei verbali del processo come confessione «spontanea»: il che spiega come di rado la tortura venga menzionata in tali verbali, e fosse nondimeno sovente applicata. Le condanne più dure andavano, in ordine crescente, dalla confi sca dei beni alla prigione e alla morte. Quest’ultima riguardava i rei «impenitenti» – che cioè, convinti d’eresia, rifi utavano di abiurare e di chieder perdono – e i relapsi, cioè quelli che, dopo aver confessato, ritrattavano una confessione formalmente resa e mostravano di voler tornare all’errore.

I POVERI, I MENDICANTI, GLI AMMALATI Con Francesco d’Assisi la simbolica e l’immaginario stessi della fede cristiana saranno mutati per sempre sotto molti aspetti, fra i quali la considerazione per i poveri e i reietti della società. Dietro ogni povero, dietro ogni infelice, Francesco vedeva Gesù. Una delle sue prime attività era stata quella di vagare per le campagne assisane restaurando chiesette abbandonate e pericolanti. E, come il Cristo era povero e nudo, anche Francesco aveva scelto di vivere povero e nudo. Il Duecento era un mondo di miseria, ma anche di rapide e straordinarie fortune. E Francesco, uniformandosi al modello del Re dei Re che aveva voluto nascere povero di tutto nella stalla di Betlemme, scelse la povertà volontaria: con ciò inviando al mondo del suo tempo un messaggio ch’era anche una sfi da. Se quello era il mondo del trionfo del denaro, egli avrebbe dimostrato non già di cercarlo a sua volta (come fanno i poveri che non sono tali per loro libera scelta), bensì di stimarlo «meno delle pietre». Se quello era il mondo nel quale si cominciava ad apprezzare sempre più la scienza e la cultura, il mondo delle università, egli avrebbe vissuto come perfetto ignorante e anzi come un «pazzo», come un «giullare», dimostrando che nell’abiezione liberamente scelta c’è la perfetta letizia, e che vivere in povertà può signifi care vivere lietamente. Povertà come scelta gioiosa; vivere facendo penitenza, ma senza mostrare la fatica e il dolore della penitenza. Francesco non è soltanto un asceta della rinunzia: sovverte i valori del suo secolo, capovolge i giudizi correnti, sembra vivere il cristianesimo come un continuo paradosso eppure al tempo stesso con semplicità e adesione alla lettera del Vangelo, assolute. Da un uomo come lui, che avrebbe potuto avere tutto dalla vita e a tutto aveva rinunziato per seguire l’esempio del Cristo, ci si aspetterebbe un duro giudizio sulla Chiesa del suo tempo e sulla debolezza dei ministri del sacerdozio. Molti asceti perfettamente ortodossi avevano espresso giudizi del genere, ch’erano inoltre caratteristici della propaganda ereticale. Francesco, invece, insiste sulla necessità che si amino e si rispettino i sacerdoti senza pretendere da loro prove di cristianesimo superiori a quelle che essi riescono a dare.

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Che il suo modo di vivere così semplice e povero avrebbe potuto farlo prendere per un «perfetto» cataro egli lo sapeva. Ma a ciò poneva facilmente rimedio differenziandosi sempre secondo un modello di carità. I catari non potevano mangiare niente che fosse «il prodotto della generazione»: quindi né carne, né uova, né derivati del latte. Francesco mangiava sempre tutto quel che gli veniva posto dinanzi. Ancora, i maestri catari predicavano che il mondo è un inganno del Dio delle Tenebre e della Materia, che il creato è stato fatto dal Dio malvagio: Francesco rispose scrivendo il Cantico delle creature, che non è soltanto una grande poesia, ma è anche un perfetto trattato di teologia anticatara. Scegliendo la povertà, l’umiltà e l’obbedienza assolute, non volle dettare alcun modello universalmente valido: tale durissima norma di vita era soltanto sua e di quelli che liberamente vorranno seguirla. Ma, per loro, era assoluta e non ammetteva deroghe. Per quanto egli avversasse denaro, cultura, comodità non di per sé, bensì in quanto reputava che la sua via si basasse sulla rinunzia ad esse. E dovette vedere con crescente apprensione che i francescani stavano invece diventando colti, accettando doni e ricchezze (anche se formalmente queste non venivano incamerate dall’Ordine, bensì dalla Santa Sede); addirittura – con la scusa di poter meglio servire il prossimo – qualcuno di loro chiedeva che si temperasse la Regola che egli aveva redatto nel 1221. Francesco accettò dunque di stenderne una seconda, nel 1223, ma ad essa pretenderà che i francescani siano assolutamente fedeli, accettandola alla lettera e «senza commento», cioè senza interpretazioni. Nel 1224, sul monte della Verna, ricevette le stimmate; la sua condivisione delle sofferenze di Cristo offriva un nuovo volto al cristianesimo: non più solo religione del trionfo, simbolizzato dal Cristo in gloria, ma anche della condivisione del dolore degli ultimi e della redenzione, testimoniate dal Cristo sofferente appeso alla croce.

15. Sano di Pietro (1406-1481), San Bernardino predica nel Campo, duomo di Siena. Restano celebri le prediche di san Bernardino dedicate ai temi della proprietà, dei commerci e contro l’usura.

1. Muhammad Siyah Qalam, Campo di nomadi, inizi del XV secolo. Opera di ambiente centroasiatico con forti infl uenze cinesi. Topkapi Sarayi Müzesi, Istanbul.

2. Il caravanserraglio di Ribat-i Sharaf, 1114-1154. Nella regione iraniana del Khorasan, è posto su una direttrice carovaniera fondamentale che conduce a Bukhara e a Samarcanda.

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Capitolo XXI LA SCOPERTA DELL’ASIA

3 3. Carovane di cammelli nel particolare di una carta del XVI secolo. Palazzo Ducale, Venezia.

LE VIE COMMERCIALI TRA ASIA ED EUROPA I romani conoscevano la «via dell’incenso», che dall’estremità della penisola arabica conduceva le preziose spezie provenienti via mare dall’India o dalla Cina fi no al Mediterraneo; essi avevano anche rapporti mercantili, sia pur mediati, con l’Estremo Oriente. I contatti diretti con l’Asia profonda erano rimasti però assai scarni. Se gli europei sapevano poco dell’Asia, molto più di loro sapevano gli arabi, che erano abituati a viaggiare in quel continente e a commerciare con esso. Fin dal IX secolo i mercanti del golfo Persico frequentavano la Cina, mentre le navi giavanesi giungevano, favorite dal regime dei venti detti «monsoni», fi no alla penisola arabica. Anche per via di terra il commercio era fl orido. L’antica «via della seta» collegava le fertili pianure cinesi del Chang Jiang (Fiume Azzurro) e dello Huang He (Fiume Giallo), protette dalla «Grande Muraglia», alle metropoli arabo-iraniche (Shiraz, Isphahan, la stessa Baghdad) attraversando il deserto del Gobi, le oasi turkestane e sfi orando lo Himalaya. Tra Cina e Persia si erano andati creando piccoli regni, vassalli ora dell’uno, ora dell’altro dei due grandi imperi, e le merci passavano di carovana in carovana. L’organizzazione mercantile prevedeva che singoli convogli facessero soltanto percorsi brevi, di oasi in oasi, per poi affi dare i carichi ad altri convogli dello stesso tipo. Gli uomini, insomma, viaggiavano relativamente: ma le merci e con esse le idee e i culti compivano, al contrario, lunghi itinerari in relativamente poco tempo.

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4. Dipinto cinese con carovana di mongoli, XIV secolo. Collezione privata.

5. I domini africani del Prete Gianni in una carta di Visconte Maggiolo, XVI secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. Le merci più richieste e pregiate erano l’oro e l’argento di Sumatra, della Malesia e della Corea; il sandalo, il bambù, l’albero della canfora, da cui si estraeva un’apprezzata essenza; aromi come l’incenso e il muschio; pietre preziose come rubini e zaffi ri, provenienti da Ceylon o dall’India. Ma il mercato più ricco era forse quello delle spezie vere e proprie: pepe, noce moscata, chiodi di garofano, cinnamomo. Alcuni di questi prodotti servivano all’alimentazione, così come le derrate di minor pregio e quindi di costo minore, che però venivano esportate in quantità più rilevanti (zucchero di canna, riso, cereali). Le merci pesanti, comunque, e poco costose si trasportavano di solito per mare: non vi sarebbe stata convenienza a portarle via terra a dorso d’asino o di cammello. Di queste grandi civiltà gli occidentali delle nascenti civiltà comunali (per i quali la conoscenza dell’Asia si limitava alla penisola anatolica – l’«Asia Minore» – e alle zone più prossime al litorale libano-palestinese) non sapevano alcunché. Le notizie sull’Asia offerte dagli antichi erano per la maggior parte fantastiche. Gli occidentali erano certo molto interessati ai luoghi di provenienza di quelle spezie che erano parte importante della loro vita oppure alle gemme e alle stoffe preziose di cui i principi e la liturgia cristiana facevano grande uso: ma sulle origini di tutte queste merci erano disposti ad accettare delle fi abe. Verso la metà del XII secolo era tuttavia giunta per il tramite bizantino in Europa – anche alla corte di papa Alessandro III e dell’imperatore Federico I – una «lettera del Prete Gianni», che parlava delle varie meraviglie dell’Asia e di un grande e potente regno cristiano là esistente, a capo del quale sarebbe stato un misterioso re-sacerdote appunto detto «Prete Gianni». Scritto quasi certamente propagandistico, la lettera conteneva comunque certe allusioni a fatti storici reali: ad esempio alla organizzazione di alcuni regni turco-mongoli nel centro dell’Asia, oppure all’esistenza di varie comunità cristiano-nestoriane disseminate lungo la «via della seta» dall’Iran fi no alla Cina. L’ASSALTO MONGOLO Nel corso del XII secolo si assisté al vero e proprio risveglio dei mongoli, pastori nomadi che abitavano l’odierna Mongolia orientale, a sud-ovest della Manciuria. Gli arabi li chiamavano tatar: termine da cui i latini derivarono la parola «tartari», che ricordava l’Inferno pagano, il Tartaro. Era un gioco di parole eloquente. In pieno deserto dell’Asia, a sud del lago Balkash, si era andato creando un nuovo «impero» nomade, detto del Qara-Khitai; i regnanti Song, per difendersi chiamarono in loro aiuto altre popolazioni turco-mongole, i jürchen stanziati tra Mongolia e Manciuria. Ma questi dilagarono ben presto nella stessa Cina settentrionale. Com’era accaduto nel V secolo nell’impero romano d’Occidente, ora l’impero cinese dava segni di cedimento sotto la pressione dei «barbari». Tuttavia, il territorio vastissimo tra i grandi fi umi siberiani e la Grande Muraglia era popolato di tribù nomadi in continua guerra fra loro; in questa situazione, essi erano poco pericolosi fi nché non trovarono un khan (capo) in grado di unifi carli. Della nascita di Temudjin si sa ben poco; se ne ignora perfi no la data, che si fa addirittura oscillare di una dozzina d’anni, tra 1155 e 1167. Era fi glio di un capotribù stanziato nell’alto corso dell’Onon, a est del lago Baikal, e secondo la leggenda visse l’infanzia e la prima giovinezza tra le lotte e le vendette che coinvolgevano tribù differenti. La sua ascesa cominciò quando entrò a servizio del khan dei keraiti, una tribù turco-mongola di religione cristiana e di confessione nestoriana. Temudjin sposò la fi glia del capo keraita, Borte, e da quel matrimonio ottenne le basi per ampliare successivamente il suo dominio, battendo e assimilando alla propria le tribù vicine. Nel 1206, l’intera area del Gobi era sotto il suo dominio: nel grande kuryltai (grande dieta tribale) indetto alle sorgenti del fi ume Onon egli fu proclamato Gran Khan, cioè khan supremo, di tutti i mongoli, che avevano ormai trovato una specie di unità «nazionale». Fu allora che egli ricevette il nome di Genghiz Khan, «Signore universale».

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