Clement Greenberg. L'avventura del mondernismo

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Luigi Fassi (1977) è attualmente direttore artistico dell’ar/ge kunst Galerie Museum a Bolzano. Ha curato diverse mostre in Italia e all’estero e ha all’attivo numerosi interventi critici in cataloghi e monografie. Scrive per Mousse, Artforum, Site, Flash Art e Klat.

«Solo ora, più di quindici anni dopo la sua morte, possiamo iniziare a capire Greenberg servendoci dei suoi scritti per mappare la seconda metà del xx secolo, dal momento che questo critico è stato identificato più di ogni altro con il celebrato “trionfo della pittura americana”. […] Considerata la distanza storica di mezzo secolo di molti dei suoi scritti, possiamo oggi interpretare Greenberg come paradigma e al tempo stesso motore del modernismo del xx secolo nella sua tarda fase “americana”.» Dalla prefazione di Caroline A. Jones

Clement Greenberg. L’avventura del modernismo

Giuseppe Di Salvatore (1977), dottore in filosofia, attualmente collabora al Centro Studi del Fenomeno Religioso di Verona. Attivo nelle Università di Roma “Tor Vergata”, Parigi “Sorbonne” e Ginevra, ha tradotto tre volumi di filosofi del Novecento (Coseriu, Patocka, Héring) e pubblicato diversi saggi, per lo più su tematiche di fenomenologia e di filosofia del linguaggio.

Questo volume offre la più ampia raccolta italiana di scritti di Clement Greenberg (19091994), autore indispensabile per chiunque si interessi all’epoca carica di rivoluzioni formali che dalla fine dell’Ottocento in poi vede il rapido succedersi delle avanguardie artistiche. Figura fra le più influenti e controverse della critica d’arte americana del Novecento, Greenberg assiste al declino dell’illusionismo tridimensionale della pittura da cavalletto e testimonia il progressivo affermarsi

Clement Greenberg L’avventura del modernismo Antologia critica A cura di Giuseppe Di Salvatore e Luigi Fassi

Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948

dell’astrattismo, fino al traguardo della piattezza radicale che è per lui cifra del modernismo. Tra i primi a intuire il valore dirompente della pittura di Jackson Pollock e degli espressionisti astratti americani, egli sdogana successivamente gli esponenti della Post-painterly Abstraction, tra cui Morris Louis e Kenneth Noland. Con un corpus di oltre trecento scritti, il magistero critico militante di Greenberg attraversa più di quarant’anni di nuova arte americana, contribuendo in modo decisivo a spostare il baricentro dell’arte mondiale da Parigi a New York. La selezione dei testi qui proposti è volta a sottolineare l’impronta europea del pensiero critico di Greenberg. La matrice kantiana, quella trotskista, ma anche quella italiana proveniente da Benedetto Croce e Lionello Venturi, delineano il profilo di un critico che ha saputo scandagliare in modo esemplare le vicende del modernismo nelle arti visive rivendicandone i valori di oggettività. A un’acuta analisi socioculturale del fenomeno della massificazione della cultura e delle sue conseguenze sociali, Greenberg accosta questioni a lungo dibattute come quelle del bello e della qualità, dei valori oggettivi in arte, mosso dal bisogno impellente di opporre un fronte di resistenza al degrado del kitsch e dell’accademismo. Tuttora oggetto di diatribe e indiscusso promotore dell’arte americana, Greenberg rimane un interprete di primo piano del modernismo. A più di quindici anni dalla morte, il suo lascito è imprescindibile per orientarsi nel complesso panorama artistico della seconda metà del xx secolo.

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Clement Greenberg L’avventura del modernismo Antologia critica

A cura di Giuseppe Di Salvatore e Luigi Fassi



parte Prima Posizioni teoriche



Introduzione alla Parte prima

La sezione d’apertura dell’antologia riunisce parte dei testi teorici più rilevanti della produzione critica di Greenberg, pubblicati all’interno di un arco temporale di oltre trent’anni, compreso tra il 1939 e il 1972. La sezione, come anche quelle successive, attraversa cronologicamente il corpus greenberghiano per comporre un quadro d’insieme delle sue posizioni critico-teoriche, disperse in una molteplicità di scritti e articoli per diverse testate e pubblicazioni. Compito introduttivo in questa antologia è affidato al classico “Avant-Garde and Kitsch” (“Avanguardia e kitsch”), il testo d’esordio di Greenberg critico d’arte, pubblicato nel 1939 sulle pagine della Partisan Review, rivista americana diretta da Dwight Macdonald e punto di riferimento di tutta la cultura marxista del gruppo dei New York Intellectuals. “Avanguardia e kitsch” segna al tempo stesso l’avvio critico di Greenberg e il culmine della sua fase di ispirazione trotskista. In quel testo Greenberg poneva in termini diretti e immediati il problema della cultura moderna occidentale, separata in due filoni distinti tra loro, da un lato quello della cultura alta, rappresentata dalla poesia di Thomas Stearn Eliot, dalla scrittura di James Joyce e dalla pittura di Georges Braque e Pablo Picasso giunta alle soglie dell’astrazione, dall’altro quello della cultura borghese, fatta di riviste domenicali patinate, pitture a olio convenzionali, fumetti e film hollywoodiani. Solo la prima è la cultura dell’avanguardia, votata a una sperimentazione finalizzata al mantenimento del livello più alto dell’arte in tutte le sue manifestazioni. Nell’argomentazione di Greenberg la durezza algida e severa dell’avanguardia, esclusivamente interessata ai contenuti formali e ai canoni estetici dell’arte, è la strategia di difesa opposta alla minaccia radicale rappresentata dall’accademismo borghese e dalla cultura del kitsch, tutta appiattita sulla facile accessibilità dei contenuti. Se il primo testo dell’antologia si sofferma ampiamente su una considerazione sociale dell’arte come fenomeno culturale, il secondo scritto, “Towards a Newer Laocoon” (“Verso un più nuovo Laocoonte”), pubblicato nel 1940, costituisce un primo elemento di precisazione teorica imperniato a delineare la specificità della pittura e delle arti visive in generale. Muovendo dalla originaria

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riflessione di Lessing sulla distinzione tra le diverse arti, Greenberg coglie l’occasione per affermare l’inaggirabilità della considerazione del medium specifico a ciascuna arte, smarcando così le arti visive da ogni influenza da parte del modello letterario e testuale. Se il Romanticismo ha insistito, secondo Greenberg, sulla dimensione narrativa, rappresentativa e “letterale” dell’arte, la possibilità di isolare i caratteri di pura visività e indagine formale sul proprio medium coincide nelle arti visive con la possibilità di individuare una corrente di ricerca artistica che da Courbet fino all’Espressionismo Astratto disegna l’arco del modernismo quale fenomeno segnato dalla tendenza all’astrazione. Questi due primi testi propongono le riflessioni chiave su cui Greenberg continuerà a tornare in tutta la sua produzione critica sino agli anni settanta. I testi della sezione delineano così il quadro di un interesse epistemologico per la definizione di avanguardia, che è uno dei punti centrali per comprendere la vicenda – l’avventura – del modernismo come intesa nella riflessione teorica greenberghiana. Gli anni quaranta e cinquanta sono quelli in cui Greenberg matura tutto l’apparato teorico di base che determina la bussola di orientamento del suo lavoro critico. “Piattezza” (flatness) e bidimensionalità, astrazione e visività, integrità del piano pittorico e rifiuto di ogni dimensione narrativa, ovvero riflessione dell’arte sul proprio medium e rifiuto della sola rappresentazione 32

e dei suoi effetti illusionistici, sono tutte coppie concettuali chiave che Greenberg individua come orientamenti essenziali del modernismo in pittura. Il medium pittorico rimane costantemente privilegiato da Greenberg, che tuttavia lo legge in continuo raffronto con lo sviluppo della scultura e dei processi formali di quest’ultima, a volte ispirata a volte ispiratrice della pittura nella comune tendenza verso l’astrazione e la bidimensionalità. Il nucleo teorico di questi scritti è incentrato per Greenberg proprio sul processo di autodefinizione critica del modernismo, che sancisce l’eliminazione da ogni medium artistico di tutti quegli effetti che non gli appartengono per essenza. Tale concezione culmina per rigore concettuale in un testo chiave pubblicato nel 1960, “Modernist Painting” (“Pittura modernista”, testo 1.16), un breve saggio composto con l’autorevolezza di un testo giuridico in cui Greenberg riassume le sue posizioni sul modernismo. Quasi un manifesto programmatico, le pagine di “Pittura modernista” segnano l’apice dell’influenza del magistero critico di Greenberg e, allo stesso tempo, un punto di non ritorno all’interno della storia della critica d’arte americana, lo spartiacque di un potere assoluto, quello di Greenberg, destinato a declinare progressivamente da lì in poi. Gli altri scritti della sezione illustrano al meglio l’ambiguità apparentemente irrisolta tra carattere descrittivo e carattere prescrittivo del lavoro di Greenberg. Descrittivo è il metodo secondo cui egli interpretava il suo lavoro critico – la proposizione di una sintesi del percorso storico del modernismo occidentale – mentre prescrittivo è il modo in cui i suoi testi venivano letti e re-


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cepiti, nella forma di un diktat repressivo, interessato a governare e orientare il percorso dell’arte americana in una sola, predeterminata direzione. L’aspetto descrittivo della critica greenberghiana è tutto improntato all’oggettività della distinzione tra arte buona e cattiva e all’oggettività della distinzione (diversa dalla prima) tra arte alta, superiore, “avanzata” e arte minore. Se tale oggettività è interpretata su un piano prescrittivo la critica di Greenberg risulterà facilmente un dogma arbitrario e prepotente, in quanto l’oggettività in arte è idea tradizionalmente scivolosa e problematica. Bisogna tuttavia sottolineare come l’oggettività che Greenberg rivendica per il giudizio critico in arte sia una nozione complessa. Infatti, tale oggettività non assume mai una connotazione scientista1 o universalista: Greenberg la ancora sia alla priorità dell’esperienza individuale e “del vivo incontro” con l’opera d’arte2 (ma necessariamente accompagnata dalla dedizione e lo sforzo per un continuo aggiornamento dell’esperienza stessa), sia alla necessità del contesto storico di riferimento. Se si può sempre giudicare buona o cattiva tanto l’arte minore quanto l’arte alta, “avanzata”, quest’ultima si distingue dalla prima solo in riferimento alla contingenza di una data epoca storico-culturale. Per Greenberg, dunque, la rivendicazione dell’arte astratta come arte alta, e più precisamente d’avanguardia, è valutazione che dipende dal contesto storico: «Credo che l’arte migliore della nostra epoca sia la più astratta, ma avrei potuto augurarmi che non fosse così. Se tutte le altre opzioni fossero di egual valore (cosa che, certo, non accade mai), anch’io preferirei l’arte illusionista. Ma i critici d’arte non possono esprimersi esclusivamente secondo il loro gusto [perché devono tenere conto di quale arte di valore esista nella loro epoca]».3 Dai testi della prima sezione emerge infine tutta la complessità storica delle radici culturali di Greenberg, caratterizzate dall’influenza dell’Illuminismo europeo e del criticismo kantiano (anche nelle sue versioni moderne, si veda il testo 1.5 su Ernst Cassirer), dal rapporto con il pensiero di Benedetto Croce e

1 Si veda di Greenberg “Introduction to an Exhibition of Adolph Gottlieb” (“Introduzione a una mostra di Adolph Gottlieb”), testo n. 6 del primo volume di The Collected Essays and Criticism, a c. di John O’Brian, quattro volumi, University of Chicago Press, 1986-1993 (d’ora in avanti abbreviato come cec, seguito dal numero romano per l’indicazione del volume). Per una posizione più sfumata sull’apporto del metodo scientifico: «Il metodo scientifico non è di alcuna utilità nella formazione del giudizio estetico, ma può guidarci nell’eliminazione di tutto ciò che è estraneo a esso», in “T.S. Eliot: The Criticism, The Poetry” (“T.S. Eliot: critica e poesia”), in cec, iii, testo n. 16, p. 67; trad. it. di E. Negri Monateri, in Arte e cultura, Allemandi, Torino 1991. 2 Sull’esperienza: «Come l’artista, il buon critico opera, si esprime su più di quanto conosce in modo consapevole. È capace di generalizzare meglio dall’esperienza che dal ragionamento», in “T.S. Eliot”, cit., p. 66. 3 “I prefer illusionism”, in cec, iv, testo n. 20, p. 101.

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dal dialogo contemporaneo con gli scritti americani di Lionello Venturi.4 Sin da questa prima sezione dell’antologia il lettore può dunque familiarizzarsi con il peso specifico dell’eredità del pensiero moderno europeo e italiano nella formazione di Greenberg. Proprio la matrice illuminista ha infatti un ruolo decisivo nella capacità del critico americano di svolgere argomentazioni filosoficamente complesse riguardo alla nozione di gusto, al ruolo dell’esperienza nell’attività di giudizio estetico e all’importanza dell’analisi del contesto socio-culturale per la giusta comprensione dell’opera d’arte. Nell’ambito di questi importanti riferimenti culturali, la prima sezione offre anche una ricognizione ad ampio raggio dei molteplici interessi di Greenberg: per tutta la sua carriera di critico militante egli scrive anche di fotografia, di narrativa, di poesia e di ebraismo, occupandosi della poetica di autori come Franz Kafka, T.S. Eliot e Bertolt Brecht. Quest’ultimo aspetto può essere ampiamente approfondito nella terza sezione dell’antologia. A guisa di orientamento e invito alla lettura può essere opportuno segnalare qui alcune questioni meno generali e indicare qualche riferimento utile. La questione difficile ma importante del “contenuto” in arte, che sia contrapposto o meno alla nozione di forma, viene trattato nei testi 1.5, 1.18 e 1.19. 34

Per approfondimenti, si veda anche la polemica con il critico Max Kozloff, seguita alla pubblicazione del testo qui testo 1.18.5 Un trattamento delle teorie di Mondrian, che resta “sul campo” l’artista teoricamente più maturo per Greenberg, si trova nei testi 1.4, 1.8 e 1.11. Su Lionello Venturi, sul quale si possono qui leggere i testi 1.6 e 2.12, può essere prezioso riportare questo passo di “The Wellsprings of Modern Art: Review of Modern Painters by Lionello Venturi” (“Le origini dell’arte moderna: recensione di Modern Painters di Lionello Venturi”, non presente nell’antologia): «L’estetica del professor Venturi è crociana, poiché è retta da un relativismo storico che si applica agli stili artistici, ma implicitamente aderisce all’idea di uno standard di qualità assoluto. Una grande opera d’arte, infatti, è secondo Venturi il risultato di un’interazione tra l’artista e la sua epoca in cui la personalità del primo e il contenuto della seconda raggiungono la loro espressione più appropriata, più spiritualizzata o “ideale” e con ciò toccano, attraverso una specie di processo dialettico, quanto è profondamente comune a ogni essere umano in ogni epoca. Pigmento, tela, pietra e bronzo sono composti in

4 Su questo punto ci permettiamo di rinviare alla nostra “Introduzione” e alla “Prefazione” di Caroline A. Jones. 5 In “Critical Exchange with Max Kozloff and Robert Goldwater about ‘Complaints of an Art Crtitic’” (“Scambio critico con Max Kozloff e Robert Goldwater su ‘Lagnanze di un critico d’arte’ [qui testo 1.18]”), in cec, iv, testo n. 56.


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forme che appartengono puramente alla coscienza umana. Chi mai potrebbe dissentire?».6 Nonostante il ruolo fondamentale del medium come supporto materiale su cui riflettere, può essere interessante riportare i due passi seguenti di Greenberg in favore della centralità dell’ispirazione, contrapposta all’esecuzione e sempre in riferimento all’estetica crociana: «Qual è la fonte ultima del valore o della qualità in arte? La risposta risolutiva pare essere la seguente: non le capacità, l’esercizio o qualsiasi altro cosa che ha a che fare con l’esecuzione e la performance, ma unicamente l’ideazione. La cultura o il gusto possono essere una condizione necessaria all’ideazione, ma l’ideazione sola è discriminante. L’ideazione può anche essere chiamata invenzione, ispirazione, oppure intuizione (nel senso di Croce, che ha anticipato teoricamente quello che la pratica ha appena scoperto e confermato per conto suo). È vero che le capacità erano abitualmente il veicolo dell’ispirazione e facevano le veci dell’ideazione, ma questo accadeva quando la migliore arte pittorica era per lo più di tipo naturalistico. Solo l’ispirazione appartiene interamente a ciò che è individuale, unico; ogni altra cosa, capacità comprese, può essere acquisita da chiunque. L’ispirazione rimane l’unico fattore nella creazione di un’opera d’arte di successo che non può essere copiato né imitato»;7 «Come Mondrian, Pollock dimostra che non le capacità o l’abilità, ma l’ispirazione, la visione, la decisione intuitiva è quello che conta essenzialmente nella creazione della qualità estetica. L’ispirazione si dichiara nell’ideazione integrale di un’opera: nella scelta, nella collocazione, nel mettere in relazione gli elementi all’interno dell’opera. L’esecuzione, in realtà, è concentrata piuttosto su se stessa (il filosofo italiano Benedetto Croce ha colto questo punto già molto tempo fa). Non importa quanto l’esecuzione è capace di restituire dell’ideazione, le scelte fondamentali continuano ad appartenere all’ispirazione e non alle capacità manuali».8 In un certo senso equivalente al privilegio per l’ispirazione sull’esecuzione è il privilegio che Greenberg a più riprese ribadisce a favore del “temperamento”, il “carattere” di un artista e di un’opera.9 Greenberg si è raramente occupato di altre discipline che non fossero pittura, scultura e letteratura. Di un testo sulla fotografia vogliamo riportare qui

6 In cec, ii, testo n. 68, pp. 175-176. 7 In “After Abstract Expressionism” (“Dopo l’Espressionismo Astratto”), in cec, iv, testo n. 27, p. 132. 8 In “Jackson Pollock: ‘Inspiration, Vision, Intuitive Decision’” (“Jackson Pollock: ‘ispirazione, visione, decisione intuitiva’”), in cec, iv, testo n. 51, p. 247. 9 A questo proposito si vedano “Review of The Angry at the Sun and Other Poems by Robinson Jeffers” (“Recensione di The Angry at the Sun e altre poesie di Robinson Jeffers”), in cec, i, testo n. 19, e “Review of Exhibitions of the American Abstract Artists, Jacques Lipchitz, and Jackson Pollock” (“Recensione delle mostre degli Artisti Astratti Americani, di Jacques Lipchitz e di Jackson Pollock”), in cec, ii, testo n. 33.

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questo significativo passaggio: «L’arte nella fotografia è arte letteraria prima di essere qualsiasi altra cosa: i suoi trionfi e monumenti sono storici, aneddotici, informativi, osservativi, ancor prima di essere puramente pittorici. […] Come nella prosa, la “forma” in fotografia è riluttante a divenire “contenuto” […]. È per questo che ci sono così tante immagini fatte con intento documentario tra i capolavori della fotografia. Ma questi ultimi sono divenuti capolavori nella misura in cui sono andati al di là del documentario […]. Il puramente descrittivo o informativo è per l’arte fotografica una minaccia quasi ugualmente grande del puramente formale o astratto».10 G. D. S. - L. F.

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10 “Four Photographers: Review of A Vision of Paris by Eugène-Auguste Atget; A Life in Photography by Edward Steichen; The World Through My Eyes by Andreas Feininger; and Photographs by Cartier-Bresson, introduced by Lincoln Kirstein” (“Quattro fotografi: recensione di Una visione di Parigi, di Eugène-Auguste Atget; Una vita nella fotografia, di Edward Steichen; Il mondo attraverso gli occhi, di Andreas Feininger; Fotografie, di Cartier-Bresson, introdotto da Lincoln Kirstein”), in cec, iv, testo n. 35, p. 183. Sulla fotografia, attraverso le teorie di Ernst Gombrich, si veda anche il testo “Seeing With Inside: Review of Norm and Form by E.H. Gombrich” (“Una visione perspicace: recensione di Norma e forma di E.H. Gombrich”), in cec, iv, testo n. 53.


1.1 Avanguardia e kitsch1

Una stessa civiltà produce simultaneamente due cose tanto diverse come una poesia di T.S. Eliot e una canzone di Tin Pan Alley,2 o un dipinto di Braque e una copertina del Saturday Evening Post. Tutte e quattro rientrano nell’ordine della cultura e sono, apparentemente, parte della medesima cultura e prodotti della medesima società; tuttavia, ogni loro legame sembra finire qui. Una poesia di Eliot e una poesia di Eddie Guest: quale prospettiva culturale è abbastanza ampia da consentirci di metterle in relazione in modo illuminante? Il fatto che esista una tale diversità nella cornice di una stessa tradizione culturale, che è ed è stata data per scontata, indica forse che la diversità è parte dell’ordine naturale delle cose? O è qualcosa di completamente nuovo, caratteristico della nostra epoca? La risposta implica qualcosa di più di un’indagine nel campo dell’estetica. Mi sembra che sia necessario esaminare più da vicino, e in maniera più originale di quanto sia stato fatto finora, la relazione tra l’esperienza estetica in quanto vissuta dal singolo individuo, non quella generalizzata, e i contesti storico-sociali in cui tale esperienza si compie. Ciò che ne emergerà darà risposta, oltre alla domanda posta poco sopra, ad altre domande forse più importanti.

i Diventando sempre meno capace, nel corso del suo sviluppo, di giustificare l’inevitabilità delle sue forme specifiche, una società distrugge le nozioni universal-

1  La gran parte dei testi qui tradotti hanno come fonte i saggi raccolti da John O’Brian in quattro volumi Collected Essays and Criticism (University of Chicago Press, 1986-1993) che qui saranno indicati con la sigla “cec” seguita dal numero del volume con il numero romano. I singoli volumi sono i: Perceptions and Judgments, 1939-1944 (1986); ii: Arrogant Purpose, 1945-1949 (1986); iii: Affirmations and Refusals, 1950-1956 (1993); iv: Modernism with a Vengeance, 1957-1969 (1993). [N.d.C.] 2 È il nome che all’epoca si attribuiva all’insieme di editori e compositori di musica popolare a New York. [N.d.C.]

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mente accettate dalle quali gli artisti e gli scrittori devono in larga misura dipendere per comunicare con il loro pubblico. Diventa difficile presupporre qualsiasi cosa. Sono messe in discussione tutte le verità implicate nella religione come l’autorità, la tradizione, lo stile, e scrittori e artisti non sono più capaci di valutare la reazione del loro pubblico ai simboli e ai riferimenti con cui lavorano. In passato un simile stato di cose si è normalmente risolto in un alessandrinismo immobile, in un accademismo in cui le questioni realmente importanti non vengono toccate perché comportano un contraddittorio e le attività creative si riducono al virtuosismo dei piccoli dettagli formali, dal momento che tutte le questioni più importanti vengono decise facendo riferimento al precedente degli antichi maestri. Gli stessi temi sono meccanicamente variati in centinaia di opere diverse, eppure non si produce nulla di nuovo: Stazio, la poesia mandarina, la scultura romana, la pittura delle belle arti, l’architettura neorepubblicana. Nel confuso declino della società attuale, fra i segni di speranza c’è il fatto che noi (o almeno alcuni di noi) ci siamo rifiutati di accettare quest’ultima fase della nostra cultura. Nel tentativo di superare l’alessandrinismo una parte della società occidentale borghese ha prodotto qualcosa rimasto sino a ora inaudito: la cultura d’avanguardia. Ciò è stato reso possibile da una più profonda consapevolezza della storia: più precisamente dalla comparsa di una nuova critica 38

della società, una critica storica. Questa critica non ha messo a confronto la nostra società attuale con utopie senza tempo, ma ha esaminato ragionevolmente in termini storici e di causa ed effetto gli antecedenti, le giustificazioni e le funzioni delle forme che stanno al cuore di ogni società. Così si è mostrato come il nostro attuale ordine sociale borghese non sia un’eterna, “naturale” condizione di vita, ma semplicemente l’ultimo termine di una successione di ordini sociali. Nuove prospettive di questo tipo, divenendo parte della coscienza intellettuale più avanzata degli anni cinquanta e sessanta del xix secolo, sono state presto assorbite da artisti e poeti, anche se per lo più inconsciamente. Non è stato un caso, quindi, che la nascita dell’avanguardia abbia coinciso cronologicamente, e anche geograficamente, con il primo consistente sviluppo del pensiero scientifico rivoluzionario in Europa. È vero, i pionieri della bohème, che allora coincideva con l’avanguardia, si sono ben presto rivelati esplicitamente disinteressati alla politica. Tuttavia, se nell’aria non fossero circolate certe idee rivoluzionarie, non sarebbero mai stati capaci di isolare il loro concetto di “borghese” per definire ciò che essi stessi non erano, né, senza il sostegno morale delle tendenze politiche rivoluzionarie, avrebbero avuto il coraggio di affermare così aggressivamente i propri diritti contro i modelli sociali predominanti. Per questo serviva coraggio, perché l’emigrazione dell’avanguardia dalla società borghese alla bohème significava anche l’abbandono dei mercati del capitalismo, in balia del quale erano stati lasciati artisti e scrittori dopo la scomparsa del mecenatismo aristocratico (in


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apparenza, almeno, significava questo – ovvero, letteralmente, morire di fame in una soffitta – ma in realtà, come vedremo in seguito, l’avanguardia è rimasta attaccata alla società borghese proprio perché aveva bisogno del suo denaro). Eppure è vero che, dopo essere riuscita a “staccarsi” dalla società, l’avanguardia procedette ripudiando la politica rivoluzionaria così come quella borghese. La rivoluzione è stata lasciata all’interno della società, come parte del tumulto di quella lotta ideologica che l’arte e la poesia trovano così poco propizia non appena inizi a coinvolgere quelle “preziose” credenze assiomatiche sulle quali la cultura ha dovuto poggiare fino ad allora. Pertanto, è emersa la posizione secondo cui la funzione autentica e più importante dell’avanguardia non è di “sperimentare”, ma di trovare un percorso lungo il quale sia possibile mantenere la cultura in movimento in mezzo alla confusione ideologica e alla violenza. Allontanandosi completamente dal pubblico, poeti o artisti d’avanguardia cercavano di tenere alto il livello della propria arte restringendola o elevandola a espressione di un assoluto in cui ogni relativismo e contraddizione sarebbe stato risolto o reso comunque irrilevante. Allora sono entrate in scena l’“arte per l’arte” e la “poesia pura”, e il soggetto o contenuto è diventato qualcosa da evitare come la peste. È andando alla ricerca dell’assoluto che l’avanguardia è pervenuta all’arte e anche alla poesia “astratta” o “non oggettiva”. Il poeta o artista d’avanguardia cerca in effetti di imitare Dio creando qualcosa di valido unicamente in sé, proprio come la natura è valida in sé, o come un paesaggio, e non la sua rappresentazione, è esteticamente valido, creando qualcosa di dato, quindi non già creato; qualcosa di slegato da significati, somiglianze o originali. Il contenuto deve dissolversi così completamente nella forma che l’opera d’arte o di letteratura non può ridurre, in toto o in parte, ad altro che a se stessa. Ma l’assoluto è assoluto, e al poeta o all’artista in quanto tali certi valori relativi stanno più a cuore di altri. Gli stessi valori in nome dei quali egli invoca l’assoluto sono valori relativi, sono i valori dell’estetica: così egli scopre che non sta imitando Dio (e qui uso il verbo “imitare” in senso aristotelico), ma le discipline e i processi dell’arte e della letteratura stesse. Questa è la genesi dell’“astrattismo”.3 Nel distogliere l’attenzione dagli argomenti dell’esperienza

3 È interessante l’esempio della musica, che è stata per lungo tempo un’arte astratta e che la poesia d’avanguardia ha tanto cercato di imitare. La musica, ha affermato stranamente Aristotele, è la più imitativa e la più viva fra tutte le arti perché riproduce il suo modello originale – lo stato d’animo – con la massima immediatezza. Oggi questo ci colpisce come l’esatto opposto della verità, perché ci sembra che nessun’arte faccia meno riferimento della musica a qualcosa di esterno. Tuttavia, a parte che in un certo senso Aristotele può ancora aver ragione, è necessario spiegare che l’antica musica greca era strettamente associata alla poesia, e che dipendeva dal suo carattere di accessorio del verso rendere evidente il suo significato imitativo. Platone, parlando di musica, afferma: «Poiché quando non ci sono parole, è molto difficile riconoscere il significato dell’armonia e del ritmo, o vedere che

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comune, il poeta o artista la rivolge al medium del proprio mestiere. Se deve avere una validità estetica, il non figurativo o “astratto” non può essere arbitrario o accidentale, ma deve nascere dall’obbedienza a un qualche obbligo o modello originale. Una volta che si è rinunciato al mondo dell’esperienza esterna, comune, si può ritrovare quest’obbligo solo in quegli stessi processi o discipline con i quali l’arte e la letteratura hanno imitato in passato il mondo dell’esperienza comune. Tali processi e discipline diventano essi stessi oggetto dell’arte e della letteratura. Se, per restare nel tracciato aristotelico, tutta l’arte e la letteratura sono delle imitazioni, allora quello che abbiamo qui è l’imitazione dell’atto stesso di imitare. Per citare Yeats: Nor is there singing school but studying Monuments of its own magnificence.4

Picasso, Braque, Mondrian, Miró, Kandinsky, Brancusi, persino Klee, Matisse e Cézanne traggono la loro principale ispirazione dal medium con cui lavorano.5 L’emozione della loro arte sembra risiedere principalmente nell’interesse esclusivo verso l’invenzione e la sistemazione di spazi, superfici, forme, colori ecc., escludendo tutto ciò che non è necessariamente implicato in questi fatto40

ri. L’attenzione di poeti come Rimbaud, Mallarmé, Valéry, Éluard, Pound, Hart Crane, Stevens, e persino Rilke e Yeats, pare concentrarsi sul tentativo di creare poesia e sui “momenti” stessi della conversione poetica piuttosto che sull’esperienza da convertire in poesia. Ovviamente questo non può eliminare altri interessi nel loro lavoro, poiché la poesia tratta con le parole e le parole devono comunicare. Alcuni poeti come Mallarmé e Valéry6 sono più radicali di altri a questo proposito, per non parlare di quei poeti che hanno provato a comporre poesia di puro suono. In ogni modo, se fosse più facile definire la poesia, quella moderna sarebbe molto più “pura” e “astratta”. Quanto agli altri campi della letteratura,

ogni oggetto degno è imitato da essi». Per quanto ne sappiamo, tutta la musica in origine adempiva a questa funzione. Ma quando ha perso questa funzione è stata costretta a ritirarsi in se stessa per trovare una regola o un proprio modello originale. Questo si trova nei vari modi della sua stessa composizione ed esecuzione. 4 Sailing to Byzantium (1926): «Non v’è altra scuola di canto se non lo studio / Dei monumenti della sua magnificenza», trad. it. di G. Melchiori, Verso Bisanzio, vv. 13-14, in Quaranta poesie, Einaudi, Torino 1965. [N.d.T.] 5 Devo questa formulazione a un’osservazione fatta da Hans Hofmann, l’insegnante di pittura, in una delle sue conferenze. Nell’ottica di questa formulazione, il Surrealismo nelle arti plastiche è una tendenza reazionaria che sta cercando di reintegrare il soggetto “esterno”. La principale preoccupazione di un pittore come Dalí è rappresentare i processi e i concetti della propria coscienza, non i processi del proprio medium. 6 Cfr. le osservazioni di Valéry sulla sua stessa poesia.


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la definizione di estetica dell’avanguardia qui proposta non è un letto di Procuste. Ma, a parte il fatto che molti dei nostri migliori romanzieri contemporanei sono andati a scuola con l’avanguardia, è significativo che il libro più ambizioso di Gide sia un romanzo sullo scrivere un romanzo, e che Ulisse e Finnegans Wake di Joyce sembrino essere soprattutto, come dice un critico francese, la riduzione dell’esperienza a espressione per amore dell’espressione, dove l’espressione conta più di ciò che viene espresso. Che la cultura d’avanguardia sia imitazione dell’atto di imitare è un fatto che non richiede né approvazione né disapprovazione. È vero che questa cultura contiene al suo interno parte dello stesso alessandrinismo che cerca di superare. I versi citati da Yeats si riferivano a Bisanzio, che è molto vicina ad Alessandria d’Egitto: in un certo senso questa imitazione dell’atto di imitare è un tipo superiore di alessandrinismo. Ma vi è una differenza molto importante: l’avanguardia si muove, mentre l’alessandrinismo resta immobile. È proprio questo che giustifica i metodi dell’avanguardia e li rende necessari: la necessità sta nel fatto che con nessun altro mezzo è oggi possibile creare arte e letteratura di alto livello. Trovare da ridire su questa necessità utilizzando a caso termini come “formalismo”, “purismo”, “torre d’avorio” e così via, è stupido o disonesto. Ma questo non vuol dire che l’avanguardia è quella che è per opportunità sociale. È proprio il contrario. La specializzazione autoreferenziale dell’avanguardia, il fatto che i suoi migliori artisti siano “artisti di artisti”, i suoi migliori poeti “poeti di poeti”, le ha alienato la simpatia di molti fra coloro che prima erano in grado di godere e apprezzare l’arte e la letteratura di una certa ambizione, ma che ora non sono disposti o capaci di iniziarsi ai segreti del mestiere. Le masse sono sempre rimaste più o meno indifferenti al processo di sviluppo della cultura, ma oggi questa cultura viene abbandonata anche da coloro ai quali essa appartiene: la nostra classe dirigente. Perché è a essa che l’avanguardia appartiene. Nessuna cultura può svilupparsi senza una base sociale, senza una fonte di reddito stabile. Nel caso dell’avanguardia quest’ultima era fornita da un’élite all’interno della classe dirigente di quella società dalla quale pretendeva di essere tagliata fuori, ma alla quale è sempre rimasta attaccata grazie a un cordone ombelicale d’oro. Il paradosso è realtà. E ora questa élite si sta restringendo rapidamente. Siccome l’avanguardia costituisce l’unica cultura vivente che abbiamo in questo momento, nell’immediato futuro la sopravvivenza della cultura in generale è messa a repentaglio. Non dobbiamo lasciarci ingannare da fenomeni superficiali o da successi locali. Le mostre di Picasso attirano ancora le folle, e T.S. Eliot viene insegnato nelle università. I mercanti d’arte moderna fanno ancora affari e gli editori pubblicano ancora della poesia “difficile”; ma l’avanguardia, subodorando già il pericolo, diventa sempre più timida ogni giorno che passa. Accademismo e affarismo si affacciano nei luoghi più impensati. Questo può voler dire solo una

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cosa: che l’avanguardia è sempre più insicura del pubblico da cui dipende, quello ricco e colto. È la natura stessa dell’avanguardia la sola responsabile del pericolo in cui si trova? O si tratta solo di una tendenza pericolosa? Vi sono implicati altri fattori, forse più importanti?

ii Dove c’è un’avanguardia troviamo di solito anche una retroguardia. Infatti, contemporaneamente alla comparsa dell’avanguardia un nuovo fenomeno culturale è venuto alla luce nell’Occidente industrializzato: quello che i tedeschi chiamano col meraviglioso nome di kitsch, cioè l’arte e la letteratura commerciali, popolari, con i loro rotocalchi, le copertine delle riviste, le illustrazioni, le inserzioni pubblicitarie, la narrativa su carta patinata o i romanzi pulp, i fumetti, la musica Tin Pan Alley, il tip tap, i film di Hollywood ecc. Per qualche ragione questo gigantesco fenomeno è sempre stato dato per scontato. È arrivato il momento di investigare i suoi come e i suoi perché. Il kitsch è un prodotto della rivoluzione industriale, la quale ha urbanizzato le masse dell’Europa occidentale e dell’America e ha istituito la cosiddetta alfa42

betizzazione universale. Prima l’unico mercato per una cultura ufficiale diversa dalla cultura popolare trovava spazio tra coloro che, oltre a essere capaci di leggere e scrivere, potevano disporre degli agi e del benessere che vanno sempre di pari passo con una certa cultura. Fino ad allora tutto ciò era inestricabilmente collegato all’alfabetizzazione, ma con l’introduzione dell’alfabetizzazione universale saper leggere e scrivere è divenuto una capacità quasi scontata come guidare l’automobile, per cui non è più servito a contraddistinguere le inclinazioni culturali di un individuo dal momento che aveva smesso di essere un’esclusiva dei gusti raffinati. I contadini che si sono stabiliti nelle città come proletariato e la piccola borghesia hanno imparato a leggere e scrivere per ragioni di utilità, senza però raggiungere gli agi e il benessere necessari a godere della cultura urbana tradizionale. Tuttavia, perdendo il gusto per la cultura popolare il cui retroterra era la campagna, e scoprendo allo stesso tempo di avere una nuova capacità, quella di annoiarsi, le nuove masse urbane hanno fatto pressione sulla società affinché procurasse loro un genere di cultura adatto al loro consumo. Per soddisfare la domanda di questo nuovo mercato, è stato così escogitato un nuovo prodotto: il surrogato culturale (ersatz culture), il kitsch, destinato a coloro che, insensibili ai valori della vera cultura, sono tuttavia avidi di quelle distrazioni che solo la cultura di un certo tipo può fornire. Il kitsch, utilizzando come materia prima i simulacri degradati e accademizzati della vera cultura, accoglie e coltiva questa insensibilità. È la fonte dei


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suoi profitti. Il kitsch è meccanico e opera secondo formule. Il kitsch è esperienza di seconda mano e sensazione falsa. Il kitsch cambia a seconda dello stile, ma resta sempre lo stesso. Il kitsch è la sintesi di tutto ciò che è spurio nella vita di oggi. Il kitsch dice di non chiedere nulla ai suoi clienti a parte i loro soldi: non chiede neanche il loro tempo. Il presupposto del kitsch, una condizione senza la quale il kitsch non sarebbe possibile, è di avere a portata di mano la disponibilità di una tradizione culturale pienamente matura, delle cui scoperte, acquisizioni e compiuta autocoscienza il kitsch può approfittare per i propri fini. Da essa il kitsch prende a prestito dispositivi, espedienti, stratagemmi, pratiche e temi, li converte in un sistema e scarta il resto. Trae la propria linfa vitale, per così dire, da questa riserva di esperienze accumulate. È questo che si intende veramente quando si afferma che l’arte e la letteratura popolari di oggi sono l’arte e la letteratura audaci ed esoteriche di ieri. Ovviamente, questo non è vero. Quello che si vuol dire è che quando è trascorso abbastanza tempo, il nuovo viene saccheggiato per creare delle nuove “miscele”, che vengono poi diluite e servite come kitsch. È evidente che tutto il kitsch è accademico; e viceversa, tutto ciò che è accademico è kitsch, perché ciò che viene definito accademico non ha più un’esistenza autonoma in quanto tale, ma diviene la “facciata” ufficiosa del kitsch. I metodi industriali soppiantano quelli artigianali. Dato che può essere prodotto meccanicamente, il kitsch è diventato parte integrante del nostro sistema produttivo, mentre la cultura vera non potrebbe mai esserlo, se non accidentalmente. Il kitsch è stato capitalizzato con investimenti enormi che devono produrre adeguati profitti ed è costretto ad ampliare e mantenere i suoi mercati. Benché il kitsch sia sostanzialmente il piazzista di se stesso, gli è stato tuttavia creato attorno un grosso apparato di vendita, che esercita pressione su ogni membro della società. Si mettono trappole persino in quelle aree che rappresentano, per così dire, le “zone protette” della cultura autentica. Oggi, in un paese come il nostro un certo interesse per la cultura non è sufficiente: si deve avere una vera passione culturale che dia la forza di resistere ai falsi articoli che ci circondano e fanno pressione su di noi da quando siamo abbastanza grandi per sfogliare i giornaletti. Il kitsch inganna. È di molti livelli diversi, e alcuni sono abbastanza alti da essere pericolosi per chi è ingenuamente alla ricerca della vera luce. Una rivista come il New Yorker, che è sostanzialmente del kitsch di alta classe per il mercato di lusso, converte e diluisce per i propri usi e consumi una gran quantità di materiale d’avanguardia. Ma non tutti i prodotti kitsch sono affatto privi di valore: ogni tanto il kitsch produce qualcosa di valido, qualcosa che ha un autentico sapore popolare: questi pochi casi isolati hanno ingannato la gente, che dovrebbe avere più buon senso. Gli enormi profitti del kitsch sono una fonte di tentazione per l’avanguardia stessa, e non sempre i suoi membri vi hanno resistito. Scrittori e artisti ambiziosi finiscono per modificare il proprio lavoro sotto la pressione del kitsch, sem-

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pre che non gli soccombano del tutto. Così appaiono sconcertanti casi limite, come il gran successo dei romanzi di Simenon in Francia e di Steinbeck nel nostro paese. Il risultato finale è sempre a scapito della vera cultura, in ogni caso. Il kitsch non è rimasto confinato alle città in cui è nato, ma si è riversato nelle campagne, spazzando via la cultura popolare. Non ha mostrato alcun rispetto neanche per i confini geografici e per quelli delle culture nazionali. Ennesimo prodotto di massa dell’industrialismo occidentale, ha fatto trionfalmente il giro del mondo, rubando spazio alle culture locali e deturpandole in una serie di colonie, così che ora sta diventando una cultura universale, la prima cultura universale che si sia mai vista. Oggi cinesi e indiani del Sud America, indù e polinesiani, ai propri prodotti artistici preferiscono le copertine delle riviste, le rubriche dei rotocalchi e le ragazze da calendario. Come si spiega questa virulenza del kitsch, questa sua irresistibile attrattiva? Naturalmente il kitsch fatto a macchina costa meno del prodotto d’artigianato locale, e il prestigio dell’Occidente ha un suo peso: ma perché il kitsch è un articolo d’esportazione tanto più redditizio di Rembrandt? Dopo tutto, l’uno può essere riprodotto a buon mercato come l’altro. Nel suo ultimo articolo sul cinema sovietico uscito sulla Partisan Review, Dwight Macdonald fa notare che negli ultimi dieci anni il kitsch è diventato la cultura predominante nella Russia sovietica. Di questo attribuisce la colpa al 44

regime politico, non solo per il fatto che il kitsch è la cultura ufficiale, ma anche perché in effetti è la forma di cultura predominante, quella più popolare. A questo proposito cita il seguente passo da The Seven Soviet Arts (Le sette arti sovietiche) di Kurt London: «L’atteggiamento delle masse sia verso i vecchi sia verso i nuovi stili artistici continua in sostanza a dipendere dalla natura dell’istruzione offerta loro dai rispettivi Paesi». Prosegue Macdonald: «Perché, dopo tutto, dei contadini ignoranti dovrebbero preferire Repin (un esponente guida del kitsch accademico russo in pittura) a Picasso, la cui tecnica astratta non è più lontana dalla loro arte popolare primitiva di quando lo sia il realismo di Repin? No, se le masse affollano il Tretyakov (il museo moscovita di arte contemporanea: kitsch) è principalmente perché sono state condizionate a rifuggire dal “formalismo” e ad ammirare il “realismo socialista”». In primo luogo, non si tratta di scegliere semplicemente tra vecchio e nuovo, come London sembra pensare, ma di scegliere fra un vecchio cattivo, rimodernato, e un nuovo genuino. L’alternativa a Picasso non è Michelangelo, ma il kitsch. In secondo luogo, nella Russia arretrata come nell’Occidente avanzato le masse non preferiscono il kitsch semplicemente perché i rispettivi governi le condizionano in quel senso: dove i sistemi scolastici si prendono il disturbo di nominare l’arte, ci dicono di rispettare gli antichi maestri, non il kitsch. Eppure alle pareti di casa appendiamo Maxfield Parrish o i suoi equivalenti, non Rembrandt o Michelangelo. Inoltre, come fa notare lo stesso Macdonald, quando intorno al 1925 il regime sovietico incoraggiava il cinema d’avanguardia, le


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masse russe continuavano a preferire i film hollywoodiani. No, il “condizionamento” non spiega la potenza del kitsch. Tutti i valori sono valori umani, valori relativi, in campo artistico come in ogni altro campo. Eppure, nel corso del tempo sembra esserci stato un accordo generale nella parte colta dell’umanità su ciò che è buona e ciò che è cattiva arte. Il gusto è cambiato, ma non oltre un certo limite: gli intenditori di oggi convengono con quelli giapponesi del xviii secolo che Hokusai è stato uno dei più grandi artisti del suo tempo; conveniamo persino con gli egizi sul fatto che l’arte della Terza e Quarta dinastia fosse la più degna di essere presa a modello dalle generazioni successive. Può darsi che a un certo punto si sia giunti a preferire Giotto a Raffaello, ma ancora oggi non si nega che Raffaello fosse uno dei migliori pittori del suo tempo. Dunque è sempre esistito un consenso, e credo che questo consenso si regga su una distinzione abbastanza costante tra i valori che si possono trovare solo nell’arte e quelli che si trovano altrove. Il kitsch, grazie a una tecnica razionalizzata che attinge alla scienza e all’industria, ha in pratica cancellato questa distinzione. Vediamo per esempio cosa succede quando uno dei contadini russi ignoranti citati da Macdonald si trova con ipotetica libertà di scelta davanti a due dipinti, uno di Picasso e l’altro di Repin. Nel primo egli vede, diciamo, un gioco di linee, colori e spazi che rappresenta una donna. La tecnica astratta (accettando l’ipotesi di Macdonald, di cui tendo a dubitare) gli ricorda in qualche modo le icone che ha lasciato nel suo villaggio e si sente attratto da questa presunta familiarità. Non è neanche da escludere che intuisca vagamente alcuni dei grandi valori artistici che le persone colte trovano in Picasso. Poi guarda il quadro di Repin e vede una scena di battaglia. La tecnica, in sé, non è così familiare. Ma questo conta assai poco per il contadino, che improvvisamente scopre nel quadro di Repin valori che sembrano di molto superiori ai valori che è stato abituato a trovare nell’arte dell’icona. Proprio la scarsa familiarità è una delle fonti di quei valori: i valori dell’immediata riconoscibilità, del miracoloso e della sintonia emotiva. Nel dipinto di Repin il contadino riconosce e vede le cose nel modo in cui le riconosce e le vede al di fuori dei quadri: non c’è discontinuità tra arte e vita, nessun bisogno di accettare una convenzione e dirsi che quell’icona rappresenta Gesù perché intende rappresentare Gesù, anche se non ricorda granché la figura di un uomo. Il fatto che Repin sappia dipingere in maniera così realistica tanto che l’identificazione è immediata e non richiede alcuno sforzo da parte dello spettatore, questo sì è miracoloso. Il contadino si compiace anche della ricchezza di significati ovvi che trova nel quadro: “racconta una storia”. In confronto, Picasso e le icone sono così sterili e austere. E poi Repin intensifica la realtà e la drammatizza: il tramonto, granate che esplodono, uomini che corrono e che cadono. Picasso e le icone sono fuori gioco. È Repin che il contadino vuole, Repin e nient’altro. Comunque è una fortuna, per Repin, che il contadino sia protetto contro i prodotti del capitalismo

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americano, perché non avrebbe nessuna possibilità di riuscita nel confronto con una copertina del Saturday Evening Post disegnata da Norman Rockwell. Infine, si può dire che lo spettatore colto ricava da Picasso gli stessi valori che il contadino ottiene da Repin, poiché anche quello che al contadino piace di Repin è in qualche modo arte, per quanto di livello inferiore, e l’istinto che spinge il contadino a guardare un quadro è lo stesso che spinge uno spettatore colto. Ma i valori fondamentali che quest’ultimo ricava da Picasso sono ricavati in una seconda fase, come risultato di una riflessione sull’impressione immediata lasciata dai valori plastici. È solo a questo punto che entrano in gioco la riconoscibilità, il miracoloso e la sintonia emotiva. Non sono immediatamente o esteriormente presenti nel quadro di Picasso, ma vi devono essere proiettati dallo spettatore abbastanza sensibile da reagire ai valori plastici. Appartengono all’effetto “riflettuto”. In Repin, invece, l’effetto “riflettuto” è già stato incluso nel quadro, pronto per il soddisfacimento senza riflessioni dello spettatore.7 Dove Picasso dipinge la causa, Repin dipinge l’effetto. Repin predigerisce l’arte per lo spettatore, in modo da risparmiargli la fatica e fornirgli una scorciatoia per arrivare al piacere dell’arte aggirando quanto è necessariamente difficile da assimilare nella vera arte. Repin, o il kitsch, è arte sintetica. Lo stesso si può dire della letteratura kitsch: fornisce esperienza surrogata a 46

chi non ha adeguata sensibilità con molta più immediatezza di quanto la letteratura seria possa mai sperare di fare. Eddie Guest e le Liriche d’amore indiane sono più poetiche di T.S. Eliot e Shakespeare.

iii Se l’avanguardia imita i procedimenti dell’arte, il kitsch, come abbiamo visto, ne imita gli effetti. La nitidezza di questa antitesi non è artificiale: corrisponde e definisce l’enorme distanza che separa due fenomeni culturali contemporanei come l’avanguardia e il kitsch. Questa distanza, troppo grande per essere colmata da tutte le infinite gradazioni del “modernismo” volgarizzato e del kitsch “modernistico”, corrisponde a sua volta a una distanza sociale che è sempre esistita nella cultura ufficiale, come in altri campi della società civile, e i cui poli convergono e divergono in rapporto fisso alla crescente o decrescente stabilità di una data società. Sono sempre esistite da una parte la minoranza dei potenti, dunque delle persone colte, dall’altra l’enorme massa degli sfruttati e dei poveri, dunque degli ignoranti. La cul-

7 T.S. Eliot ha detto qualcosa del genere mostrando i difetti della poesia romantica inglese. In effetti i romantici possono essere considerati i primi peccatori, di cui il kitsch ha ereditato le colpe. Sono stati loro a mostrare al kitsch come si fa. Di che cosa scrive Keats quasi sempre, se non dell’effetto che la poesia ha su di lui?


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tura ufficiale è sempre appartenuta ai primi, mentre i secondi si sono dovuti accontentare di una cultura popolare o approssimativa, oppure del kitsch. In una società stabile che funzioni abbastanza bene da tenere a bada le contraddizioni fra le classi, la dicotomia culturale diventa in qualche modo sfumata. Gli assiomi dei pochi sono condivisi dai molti, questi ultimi credono in modo superstizioso a ciò in cui i primi credono con più disincanto. In questi momenti della storia, le masse sono capaci di provare meraviglia e ammirazione, non importa a che livello, per la cultura dei loro padroni. Questo vale almeno per la cultura plastica, che è accessibile a tutti. Nel Medioevo le arti plastiche aderivano formalmente almeno ai minimi comuni denominatori dell’esperienza. In una certa misura questo continuò fino al xvii secolo. Una realtà concettuale universalmente valida, il cui ordine non poteva essere alterato dall’artista, era disponibile per essere imitata. Il contenuto dell’arte era imposto dai committenti, e le opere d’arte non erano prodotte, come nella società borghese, a scopo di lucro. Proprio perché il contenuto era stabilito fin dall’inizio, l’artista era libero di concentrarsi sul suo medium. Non aveva bisogno di essere un filosofo o un visionario, ma semplicemente un artefice. Finché è esistito un accordo generale su quali fossero i soggetti artistici più degni, l’artista è stato dispensato dalla necessità di essere originale e creativo nel “contenuto”, e ha potuto concentrasi sui problemi formali. Per l’artista il medium è diventato, privatamente e professionalmente, il contenuto della sua arte, proprio come oggi il medium è il contenuto pubblico del pittore astrattista; con la differenza, tuttavia, che l’artista medievale doveva nascondere le sue preoccupazioni professionali al pubblico, doveva sempre celare e subordinare il personale e il professionale nell’opera d’arte compiuta, ufficiale. Se, come un membro qualsiasi della comunità cristiana, egli provava un’emozione personale per il suo soggetto, questo contribuiva semplicemente all’arricchimento del significato pubblico dell’opera. Solo con il Rinascimento le inflessioni personali sono diventate legittime, anche se dovevano sempre essere mantenute nei limiti del semplicemente e universalmente riconoscibile. Solo con Rembrandt hanno cominciato ad apparire gli artisti “solitari”, solitari nella loro arte. Tuttavia anche nel Rinascimento, e finché l’arte occidentale si è adoperata a perfezionare la propria tecnica, le vittorie in questo campo potevano essere segnate solo dal successo nell’imitazione realistica, dato che non c’era nessun altro criterio oggettivo a portata di mano. Così, per le masse l’arte dei signori era ancora oggetto di ammirazione e meraviglia. Persino l’uccello che beccava il frutto nel dipinto di Zeusi poteva applaudire. È un luogo comune che l’arte diventa come perle date ai porci quando la realtà che essa imita non corrisponde più, neanche approssimativamente, alla realtà riconosciuta dalla massa. Ma anche allora il risentimento che l’uomo comune può provare viene messo a tacere dal timore reverenziale verso i mecena-

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ti di quell’arte. Solo quando diventa insoddisfatto dell’ordine sociale che quelli amministrano, l’uomo comune comincia a criticare la loro cultura: allora il “plebeo” per la prima volta trova il coraggio di dar voce apertamente alle proprie opinioni. Tutti, dal consigliere della Tammany Hall8 all’imbianchino austriaco, si sentono in diritto di esprimere la propria opinione. Più spesso questo risentimento verso la cultura si riscontra dove l’insoddisfazione per la società è reazionaria e si esprime nel revivalismo, nel puritanesimo e, da ultimo, nel fascismo. Qui ci si mette a nominare pistole e torce incendiarie insieme alla cultura. In nome della divinità o della sanità della razza, in nome delle maniere semplici e delle solide virtù, si cominciano a fare a pezzi le statue.

iv Ritorniamo un momento al nostro contadino russo e supponiamo che, dopo che ha scelto Repin preferendolo a Picasso, l’apparato educativo statale venga a dirgli che ha sbagliato, che avrebbe dovuto scegliere Picasso, e gli spieghi anche perché. È una cosa che lo stato sovietico potrebbe fare. Però, data la situazione in Russia (come in qualsiasi altro paese), il contadino vede ben presto che la necessità di lavorare duramente tutto il giorno per vivere e le condizioni rozze e 48

scomode in cui si trova non gli lasciano abbastanza tempo libero, energia e agi per addestrarsi al godimento di Picasso. Dopo tutto, questo implica un considerevole “condizionamento”. La cultura “alta” è una delle più artificiali creazioni dell’uomo e il contadino non trova in sé alcuno stimolo “naturale” che lo spinga verso Picasso, a dispetto di tutte le difficoltà. Alla fine, quando avrà voglia di guardare dei quadri, il contadino tornerà al kitsch, perché può goderne senza nessuno sforzo. Lo stato è impotente in materia e tale rimarrà finché i problemi della produzione non saranno risolti in senso socialista. Ovviamente questo vale anche per i paesi capitalisti, e rende i vari discorsi sull’arte per le masse nient’altro che demagogia.9

8 Associazione newyorkese che riuniva potenti e influenti personaggi capaci di esercitare una decisiva pressione sulla politica americana attraverso l’attività di lobbying.[N.d.C.] 9 Si obietterà che un’arte per le masse come l’arte popolare fu sviluppata in condizioni di produzione rudimentali e che una gran quantità di arte popolare è di alto livello. È vero, ma l’arte popolare non è Atene, ed è Atene che vogliamo: la cultura formale con la sua infinità di aspetti, il suo rigoglio e la sua ampia portata. Poi ora ci viene detto che la maggior parte di ciò che consideriamo buono nella cultura popolare è la statica sopravvivenza di culture formali e aristocratiche ormai morte. Per esempio, le nostre vecchie ballate inglesi non furono create dal “popolo”, ma dai potenti gentiluomini della campagna inglese postfeudale e continuarono per lungo tempo a sopravvivere in bocca al popolo dopo che coloro per i quali furono composte erano passati ad altre forme di letteratura. Purtroppo fino all’avvento dell’epoca industriale la cultura era prerogativa esclusiva di una società che viveva del lavoro


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Quando oggi un regime politico attua una politica culturale ufficiale, lo fa a scopi demagogici. Se il kitsch è la tendenza ufficiale della cultura in Germania, Italia e Russia, non è perché i rispettivi governi sono controllati da filistei, ma perché in quei paesi il kitsch è la cultura delle masse, come accade ovunque. L’incoraggiamento del kitsch è solo un altro dei modi poco costosi con cui i regimi totalitari cercano di ingraziarsi il popolo sottomesso. Siccome questi regimi, anche se volessero farlo, non possono innalzare il livello culturale delle masse se non arrendendosi al socialismo internazionale, lusingano le masse abbassando la cultura al loro livello. È per questo motivo che l’avanguardia è fuorilegge e non tanto perché una cultura superiore è, in quanto tale, una cultura più critica (che l’avanguardia possa o meno fiorire sotto un regime totalitario non è pertinente alla questione). In realtà, dal punto di vista dei fascisti e degli stalinisti, il più grosso problema con l’arte e la letteratura d’avanguardia non è che sono troppo critiche, ma che sono troppo “innocenti”, che è troppo difficile introdurvi della propaganda efficace, mentre il kitsch è più duttile in questo senso. Il kitsch mantiene il dittatore a contatto più stretto con l’anima del popolo. Se la cultura ufficiale dovesse essere al di sopra del livello generale delle masse rischierebbe di rimanere isolata. Tuttavia, se fosse concepibile che le masse richiedano arte e letteratura d’avanguardia, Hitler, Mussolini e Stalin non aspetterebbero a lungo prima di tentare di soddisfare una richiesta del genere. Hitler è un acerrimo nemico dell’avanguardia, per motivi dottrinali e personali, eppure questo non ha impedito a Goebbels, tra il 1932 e il 1933, di corteggiare strenuamente artisti e scrittori d’avanguardia. Quando il poeta espressionista Gottfried Benn ha aderito al nazismo è stato accolto in pompa magna, sebbene proprio allora Hitler denunciasse l’Espressionismo come una forma di bolscevismo culturale (Kulturbolschewismus). Questo accadeva nel momento in cui i nazisti avevano compreso che il prestigio di cui godeva l’avanguardia tra il pubblico tedesco colto poteva far loro comodo: considerazioni pratiche di questa natura, essendo i nazisti degli abili politicanti, hanno sempre avuto la precedenza sulle inclinazioni personali di Hitler. In seguito i nazisti hanno capito che in fatto di cultura era più pratico compiacere i desideri delle masse che quelli dei loro padroni: questi ultimi, quando si era trattato di preservare il potere, erano stati disposti a sacrificare la propria cultura e anche i principi morali, mentre le masse, proprio perché il potere veniva loro negato, dovevano essere ingannate in ogni altra pos-

di servi o schiavi. Essi erano i veri simboli della cultura. Che un uomo dedicasse il proprio tempo e le proprie energie a creare o ascoltare poesia significava che un altro doveva produrre a sufficienza da provvedere alla propria sopravvivenza e mantenere il primo negli agi. Oggi scopriamo che in Africa le tribù in cui vige la schiavitù hanno una cultura superiore a quelle che non possiedono schiavi.

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sibile maniera. È stato necessario promuovere, in uno stile molto più grandioso di quanto avviene nelle democrazie, l’illusione che in realtà fossero le masse a governare. La letteratura e l’arte che piacciono alle masse e che da queste vengono capite, devono essere proclamate l’unica vera arte e l’unica vera letteratura, mentre ogni altro genere di arte e letteratura deve essere soppresso. In circostanze simili persone come Gottfried Benn, con tutto l’ardore con cui potevano sostenere Hitler, diventano un peso: infatti, nella Germania nazista, di Benn e di persone come lui non si sente più parlare. Possiamo quindi osservare che, se da un certo punto di vista il filisteismo personale di Hitler e di Stalin non è accidentale rispetto al ruolo che ricoprono, da un altro esso è solo un fattore che contribuisce casualmente alla determinazione delle politiche culturali dei loro rispettivi regimi. Il loro personale filisteismo aggiunge semplicemente un carattere brutale e oscuro a politiche che sarebbero comunque costretti a sostenere dalla pressione di tutte le loro altre misure politiche, anche se personalmente fossero devoti alla cultura d’avanguardia. Quello che Stalin è costretto a fare per aver accettato l’isolamento della rivoluzione russa, Hitler è costretto a farlo per aver accettato le contraddizioni del capitalismo e i suoi sforzi di congelarle. Quanto a Mussolini, il suo caso è un perfetto esempio della piena disponibilité da parte di un realista su queste faccende. Per anni ha 50

guardato con benevolenza ai futuristi e ha fatto costruire condomini statali e stazioni ferroviarie d’avanguardia. Nelle periferie di Roma si possono ancora vedere più condomini modernisti che in quasi ogni altro posto al mondo. Forse il fascismo voleva ostentare la propria modernità per nascondere il fatto che si trattava invece di una manifestazione di retroguardia; forse voleva conformarsi ai gusti della facoltosa élite di cui era al servizio. In ogni caso, pare che più tardi Mussolini si sia accorto che gli sarebbe stato più utile accontentare i gusti delle masse italiane che quelli dei loro padroni: alle masse bisogna offrire oggetti di ammirazione e meraviglia, i padroni ne possono fare a meno. Così vediamo Mussolini annunciare un “nuovo stile imperiale”: Marinetti, de Chirico e gli altri vengono sospinti nell’oblio e la nuova stazione ferroviaria di Roma non sarà modernista. Che Mussolini l’abbia capito tardi non è che un altro esempio della relativa esitazione con cui il fascismo italiano ha compreso le necessarie implicazioni del proprio ruolo. Il capitalismo in declino scopre che, qualunque cosa di qualità sia ancora capace di produrre, diventa quasi inevitabilmente una minaccia alla sua stessa esistenza. I progressi nella cultura, come quelli nelle scienze e nell’industria, corrodono proprio la stessa società sotto la cui egida hanno potuto svilupparsi. Qui, come per qualsiasi altro problema odierno, diventa necessario citare Marx alla lettera. Oggi non guardiamo più al socialismo per una cultura nuova, per quanto sarà inevitabile che ne compaia una quando il socialismo sarà realizzato: oggi guardiamo al socialismo semplicemente per preservare ogni cultura viva esistente. (1939)


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Post scriptum Con costernazione ho appreso, anni dopo la pubblicazione di questo saggio, che Repin non ha mai dipinto una scena di battaglia; non era un pittore di battaglie. Gli avevo attribuito i dipinti di qualcun altro. Questo dimostra il livello del mio provincialismo nei confronti dell’arte russa del xix secolo. (1972)

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Luigi Fassi (1977) è attualmente direttore artistico dell’ar/ge kunst Galerie Museum a Bolzano. Ha curato diverse mostre in Italia e all’estero e ha all’attivo numerosi interventi critici in cataloghi e monografie. Scrive per Mousse, Artforum, Site, Flash Art e Klat.

«Solo ora, più di quindici anni dopo la sua morte, possiamo iniziare a capire Greenberg servendoci dei suoi scritti per mappare la seconda metà del xx secolo, dal momento che questo critico è stato identificato più di ogni altro con il celebrato “trionfo della pittura americana”. […] Considerata la distanza storica di mezzo secolo di molti dei suoi scritti, possiamo oggi interpretare Greenberg come paradigma e al tempo stesso motore del modernismo del xx secolo nella sua tarda fase “americana”.» Dalla prefazione di Caroline A. Jones

Clement Greenberg. L’avventura del modernismo

Giuseppe Di Salvatore (1977), dottore in filosofia, attualmente collabora al Centro Studi del Fenomeno Religioso di Verona. Attivo nelle Università di Roma “Tor Vergata”, Parigi “Sorbonne” e Ginevra, ha tradotto tre volumi di filosofi del Novecento (Coseriu, Patocka, Héring) e pubblicato diversi saggi, per lo più su tematiche di fenomenologia e di filosofia del linguaggio.

Questo volume offre la più ampia raccolta italiana di scritti di Clement Greenberg (19091994), autore indispensabile per chiunque si interessi all’epoca carica di rivoluzioni formali che dalla fine dell’Ottocento in poi vede il rapido succedersi delle avanguardie artistiche. Figura fra le più influenti e controverse della critica d’arte americana del Novecento, Greenberg assiste al declino dell’illusionismo tridimensionale della pittura da cavalletto e testimonia il progressivo affermarsi

Clement Greenberg L’avventura del modernismo Antologia critica A cura di Giuseppe Di Salvatore e Luigi Fassi

Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948

dell’astrattismo, fino al traguardo della piattezza radicale che è per lui cifra del modernismo. Tra i primi a intuire il valore dirompente della pittura di Jackson Pollock e degli espressionisti astratti americani, egli sdogana successivamente gli esponenti della Post-painterly Abstraction, tra cui Morris Louis e Kenneth Noland. Con un corpus di oltre trecento scritti, il magistero critico militante di Greenberg attraversa più di quarant’anni di nuova arte americana, contribuendo in modo decisivo a spostare il baricentro dell’arte mondiale da Parigi a New York. La selezione dei testi qui proposti è volta a sottolineare l’impronta europea del pensiero critico di Greenberg. La matrice kantiana, quella trotskista, ma anche quella italiana proveniente da Benedetto Croce e Lionello Venturi, delineano il profilo di un critico che ha saputo scandagliare in modo esemplare le vicende del modernismo nelle arti visive rivendicandone i valori di oggettività. A un’acuta analisi socioculturale del fenomeno della massificazione della cultura e delle sue conseguenze sociali, Greenberg accosta questioni a lungo dibattute come quelle del bello e della qualità, dei valori oggettivi in arte, mosso dal bisogno impellente di opporre un fronte di resistenza al degrado del kitsch e dell’accademismo. Tuttora oggetto di diatribe e indiscusso promotore dell’arte americana, Greenberg rimane un interprete di primo piano del modernismo. A più di quindici anni dalla morte, il suo lascito è imprescindibile per orientarsi nel complesso panorama artistico della seconda metà del xx secolo.

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