Nella stessa collana: Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi James Westcott Quando Marina Abramović morirà Ambroise Vollard Memorie di un mercante di quadri Luca Ronchi Mario Schifano. Una biografia Heiner Stachelhaus Joseph Beuys. Una vita di controimmagini Alastair Brotchie Alfred Jarry. Una vita patafisica Flaminio Gualdoni Piero Manzoni. Vita d’artista Yayoi Kusama Infinity Net. La mia autobiografia Stéphanie de Saint Marc Nadar. Un bohémien introverso Martina Corgnati Meret Oppenheim. Afferrare la vita per la coda Thomas McEvilley Yves il provocatore. Yves Klein e l’arte del Ventesimo secolo Elena Pontiggia Mario Sironi. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia
«Un libro che chiunque sia interessato alla storia sociale dell’arte moderna dovrebbe leggere.» Hilton Kramer, New York Times Book Review «Un’avvincente biografia dell’enfant terrible della moderna arte astratta. Artista e uomo, entrambi turbolenti e tragici, si intrecciano superbamente in questo ritratto, come nella breve vita di Pollock.» Publishers Weekly «Solo un artista con il talento e l’abilità di B.H. Friedman poteva scrivere su Jackson Pollock facendocelo vedere e sentire. Per un pittore come me è un libro di valore inestimabile per le penetranti analisi che vi sono contenute.» Jim Dine «Importante e autorevole… Una chiave di volta per ogni studio successivo su Pollock e sul suo mondo: sarà letto per molti anni a venire.» Chicago Sun-Times
Jackson Pollock. Energia resa visibile
Foto di copertina: Jackson Pollock nel suo studio, 1947. Jackson Pollock and Lee Krasner Papers, Archives of American Art, Smithsonian Institution. © Rudy Burckhardt, by siae 2015.
«Pollock ha forse voluto creare confusione, turbare tutto ciò che nella tela era preciso, ordinato e anonimo, la superficie pulita, la trama regolare, la forma rettangolare, tutti quegli elementi che gli ricordavano i tavoli da pranzo che aveva sparecchiato e ripulito da bambino. […] Sì, il gesto di versare la pittura è un attacco tanto alla storia dell’arte quanto alla storia e al destino personali.»
B.H. Friedman
B.H. Friedman (1926-2011) è stato uno scrittore e critico d’arte americano. Dopo la pubblicazione del suo primo romanzo Circles (1962), basato sulla sua esperienza nel mondo dell’arte a New York, abbandonò la precedente attività di consulente immobiliare per dedicarsi a tempo pieno al suo libro su Jackson Pollock, considerato la prima biografia dell’artista.
B.H. Friedman
Jackson Pollock Energia resa visibile Isbn 978-88-6010-161-7
I s b n 9 7 8 8 8 6 0
€
1 0 -1 6 -7
0
1
,0 31
Quando nella primavera del 1955 il giovane B.H. Friedman lo incontra per la prima volta, Jackson Pollock è già un “vecchio maestro” dell’Espressionismo Astratto. Possente nel fisico quanto esplosivo e lavico nel talento, si è conquistato fama internazionale con un corpus di opere che racchiude un’intera gamma espressiva, dal delicato lirismo alle immagini più impetuose. La rivista Life lo ha da poco osannato come il più grande pittore statunitense e alla Cedar Tavern è riverito ogni sera da una folla di giovani artisti che sgomitano per toccarlo, quasi fosse un talismano. Per loro Jackson è quello che ha rotto il ghiaccio e spianato la strada alla prima generazione radicalmente americana. Per i semplici avventori del leggendario ritrovo del Greenwich Village, invece, Pollock non è che un elemento pittoresco, un personaggio tristemente noto per le sue metamorfosi: in preda all’alcol la voce gli si fa più roca, il lessico scurrile, i gesti via via più aggressivi, lo sguardo obnubilato, fino allo scoppio dell’inevitabile rissa. Frutto di un’amicizia nata nell’ultimo anno di vita di Pollock, questo libro ne ripercorre la breve parabola con straordinaria vividezza, senza trascurare i momenti più sofferti: gli stenti degli anni formativi e l’uso dell’alcol per placare i conflitti interiori, i primi lavori accademici realizzati sotto la supervisione di Thomas H. Benton e la scoperta di un linguaggio tutto suo, il dripping, che lo porta ai vertici del successo grazie anche al coraggio di una gallerista come Peggy Guggenheim e all’incondizionata complicità della moglie Lee Krasner, che gli resta accanto fino agli ultimi mesi prima della tragica scomparsa. Friedman penetra nel silenzio e nella solitudine del suo studio, si interroga sul tormentato rapporto con la fama, sull’identità che Pollock sente di aver venduto a un mondo dell’arte che spesso lo fraintende e che lo ha condotto a vette da cui difficilmente si scende illesi. Il risultato è una biografia che come nessun’altra offre un’acuta analisi della gloriosa ascesa e della rovinosa caduta di colui che ha “danzato” capolavori come Autumn Rhythm. Un artista che ha puntato tutto sul principio dell’arte come scoperta di sé, fermamente convinto che la vita di un uomo e il suo lavoro siano inseparabili.
Biografie 19
© 2015 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di giugno 2015 isbn 978-88-6010-161-7 Copyright © 1972, 1995 by B.H. Friedman Titolo originale: Jackson Pollock. Energy Made Visible Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.
B.H. Friedman
Jackson Pollock Energia resa visibile
Traduzione di Rossella Rizzo
Sommario
Ringraziamenti
9
Prefazione
11
Introduzione
15
1. Crescere nel West (1912-1929)
23
2. La scena americana, la scena newyorkese, la scena personale (1930-1941)
35
3. I surrealisti arrivano a New York (1941-1946)
67
4. Radici a East Hampton (1946-1947)
101
5. Il Club: un intermezzo (1948-1962)
121
6. La fama (1948-1949)
129
7. L’anno “più grande” (1950)
163
8. Bianco e nero (1951)
183
9. Il pittore d’azione (1952)
203
10. Gli ultimi anni (1953-1956)
215
11. Post mortem
243
Note 265 Bibliografia selezionata
269
Crediti delle immagini 281 Indice analitico 283
Ringraziamenti
Ringrazio, per avermi messo a disposizione numerosi fatti e documenti, John I.H. Bauer, Rita e Thomas Hart Benton, Peter Blake, Charlotte e James Brooks, Jeanne e Fritz Bultman, Peter Busa, Leo Castelli, Butler Coleman, direttore del New York Area Office, Archives of American Art, Whitney Darrow Jr., Edward F. Dragon, Morton Feldman, Inga Forlsund, bibliotecaria associata presso il Museum of Modern Art, Lloyd Goodrich, Richard Governale, Philip Guston, Clement Greenberg, Stanley W. Hayter, Ben Heller, Joseph L. Henderson, Silvia Henry, bibliotecaria presso la Long Island Collection della East Hampton Free Library, Thomas B. Hess, Axel Horn, Sam Hunter, Sidney Janis, Mervin Jules, Barbara e Reuben Kadish, Wolf Kahn, Stewart Klonis, Samuel M. Kootz, James Lechay, Julian Levi, Josephine e John Little, Anita e Conrad Marca-Relli, Mercedes e Herbert Matter, Patricia Maye, Arloie McCoy, Donald McKinney, Robert Motherwell, Hans Namuth, la moglie di Barnett Newman, il reverendo George Nicholson, Alfonso Ossorio, Betty Parsons, Phillip Pavia, Charles Pollock, Larry Rivers, Bernice Rose, May Natalie Tabak e Harold Rosenberg, William S. Rubin, Ludwig Sander, Irving Sandler, Jon Schueler, la Springbok Editions, marchio del gruppo Hallmark Cards, Tony Smith, Patricia Westlake e William Wright. Tuttavia, mi assumo la piena responsabilità per ogni interpretazione e conclusione tratta da questi materiali. Desidero poi ringraziare, oltre agli scrittori inclusi nel precedente elenco, quelli con cui non ho avuto rapporti diretti ma dai quali ho ugualmente tratto materiale relativo a fatti o documenti. Particolarmente preziose si sono rivelate la dettagliata cronologia redatta da Francis V. O’Connor e dai suoi assistenti ricercatori per il catalogo di Pollock del 1967 pubblicato dal Museum of Modern Art, le interviste di Francine du Plessix e Cleve Gray e quelle di James T. Valliere. Anche in questo caso, interpretazioni e conclusioni ricadono sotto la mia responsabilità.
9
· B.H. Friedman ·
Voglio altresì ringraziare Joyce Johnson per i molti preziosi suggerimenti editoriali, e Claire Mozel e le sue collaboratrici Myra Hicks, Valerie Verdes e Ruth Latta per tutti i lavori di segreteria ben svolti. Infine desidero ringraziare gli editori che hanno accordato il permesso di ristampare il materiale tratto da articoli e libri sotto copyright. B.H.F., 1972
10
Prefazione
Era il nuovo solipsista puro e selvaggio. Anche quando recitava, anche nella parte di una storia che va oltre le parole, esisteva sopra, a lato, dietro e sotto di esse. Era immagini e testo, un animale terreno, abile al punto da sembrare diabolico pur restando almeno in parte irresistibile – e non certo in modo passivo. Non era un essere adorabile seduto tranquillo. Era attivo ed energico come Puck. Harold Brodkey, “Translating Brando”
Nel 1968 Lee Krasner Pollock, la vedova di Jackson Pollock, mi chiese se fossi interessato a scrivere una biografia di suo marito per Time-Life Books. Entrai quindi in contatto con l’editore con l’intento di pubblicare un libro breve e ben delineato per la loro serie sull’arte intitolata World of… Casualmente, il mio editor era un amico e vicino del più influente maestro di Pollock, Thomas Hart Benton, che nel libro rappresentavo, perlopiù con le sue stesse parole, come un beone reazionario. L’editor mi chiese di ammorbidire questo tratto ma, ritenendolo corretto nonché importante per la storia di Pollock, mi rifiutai e così finimmo per rescindere il contratto. Con l’aiuto di Lee Krasner, che continuò a rispondere alle mie domande e a fornirmi documenti e fotografie, fui in grado di scrivere una biografia molto più lunga e libera per McGraw-Hill. A inizio autunno del 1970, quando avevo sostanzialmente terminato, chiesi a Lee di controllarla. Mi spiegò, come del resto già sapevo, che anche lei, come Pollock, detestava leggere, dunque su sua richiesta le lessi io stesso il libro nei giorni a venire nella sua casa di Springs, East Hampton, nello stato di New York. Le piacque molto, ne chiese una copia, e quando tornammo in città mi invitò con mia moglie a festeggiare in un nuovo ristorante nel suo quartiere. Circa due settimane dopo ricevetti una lettera, chiaramente scritta con la consulenza di un avvocato, in cui mi chiedeva di non pubblicare il libro. In seguito, dalla corrispondenza, dalle conversazioni telefoniche e dagli incontri con lei e con il suo avvocato capii che, forse consigliata da qualcun altro che aveva letto la biografia, era giunta alla conclusione che il libro potes-
11
· B.H. Friedman ·
se ledere la reputazione di Pollock. Ero disposto, se necessario, a correggere qualsiasi errore relativo ai fatti, ma non a rimuovere gli imprescindibili accenni all’alcolismo e alla storia psichiatrica di Pollock. Chiesi ripetutamente che cosa, se proprio, si dovesse correggere. Ogni volta l’avvocato di Lee rispondeva che il problema era nel tono generale del volume e non in un elemento specifico. Non venimmo a capo di nulla. Inevitabilmente il mio lungo e profondo rapporto con Lee ne uscì distrutto. Ormai ci parlavamo solo tramite avvocati. Il suo scriveva a McGraw-Hill minacciando di negare il consenso alla pubblicazione di citazioni dalle lettere di Pollock. Il mio sosteneva che se Lee me le aveva fornite implicitamente mi aveva dato il permesso di pubblicarle. Inoltre accettai di risarcire McGraw-Hill in caso di procedimenti legali e l’editore stesso provvide a far leggere il libro a tre eminenti storici dell’arte per certificarne l’attendibilità. Tutto questo prese molto tempo. La biografia fu infine pubblicata a New York nel 1972, a Londra nel 1973 e in un’edizione tascabile per McGraw-Hill nel 1974. Per quest’ultima approntai ulteriori revisioni basate su nuove informazioni. Ma anche in occasione della pubblicazione della prima edizione newyorkese, e in realtà per tutta la sua vita, Lee Krasner fece il possibile 12
per sminuire il libro. Per esempio, dichiarò spesso di non averlo nemmeno letto, cosa che può ritenersi tecnicamente vera, dal momento che fui io a leggerglielo; e puntualizzò presso molti recensori che ero uno “scrittore di narrativa”, elemento vero a metà, poiché, quando il libro uscì, le mie pubblicazioni si dividevano ormai abbastanza equamente tra narrativa e critica d’arte. La mia attività di critico era comunque ben nota a Lee Krasner, visto che comprendeva diversi testi anche su di lei: l’introduzione a un catalogo del 1958, un articolo per una rivista del 1959, una monografia nel 1965 e un’intervista del 1969. Da quando la mia biografia è stata pubblicata per la prima volta più di vent’anni fa nell’edizione tascabile, sono stati scritti molti libri su Pollock, alcuni biografici, altri critici, altri di entrambe le tipologie. Il più prezioso in assoluto è il catalogo ragionato in quattro volumi del 1978, curato da Francis Valentine O’Connor e Eugene Victor Thaw. Come chiunque scriva oggi su Pollock, ne ho tenuto gran conto in questa nuova edizione del mio libro. Altre pubblicazioni rappresentano un assortimento eterogeneo. Ruth Kligman, che era nell’auto di Pollock al momento della sua morte, ha scritto un memoir della loro breve relazione. Nella sua “biografia orale” Jeffrey Potter, un grande amico di Pollock, ha riportato molte interviste. In An American Saga Steven Naifeh e Gregory White Smith hanno ipotizzato che Pollock fosse gay e che a ispirargli la tecnica del dripping fosse stata l’esperienza di
· Prefazione ·
aver visto suo padre urinare – teorie entrambe poco convincenti. Rischiando di apparire immodesto, posso dire di esser lieto che la mia biografia sia ancora così vitale dopo tutti questi anni – e nonostante la pubblicazione di così tanti libri. B.H. Friedman Wainscott, ny maggio 1995
13
Introduzione
Ho conosciuto Lee e Jackson Pollock nella primavera del 1955, poco più di un anno prima della morte di Jackson. All’epoca lui aveva quarantatré anni e io ventotto. Sottolineo questa differenza d’età per evidenziare anche la differenza tra le nostre posizioni. Lui era già un “vecchio maestro” dell’Espressionismo Astratto, la pittura allora più vitale e originale della storia dell’arte americana. Io ero un dirigente in campo immobiliare, in affari ormai da sei anni e mezzo, ma ancora combattuto tra la frenesia del boom edilizio della New York postbellica e un costante desiderio di scrivere, occupazione cui mi dedicavo di notte e nei fine settimana, avendo pubblicato qualche articolo, alcuni racconti e poesie, ma nessuno dei romanzi che avevo già terminato. Pollock rappresentava dunque, almeno per una parte della mia vita, una figura eroica. Non era soltanto l’artista interamente consacrato alla pittura: il suo nome era sinonimo di libertà espressiva, un nome che per me a quei tempi suonava grande ed evocativo come quello di Dylan Thomas in ambito letterario. Ma Thomas era morto l’anno prima, e nel soggiorno di casa mia ora inaspettatamente c’era Pollock. O meglio, Pollock e la signora Pollock. Incontravo anche lei per la prima volta. Non sapevo che dipingesse con il nome da nubile, Lee Krasner, né peraltro avrei riconosciuto quel nome: le era stata dedicata una sola personale, mentre Pollock ne aveva avute già una dozzina. Era semplicemente la moglie di un grande uomo. Erano lì nel mio appartamento perché Ben Heller, un collezionista che stava pensando di acquistare un dipinto di Pollock, voleva portarlo in un “ambiente propizio”, dove era possibile ammirare un suo quadro. Inoltre, nell’autunno precedente avevo scritto un articolo per Art Digest, intitolato “The New Baroque”, che trattava di Pollock e di altri espressionisti astratti ed era illustrato da un suo dipinto accostato a un quadro di Rubens (intenzionalmente riprodotto capovolto). E ora, dopo una telefonata in cui Heller mi informava di essere appena tornato con i Pollock da East Hampton, eccoli lì. Pollock, in una giacca spor-
15
· B.H. Friedman ·
tiva di tweed beige che pareva stargli piccola, una camicia elegante con il colletto aperto e una cravatta di maglia, era più grande e grosso di quanto mi sarei aspettato dalle fotografie di solo qualche anno prima. Il viso scarno e rude che ricordavo in quelle immagini era piuttosto gonfio e ricoperto da una barba corta e ispida che negli ultimi mesi di vita avrebbe lasciato crescere e infoltire, ma mai troppo. Quando ci presentarono, sentii la grandezza e la potenza della sua mano. Appesi la giacca di Pollock nell’armadio a muro del corridoio e lo vidi barcollare pochi passi davanti a sua moglie sui gradini che scendevano in soggiorno. Dai movimenti impacciati e dalle poche parole che gli avevo sentito mormorare, capii immediatamente che era ubriaco. La signora Pollock bisbigliò: «Non offrirgli nulla di forte – niente più della birra, se la vuole». Lo disse con ferma lucidità. Non erano parole disperate né di scusa, erano molto dirette. Ebbi subito la sensazione che fosse piena di sostanza quest’“ombra” di Jackson Pollock, questa moglie anonima. Pollock si muoveva pesantemente per la stanza, fermandosi solo per guardare le opere d’arte: vari pezzi provenienti dall’Africa e dal Pacifico meridionale, tre rilievi di Arp, un grande collage di Laurens e due molto piccoli di Schwitters, un dipinto di piccole dimensioni di Feininger e uno 16
grande su juta di Klee, e infine, sulla parete più vicina alla finestra, una gouache su carta di Mondrian del 1917, esposta accanto a un olio di circa 120 × 120 cm di Pollock del 1949, l’opera più grande e recente della collezione: complessivamente, una sorta di storia visiva della mia personale ricerca della libertà. Il Mondrian era un quadro che, a mio parere, Pollock avrebbe sicuramente apprezzato, uno dei pochissimi successivi alla creazione della sua immagine lirica dei “più” e dei “meno”, ma antecedente allo sviluppo della griglia più rigida dei tipici lavori dell’ultimo periodo. In quest’opera in particolare, rettangoli di colore leggermente irregolari (di un giallo, rosso e blu non esattamente primari, non “puri”) si muovevano ritmicamente attraverso il foglio bianco in una maniera che anticipava alcuni capolavori tardi come Trafalgar Square e Broadway Boogie Woogie. Proprio questa qualità ritmica, insieme all’evocazione di uno spazio continuo che travalicava la tela, mi facevano sperare che l’opera sarebbe piaciuta a Pollock. Rimase in piedi per un attimo dinanzi al Mondrian con le mani protese, come se stesse per afferrarlo e colpirlo. Quelle mani si contorcevano nell’aria e sembravano voler toccare, sentire o in qualche modo riprodurre, ricreare ogni elemento dell’opera. Poi si voltò verso il suo dipinto, una matassa di arabeschi color argento, verde, giallo, marrone, tracciati con colature e schizzi di smalti industriali, e ancora una volta non potei fare a meno
· Introduzione ·
di pensare che, a prescindere dalle differenze nella tecnica e nel risultato finale, Pollock avrebbe reagito al Mondrian come all’opera di un fratello che esprimesse in modo diverso un’idea simile. Guardò nuovamente il quadro, si voltò verso di me, e con voce roboante e aggressiva chiese: «Chi l’ha fatto?». «Mondrian.» «Merda. Perché non hai comprato un Cavallon?» All’epoca conoscevo appena l’opera dell’italoamericano Giorgio Cavallon, l’avevo liquidata come una sorta di imitazione di Mondrian, una versione più blanda e delicata dello stesso concetto. Dissi qualcosa in tal senso. «Merda» ripeté. «Ti stai procurando arte addomesticata, ordinaria.» «No, però credo che tutto quello che è selvaggio a un certo punto diventa docile e ordinario.» Pensavo a una recente mostra dei fauves, in cui era accaduto esattamente questo. Pollock mi scrutò attentamente. Nei suoi occhi si leggevano l’intensità e forse la diffidenza di un uomo dell’Ovest nei confronti della loquacità di uno dell’Est, il desiderio di mettere alla prova tutta quella parlantina. «Merda» ripeté ancora una volta. Non sapevo che dire, che fare. Urlargli a mia volta “merda”? Eravamo tutti a disagio. Ora barcollava dinanzi alla finestra. Di spalle ai vetri, era rivolto verso l’interno della stanza, pronto, pensavo, a strappare dai muri i quadri, tutti quanti, incluso il suo. Alla fine intervenne la signora Pollock: «Vieni via da lì, Jackson. Hai bisogno di dormire». Si rivolse a noi. «Ci svegliamo presto per i nostri appuntamenti a New York. Con le soste per strada si riduce in questo stato. Non c’è un posto dove potrebbe riposarsi un po’?» Mia moglie disse che avevamo una camera a disposizione, con un divano. Accompagnò i Pollock verso la zona posteriore dell’appartamento. Mentre si dirigeva in camera, nella sala da pranzo di fronte al soggiorno Pollock vide Landscape Table di Arshile Gorky. Vi si piazzò davanti. Assunse nuovamente una sorta di posizione da combattimento, con le mani che si agitavano nell’aria, seguendo la configurazione del dipinto. «Questo già va meglio» biascicò «molto meglio.» Dopo che Pollock e le donne furono usciti, Ben Heller disse: «Mi dispiace. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere conoscerlo». «E avevi ragione, ma non così.» «A East Hampton non era in questo stato. Beveva molta birra e per strada si è fermato a prenderne ancora, ma è diventato così teso solo quando siamo arrivati in città… Paul Brach mi ha portato a casa loro a Springs. Abbia-
17
· B.H. Friedman ·
mo srotolato alcuni dei dipinti grandi, quelli di circa tre metri per cinque. Wow, mi hanno davvero colpito. […] Non ha veramente intenzione di vendere, ma troverò una soluzione. […] Non riesco a pensare a un investimento migliore. Gli impressionisti hanno raggiunto la loro quotazione massima. I cubisti sono in alto. Cosa resta? Miró? Giacometti? Dubuffet? Gli americani sono quelli più a buon mercato…» Stava ancora parlando quando mia moglie e la signora Pollock tornarono nel soggiorno. «Si è addormentato subito» disse la signora Pollock. «Si riprenderà. Sta così quando veniamo a New York: una volta a settimana, ogni settimana, fino ad agosto. I medici vanno in ferie ad agosto. Domani abbiamo le nostre sedute. Poi comincia la vera battaglia: riportarlo a Long Island. Dopo sta bene, ma quando è con quei suoi compagni alla Cedar, non è facile. Non so mai quando si farà vivo il mercoledì. All’una di notte. Alle due. Alle tre. A mezzogiorno. Di pomeriggio. A volte ci fermiamo un giorno in più. […] Bene, adesso ci vorrebbe un drink per me, un vero drink.» La serata era ormai definita: avremmo bevuto sino a che Pollock si fosse svegliato, avremmo cenato e poi accompagnato la signora Pollock all’Earle (un hotel su Waverly Place dove alloggiavano) e Pollock alla Cedar Tavern (a 18
due isolati di distanza, su University Place). Ben Heller bevve ginger ale, mentre Lee Pollock, mia moglie Abby e io finimmo una bottiglia di vodka. Lee parlò più diffusamente delle sedute di analisi che lei e suo marito frequentavano, dei problemi di Jackson con l’alcol e con il lavoro, e dei suoi problemi di pittrice sposata a un pittore. Fece delle domande su Abby e me, e su Ben Heller e Judy (sua moglie, rimasta a Long Island), ma soprattutto parlò di se stessa e di Jackson. Non vi erano dubbi che lo considerasse il miglior pittore non solo in America ma nel mondo. Citava continuamente dei nomi: Gorky, de Kooning, Tomlin, Kline, Newman, Brooks, Still… Sebbene fossi al corrente del loro lavoro, non conoscevo nessuno personalmente, e due di quegli artisti, Gorky e Tomlin, erano morti. «Tomlin ti sarebbe piaciuto» disse. «Era un po’ come te, timido e riservato. Stava giusto per venire ad abitare vicino a noi quando ha avuto un infarto. Il trasloco era troppo per lui.» Stavo digerendo quel “timido e riservato”. Sentii a malapena il resto della sua conversazione. «Ne vedrai alcuni alla Cedar.» Pollock comparve nell’ingresso. «Be’, che succede qui?» domandò. «Ho fame.» Aveva un’aria più mite adesso – un grande orso bruno, più che un grizzly. Gli occhi, dormendo, si erano come ritirati, il viso non sembrava del tutto sveglio.
· Introduzione ·
«Che ne pensi di una doccia prima di uscire a cena?» chiese Lee. La risposta fu affermativa. Abby gli indicò la doccia. Dopo dieci minuti era di ritorno con occhi e viso tersi. «È stata un’ottima idea. Avete una birra? Una Bud? Una Schlitz?» «Solo Heineken.» «Ah… va bene… in bottiglia.» Gliela porsi. Si rilassò sul divano, avvicinando la bottiglia alle labbra con una delle sue manone, mentre l’altra reggeva una sigaretta. Dopo il primo sorso disse: «Buona». La bevve tutta. «Davvero buona.» «Andiamo a mangiare» propose Lee. Scendemmo dietro l’angolo, da Billy, un ristorante di carne senza troppe pretese. Lì durante la cena Jackson bevve altra birra, alla spina. Si mostrò disponibile a rispondere alle mie domande sulla sua vita e il suo lavoro. A un certo punto disse qualcosa del tipo: «La vita di un uomo è il suo lavoro; il suo lavoro è la sua vita. È questo che mi turba: non sto più lavorando molto. Vado nel mio studio, ma non accade nulla… Non voglio ripetermi». Replicai che per definizione il lavoro di un artista può costituire solo una parte della sua vita, pur essendo in un certo senso più grande – o meglio – più forte e sicuramente più durevole della vita stessa. Pollock ascoltò attentamente le mie parole, ci rifletté per un momento, poi scosse il capo: «No. Sono la stessa cosa. Sono inseparabili». Intrecciò le dita delle mani per mostrarmi cosa intendeva. Mi pose molte domande sulla mia vita e si dimostrò sorpreso che la considerassi per certi versi separata dal mio lavoro. «Ma cos’è che ti coinvolge davvero?» Era una frase che avrei sentito ripetere spesso nel periodo della mia frequentazione con Pollock. «Mi coinvolgono entrambi: affari e scrittura.» «Non senti il bisogno di fare una scelta?» «A volte ho dei problemi a destreggiarmi tra le due cose, ma per un po’ voglio provarci. I miei eroi sono Wallace Stevens e Charles Ives.» Sorrisi. Non vi fu alcuna reazione da parte di Pollock. Non capivo se avesse riconosciuto i nomi del poeta e del compositore, e se sapesse che entrambi erano stati dirigenti di una compagnia di assicurazioni. Iniziai a spiegare… «Perché parli delle vite di altri? Io ti sto chiedendo della tua.» Gli spiegai in che cosa consisteva il mio lavoro e gli parlai di quel che avevo scritto. In risposta a una mia osservazione sulla difficoltà di progettare dei bei palazzi per uffici a New York con il piano regolatore vigente, mi chiese se conoscessi Tony Smith. «No.»
19
· B.H. Friedman ·
«È un grande architetto. Un allievo di Wright. Dovresti sentirlo declamare Joyce. Conosce a memoria interi pezzi di Finnegans Wake.» «Leggo le riviste di architettura, ma non ricordo di aver visto il suo nome.» «Non farebbe mai riprodurre il suo lavoro. Ha progettato uno studio per Fritz Bultman a Cape Cod e una casa per Stamos a Greenport, e ora ne sta ideando una in una cava rocciosa abbandonata nei dintorni di New Haven per Olsen, il proprietario di Blue Poles. Non ho mai visto la casa di Olsen, ma dev’essere la cosa migliore che abbia fatto. Tony è un grande architetto, ed è un amico.» Anche nei confronti degli scrittori si comportò come con Cavallon e Smith. Pollock aveva fiducia negli autori che conosceva, ai quali si sentiva legato, soprattutto Peter Matthiessen e Donald Braider, che vivevano entrambi nella zona di East Hampton. Quando facevo cenno a qualcosa che avevo scritto, o stavo scrivendo, o avevo intenzione di scrivere, le sue domande erano sempre più o meno dello stesso tipo: cosa significava per me? Quanto mi coinvolgeva? Perché avevo scelto un particolare soggetto e non un altro? Proprio mentre mi chiedeva cose di questo genere sul mio articolo “The 20
New Baroque”, un camion sulla First Avenue produsse un ritorno di fiamma. Al ristorante sino a quel momento Jackson era stato calmo – inquisitorio e incalzante, ma calmo. Ora balzò in piedi e guardò fisso fuori dalla finestra, cercando di identificare, attraverso lo strato di condensa dell’aria condizionata, la causa di quel rumore. Scosse il capo, si asciugò il sudore dall’ampia fronte bombata e si risedette. «Non capisco» disse «non capisco come possiate vivere qui.» Chiese al cameriere un’altra birra, finita la quale disse: «Andiamo». Era abbastanza tardi, intorno alle undici. Non ricordo – e nemmeno gli altri commensali – se fui soltanto io ad andare con Pollock alla Cedar quella notte, se venne anche Abby, o se non ci andò nessuno di noi. Ho la vaga impressione che Lee Pollock dovesse tornare all’Earle per fare il suo giro di telefonate, e ricordo altrettanto vagamente che Ben Heller voleva farsi una bella dormita prima di una conferenza mattutina. Ma che io ci sia andato quella prima notte o qualche sera dopo è irrilevante. A rimanermi impressa è la sensazione di esserci andato con Pollock, l’effetto straordinario di entrare in quel posto con lui. Per coincidenza ci ero già stato, ma soltanto di giorno. Tra l’autunno del 1948 e quello del 1949, quando amministravo un condominio al numero 1 di University Place, ero solito andare alla Cedar Tavern a recuperare il custode o un tuttofare. Non conoscevo il nome del bar. Era semplicemente il locale lì sotto frequentato dagli addetti alla manutenzio-
· Introduzione ·
ne, un bar di quartiere, brutto, quasi deserto, dove si beveva con poco. Era lecito chiedersi come facesse il proprietario a pagare l’affitto. Ma ora, di notte, quasi sette anni più tardi, il locale era gremito. Persino fuori c’era una folla che salutava Jackson. E dentro, davanti al bancone, si accalcavano due o tre file di uomini; donne non ce n’erano quasi mai. «Ciao, Jackson» urlarono quando entrammo. «Ciao, Jack.» Più di uno voleva offrirgli da bere. Altri facevano spazio intorno al bancone. Pollock s’infilò in un varco, mi fece strada, disse che il primo giro lo offriva lui e iniziò a presentarmi a tutti coloro che ci attorniavano in quello che stava diventando il punto più affollato del bar. Non ricordo esattamente chi fosse presente la prima notte. Ricordo però che, tornando varie volte, conobbi molti artisti: alcuni quasi coetanei di Pollock (Kline, Guston, de Kooning), altri più giovani (Brach, Leslie, Rauschenberg, Rivers, Goldberg, Kanovitz), e poi Frank O’Hara, che stava scrivendo su di loro, Morty Feldman, che aveva composto la musica per il documentario di Namuth e Falkenberg su Jackson, e fotografi, danzatori, critici, mercanti d’arte… In breve, grazie a Pollock, e perlopiù alla Cedar, conobbi il mondo dell’arte. Forse quel bar anonimo meriterebbe un libro tutto per sé. Negli anni cinquanta era il locale che frequentavano tutti: studenti, artisti affermati, artisti che venivano da fuori città e dall’estero; alla Cedar si poteva entrare in contatto con New York, con i luoghi dove accadevano le cose, e con le persone che le facevano accadere. Ed era lì che ora, vedendo come salutavano Jackson, con pacche sulle spalle o pugni alle braccia, mi chiedevo che cosa volesse da lui tutta quella gente. Offrirgli da bere? Farsi pagare un drink? Toccarlo o farsi toccare in cerca di fortuna? Più osservavo e ascoltavo, e più mi convincevo che per quella folla Pollock era una specie di talismano. Si avvicinavano giovani artisti, spesso a lui sconosciuti – toccando, toccando, toccando, come fosse un portafortuna – perché aveva corso moltissimi rischi al posto loro e perché, come diceva de Kooning, “aveva rotto il ghiaccio”. Sì, sembrava quella la ragione: c’era il desiderio di essere contagiati dal suo successo (di artista, dato che dal punto di vista finanziario non aveva propriamente sfondato), e insieme quello di ringraziarlo per come si era esposto, per tutto quello che aveva reso possibile. I saluti, le pacche sulle spalle, le gomitate e i pugni scherzosi erano maniere di esprimere un ringraziamento. O almeno, questo era un lato della questione, il lato buono. C’era anche un lato osceno, voyeuristico, in altri habitués del bar. Ai loro occhi Jackson era un tipo bizzarro, parte del divertimento, una figura tristemente nota nel mondo dell’arte che per qualche ragione aveva avuto successo – suo malgrado e, dicevano, sebbene non fosse bravo a disegnare come de Kooning. Alcuni di loro offrivano da
21
· B.H. Friedman ·
bere a Jackson sperando di stimolare il suo lato eccentrico. Volevano vedere cosa sarebbe successo questa volta. Molti – forse la maggior parte dei frequentatori della Cedar, soprattutto quelli della mia generazione – provenivano da un ambiente borghese protettivo e soffocante. Per noi, e sicuramente per me, Pollock rappresentava un uomo che da un lato era stato in grado di sopportare la povertà materiale e dall’altro era riuscito a individuare ed esprimere la libertà spirituale; una libertà intesa come accettazione e affermazione dei ritmi naturali della vita. Questo era l’aspetto positivo: ciò che Pollock aveva fatto, le opere che dipingeva e, in quel corpus di opere, un’intera gamma espressiva dal lirismo più tenero alle immagini più violente. Sul versante negativo c’erano la disperazione con cui beveva (whisky ora, alla Cedar) e l’incapacità, di cui mi aveva parlato, di funzionare come pittore, proprio quando per la prima volta nella sua vita quasi tutto quello che metteva su tela avrebbe trovato acquirenti. Mentre pensavo che lì in quel bar gli artisti lo stavano trattando come un oggetto magico, percepivo in lui la sensazione di essersi trasformato in un oggetto – non magico ma commerciale – per il mondo artistico più vasto e periferico fatto di collezionisti, mercanti d’arte, giornalisti, curatori di musei… 22
Man mano che beveva e tentava di affogare i tormenti interiori e di dislocare la propria identità, quell’identità che forse sentiva di aver donato o venduto al mondo, la voce gli si faceva più roca e il vocabolario più osceno. Era penoso guardarlo sapendo che in fondo alla bottiglia non avrebbe trovato altro che un anonimo oblio, un blackout, una censura di se stesso; era penoso per me vedere quest’uomo che si abbrutiva, quando soltanto un’ora prima aveva parlato in maniera intelligibile esprimendo interesse per se stesso e per gli altri. Barcollava ora in direzione del gabinetto, inciampando e azzuffandosi con tutti quelli che incontrava mentre avanzava tra la folla. Questo era l’uomo che aveva “danzato” Autumn Rhythm, Lavender Mist, Blue Poles e forse molti altri tra i più straordinari dipinti mai prodotti in America o in qualsiasi altro luogo. Che cosa gli era accaduto? Che cos’era accaduto a quell’altro Pollock di cui rimaneva a stento l’aura? In che modo aveva perso il contatto con questo io? Che cosa aveva fatto a se stesso? E che cosa gli avevano fatto gli altri? Chissà se saprò rispondere a questi interrogativi. Forse non esiste nessuno in grado di farlo. Ma nelle pagine che seguono spero di offrire almeno qualche indizio che aiuti a chiarire questi punti.
1 Crescere nel West (1912-1929)
Ogni artista custodisce in un luogo recondito della propria mente una sorta di schema architettonico. L’originalità in ogni uomo d’immaginazione consiste nel suo immaginario. Qualcosa che somiglia al paesaggio dei suoi sogni, il tipo di mondo che vorrebbe creare o in cui desidererebbe vagabondare, la strana flora e fauna del suo piccolo pianeta segreto, in sostanza ciò che ama pensare e immaginare. Quest’atmosfera generale, questo modello o struttura di sviluppo, governa tutte le sue creazioni, per quanto varie esse siano. G.K. Chesterton
Il 28 gennaio 1912, quando Jackson Pollock nacque in un ranch di pecore a Cody, nel Wyoming, i suoi genitori erano lungi dall’immaginare che un giorno questo figlio, il loro quinto e ultimo, sarebbe diventato il più famoso pittore della sua generazione; una generazione destinata, per la prima volta nella storia dell’arte americana, a ottenere apprezzamento a livello internazionale e a esercitare una grande influenza e un ruolo di guida. Né, ovviamente, avrebbero potuto prevedere che persino gli aspetti più superficiali della sua vita sarebbero stati oltremodo banalizzati per dar luogo a un mito popolare e distorto come quello dei pittori ottocenteschi Gauguin, Toulouse-Lautrec e van Gogh, artisti che, come lui, morirono giovani. Pollock è stato descritto nelle riviste d’arte europee come il principale esponente della “Scuola californiana”, un cowboy indefesso, bevitore irriducibile, partito dal selvaggio West e arrivato fra ruggiti e spari a New York dove prese d’assalto le gallerie e, a quarantaquattro anni, al culmine delle sue forze, morì in un incidente d’auto, forse ubriaco, forse suicidandosi (secondo molte voci infondate e altrettante smentite che le perpetuavano, e secondo alcune dichiarazioni pubblicate,1 inclusa quella di almeno uno dei suoi colleghi pittori2). Jackson Pollock: un nome perfetto, così forte, duro, così americano. California: lo stato ideale da cui provenire. Quarantaquattro anni: l’età in cui morì Scott Fitzgerald. Un incidente automobilistico, forse in stato di ebbrezza, con due ragazze a bordo, una morta, l’altra gravemente ferita:
23
· B.H. Friedman ·
anche questo molto americano. Eppure, come per tutti i miti intorno agli artisti, le verità sono nel migliore dei casi parziali e le vere avventure non capitano sulle autostrade o nelle bettole, ma nella solitudine dello studio. È lì che si svolge l’azione, sebbene non sempre produca un buon film. È lì che l’artista deve affrontare se stesso. Ma il mondo esterno – la sua stima o il suo disprezzo, la sua versione del successo o del fallimento – non penetrano nello studio? Non si intromettono? Sì, anche questo fa parte della storia, ma ha ben poco di mitico; dopo tutto, il successo è americano quanto la torta di mele, anche quando, come nel caso di Pollock, soffoca. I genitori di Pollock, Stella May McClure e LeRoy Pollock, avevano passato i trentacinque anni quando Jackson nacque, il padre di un anno più giovane della madre. Erano cresciuti a Tingley, nello Iowa e, entrambi presbiteriani, provenivano da ambienti austeri, di origine irlandese per lei e scozzese-irlandese per lui. Intorno al 1890, il padre, nato McCoy, aveva assunto il cognome dei genitori adottivi, vicini di casa dei suoi genitori naturali, che erano morti entrambi nel giro di un anno. Da ragazzo LeRoy Pollock acquisì le abilità tipiche degli uomini di frontiera – che consistevano nel gestire un ranch, coltivare la terra e fare rilevamenti – con cui, non senza difficoltà, mantenne la moglie e i figli. Nulla nella sua formazione o nelle circostanze 24
esterne della sua vita avrebbe fatto presagire che tutti e cinque i figli fin da giovani avrebbero desiderato diventare artisti. Charles (Cecil) Pollock (19021988) fu pittore e insegnante d’arte; (Marvin) Jay Pollock (1904-1986) autore di incisioni al rotocalco; Frank (Leslie) Pollock (1907-1994) studiò scrittura, ma si dedicò poi alla coltivazione delle rose; e Sanford (LeRoy) Pollock (19091963), che mutò il proprio cognome in McCoy, fu pittore e autore di incisioni al rotocalco e serigrafie. Da dove proveniva questa vena creativa e sensibile? Alcuni membri della famiglia la fanno risalire all’interesse di Stella Pollock per la tessitura, per il lavoro all’uncinetto e il quilting. Era anche un’eccellente sarta e confezionava le camicie per l’intera famiglia. Resta il fatto che tutte queste abilità denotano competenza e maestria, non per forza sensibilità e creatività, e di certo non originalità. Stella, la “tessitrice domestica”, restava all’interno di una cornice fatta di convenzioni popolari e modelli stabiliti. Anche quando si esaminano le fotografie di famiglia, colpisce soprattutto la rigidità della postura: una donna robusta e pettoruta, sempre dritta e severa. Al contrario, le immagini di LeRoy Pollock lo mostrano solitamente rilassato e sorridente. Il corpo e il viso denotano gentilezza e sensibilità, insieme a una cordialità un po’ rude, frutto forse di anni duri e logoranti. Prima di lavorare nel ranch di Cody aveva fatto il lavapiatti per il locale Irma Hotel, ed era stato muratore e socio in un impianto di frantumazione delle rocce. Quando (Paul) Jackson nacque, sul certificato
· Crescere nel West (1912-1929) ·
di nascita l’occupazione di LeRoy era classificata come “scalpellino e lavori in cemento”. Charles ricorda i suoi genitori quali «eccellenti artigiani: sapevano coltivare, sapevano costruire. Ma nessuno dei due aveva il senso degli affari o del profitto». Stella Pollock si preoccupava, forse più di suo marito, della gestione dell’economia domestica. Tuttavia, Charles ricorda che le piacevano le cose belle. Quando lui una volta espresse il desiderio di avere delle camicie fantasia anziché quelle da lavoro blu a tinta unita che sua madre gli stava confezionando, Stella lo portò da Goldwater’s a Phoenix e gli comprò della stoffa di pura seta. Sebbene Stella condividesse la vita con LeRoy Pollock, quei tratti gentili del marito, ammesso che in lei esistessero, erano nascosti o repressi. La sua maschera esteriore era più trattenuta, meno personale ed espressiva. Nel complesso i due genitori presentavano molta di quell’ambivalenza – il misto di tenerezza e aggressività, introversione ed apertura – che avrebbe sempre caratterizzato Pollock, intensificandosi nel corso degli anni. Forse a causa della mancanza di “senso degli affari” di LeRoy Pollock, o forse per un’irrequietezza più profonda e inconscia, la famiglia affrontò una serie interminabile di trasferimenti durante l’infanzia di Jackson. Prima che compisse un anno, avevano già lasciato Cody per stabilirsi a San Diego. Non funzionò. L’anno seguente suo padre acquistò un piccolo orto a Phoenix. Nel giro di quattro anni l’orto fu venduto all’asta e i Pollock si trasferirono in una fattoria adibita a frutteto a Chico, in California, e poi, dopo altri quattro anni, in un frutteto a Janesville, sempre in California. Da lì nel 1922 si spostarono a Orland, ancora in California. Dunque all’età di dieci anni Jackson aveva già avuto sei case in tre stati diversi, e i trasferimenti non erano ancora terminati. Intanto, il fratello maggiore Charles, lasciata la famiglia, era andato a Los Angeles a lavorare presso l’ufficio tecnico del Times e a studiare all’Otis Art Institute. Da Los Angeles, per molti anni a venire, Charles avrebbe inviato ai suoi fratelli copie di The American Mercury e di Dial, con articoli sull’arte d’avanguardia e sulla letteratura che forse non interessarono Jackson all’età di dieci o dodici anni, ma probabilmente lo attrassero in seguito. A eccezione di Charles, nel 1923 la famiglia era di nuovo pronta a trasferirsi. In autunno fecero ritorno in Arizona, dove LeRoy Pollock trovò una fattoria con orto e mucche da latte nei pressi di Phoenix. Ora, a dieci anni di distanza dal loro primo trasferimento in quella zona, Jackson era abbastanza grande da poter esplorare i resti degli accampamenti indiani e visitare le riserve, dove danze cerimoniali e pitture su sabbia potevano diventare attrazioni turistiche e dove si vendevano come souvenir bambole e coperte dai
25
· B.H. Friedman ·
colori vivaci. Tuttavia, il suo apprezzamento estetico per l’arte degli indiani d’America sarebbe nato più tardi, rafforzando le memorie d’infanzia dei disegni astratti ben delineati e dei colori “primitivi” sia su sabbia che nella “pittura di guerra”. Questo trasferimento in Arizona fu breve. In primavera ritornarono a Chico; subito dopo fu la volta di Riverside, poco oltre Los Angeles, tra agrumeti e vigneti. Era lì che si trovavano quando, nel settembre del 1926, Charles si iscrisse all’Art Students League di New York. L’estate successiva, a soli quindici anni e mezzo, Jackson si avvicinava già al metro e ottantadue, l’altezza che avrebbe raggiunto quando il suo corpo negli anni seguenti si sarebbe irrobustito. Già a quest’età aveva un fisico forte e atletico, con mani vigorose e capaci, nonostante la punta dell’indice destro ruvida e segnata da cicatrici: a undici anni un colpo di scure gliel’aveva mozzata. (Forse l’incidente era avvenuto mentre tagliava la legna, o forse il colpo gli era stato inferto da un amico mentre uccidevano un pollo nella fattoria di Phoenix. Comunque fossero andate le cose, a Pollock piaceva molto raccontare la storia di come il pollo inseguisse la punta del suo dito e di come lui fosse riuscito a salvarla in tempo per farsela ricucire.) Anche il viso era già quasi quello di un uomo, con i suoi tratti tipici ben definiti, anche se non ancora pronunciati: la linea della fronte molto sporgente, gli 26
occhi color nocciola infossati, intensi e vulnerabili al tempo stesso, il dorso del naso massiccio che scendeva irregolare verso la punta, la bocca sensuale, la mandibola marcata, la fossetta sul mento – il tutto incorniciato da capelli castano chiaro. Sì, gli avrebbero potuto affidare il ruolo del cowboy, nonostante quella nota di sensibilità e timidezza nello sguardo. Dalle fotografie e dai ricordi di amici e familiari sappiamo che Jackson Pollock era un giovane molto avvenente. Sino agli ultimissimi anni della sua vita (e in certa misura anche allora), la forza, l’energia e l’intensità del suo volto e del suo corpo furono magnetiche, persino carismatiche, e come tali devono aver influito sulla sua carriera. Né era da meno l’intensità dei suoi stati d’animo e del suo modo di esternarli. Alcuni compagni di scuola ricordano questo aspetto della sua personalità, e anni più tardi la vedova ebbe a dire: «Qualunque cosa Jackson provasse, la provava più intensamente di chiunque altro io abbia mai conosciuto: quando era in collera, era più in collera, quando era felice, era più felice, quando era calmo, era più calmo…».3 Nell’estate del 1927 lui e Sandy, il penultimo dei fratelli, lavorarono come agrimensori, lo stesso mestiere svolto a quei tempi dal padre. Per fare rilevazioni lungo il bordo settentrionale del Grand Canyon, si recarono in un’area allestita per buona parte come una falegnameria. Le squadre degli agrimensori dormivano in capanne di tronchi d’albero, consumavano enor-
· Crescere nel West (1912-1929) ·
mi colazioni in mensa, portavano con sé a cavallo il pranzo e ritornavano la sera per cenare – e per bere. Possiamo solo immaginare il giovane Jackson (è ora che inizia a usare il suo secondo nome; abbandonerà poi del tutto il primo, Paul, quando tre anni più tardi si trasferirà a New York) in questo ambiente, mentre lavora con un agrimensore esperto, forse come segnalinee o togliendo sterpaglie. Lo immaginiamo ritornare al campo, esausto ma euforico per gli scenari, la vita selvaggia e il senso dello spazio (per tutta la vita si sarebbe identificato con questi aspetti della natura); lo immaginiamo mentre consuma la sua porzione di carne e di patate, e forse fa il bis, per poi bere con gli adulti, tentando di compensare la sua giovinezza con atteggiamenti aggressivi, virili. Sì, in questo contesto il nome Jackson calza a pennello, con quei rimandi al generale Andrew Jackson e al generale “Stonewall” Jackson. Anche abbreviato in Jack, come lo chiamerà la maggior parte degli amici, suona perfetto – terso, duro e, ancora una volta, virile –, molto diverso da Paul, nome biblico, nome da santo. In quella stessa estate Jackson scoprì che l’alcol – per ora soprattutto vino e birra, raramente superalcolici – pareva risolvere in qualche modo i suoi conflitti interiori tra tenerezza e aggressività; lo faceva sentire calmo e più a suo agio in un ambiente né calmo né agevole. Era dunque già avviato a diventare un alcolista. Altri vicino a lui condividevano quella stessa inquietudine che lo portava a bere, ma Jackson sarebbe stato l’unico ad accettare l’alcolismo come una diagnosi, a cercarne la cura (prevalentemente nella terapia psichiatrica – freudiana, junghiana, sullivaniana, di gruppo – ma anche nell’omeopatia, nell’ipnosi, nella biochimica) e, in una fase tarda della sua carriera, a superare il problema per un periodo breve ma molto produttivo. Tuttavia, nonostante il forte desiderio di bere, Jackson aveva una scarsa tolleranza all’alcol: era come se il suo sistema reagisse in maniera allergica. Molti amici ricordano quanto fossero pesanti le sue sbronze con quantitativi relativamente bassi di vino e birra e, ovviamente, con quantità ancor minori di whisky. Quando beveva molto – poteva reggere una bottiglia di whisky, anche se diventava alticcio quasi dal primo sorso – si ubriacava giusto quel tanto in più che bastava a non perdere i sensi. Infine, per distinguere il caso di Jackson da quello dei più comuni alcolisti, va detto che quando era ubriaco non diventava semplicemente felice, triste o disinibito: cambiava personalità. Si trasformava in un altro, come il dottor Jekyll, anche se la sua pozione era l’alcol. Il problema di Pollock era chiaramente di natura psicologica, oltre che fisiologica. Tuttavia, seguendo l’esempio dei fratelli maggiori, Jackson individuò un modo più costruttivo per affrontare l’ambivalenza tra il lato attivo e quello passivo, e la tensione che ne derivava. Scoprì che gli piaceva dise-
27
· B.H. Friedman · Jackson, intorno al 1928, quando con il padre e il fratello faceva rilevazioni topografiche lungo i bordi del Grand Canyon. Questa esperienza contribuì a infondergli l’amore per gli spazi sterminati.
28
gnare e che, nel farlo, poteva almeno temporaneamente risolvere, riversandole su carta, le ansie che l’alcol si limitava a smussare. Per quanto ne sappiamo, non sono sopravvissuti lavori di questo primo periodo – possiamo solo immaginare il senso di eccitazione che il ragazzo sensibile e introverso deve aver sperimentato, tra i quindici e i sedici anni, quando le sue più grandi speranze e le sue peggiori paure riuscivano a convivere sulla carta, divenendo d’un tratto magicamente compatibili, come una linea scura su uno sfondo chiaro. E possiamo solo immaginare – ma più tardi saremo in grado di vedere – come le immagini di padre e madre, maschio e femmina, e l’intera dicotomia dei princìpi attivi e passivi venissero ricomposte attraverso l’arte. Le discrepanze della vita devono essersi composte più agevolmente sul blocco da disegno che sulle spalle di Jackson; lì, sotto la sua matita o la sua penna, la vita dev’essergli sembrata più tranquilla.
· Crescere nel West (1912-1929) ·
Dopo la prima estate di rilevamenti, Jackson si iscrisse alla Riverside High School, dove conobbe il pittore-scultore Reuben Kadish, con cui sarebbe rimasto in contatto, a fasi alterne, per il resto della sua vita. A marzo, quando la famiglia si trasferì a Los Angeles, Jackson lasciò la Riverside High per iscriversi alla Manual Arts High School, dove nell’autunno successivo conobbe Philip Guston e Manuel Tolegian, altri due artisti che avrebbe frequentato intensamente per un certo periodo e con i quali sarebbe rimasto in contatto per tutta la vita. In questa fase, tuttavia, il rapporto più importante fu con un professore di arte, Frederick Schwankovsky, che lo introdusse alle religioni orientali, soprattutto al buddhismo, e agli insegnamenti contemporanei di Krishnamurti. A Ojai, a nord di Los Angeles, Pollock partecipò a numerosi raduni all’aperto di questo poeta e mistico hindu. Possiamo intuire quel che ascoltò durante la lettura di Life in Freedom, una raccolta del 1928 dei “campfire addresses” (discorsi intorno al fuoco da campo) di Krishnamurti. Ecco un passaggio, breve ma tipico, tratto da “The Search” (La ricerca): «Ho dipinto il mio ritratto su tela e voglio che lo esaminiate in maniera critica, non ciecamente. Voglio che grazie a quel ritratto voi dipingiate un nuovo ritratto per voi stessi. Voglio che vi innamoriate del ritratto, non del pittore, che vi innamoriate della Verità e non di colui che porta la Verità. Innamoratevi di voi stessi e vi innamorerete di tutti». Schwankovsky, noto a scuola come Schwanie, credeva in un’apertura totale verso ogni tipo di esperienza: religiosa, estetica, politica. Oltre che ai raduni all’aperto, portava i suoi studenti in una chiesa teosofica. Teneva loro lezioni sull’etica del vegetarianismo. Svolgeva esperimenti sulla percezione extrasensoriale, soprattutto correlata a una Coscienza Universale. Faceva per esempio scrivere lettere in simultanea ai suoi allievi e a studenti che si trovavano in altre parti del paese per dimostrare che avevano le stesse preoccupazioni. Più che catalizzare il desiderio di ribellione giovanile di Jackson, questi insegnamenti ed esperimenti devono aver soddisfatto in lui un bisogno. Benché i suoi genitori formalmente fossero presbiteriani, non erano praticanti; il loro credo era più affine al panteismo che a una qualunque setta cristiana. E anche per Jackson un’identificazione mistica e contemplativa con il flusso naturale della vita era fin da allora più importante di qualunque Chiesa ufficiale. Ribellione e protesta in quanto tali trovarono espressione in altro modo, sempre sotto l’incoraggiamento di Schwankovsky. In quello stesso anno accademico 1928-1929 Pollock fu espulso dalla Manual Arts per aver partecipato, insieme a Guston e Tolegian, alla preparazione e distribuzione del Journal of Liberty, due soli numeri che criticavano il corpo docente della scuola, in particolare il dipartimento di inglese, e l’enfasi eccessiva
29
· B.H. Friedman · Jackson a sedici anni, ai tempi in cui la famiglia si trasferì da Riverside a Los Angeles, dove si iscrisse alla Manual Arts High School.
30
conferita all’atletica. Quando Jackson apprese che nello stesso periodo Kadish, in piena autonomia, aveva organizzato a Riverside proteste simili, descritte dai giornali come parte di una cospirazione comunista, gli telefonò e riprese i contatti. Da quel momento sino alla fine dell’anno i due, così come Guston, Tolegian e Donald Brown, uno scrittore con un forte interesse per Joyce e Cummings, mantennero stretti legami. Sebbene ad agire da collante fosse stata l’attività di “sobillatori politici”, il loro vero interesse era l’arte. Kadish ricorda che leggevano già transition, la rivista letteraria d’avanguardia i cui primi numeri risalivano al 1927. «Vivevamo una fantasia europea» sostiene Kadish. «Sapevamo di non appartenere al Water Color Club o all’Art Association di Los Angeles. L’arrivo di Siqueiros a Los Angeles ebbe lo stesso significato dell’arrivo dei surrealisti a New York negli anni quaranta.» Pollock fu riammesso alla Manual Arts solo nell’autunno successivo – dopo un’altra estate di rilevamenti, questa volta con suo padre a Santa Ynez, in California – e si cacciò subito in nuovi guai, come rivela la seguente lunga lettera, una delle poche rimaste di questo periodo. (Frank e Charles erano a New York, il primo a studiare letteratura alla Columbia, il secondo ancora all’Art Students League.)
· Crescere nel West (1912-1929) ·
Los Angeles, 22 ottobre 1929 Cari Charles e Frank, mi dispiace aver aspettato tanto a rispondervi. Ho faticato molto a adattarmi alla scuola, ma poi c’è stata altra tensione. Sono stato di nuovo espulso. L’altro giorno sono venuto alle mani con il capo del dipartimento di ed. fisica. Siamo andati a parlarne con il direttore, ma si è dimostrato troppo ottuso per capire il mio punto di vista. Mi ha detto di andarmene e di cercarmi un’altra scuola. Ho parecchi professori che mi sostengono, quindi c’è qualche possibilità che ritorni. Se non mi riammettono, non so cosa farò. Ho pensato di andare a Città del Messico, se trovo qualche possibilità di mantenermi lì. Io e un altro studente abbiamo anche altri guai seri. Abbiamo prestato dei soldi a due ragazze per fare un viaggio. Non conoscevamo la legge. L’abbiamo fatto solo per amicizia. Ma ora ci hanno beccati e non sappiamo che accadrà. La pena è da sei a dodici mesi di carcere. Ma siamo entrambi minorenni, quindi probabilmente ci manderanno in qualche riformatorio. Hanno rintracciato oggi le ragazze a Phoenix e le stanno riportando a casa. Se ritornerò a scuola, dovrò stare molto attento a quel che faccio. Tutta la combriccola pensa che io sia uno schifoso ribelle venuto dalla Russia. Dovrò starmene tranquillo per molto tempo per guadagnarmi una buona reputazione. È inutile cercare di combattere un esercito con pallottole di carta. Ho letto e riletto la vostra lettera, comprendendola sempre più a fondo. Nonostante sia un po’ migliorato quest’anno, sono molto lontano dall’aver capito cosa significhi lavorare veramente. Mi sono abbonato a Creative Art e The Arts. Leggendo Creative Art vi capisco di più e ho una nuova visione della vita. Per il momento ho lasciato perdere la religione. Se dovessi seguire il Misticismo Occulto, non sarebbe a scopi commerciali. Ho dei dubbi sul mio talento, dunque qualunque cosa io decida di diventare, per raggiungere l’obiettivo avrò bisogno di molto studio e lavoro. Temo che sarà qualcosa di forzato e meccanico. L’architettura mi interessa ma non quanto la pittura e la scultura. Ho scoperto l’opera di Rivera tramite alcune riunioni comuniste che ho frequentato dopo l’espulsione da scuola lo scorso anno. C’è un suo dipinto al Museo ora. Forse l’avete visto, Día de Flores. Ho trovato il numero di Creative Art del gennaio 1929 su Rivera. Ammiro molto il suo lavoro. Le altre riviste non sono riuscito a trovarle. Quanto a quello che vorrei essere. È difficile dirlo. Un Artista di qualche tipo. Se non altro, continuerò a studiare le Arti. La gente mi ha sempre spaventato e annoiato, di conseguenza mi sono ritirato nel mio guscio e non ho realizzato niente, dal punto di vista pratico. Ero così terrorizzato dall’idea di parlare in pubblico che non riuscivo a connettere. Ora lo sto superando a poco a poco. Seguo letteratura americana, letteratura con-
31
· B.H. Friedman ·
temporanea, scultura e disegno dal vero. Siamo fortunati a essere l’unica scuola in città che disponga di modelle. Anche se è difficile avere un nudo davanti e attenersi al programma, Schwankovsky è abbastanza coraggioso da procurarne. Frank, mi dispiace non averti potuto spedire subito la macchina da scrivere, ho una scatola ma è troppo piccola. Me ne procurerò un’altra e te la spedirò immediatamente. Come sta andando la scuola? Partecipi a qualche attività? Mart è ancora in città? È tanto che non ci sentiamo, in effetti le vostre lettere sono diminuite. Sande sta abbastanza bene ora. Ha un ufficio e gestisce tutta la pubblicità. Continua ad andare nei fine settimana a Riverside. Con affetto, Jack
Questa lettera ci fornisce un compendio della confusione e dei dubbi di un diciassettenne, un ritratto dell’artista da giovane. L’unica certezza è di voler essere “un Artista di qualche tipo”. L’uso della maiuscola è toccante, soprattutto considerando la sua attrazione per le idee politiche radicali, che era appunto soltanto un’attrazione, non una distrazione. Jackson non confuse mai arte e politica, e non si iscrisse mai a un partito politico. Fin dalla giovinezza rimase 32
fedele all’Arte, con la A maiuscola, assolutamente determinato nel desiderio di essere “un Artista di qualche tipo”. Per il secondo trimestre, con l’aiuto di Schwankovsky, Pollock fu nuovamente riammesso alla Manual Arts, ma questa volta soltanto come studente part-time, con un periodo di prova. Vi rimase sino all’estate. Tuttavia, all’inizio del trimestre, tre giorni dopo il suo diciottesimo compleanno, descrisse la sua nuova quotidianità e il suo stato d’animo: los angeles, 31 gen. 1930 caro charles, faccio di continuo nuove esperienze e attraverso una fase di evoluzioni vacillanti che mi lasciano turbato. sono anche un po’ pigro e trascurato nella corrispondenza scusa sembro disinteressato al tuo aiuto ma d’ora in poi dimostrerò maggiore interesse e risponderò prima alle tue lettere. le mie lettere sono sicuramente egocentriche ma è di me stesso che mi preoccupo in questo momento. immagino che la mamma ti tenga informato sulle questioni di famiglia la scuola è sempre noiante ma mi sono adattato alle sue regole e alle campanelle così non ho più avuto problemi ultimamente. in questo trimestre frequenterò solo mezza giornata il resto del tempo lo passerò a leggere e a lavorare qui a casa. sono sicuro che riuscirò a concludere molto di più. a scuola
· Crescere nel West (1912-1929) ·
seguirò disegno dal vero e scultura. ho iniziato a fare qualcosa in creta che mi è valso l’incoraggiamento del mio professore. i miei disegni ti dirò francamente che non valgono niente e sembra che manchino di libertà e ritmo sono freddi e senza vita. non vale la pena pagare per spedirteli. dovrei fare qualche progresso a breve se mai mi riuscirà allora ti spedirò qualche disegno. la verità è che non mi sono mai davvero messo sotto a lavorare per finire un’opera di solito a un certo punto provo disgusto e perdo interesse. l’acquerello mi piace ma non mi sono mai esercitato molto. anche se sento che un giorno sarò un artista di qualche tipo non ho mai dimostrato a me stesso né ad altri che è nelle mie possibilità diventarlo. questa cosiddetta parte felice della vita la giovinezza per me è una specie di inferno se potessi trarre qualche conclusione su me stesso e la vita vedrei forse qualcosa per cui lavorare. la mia mente si accende di illusioni per un paio di settimane poi tutto finisce in un bel niente più leggo e penso di pensare e più vedo tutto nero. mi interessa ancora la teosofia e sto studiando un libro light on the path tutto quel che dice sembra contrario all’essenza della vita moderna ma se lo si capisce e lo si segue penso possa essere una guida molto utile. vorrei che riuscissi a procurartene uno così potresti dirmi cosa ne pensi. costa soltanto trenta centesimi se non lo trovi te lo spedisco io. abbiamo costituito un gruppo per trovare una fornace dove cuocere le nostre cose. daremo una commissione al proprietario per la cottura e verniciatura. c’è la possibilità che guadagni un po’ di soldi. spero che ti lascerai andare liberamente alle critiche e ai consigli e alle liste di libri non sogno più come un tempo forse me ne verrà del bene. ho incontrato geritz a una lezione di incisione su legno mi ha chiesto di te e ti manda i suoi saluti
il tipo che mi dicevi sarebbe venuto non è arrivato Jack
Scritto a solo tre mesi di distanza dalla lettera di ottobre, questo testo è sorprendente per diversi motivi: l’uso integrale delle minuscole, l’eccentrica punteggiatura e divisione in paragrafi, l’utilizzo del termine inesistente e fantasioso “noiante”. Jackson si stava effettivamente dedicando alla lettura – forse di e.e. cummings, in una delle riviste letterarie più d’avanguardia, The Dial. Può sembrare un fatto meccanico per chi scriva a macchina non passare alle maiuscole o non far rientrare i paragrafi in maniera convenzionale. Ma anche queste affettazioni sono piccoli gesti ribelli che indicano una volontà di combattere gli insegnamenti ricevuti. I termini compulsivo e ossessivo potrebbero adattarsi tanto al modo di scrivere a macchina di Pollock quanto alla sua tipica grafia illeggibile (che si sarebbe sbloccata soltanto molti anni più tardi – e sulla tela, non su carta da lettera). Ancora più impressionante è il giudi-
33
· B.H. Friedman ·
zio di questo diciottenne sulla propria capacità di disegnare: «I miei disegni ti dirò francamente che non valgono niente e sembra che manchino di libertà e ritmo sono freddi e senza vita». Nessun pittore più di lui avrebbe puntato su libertà e ritmo come mezzi per conferire calore e vita alla propria arte. Ma, ancora una volta, ci vorrà tempo, sarà necessario uno sforzo, da esercitare soprattutto tra le mura dello studio. Sarà lì che questo giovane timido, combattuto ed emozionalmente bloccato, con un incipiente problema di alcolismo, tenterà di avvicinarsi a quelle radici che da bambino non aveva mai avuto.
34