Yves il provocatore. Yves Klein e l'arte del Ventesimo secolo

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© 2014 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di dicembre 2014 isbn 978-88-6010-155-6 Copyright © 2010 by Thomas McEvilley. All rights reserved. Published by arrangement with McPherson & Company, Kingston, New York. Copyright © Yves Klein, adagp, Parigi, 2015, per tutte le riproduzioni di opere, documenti e testi di Yves Klein. Titolo originale: Yves the Provocateur. Yves Klein and Twentieth Century Art Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

STAMPATO SU CARTA

Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.


Thomas McEvilley

Yves il provocatore Yves Klein e l’arte del Ventesimo secolo

Traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini



Sommario

Prefazione di Rotraut Klein-Moquay

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Introduzione dell’autore

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1 Vivere una contraddizione

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Yves Klein: Messaggero dell’era dello spazio

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2 Yves Klein: Conquistador del vuoto

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3 Yves Klein e il rosacrocianesimo

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Cronologia

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Note

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Crediti e ringraziamenti

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Indice dei nomi 245



Prefazione

L’avventura di Yves Klein cominciò alla fine degli anni quaranta con le prime esperienze influenzate dall’ambiente familiare; entrambi i suoi genitori, infatti, erano pittori. Crescere nell’Europa lacerata dalle mostruosità della Seconda guerra mondiale segnò in modo profondo il suo destino: tutto doveva essere ricostruito e niente poteva somigliare al passato. Questa visione lo spinse a sviluppare sin dagli esordi un approccio nuovo: l’arte non poteva più accontentarsi di essere una rappresentazione realistica, né una composizione astratta di forme e colori come proclamato dall’École de Paris dopo la rottura con l’eredità figurativa. Una città che tentava di ricostruire il proprio futuro, cercando nuove strade, non si accorse che il mondo della pittura era già fuggito verso orizzonti più luminosi. Con la sua vitalità, la sua forza di persuasione, il suo carisma, Yves conquistò rapidamente la scena artistica europea (Milano, Parigi, Düsseldorf, Londra). Il viaggio in Giappone, dove visse dal 1952 al 1954, così come il soggiorno in Spagna gli fecero capire la globalità della cultura, rendendolo cittadino del mondo. Per lui l’arte era più di una giustapposizione di oggetti: riguardava la filosofia, la spiritualità, la trascendenza. Il messaggio è chiaro: l’immateriale, attraverso il colore blu, invade lo spazio; è la presenza amplificata dell’arte senza artificio. La sua vita e la sua morte sono l’esempio più puro di un’œuvre senza compromessi, che chiama in causa l’individuo e ridà speranza nel genere umano. Le numerose testimonianze e interpretazioni che si sono susseguite nel corso degli anni ne sono la dimostrazione. «Lunga vita all’immateriale» – Yves Klein. Rotraut Klein-Moquay

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Introduzione dell’autore

Yves Klein morì trentaquattrenne nel 1962. La sua carriera artistica era du-

rata solo sette anni, ma per certi aspetti era stata clamorosa. Nel 1958, per esempio, si parlò talmente tanto della mostra in cui avrebbe esposto una galleria vuota – “Le Vide” (Il vuoto), allestita alla Galerie Iris Clert – che la sera del vernissage accorsero tremila entusiasti, tra cui Albert Camus, che sul libro degli ospiti scrisse «Con il vuoto, pieni poteri». La mostra divenne subito un emblema dell’antiarte. Tre anni dopo, nel corso del suo unico viaggio negli Stati Uniti, Klein espose nelle due gallerie d’arte d’avanguardia più prestigiose e importanti, la Leo Castelli a New York e la Virginia Dwan a Los Angeles. Si potrebbe pensare che la sua sia stata una carriera di grande successo, ma in realtà i problemi non mancarono. “Le Vide” fu un evento sensazionalistico, durante il quale alcuni allievi di judo di Klein ebbero il compito di regolare il flusso dei visitatori in piccoli gruppi per mantenere la purezza del vuoto. La mostra fu accolta perlopiù come un’azione neodada, anche se nelle intenzioni di Klein si trattava di una seria manifestazione metafisica. Klein cominciò a essere visto come un personaggio estroso e un uomo di spettacolo, anziché come un autentico artista. Questa reputazione lo precedette a New York, dove la stampa salutò il suo arrivo con titoli come “Little Boy Blue”, “Un Dalí di grado inferiore” o “Siete mai stati tutti blu?”. Le mostre in cui erano esposti i monocromi blu identici tra loro furono considerate delle buffonate. Quando tornò a Parigi, fu preso in giro più di quanto non fosse accaduto dopo “Le Vide”. All’epoca in cui morì, circa un anno dopo, Klein era considerato un esibizionista che aveva avuto il suo quarto d’ora di celebrità e poteva essere dimenticato. Nel 1977 ero ricercatore alla facoltà di arte e storia dell’arte della Rice University di Houston, benché mi occupassi anche di filologia classica, disciplina in cui avevo conseguito il dottorato di ricerca. La facoltà e io in quanto docente fummo coinvolti nel progetto dei collezionisti e mecenati

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Jean e Dominique de Menil. Alle spalle del campus sorgeva il grande edificio di metallo ondulato del Rice Museum, che era stato fondato di recente da Jean e Dominique e sarebbe stato in seguito sostituito dalla Menil Collection. In quello spazio Dominique aveva già presentato alcune mostre importanti che includevano i pezzi forti della sua collezione, tra cui una memorabile di Magritte e un’altra straordinaria di Ed Kienholz. Jean de Menil era morto nel 1973 e Dominique, per sopportare meglio la vedovanza, aveva preso l’abitudine di organizzare delle cene a due nella sua casa di River Oaks. Io fui uno dei fortunati invitati. Una sera del 1977 Dominique e io condividemmo una piacevole cena chiacchierando di argomenti di reciproco interesse. Fu forse in quell’occasione che mi chiese se fosse il caso di costruire un museo sotterraneo, per proteggere le opere d’arte in caso di guerra. Ricordo comunque che proprio quella sera le dissi che stavo leggendo Late Modern Art di Edward Lucie-Smith (o era Art Since 1945?) ed ero affascinato dalla descrizione delle opere realizzate dall’artista francese Yves Klein negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Dopo cena Dominique mi accompagnò fino alla porta e rimanemmo a chiacchierare ancora un po’ nell’ingresso. Fu allora che, credo d’impulso, mi chiese: «Mi piacerebbe organizzare una mostra con lei. Lei si occuperà del catalogo, io pense12

rò alle opere. Quale artista preferisce?». Mi stava proponendo una mostra al Rice Museum, che all’epoca era più o meno il suo spazio espositivo personale. Mentre la guardavo mi accorsi che alle sue spalle c’era una straordinaria antropometria di Klein, People Begin to Fly (La gente comincia a volare), quindi risposi: «Perché non Yves? Facciamo una mostra di Yves». Dominique, che era francese e già possedeva opere dell’artista, fu subito d’accordo. Per parte mia, visto che non avevo mai scritto nulla di storia dell’arte o critica d’arte, iniziai a fare ricerche per il catalogo, soprattutto tra i materiali conservati nella biblioteca della Rice University. Quell’estate trascorsi un paio di settimane nella casa di Parigi dei de Menil, andando ogni giorno a consultare gli archivi del Centre Pompidou, dove si trovavano i libri e i documenti di Klein. Nel frattempo riuscii anche a intervistare alcuni di coloro che l’avevano conosciuto. Particolarmente importanti furono le conversazioni con i migliori amici di Yves, Claude Pascal e Arman, che lo avevano conosciuto sin dall’infanzia a Nizza, e con la vedova Rotraut Klein, che fu gentilissima con me e di cui, posso dire, diventai amico. Nei due anni successivi sarei tornato a Parigi d’estate per continuare le mie ricerche sulla vita e sulla misteriosa personalità di Yves. Rientrato a Houston cominciai a scrivere una serie di testi per la mostra. Fu la mia iniziazione alla critica d’arte, alla curatela e al funzio-


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namento del mondo dell’arte in generale. Data la mia formazione da filologo, scrissi per primo il saggio “Yves Klein e il rosacrocianesimo”, in cui sostenevo che gli scritti di Klein – per quanto solitamente trattati alla stregua di burle divertenti – risultavano perfettamente sensati se letti alla luce della Cosmogonia dei Rosacroce di Max Heindel, il mistico tedesco fondatore dell’Associazione rosacrociana (di cui Klein fece parte), che aveva la propria sede centrale a Oceanside, in California. Scoprii che, analizzati nel contesto della storia dell’arte, gli scritti di Klein erano una brillante e neanche troppo nascosta rielaborazione di quel testo. Con il tempo, grazie ad altri soggiorni a Parigi, altre interviste e ulteriori ricerche negli archivi del Centre Pompidou, ho redatto un più lungo profilo biografico intitolato “Yves Klein: Conquistador del vuoto”. In quel periodo Dominique era impegnata nella costruzione del museo che si sarebbe chiamato Menil Collection. Aveva incaricato del progetto l’architetto Renzo Piano e cercava qualcuno a cui affidare il ruolo di direttore. Un giorno mi annunciò: «Credo di aver trovato la persona giusta». Si trattava di Walter Hopps, noto curatore e direttore di musei. Di lì a poco Walter si trasferì nella residenza per gli ospiti di Dominique e iniziò a collaborare con entusiasmo all’organizzazione della mostra “Yves Klein (1928-1962): A Retrospective”. Ci ritrovammo spesso a lavorare fino a tardi sulle immagini. Walter si occupò anche del layout del catalogo e, quando giunse il momento, seguì con impegno l’installazione delle opere. Nondimeno, non interferì mai con le mie scelte in quanto autore dei testi. Intanto, io scrissi il terzo pezzo per il catalogo, una cronologia ampliata che comprendeva eventi politici e scientifici collegati alle ambizioni, ai progetti e ai sogni di Klein. Il catalogo prendeva forma e cominciavano ad arrivare le opere; le scatole si accumulavano nel deposito del museo. Man mano che il lavoro organizzativo proseguiva, la mostra assunse proporzioni che quasi sfuggivano al nostro controllo. Prima Pontus Hulten, direttore del Centre Pompidou di Parigi, chiese a Dominique di poter ospitare l’esposizione; poi fu la volta di Tom Messer, direttore del Guggenheim Museum di New York. Non si trattava più di un piccolo evento allestito in una galleria universitaria, ma di una mostra importante da presentare nei principali musei del mondo. Quando anche il Museum of Contemporary Art di Chicago si aggiunse alla lista, la cosa passò quasi inosservata. Io ero sempre più coinvolto nel progetto e nel mondo di Dominique. Pierre Restany venne a Houston e fu mio ospite; Walter Hopps accettò l’incarico di direttore della Menil Collection, che sorgeva a pochi metri da casa mia; Jean Tinguely si vedeva spesso da quelle parti. Abitavo di fronte alla Rothko Chapel, che andavo a visitare quasi tutti i giorni.

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La sera mi recavo spesso da Dominique per lavorare con chiunque si trovasse in città e fosse collegato alla mostra di Klein. Rotraut e il suo nuovo marito Daniel Moquay passavano da casa mia, come facevano Restany, Arman e altri che partecipavano al costante scambio con Parigi: curatori del Beaubourg, consulenti con cui stavo collaborando, vecchi amici di Yves e via dicendo. Ingrid Sischy, all’epoca direttrice di Artforum, mi chiese un articolo su Yves da pubblicare sul numero che sarebbe uscito in concomitanza con l’apertura della mostra al Guggenheim; fu allora che scrissi “Yves Klein: Messaggero dell’era dello spazio”. Finalmente arrivò il momento delle varie inaugurazioni, prima al Rice, poi al moca di Chicago, al Guggenheim e infine al Beaubourg. A New York, dato che Walter non poteva, lo sostituii come curatore esecutivo. Fu in quell’occasione che ideai e realizzai l’enorme installazione pavimentale di pigmento ikb. (Scrissi un testo al riguardo, “The Impregnation of the Guggenheim Museum”, che poi firmai insieme a Rotraut, Arman e Claude in qualità di rappresentanti dell’International Klein Bureau.) Sembrava che mezza Parigi fosse a New York quel giorno e, poco tempo dopo, quando la mostra si trasferì al Beaubourg, che mezza New York fosse a Parigi. 14

Il catalogo fu pubblicato prima in inglese, poi in francese e incontrò subito un vasto consenso. Ted Castle del British Art Monthly dichiarò con toni anche troppo grandiosi che si trattava «del miglior catalogo d’arte mai pubblicato». Grace Gluck del New York Times scrisse soddisfatta che i miei scritti erano «brillanti», e Kay Larsen del New York Magazine sostenne che il saggio biografico “Yves Klein: Conquistador del vuoto” era «la migliore vita d’artista a memoria d’uomo». Secondo Werner Spies del Frankfurter Allgemeine Zeitung il saggio “Yves Klein e il rosacrocianesimo” era fondamentale per comprendere le opere di Klein. Da allora ho continuato a occuparmi d’arte e di artisti. Poco tempo dopo la mostra al Beaubourg un editore tedesco mi contattò chiedendomi il permesso di pubblicare un volume con i miei scritti su Klein. Firmai un contratto, ma il progetto non fu mai realizzato. Passavano gli anni e l’interesse per Klein continuava a crescere. Quando Harald Szeemann mi chiese un saggio per il catalogo della mostra di Klein che stava organizzando al Jean Tinguely Museum di Basilea, scrissi “Vivere una contraddizione”. Come io e Dominique ci eravamo augurati sin dall’inizio, la nostra attenzione aveva sottratto Yves Klein all’oblio. Adesso, in occasione della recente retrospettiva internazionale di Klein, ho il piacere di vedere pubblicata una raccolta dei miei scritti sull’artista. Ringrazio Bruce McPherson per aver concepito e dato alle


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stampe questo volume, e Rotraut Klein-Moquay per avermi generosamente fornito molte fotografie e aver scritto la breve prefazione. Il mio saluto va a Dominique, Walter, Claude, Pierre, Arman e altri amici che ho conosciuto preparando la mostra di Klein e non ci sono più.

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Yves Klein durante la performance alla Galerie Internationale d’Art Contemporain di Parigi, 9 marzo 1960.


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Vivere una contraddizione

Più apertamente della maggior parte di noi, Yves Klein incarnò una contraddizione. E, più di tanti altri, visse il proprio momento storico con sensibilità e naturalezza non comuni. Per dirla in parole semplici: Klein riteneva di essere storicamente designato ad annunciare visivamente l’astoricità. In termini più personali, sentiva di essere una figura astorica o archetipica e di dover presentare se stesso agli altri, giustificando in qualche modo la propria presenza nella storia. Era convinto – e lo pensavano anche molti di coloro che seguirono la sua breve carriera (durata solo sette anni) – di essere un individuo trans-storico o cosmico-storico in senso hegeliano: per quanto agisse dentro la storia, infatti, le sue azioni avevano una forza archetipica che trascendeva il momento storico. Tuttavia, quell’aspirazione era così assurda, e lui ne era così consapevole, che pensò bene di portare su di sé il peso della storia con l’estro chapliniano di un clown. L’opera di Klein è un tentativo consapevole di conciliare le esigenze contrastanti di questo ruolo contraddittorio. Da una parte, il pittore modernista – fedele all’idealismo trascendentale di Hegel o di Schelling – doveva occuparsi solo dell’oltre. Secondo Schelling, un grande artista che dipinge un quadro in qualche modo toglie la cortina che nasconde il mondo platonico delle idee. Klein si impegnò per essere all’altezza di questo ideale, pur dovendo bilanciarlo con la comicità dadaista, un po’ come Alphonse e Gaston che sbattono l’uno contro l’altro nel tentativo di passare dalla stessa porta. Dall’altra parte, l’artista postmodernista, che non crede più in un oltre trascendente, è tenuto a collocare la propria opera nelle minuzie della storia con la massima precisione possibile. Questi sono gli imperativi opposti del Modernismo, con le sue ambizioni trascendentali, e del post Modernismo, con il suo desiderio di rimettere in piedi la storia (come sosteneva Marx nella critica a Hegel) o di demistificarla. Klein sentiva che sia il Modernismo sia il post Modernismo (o, dal suo punto di vista, il rosacrocianesimo1 e il Dadaismo) erano sue personali re-

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sponsabilità. In accordo con la sua particolare sensibilità nei confronti di entrambi, era combattuto su temi come l’influenza storica o l’eredità artistica. A volte pensava che la dimensione astorica o trans-storica della sua opera rendesse marginale o paradossale la questione delle eventuali influenze. In altri momenti era convinto che i banali grovigli dei nessi storici fossero un’avvilente autoparodia che, perlomeno, offriva una “sanità innata”.2 Questo sentimento complesso si manifestava nell’atteggiamento verso due artisti di cui parlava con riluttanza, o che cercava in ogni modo di ignorare: Kazimir Malevič e Marcel Duchamp. La complicazione nasceva dal fatto che gran parte dei suoi stessi lavori era paragonabile alle opere e alle posizioni espresse dai due artisti nei primi anni del secolo. Sensibile alle questioni di priorità, ossessionato dall’idea modernista dell’artista come innovatore allo stesso tempo disposto a fare il buffone, Klein sosteneva che, a voler interpretare correttamente il concetto di tempo, lui in effetti precedeva Malevič. Quello che intendeva dire (Klein non era mai superficiale, intendeva sempre dire qualcosa di specifico) era che la transstoricità del suo lavoro lo rendeva, per così dire, onnipresente nel tempo. Un’argomentazione del genere gli consentiva di mettersi al riparo dalla 20

dimensione storica del trans-storico. In altre occasioni andò nella direzione opposta. In quanto francese, Duchamp rappresentava una minaccia più immediata. Più di una volta Klein respinse l’idea, apparentemente plausibile, di essere un dada o un neodada, una definizione che non rendeva giustizia a quella che lui avvertiva come una missione spirituale. Quando lo spirito di Malevič minacciava di sopraffarlo, Klein agiva come un dada; quand’era Duchamp a profilarsi all’orizzonte, si arroccava in difesa del deserto di pura forma di Malevič (interpretato in termini rosacrociani). Tuttavia, era in gioco qualcosa di più profondo del semplice rifiuto di influenze o predecessori. Klein sapeva che la sua pratica era contraddittoria e difendeva quella contraddizione come la massima verità. Sentiva che né l’occultismo di Malevič né il Dadaismo di Duchamp potevano contenere il dualismo o l’unità della sua posizione, che, nella sua specificità, implicava un aspetto sostanzialmente tardomodernista, vale a dire la convinzione di essere unico e di essere stato consacrato al ruolo di individuo cosmico-storico. Sicuro di essere la persona necessaria al mondo in quel particolare momento, non credeva di doversi prestare a banali confronti storico-artistici; lui era al di sopra di tutto ciò. Da questo punto di vista, la sua intensa storicità serviva a prevenire i discorsi sulle influenze, mentre in altri momenti era la sua trans-storicità ad assolvere tale funzione.


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In un’ottica che Klein tendeva a non considerare, Malevič e Duchamp insieme potevano costituire un parallelo di ciò che le sue due anime contraddittorie mettevano in scena come per virtù di un’immacolata concezione. In altre parole, se volessimo collocare Klein in un’ipotetica carta geografica della storia dell’arte del suo secolo, dovremmo immaginare l’intersezione delle traiettorie di Malevič e Duchamp e tentare di capire quale tipo di intelligenza potrebbe occupare quell’incrocio altamente pericoloso e autodistruttivo, in cui il minimo che potesse capitare era uno scontro frontale. Quei due artisti, in fin dei conti, rappresentano gli antipodi dell’arte del Novecento e con ogni probabilità l’uno avrebbe considerato l’altro una sorta di nemico in base a quello che riteneva fosse il ruolo dell’arte nel mondo.3

La storia Il 1913 – l’anno precedente lo scoppio della Prima guerra mondiale – potrebbe servire come data simbolica per l’articolazione di questi due percorsi opposti. Fu l’anno del Quadrato nero di Malevič, della prima inclusione della casualità di Duchamp (Tre rammendi tipo) e del suo primo readymade (Ruota di bicicletta). Con Quadrato nero e gli scritti che l’accompagnavano Malevič inaugurò la corrente centrale dell’astrattismo modernista: la tradizione del sublime astratto e il desiderio ossessivo di intuire l’oltre e di rendere in termini visivi parte di quella intuizione. Con la Ruota e i Tre rammendi Duchamp mise in moto le forze opposte: con un’enfasi demistificante verso la vita quotidiana. Tale conflitto si fondava su una tradizione – di cui si trova traccia in Hegel e in una serie di teorie dell’occulto, tra cui la teosofia, l’antroposofia e il rosacrocianesimo – secondo la quale l’epoca presente, fatta di complicazioni e difficoltà materiali, stava per lasciare il posto a un’era di puro spirito.4 Nella visione di Hegel l’evento avrebbe segnato la fine della storia, vale a dire che nel mondo non ci sarebbe più stato bisogno di altri cambiamenti; il filosofo non precisò ulteriormente il concetto. I profeti dell’occulto – Helena Blavatsky, Rudolf Steiner, Max Heindel e altri – furono più prodighi di dettagli. L’era della materia densa, pensavano, sarebbe stata presto sostituita da un’era di levitazione, viaggio fuori dal corpo, comunicazione telepatica, visione in quattro dimensioni e così via: l’era di una superumanità eterea, non soggetta alle limitazioni del corpo e alle sue esigenze. L’umanità sarebbe in qualche modo tornata allo stato primario dell’anima descritto nel Libro dei morti degli egizi, quand’era una stella, aveva un corpo di luce e si nutriva di luce.

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Un aspetto solitamente trascurato nell’entusiasmo generato da questa idea è che tanto il modello hegeliano quanto quello occultista, concentrati com’erano sulla prospettiva di entrare nello spirito, presupponevano, senza provare rimpianti, la fine del mondo materiale: la distruzione di montagne, foreste e oceani; della Terra, della Luna e del Sole; la fine di uccelli, animali e insetti; delle costellazioni e del succedersi delle stagioni; dell’alternanza di giorno e notte e via dicendo. Il nero del Quadrato di Malevič e la vacuità della profondità blu di Klein erano una profezia apocalittica neanche troppo velata, l’annuncio oscuro ma inequivocabile di un’ecpirosi universale.5 L’arte astratta, soprattutto quella del sublime, era molto coinvolta in questa spiritualità da fine del mondo. Per certi aspetti considerava se stessa un segno visivo, o un portento, dell’ormai prossima fine dell’epoca del corpo e dell’inizio imminente dell’era dello spirito. L’Astrattismo mostrava gli oggetti quotidiani nel momento in cui perdevano i contorni e si riunivano, o si scioglievano, in un’uguaglianza universale, preparandosi al sorgere dell’era del puro spirito. Era una profezia o una rivelazione, un modo di prefigurare e immaginare in termini fisici come sarebbe stata la dimensione postfisica del puro spirito. Malevič la descrisse come una ricerca in 22

cui, mentre ci si inerpica su per una montagna che svanisce sempre più, il mondo degli oggetti si assottiglia finché si raggiunge un «deserto oltre la forma». Questa arte riduttivista era talmente proiettata verso il sublime, la realtà di un oltre, il deserto oltre la forma, da denigrare il mondo presente della realtà quotidiana, arrivando persino a evocarne profeticamente la distruzione.

Confusione Le rappresentazioni di qualsiasi genere comportano rischiosi parallelismi con la magia. Nell’ampia categoria della pratica rituale che è stata definita “magia simpatetica”, creare una rappresentazione di ciò che si desidera equivale a fare in modo che ciò che veramente si desidera appaia. Se compare qualcosa di simile a ciò che si desidera, allora ciò che si desidera potrebbe non essere lontano. In termini visivi, se compare qualcosa che somiglia a ciò che si desidera, allora ciò che si desidera potrebbe essere prossimo ad apparire. Per questo la rappresentazione pittorica delle cose è stata talvolta confusa con l’imminente presenza delle stesse. La rappresentazione assume la connotazione metafisica di un processo ontogenetico. Analogamente, la storia dell’arte così com’è stata espressa dalle culture occidentali (e forse anche da


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altre) ha implicato una teoria della conquista attraverso la rappresentazione. In quest’ottica, rappresentare visivamente qualcosa significa ottenere una sorta di controllo cognitivo sulla cosa stessa, per certi versi ristabilire una gerarchia metafisica a proprio favore. La storia dell’arte occidentale presupponeva che tale processo di dominio mediante la rappresentazione avanzasse per gradi nell’universo. Quando sembrava ormai padrona della rappresentazione del mondo fisico con le varie forme di realismo dell’Ottocento, l’arte rivolse la propria attenzione al livello di realtà che sta oltre il mondo, al sublime inteso come astrazione universale che divora tutti i particolari. Nella costante confusione tra rappresentazione e presenza, il passaggio all’astrazione fu avvertito come un annullamento spirituale del mondo della forma, lo spostamento ufficiale dello sguardo umano sull’oltre. Tutto ciò accadde all’incirca tra il 1860 e il 1950. Il mondo della forma era stato creato, o in qualche modo sostanziato nel suo esistere, dalla lunga avanzata dell’arte figurativa; adesso la scena era pronta per il dominio visivo del mondo con una modalità che andava al di là della forma specifica: la dimensione dell’astratto e del sublime.

L’intersezione La teoria estetica di Duchamp, enunciata a partire dalle opere del 1913, andava nella direzione opposta a quella di Malevič. Mentre quest’ultimo seguiva il corso dell’arte trascendentale spingendosi fino alle vette del non oggettivismo e scartando il mondo della vita quotidiana come fosse una cosa di poco conto, Duchamp metteva in risalto la presenza estetica nella vita quotidiana, quasi non fosse possibile trovarla altrove, quasi non ci fossero alternative. Mentre il Malevič suprematista realizzava quadri senza rappresentare alcun oggetto riconoscibile, Duchamp presentava oggetti riconoscibili senza alcuna rappresentazione pittorica, oggetti di tutti i giorni che auto-dichiaravano apertamente la propria presenza. Mentre Malevič rinunciava alla rappresentazione perché troppo realistica, Duchamp la rifiutava perché troppo illusoria. E se per Malevič l’arte era il progetto metafisico più serio, per Duchamp era un mezzo per prendersi gioco delle aspirazioni solenni e metafisiche. Uno esprimeva l’impulso costruttivo, l’altro quello decostruttivo. Uno era metafisico, l’altro dialettico. Unità e identità erano i feticci dell’uno, molteplicità e differenza quelli dell’altro. Da questi due poli, o articolazioni primarie, derivarono le principali aree di significato dell’arte del Novecento. Per comodità di comunicazione, le si potrebbe descrivere come il sublime e il ridicolo: astrazione

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trascendente e parodia decostruttiva, Action Painting e Pop Art, Neoespressionismo e Simulazionismo. In generale, gli artisti del Novecento enfatizzarono l’una o l’altra di queste spiritualità. Molti – forse la maggior parte – si richiamarono a elementi di entrambe. Tuttavia, forse Klein più di chiunque altro ha incarnato tutte e due le tendenze, lavorando con grande trasparenza e impegno su ambedue i fronti, pur rimanendo sempre credibile secondo i criteri della storia dell’arte.

Le conseguenze L’œuvre di Klein ha sintetizzato le principali correnti artistiche del primo Novecento e allo stesso tempo ha anticipato quelle future con arcana precisione. I lavori realizzati tra il 1955 e il 1962 affrontavano quasi tutti i temi su cui si sarebbero fondate le avanguardie degli anni sessanta e settanta. La monocromia, l’antipittura, lo spostamento dell’attenzione sulla scultura e sull’installazione, la smaterializzazione dell’arte, il rifiuto dell’illusione, l’inclusione degli objets trouvés e dei nuovi media, la Body Art, la Land Art, l’Arte Concettuale e la Performance: tutti gli aspetti delle nascenti avanguardie 24

erano unificati in modo coerente nel corpus di opere realizzate da Klein in quei sette anni. Tracce della sua presenza si riscontrano in tutta la generazione successiva alla sua morte, soprattutto in Europa ma anche, e in modo significativo, negli Stati Uniti. I suoi passi risuonano ancora in ciò che sopravvive della pittura metafisica e nella sua parodia. L’intensità e la varietà della sua breve carriera impressero all’arte uno slancio talmente forte che, alla sua morte prematura, poté essere sfruttato da altri.

Pittura e antipittura Klein morì come un irriverente guerriero dell’arte, difendendo ora un fronte ora l’altro ed esaltandoli entrambi. Poco dopo la sua scomparsa cominciò la guerra dei successori. Le due tendenze contrastanti della sua opera si separarono e sopravvissero entrambe. Ancora oggi alcuni pittori realizzano monocromi mistici e altri usano il piano di un unico colore come critica concettuale alla pratica pittorica espressionista. In Europa le due eredità si diffusero immediatamente. In Italia Piero Manzoni e Lucio Fontana raccolsero il testimone e lo portarono – o ne furono trasportati – in direzioni opposte. I monocromi tagliati di Fontana riformulavano il programma metafisicofuturista di Klein con l’aggiunta formale della scissura aperta sull’infinito.


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Gli Achromes di Manzoni erano risposte argute alla metafisicità di Klein, un tentativo di confutarla con una forte dichiarazione materialistica: dall’oro agli escrementi. In Germania gli artisti del Gruppo Zero – Heinz Mack, Otto Piene, Bernard Aubertin – cominciarono a professare il vuoto come accaniti sostenitori della monocromia metafisica di Klein, per poi evolversi gradualmente in altre direzioni, più cinetiche e concettuali. Da questa corrente fece in tempo a nascere Fluxus, che portò avanti l’eredità del criptodadaismo di Klein anziché il suo discorso metafisico. Negli Stati Uniti il monocromo metafisico emerse negli anni cinquanta per arrivare a una sorta di predominio nel decennio successivo, con i dipinti quasi monocromi di Mark Rothko, Barnett Newman, Ad Reinhardt e altri. Questi eventi si verificarono contemporaneamente alla carriera di Klein; non ne furono una conseguenza, ma nacquero dalla stessa spiritualità postbellica e finemondista da cui ebbe origine la sua opera. Per gli esponenti della Scuola di New York come per Klein, la monocromia era un’importante dichiarazione di morte della pittura fisica e insieme di un’epoca storica, se non addirittura della storia stessa. La pittura fisica stava per consumarsi, portando a conclusione la sua lunga danza di cambiamenti d’identità e di forma; con il monocromo si tuffava nell’oceano del colore e scompariva. Negli Stati Uniti la straripante intensità della monocromia postbellica si prosciugò nella deflazione spirituale della pittura minimalista e del Color Field. Nel 1959 Frank Stella espose la sua prima serie di quadri neri e Robert Irwin realizzò i suoi primi dipinti con le linee, quasi monocromi. Jasper Johns rese monocroma la bandiera statunitense e Robert Rauschenberg fece lo stesso con la carta di giornale. Negli anni sessanta lo slancio riprese vigore. Nel 1961 Dan Flavin iniziò a realizzare lavori monocromatici che includevano tubi al neon e lampadine elettriche, mentre Brice Marden cominciò a esporre monocromi a encausto. Nel 1967 la prima personale di Robert Ryman a New York comprendeva la serie Standard, tredici dipinti su acciaio tutti bianchi. Per quanto non sia possibile affermare che gli sviluppi americani fossero dovuti all’influenza di Klein, tuttavia essi assunsero significato in un contesto internazionale plasmato e pervaso dall’aura del suo lavoro e dei suoi atteggiamenti. Da questo punto di vista, le opere americane dipendevano in effetti tanto da Klein quanto dai loro predecessori statunitensi, ma forse non avrebbero acquisito piena importanza nella storia dell’arte senza le sue dichiarazioni, sia visive sia verbali. In linea con la dialettica della contraddizione connaturata, Klein era tanto un pittore quanto un antipittore. I dipinti immaginari che creò per il volumetto Yves Peintures, l’uso della mono-

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cromia come stratagemma demistificante per ridurre a insensata l’idea della pittura da cavalletto ridicolizzandone l’intensità narcisistica, il rifiuto della tradizione del “tocco” a favore del rullo prima e del «pennello vivente» poi, la riduzione ad assurdo dell’arte della figura nelle Empreintes (Impronte), la simbolica distruzione della pittura da cavalletto nei dipinti eseguiti con il fuoco, la creazione di quadri con metodi casuali nelle Cosmogonies, l’esposizione e la vendita di “quadri invisibili”: tutto ciò era parte del progetto di antipittura che Klein elaborò in modo molto dettagliato e con grande precisione nel giro di alcuni anni. In seguito, nell’era dell’Arte Concettuale, le opere si basarono su sfumature diverse di tale progetto. Questo era uno dei passaggi attraverso cui un artista poteva rivendicare il diritto di definirsi concettuale. A partire dal 1966 Daniel Buren realizzò “dipinti” identici di tessuto rosso, che rappresentavano un’estensione dell’elemento parodistico dei monocromi di Klein. L’anno seguente, riformulando il concetto di immaterialità di Klein, o l’idea di assenza che prevale sulla presenza, Buren e altri appesero i loro quadri in una sala inaccessibile di una galleria parigina e distribuirono un volantino con le loro descrizioni. Storicamente, l’episodio si riferiva al fatto che alcuni anni prima, nella stessa galleria, Klein aveva compiuto il gesto di 26

rimuovere tutti i dipinti da una sala. Per tutti gli anni sessanta e settanta proliferarono le varianti di quel gesto, carico di elementi da assorbire, tra cui l’unificazione della tradizione pittorica con la Performance e l’Arte Concettuale. Ben presto nacque una nuova tradizione. Di lì a pochi anni Mel Ramsden espose un quadro nero con accanto una targa in cui si spiegava che in realtà il vero dipinto era nascosto sotto la superficie nera; Jannis Kounellis propose una tela nascosta dietro una tenda nera; Gerhard Richter realizzò una serie di dipinti grigi identici, che richiamavano alla mente i monocromi blu che Klein aveva esposto a Milano nel 1957. Tali gesti sono forse la traccia più caratteristica dell’influenza di Klein sulla tradizione di cui tanto desiderava far parte. Ma ce ne sono altri ugualmente incisivi.

Creazione per designazione Duchamp designava oggetti comprati nei negozi come proprie opere d’arte firmandoli. La firma – l’atto di designazione – sostituiva il tradizionale atto di creazione. Klein fu il primo, decenni dopo, a farsi carico con vigore delle affascinanti implicazioni di questa tecnica. Nel 1947 immaginò di firmare il cielo rendendolo una propria opera d’arte. Nel “Théâtre du vide” del 1960


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designò il mondo intero come suo teatro per un giorno, e tutti coloro che si trovavano al suo interno erano al tempo stesso attori e spettatori. Dopo aver brevettato la formula dell’ikb (International Klein Blue), dipinse di questo colore oggetti già esistenti, designandoli come proprie opere. Così la Nike di Samotracia entrò nel suo portfolio, e lo stesso accadde all’intero pianeta quando immerse nel suo blu un mappamondo. La creazione per designazione fu uno degli strumenti principali dell’Arte Concettuale degli esordi, nonché uno dei suoi temi e tratti stilistici primari. L’elaborazione di nuovi metodi di designazione fu la cifra stilistica dei primi artisti concettuali. Questi sviluppi tendevano a fondersi con l’etica della performance di Klein, espressa nella celebre affermazione secondo cui un pittore deve dipingere un solo capolavoro: se stesso. La designazione al posto della creazione si unì all’enfasi sulla vita anziché sull’arte. Manzoni, per esempio, sviluppò la sua “base per scultura vivente” in risposta alle designazioni blu di Klein: chiunque salisse sul piedistallo diventava un’opera d’arte. Gli “attestati di autenticità” tramite cui Manzoni dichiarava che uno specifico individuo era un’opera d’arte si basavano sulle ricevute rilasciate da Klein per le Zones de sensibilité picturale immatérielle. Il concetto espresso dalla Terre bleue di Klein fu ripreso da Manzoni nel Socle du monde, un piedistallo capovolto che si presupponeva sostenesse la Terra, trasferendola così dal portfolio di Klein al suo. Ben Vautier, erede dell’École de Nice, proseguì questa linea di gesti teorici facendone la propria specialità. Nel 1962 designò come propria opera d’arte la morte di Klein e un anno dopo firmò anche la morte di Manzoni. Sempre nel 1962 si mise in vetrina come “scultura animata”, un gesto presto riecheggiato in una serie di lavori di Gilbert & George, James Lee Byars e altri. Insieme alla designazione, la presentazione del corpo dell’artista o della sua vita quotidiana come opera d’arte divenne uno dei temi principali dell’epoca dominata dall’Arte Concettuale e dalla Performance. La vena concettuale dell’œuvre di Klein fu isolata e resa esplicita quando Ben designò il mondo intero come propria opera d’arte.

La smaterializzazione dell’arte Per Klein la vera arte era la manipolazione dello spirito mediante la pura volontà; l’arte più nobile era del tutto priva di materia. A dispetto della loro sfumatura teosofica, queste idee esercitarono un’influenza formativa sull’Arte Concettuale e la sua denigrazione dell’oggetto fisico. Il vuoto o le opere smaterializzate di Klein furono i punti di riferimento intorno a cui si

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formò l’atmosfera di permissività degli anni sessanta e settanta, i decenni in cui l’Arte Concettuale esercitò la sua breve egemonia. L’opera più importante sotto questo aspetto fu Le Vide, del 1958, in cui fu esposta una galleria in apparenza vuota, ma presumibilmente piena di presenze estetiche non fenomeniche. L’ambiente immateriale intitolato Raum der Leere (Stanza del vuoto), del 1961, era un vuoto più intensamente atmosferico, in cui la luce definiva lo spazio in evidenti volumi geometrici che brillavano in modo trascendente. Quasi volessero analizzare le implicazioni di questo lavoro, nel 1968 Robert Irwin e James Turrell iniziarono a esporre i loro spazi vuoti carichi d’atmosfera che tentavano di concretizzare l’idea del pieno/vuoto, annullando le distinzioni geometriche in una lucida confusione di luce. Per certi versi i loro spazi, con l’uso di luci nascoste e di schermi trasparenti, erano più elaborati in termini di percezione sensoriale rispetto a Le Vide di Klein e persino alla Raum der Leere, ma rientravano ancora nella tradizione inaugurata da quelle opere. In un’altra direzione, soprattutto in Europa, Le Vide portò a una serie di lavori concettuali collegati alla tradizione duchampiana della designazione. In questo caso gli eventi seguirono uno sviluppo molto razionale. Duchamp aveva collocato gli oggetti del quotidiano in un contesto arti28

stico e li aveva definiti arte. Klein pensò che se collocare le cose in un contesto artistico le rendeva arte allora era il contesto e non l’oggetto a contenere l’essenza dell’arte; e dunque espose la galleria stessa. Proseguendo il ragionamento, Buren giunse alla conclusione che se l’oggetto d’arte era la galleria allora lui avrebbe decorato la galleria, a partire dalla tenda sul marciapiede. Per tutto il primo periodo concettualista l’idea di esporre il vuoto fu, come la designazione, una delle aree in cui l’artista poteva creare una propria cifra stilistica. Nel 1967 Claes Oldenburg installò una “scultura invisibile” dietro il Metropolitan Museum of Art di New York, scavando una fossa delle dimensioni di una bara per poi riempirla di nuovo. Nel 1968 Ron Cooper propose quelli che definiva volumi di atmosfera; Robert Barry espose onde elettroniche invisibili. James Lee Byars presentò The Ghost of James Lee Byars: una sala apparentemente vuota che, al pari di Le Vide di Klein, si presumeva contenesse un’entità invisibile che l’osservatore poteva percepire tramite una forza dinamica nascosta. Nello stesso anno Takis, già collega di Klein a Parigi, espose sale apparentemente vuote, ma piene di campi magnetici; Tom Marioni curò una mostra intitolata “Invisible Painting and Sculpture” per il Richmond Art Center, mentre la “Exhibition, Number 7” organizzata da Lucy Lippard in una galleria di New York consisteva in una sala vuota contenente diverse opere invisibili, tra cui un campo magnetico installato da


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Barry, le correnti d’aria di Hans Haacke e le ombre esistenti di Robert Huot. Nel 1969 Barry presentò il suo Telepathic Piece rimanendo di fronte a un pubblico a cui comunicava per via telepatica l’aspetto fisico della propria opera, che la gente non vide mai direttamente. L’anno dopo, a Los Angeles, espose una galleria chiusa. Zero-Mass Space, realizzato da Eric Orr nel 1973, consisteva in una grande stanza vuota, fatta di carta, con un’illuminazione ridotta al minimo. Questi e molti altri lavori simili trasferirono l’influente gesto di Klein in nuove aree di significato, alcune delle quali suggerivano mondi paralleli metafisici, mentre altre si prendevano gioco della funzione sociale della galleria.

Mettere in pericolo se stessi Nel 1960 Klein pubblicò la celebre fotografia del Saut dans le vide (Salto nel vuoto), per realizzare la quale aveva già fatto un salto pericoloso in almeno due occasioni.6 Altri suoi gesti pubblici implicavano il rischio di morte o la promessa del sacrificio di se stesso, come La Tombe – Ci-gît l’espace (La tomba. Qui giace lo spazio). Insieme al ritualismo, l’idea di mettere in pericolo se stessi esercitò una forte influenza sulla successiva Performance Art. Il Salto nel vuoto fu ripetuto da altri artisti, tra cui l’americano Paul McCarthy e il taiwanese Tehching Hsieh. Più in generale, si venne a creare una forma di espressione in cui l’artista offriva il proprio corpo, o un suo surrogato, in una sorta di sacrificio cosmico. Yves Klein, Joseph Beuys, gli esponenti dell’Azionismo viennese, Carolee Schneemann, Marina e Ulay, Terry Fox, McCarthy e moltissimi altri furono influenzati profondamente da questo modello. In realtà, la Performance Art degli anni sessanta può essere suddivisa in due correnti storiche, una ispirata a Klein e l’altra all’Happening americano nato negli anni cinquanta nell’enclave di Cage al Black Mountain College. La corrente kleiniana si distingue per una forte enfasi sull’idea che l’opera d’arte non possa essere scissa dalla persona dell’artista, e i gesti che mettono in pericolo l’autore sono una dimostrazione di obbedienza a tale principio.

Nuovi media Gli anni sessanta e settanta furono caratterizzati da una costante ricerca di nuovi media e materiali che sostituissero quelli ereditati dal Modernismo morente, scartati come reliquie. Un aspetto cruciale fu lo spostamento

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dell’attenzione dalla pittura alla scultura, e in particolare il tentativo di trovare delle aree intermedie tra i due mezzi d’espressione. Andavano in questa direzione negli Stati Uniti i primi Combines di Rauschenberg e in Europa la pratica, inaugurata da Klein nel 1957, di collocare i dipinti ad alcuni centimetri di distanza dalla parete, come fossero oggetti nello spazio reale anziché finestre illusorie su un altrove. Quello fu uno dei primi gesti che tendevano a considerare il quadro come un oggetto reale, che occupava un proprio spazio e aveva un significato di per sé e non per ciò che raffigurava. Alcuni anni dopo, nelle prime articolazioni della tradizione californiana della luce-spazio che tante affinità aveva con i gesti di Klein, Robert Irwin e Doug Wheeler iniziarono a esporre i loro quadri lontano dalle pareti. Da allora Richard Jackson, Imants Tillers e altri hanno utilizzato tele tese e dipinte come oggetti scultorei. Allo stesso modo, i Reliefs éponges (Rilievi spugne) di Klein non erano né pittura né scultura; in quanto oggetti del mondo reale affissi su tela, coniugavano elementi di entrambe, come faceva Manzoni in Italia con gli Achromes e Rauschenberg negli Stati Uniti con i Combines, presto seguiti da Jim Dine e altri. Ancora di più, i suoi calchi di corpi umani si collocavano al confine tra scultura e vita, o tra rappresentazione e presenza. Anche in 30

questo caso Klein anticipava una modalità di scultura che altri avrebbero ripreso, soprattutto gli americani Ed Kienholz, Duane Hanson e John Ahearn. I Portraits reliefs (Ritratti rilievi) di Klein si avvicinano alla presenza reale e le sue Empreintes perseguono la stessa finalità teoretica: confutare la distinzione tra presenza e rappresentazione. Il fascino dell’alchimia portò Klein a sperimentare anche nuovi materiali. È considerato il padre, per esempio, dell’uso artistico del fuoco. Nella sua concezione, il fuoco non è soltanto una forza alchemica di riduzione e trasformazione, ma è anche un materiale adatto per l’incapsulamento dell’inferno o apocalisse tardomodernista, è il fuoco della conflagrazione della storia che brucia tutti i capolavori, i libri e gli spartiti e li distilla in una pura essenza di fumo che rimane momentaneamente sospesa davanti agli occhi prima della perdita di coscienza. Molti lavori di Jannis Kounellis, Eric Orr e altri hanno approfondito questo tema. Progetti di Klein quali la creazione di un clima controllato in tutta la Francia, l’architettura dell’aria, il riassetto della topografia della Terra e così via sono per certi versi i precursori della Land Art. Roden Crater di James Turrell, Lightning Field di Walter De Maria, Spiral Jetty di Robert Smithson e altre opere simili partecipano all’ambizione utopica dell’arte e dell’architettura di “museificare” l’ambiente per dare un nuovo slancio trasformativo alla società e all’individuo.


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Il ruolo dell’artista Dopo un’epoca in cui l’artista, al pari di uno scienziato, si era concentrato su un’area limitata di ricerca formale, Klein restituì ampiezza al progetto artistico. La molteplicità della sua opera e l’ampiezza inclusiva della sua concezione lasciarono un segno sulle generazioni che seguirono. Scultore, pittore, fotografo, ideatore di performance, artista concettuale, precursore della Body Art e della Land Art: la sua carriera fu la prima di un genere polimorfo che negli anni seguenti divenne tipico. Artisti come Beuys, Kounellis, Dennis Oppenheim e altri, che perseguivano l’idea di una carriera leonardesca, ripercorrevano le orme di Klein o si muovevano in campi che lui aveva reso accessibili; benché in alcuni casi la consapevolezza dell’influenza subita fosse debole, l’atmosfera in cui l’opera si manifestava era già stata ampliata e preparata. Tuttavia, Klein volle andare grandiosamente oltre, estendendo il ruolo dell’artista alla sfera pubblica sulla falsariga della concezione romantica secondo cui poeti e artisti erano, per citare Percy Shelley, «i misconosciuti legislatori del mondo». Klein voleva interpretare questo ruolo apertamente. L’Architecture de l’air (Architettura dell’aria) era un tentativo, ispirato a Le Corbusier, di includere il contributo dell’artista nelle questioni di ingegneria sociale utopica. Propose una nuova forma di governo per la Francia, che alla fine avrebbe portato a un nuovo governo del mondo, e un nuovo sistema educativo chiamato Centro mondiale di sensibilità. Le stesse idee furono alla base della Libera università internazionale e del Partito degli studenti tedeschi fondati da Beuys, e di altri gesti che miravano all’estetizzazione delle istituzioni pubbliche. I richiami all’unificazione di scienza, arte e religione lanciati da Beuys sono affini al modo di pensare di Klein (il rosacrocianesimo heindeliano di Klein aveva le stesse origini dell’antroposofia steineriana di Beuys), così come l’autocelebrazione. Al pari di Klein, l’artista tedesco diede prova di un esagerato reazionarismo, oltre che di una straordinaria capacità d’innovazione. Entrambi attuarono il facile cambiamento dal ruolo di «misconosciuto legislatore» a quello di «principe di un regno immaginario», come Disraeli definiva il dandy. Dopo un’epoca di grande confusione tra il ruolo del pittore e quello dell’illustratore, Klein fu il primo artista di rilievo che non imparò mai a disegnare. Rinunciò al prezioso culto formalista del tocco, dipinse usando i rulli. Newman aveva dichiarato di poter realizzare un quadro dettandone le indicazioni per telefono, ma non lo fece mai. Klein più o meno sì, nella prima chiara articolazione del principio che anni dopo avrebbe reso famoso Lawrence Wiener, secondo cui l’opera può essere creata dall’artista stesso, fabbricata da altri oppure non essere realizzata affatto. Klein

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solitamente affidava l’esecuzione delle parti tecniche e meccaniche dei suoi lavori a degli specialisti, come poi divenne normale per gli artisti della generazione successiva. Sul finire degli anni sessanta John Baldessari completò una sequenza kleiniana facendo realizzare i suoi quadri da un pittore d’insegne, con un gesto che irrideva la sacralità della concentrazione dell’artista e dell’espressione di sé. La collaborazione, insieme ad altre forme di decentramento dell’io, diventò uno dei tratti caratteristici del post Modernismo. Klein fu un pioniere anche in questo. Il gruppo dei nouveaux réalistes si formò sotto la sua influenza e il suo rapporto con Tinguely virò in più occasioni verso una collaborazione assoluta. Nel 1960 fondò l’International Klein Bureau, autorizzando gli altri membri – Mirouze, Restany, Pascal e Arman – a realizzare monocromi ikb e a firmarli con il suo nome.7 Opere che designavano la fine del Modernismo come i disegni di Sol LeWitt, che dovevano essere eseguiti da altri e firmati dall’artista, erano un ampliamento di questo gesto. Quasi tutti gli artisti che si affermarono dopo Klein trovarono qualcosa da ammirare ed emulare nella sua carriera. L’inaugurazione della retrospettiva al Guggenheim Museum del 1982 fu accompagnata da una tavola rotonda a cui partecipai insieme a Julian Schnabel, Arman, Joseph Kosuth e Olivier Mosset. Tutti riconosce32

vano di aver assimilato parte dell’essenza di Klein nelle rispettive, e molto diverse tra loro, pratiche artistiche.

Riavvicinarsi all’intersezione Nel promuovere se stesso Klein rivendicava la propria funzione di individuo cosmico-storico, adottando, quindi, un’immagine di sé essenzialmente modernista. Allo stesso tempo, però, il suo compito era annunciare la fine dell’era modernista e l’avvento dell’era della pura spiritualità, vale a dire calare il sipario sul mondo della forma storica e dell’individuo cosmico-storico. Il titolo del suo saggio Le Dépassement de la problématique de l’art (Il superamento della problematica dell’arte), pubblicato nel 1959, è un’aperta dichiarazione della fine del Modernismo. Nel 1960, durante un incontro presso La Coupole, fondò l’adam, l’Association pour le Dépassement de l’Art Moderne (Associazione per il superamento dell’arte moderna). Nell’essere convinto dell’esistenza di un necessario passo successivo della storia dell’arte Klein era un classico modernista, mentre la costante autoironia sulla partecipazione all’assurdo esistenziale lo rendeva tipicamente postmodernista. La sua opera è attraversata da entrambe le tendenze: da una parte il monocromo metafisico e l’approccio solenne al vuoto; dall’altra le performance che paro-


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diavano la solennità, l’ironia decostruttiva, le buffonate da clown. In questo senso Klein può essere considerato un fenomeno della fine del Modernismo. I suoi omaggi alle ambizioni mistiche e metafisiche dell’arte erano rigorosamente modernisti, rientravano in una tradizione che risaliva all’ideologia romantica di Schelling e dei fratelli Schlegel. Tuttavia, non riusciva a fare quegli inchini in maniera del tutto seria, ma doveva includervi un punto di vista contrario o un capovolgimento ironico, e in questo il suo lavoro era essenzialmente postmodernista. Forse è così che la sua dualità deve essere percepita: Klein superò l’impasse Modernismo/post Modernismo con estrema chiarezza e intensità. Praticò le due ideologie con eguale passione, incarnando il momento storico, le sue forze contrastanti e le realtà opposte delle loro rivendicazioni. Per certi versi il suo personale Mistero della Passione mise in scena la morte del Modernismo e la contemporanea nascita del post Modernismo. In questo senso Klein diceva la verità quando, dopo la mostra “Le Vide” del 1958, dichiarò: «Al di là della mia modesta persona, è la brusca estrapolazione di quattro millenni di civiltà che viene a trovare il suo definitivo coronamento».

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Dimanche 27 novembre 1960 (Le journal d’un seul jour), carta stampata in bianco e nero, 55,5 x 38 cm.


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