Un desiderio ardente. Alle origini della fotografia

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Saggi d’arte 12


© 2014 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Meroni Lissone (mb) Finito di stampare nel mese di ottobre 2014 isbn 978-88-6010-089-4 © 1997 Massachusetts Institute of Technology Titolo originale: Burning with Desire. The Conception of Photography

Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.


Geoffrey Batchen

Un desiderio ardente Alle origini della fotografia

Traduzione di Elio e Marta Grazioli



Sommario

Prefazione all’edizione italiana

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Prefazione

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1. IdentitĂ

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2. Concepimento

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3. Desiderio

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4. Immagini

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5. Metodo

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Epitaffio

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Note

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Indice dei nomi

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Prefazione all’edizione italiana

Prima di ogni altra cosa Un desiderio ardente è una riflessione sulla questione delle origini. Affronta quindi un problema che interessa ogni forma di sapere. Dopotutto, come ha evidenziato Jacques Derrida, la ricerca delle origini non è «solo un gesto metafisico tra gli altri, è l’esigenza, la richiesta metafisica più continua, quella che è stata la più costante, più profonda e più potente».1 In tal senso l’indagine sulle origini della fotografia potrebbe essere considerata un ulteriore esempio della perenne ricerca di origini di ogni tipo nella cultura occidentale. È parte di uno sforzo ininterrotto per cogliere l’essenza delle cose, per esperire l’essenza in se stessa. Equivale, in altre parole, alla ricerca di Dio. L’opera di Derrida ribadisce continuamente il rischio che si corre: stabilire un’origine significa, secondo lui, porre le basi di una gerarchia che tende sempre a privilegiare il primo elemento su tutti quelli che seguono. La ricerca delle origini è un gesto non solo metafisico, pertanto, ma anche politico. Egli riconosce, però, che la questione non si può semplicemente evitare o rifuggire: è una necessità storica. Per dirla senza mezzi termini, si deve pur cominciare da qualche parte. E se fallisce il tentativo di eludere il problema delle origini, il compito diventa particolarmente impegnativo, in quanto dobbiamo chiederci non solo da dove, ma anche come iniziare. Nel 1997, in Un desiderio ardente, ho fatto coincidere i racconti sulle origini divulgati dagli studiosi formalisti e da quelli postmoderni con i loro rispettivi programmi ideologici, constatando che entrambi presupponevano di conoscere l’identità fondamentale della fotografia di cui discutevano pur evitando la complessità di una simile pretesa. Nel tentativo di analizzare a fondo le ramificazioni dell’opera di Derrida e di Michel Foucault, ho suggerito un altro approccio. Il contesto romantico in cui nacque l’idea della fotografia nel tardo Settecento ha dato al mio saggio un pretesto per spostare l’attenzione da un momento originario ben definito allo sviluppo di una genesi discorsiva più diffusa e difficile da datare che ho chiamato un “desiderio di fotografare”.

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Ho cercato di spostare la discussione dalla nascita della fotografia, solitamente associata all’annuncio della sua invenzione a Parigi e a Londra nel gennaio del 1839, al processo prolungato e nebuloso del suo concepimento, sviluppatosi nel corso dei trenta o più anni precedenti. In sintesi, ho trasferito la questione delle origini da un punto nel tempo, un particolare pioniere o una prima fotografia – secondo il modo in cui si è affrontato questo problema nelle storie della fotografia – a quello che ho chiamato “un ambito problematico di differenze storiche variabili”. Questo lavoro, per buona parte risultato del dibattito intellettuale degli anni ottanta del Novecento (periodo in cui il libro fu concepito come tesi di dottorato), aveva una serie di interessanti conseguenze. Sottintendeva, per esempio, che la fotografia fosse considerata più uno strumento di conoscenza che una particolare tecnologia, una conoscenza che verosimilmente si riscontra nei dipinti di cieli di John Constable o nella poesia di Samuel Taylor Coleridge così come nell’opera dei più noti inventori del medium. Il “desiderio di fotografare” divenne così un imperativo culturale non esclusivamente finalizzato alla produzione di vere e proprie fotografie. Per lo più, l’obiettivo del mio testo era mostrare come questo significativo momento storico fosse davvero un punto di svolta accompagnato da cambiamenti epocali nel modo di 10

sentire il tempo, lo spazio e la soggettività in Europa. Consideravo tali cambiamenti di importanza cruciale per l’emergere di quelle che potrebbero essere chiamate le condizioni di possibilità della fotografia. Secondo la mia tesi, le esigenze rappresentative che accompagnavano questi mutamenti spinsero gli sperimentatori a mettere insieme le componenti basilari, alcune delle quali disponibili già prima del 1839, che alla fine costituirono un’accettabile attrezzatura fotografica. Sostenni, inoltre, che tale attrezzatura andasse intesa come prodotto di una congiunzione specifica e del tutto moderna di potere-sapere-soggetto. L’ideazione della fotografia, in altre parole, andrebbe considerata come un fenomeno tanto politico quanto figurativo. Conformemente al pensiero di Derrida, Un desiderio ardente dava per scontato che la ricerca delle origini della fotografia equivalesse allo sforzo di definire l’essenza del medium. Ma dovrebbe essere chiaro che il libro non fu un tentativo di rifiutare tali sforzi: il suo obiettivo era invece di prenderli in esame e così complicarli. Come ho detto altrove, siamo tutti essenzialisti, che ci piaccia o no (e mai più di quando scioccamente dichiariamo di essere anti-essenzialisti) .2 Usare il termine “fotografia” è fare un’affermazione del tutto essenzialista; significa separare questa entità da tutte le altre. Significa supporre che la fotografia possieda una caratteristica in grado di conferirle un’identità tutta sua, anche se questa si incrocia al tempo stesso con quella di altre disci-


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pline. I buoni storici della fotografia non dovrebbero cercare di eludere questo assunto (altrimenti che razza di storici della fotografia pretendono di essere?). Dovrebbero piuttosto affrontarlo esplicitamente. Riconoscendo che la storia è per forza un’impresa tanto filosofica quanto cronologica, dovrebbero dirci che cos’è la fotografia secondo loro, senza giri di parole. E mentre lo fanno dovrebbero dichiarare i loro interessi nelle scelte che hanno fatto. I miei interessi sono sempre stati politici. Ciononostante non tutti sono stati persuasi dall’efficacia del tipo di politica avanzata in Un desiderio ardente. Steve Edwards, per esempio, sembra avere in mente questo libro quando si lamenta della “pirotecnica post-strutturalista” che ha contaminato gli studi recenti sulla fotografia. Dal punto di vista di Edwards, questo tipo di studio è colpevole di «separare la rappresentazione dall’interesse sociale», di abbandonare «il terreno delle persone storiche in favore di nozioni trascendentali del Soggetto», e di preferire le «grandi idee» alle «piccole storie sociali di cattivo gusto».3 È una critica abbastanza ragionevole, anche se vorremmo mettere in guardia dalla saggezza del semplice spostarsi da un polo (le grandi idee) all’altro (le piccole storie sociali), come se il secondo non fosse altrettanto limitante del primo. Quello di cui abbiamo bisogno non sarebbe una sorta di riverbero tra di loro? Un desiderio ardente è stato un prodotto del suo tempo, un tempo in cui le critiche postmoderne delle origini e dell’originalità erano di primaria importanza e nel quale le preoccupazioni per la possibile morte della fotografia per mano della tecnologia digitale, da poco introdotta alla fine degli anni ottanta del Novecento, erano ampiamente dibattute. Quella fase è passata. La fotografia digitale è ora la prassi, incorporata nei mezzi di comunicazione multimediali che sono l’incarnazione stessa del capitalismo globale. Come si potrebbe rendere significativa una storia delle origini della fotografia in questa specifica congiuntura? Che genere di storia dovrebbe essere? Ecco una proposta: cosa ne dite se continuiamo a prendere sul serio un’affermazione di Foucault che è centrale in Un desiderio ardente? «Ciò che si trova al principio storico delle cose non è l’identità inviolabile della loro origine: è il contrasto delle altre cose. È la disparità». Tenendo presente questo ammonimento, potremmo cominciare a tracciare una storia il cui fulcro narrativo sia l’attività di riproduzione e diffusione. Le origini della fotografia d’ora in poi potrebbero essere collocate non solo nella ridefinizione romantica di spazio, tempo e soggettività, ma anche nell’avvento della modernità industriale e del suo investimento nella logica e nell’apparato della produzione di massa. Sebbene sia racconto del passato, potrebbe anche essere una storia del presente, una storia della moltiplicazione e della dispersione delle immagini fotografiche piuttosto che della creazione della fotografia o di una particolare fotografia.

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Potremmo notare, per esempio, che gli esperimenti di Claude e Nicéphore Niépce erano iniziati grazie a una sovvenzione del governo francese finalizzata al miglioramento delle capacità riproduttive della litografia. In linea con questo incentivo, le prime fotografie ancora esistenti realizzate dai fratelli Niépce sono copie di incisioni impresse dalla luce (non la più nota lastra eliografica eseguita con la camera obscura attualmente conservata ad Austin presso l’Università del Texas). In modo simile, dobbiamo riconoscere che non appena fu annunciata l’invenzione del dagherrotipo, numerosi pionieri cercarono di trasformare queste fotografie in lastre incise che permettessero di stampare direttamente copie multiple delle loro immagini con inchiostro su carta (questi pionieri includevano Josef von Berres a Vienna, Alfred Donné e Hippolyte Fizeau a Parigi e William Grove a Londra). Il desiderio di una simile possibilità era in linea con un mercato artistico che già stimava i “diritti delle incisioni” di un’immagine oltre la sua sostanza (negli anni quaranta dell’Ottocento il copyright di un dipinto valeva spesso il doppio del costo del dipinto stesso, tanto redditizio era il mercato delle riproduzioni incise).4 Di conseguenza i primi studi commerciali giunsero rapidamente a considerare la riproduzione dei loro dagherrotipi sotto forma di incisioni su legno o acciaio come una parte essenziale del business fotografico.5 12

“Facsimili” incisi su legno di disegni fotogenici erano stati pubblicati sulle riviste inglesi già nell’aprile del 1839. In quel mese The Mirror of Literature, Amusement, and Instruction pubblicò in copertina la versione incisa della stampa a contatto di un disegno fotogenico di tre rametti di felci, realizzata in color ruggine per imitare il look della fotografia originale. Queste immagini fungevano da illustrazioni per un articolo del Dr. Golding Bird intitolato A Treatise on Photogenic Drawing (Trattato sul disegno fotogenico). Il 27 aprile anche The Magazine of Science dedicò una delle sue copertine a “facsimili di disegni fotogenici” incisi su legno: due di campioni botanici e uno della stampa a contatto di un pezzo di merletto.6 Quest’ultima immagine, nelle sue ripetizioni fatte a macchina di motivi geometrici, era l’incarnazione stessa delle tecniche di produzione di massa, e perciò del capitalismo industriale.7 Questo è dunque il modo in cui la maggior parte delle persone ha incontrato per la prima volta un’immagine fotografica. Per loro la fotografia originale era prima di ogni altra cosa una riproduzione (riguardava la riproduzione). Sembra in effetti che ci imbattiamo nella riproduzione ogni volta che cerchiamo di individuare con precisione le origini della fotografia. Del resto spesso è proprio così. Un desiderio ardente include un capitolo dedicato alle numerose prime fotografie che sono state ipotizzate nel corso degli anni e sottolinea il fatto che per diversi decenni molti libri sulla storia del medium hanno presentato come tale la lastra di Niépce, senza però riprodurre l’originale bensì


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una versione colorata ad acquerello da Helmut Gernsheim, dipinta a memoria sulla base di una copia insoddisfacente stampata nel 1955. Molte altre pubblicazioni indicano come punto d’origine un dagherrotipo con natura morta di Louis Daguerre datato, sulla base di scarse prove, 1837. In realtà l’ immagine è stata praticamente illeggibile per molti anni (e così, il punto di partenza finisce per non essere altro che un rettangolo vuoto).8 Quello che vediamo nei libri è invariabilmente la riproduzione di una copia stampata su gelatina d’argento eseguita o nel 1925 dallo storico Georges Pottonniée o nel 1936 da A. Dumas-Satigny per Beaumont Newhall (un’immagine di cui il Museum of Modern Art di New York detiene tuttora il copyright). Cosa può dirci una sottolineatura della riproducibilità, qui appena segnalata, riguardo alle origini e alla persistente identità della fotografia? Parecchio, penso. Nel 1859 il critico culturale americano Oliver Wendell Holmes fu indotto a descrivere la fotografia come «il divorzio di forma e sostanza». Come conseguenza della fotografia, Holmes affermava: La forma d’ora in poi ha divorziato dalla materia. Di fatto la materia in quanto oggetto visibile non è più granché utile, tranne come stampo sul quale la forma è modellata. Dateci alcuni negativi di una cosa che vale la pena vedere, presa da diversi punti di vista, e questo è tutto ciò che ne vogliamo. Tiratela giù o bruciatela, per favore […]. La materia in grandi masse deve essere sempre fissa e costosa; la forma è economica e trasportabile […]. Ogni oggetto concepibile della Natura e dell’Arte presto si libererà della sua superficie per noi […]. La conseguenza di questa volontà sarà a breve una collezione talmente immensa di forme che bisognerà classificarle e ordinarle in grandi biblioteche, come accade attualmente per i libri.9

Holmes constata che la fotografia comporta la separazione dell’immagine dal suo referente, rendendo la “forma”, tra le altre cose, più economica della “materia” e pertanto più facilmente trasformabile in una merce. Le leggi in materia di diritto d’autore tengono conto proprio di questo aspetto e dichiarano che l’immagine fotografica e la fotografia fisica sono due entità separate che possono essere vendute a soggetti diversi. Possiamo ora compiere un ulteriore passo in avanti, mostrando come la fotografia sia un processo continuo di separazioni di questo tipo, prima della forma dalla materia e poi della forma dalla forma, con quest’ultima scissione – quella dell’immagine fotografica dalla fotografia – dettata soprattutto dalle esigenze consumistiche del mercato. Sebbene venga spesso associata all’avvento delle tecnologie digitali, suggerisco che questa duplice dislocazione sia sempre stata centrale nella nostra esperienza della fotografia, fin dalle sue origini.

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Ecco un modo per associare l’identità della fotografia a un tipo di storia delle origini che insiste nell’essere politicamente percorribile. In questo racconto le origini della fotografia sono ben inserite nell’economia politica in cui si trova. Questa storia della fotografia vorrebbe affrontare il tema della sua subordinazione o deviazione dalle logiche e dai sistemi di valore tipici del capitalismo. Questa ricostruzione ci dice che per un posto remunerativo all’interno di quei sistemi lo scotto da pagare per la fotografia era la sua dislocazione in favore dei processi della sua riproduzione, facendo così in modo che essa perseguitasse la modernità come entità simultaneamente assente e presente. In altri termini, una volta che è stata sfruttata per la macchina della riproducibilità, la fotografia non ha potuto fare a meno di essere costantemente confrontata con la spettrale presenza del suo altro: è diventata un’entità per sempre alienata da se stessa. E si può dire lo stesso per quei soggetti che si sono sottomessi alla fotografia, vale a dire tutti. Tra tutte le sue conseguenze la fotografia ha mercificato il rapporto dell’individuo con se stesso, istituendo una modalità di rappresentazione che allo stesso tempo rassicura e aliena, salvaguarda e divide tutti coloro che vi sono assoggettati a essa. In breve, l’esperienza fotografica incarna i processi e gli effetti del capitalismo nella loro interezza. 14

La storia della riproducibilità della fotografia avvalora dunque non solo il complesso commento di Walter Benjamin sulla riproduzione e il feticismo delle merci, ma anche l’identificazione da parte di Derrida della diffusione con una dinamica che circoscrive e dissolve in ugual misura; essa mette in scena «una cancellatura che lascia leggere ciò che sopprime», «rende possibile proprio ciò che rende impossibile».10 Per quanto riguarda la questione delle origini della fotografia, ciascun punto di partenza è indissolubilmente collegato a molti altri e così non è per niente unico. Per parafrasare Roland Barthes, la storia della fotografia diventa un discorso che «traccia un campo senza origine – o che, per lo meno, non ha altra origine che il linguaggio stesso, ovvero proprio ciò che rimette costantemente in discussione qualsiasi origine».11 Questa versione delle origini della fotografia ne destabilizza l’identità anziché garantirla, facendo vacillare ogni certezza e dichiarando, ancora una volta, che “fotografia” è il nome di un problema piuttosto che di una cosa. Scrivere una storia delle origini degna di questo problema – una storia per la fotografia piuttosto che una storia delle fotografie: questa è la sfida che abbiamo di fronte. Geoffrey Batchen settembre 2014


Prefazione

Questo libro esamina le recenti cronache della fotografia mediante un’attenta analisi del concepimento del medium. Il titolo, Un desiderio ardente, si ispira a una lettera di Louis Daguerre del 1828, nella quale l’inventore del dagherrotipo scrive al suo collega Nicéphore Niépce: «Ardo dal desiderio di vedere i suoi esperimenti dal vero». Ma questo saggio contiene anche un buon numero di desideri propri, in quanto presenta una lettura accondiscendente ma rigorosa dei resoconti postmoderni della fotografia e, allo stesso tempo, si propone di riscrivere la storia tradizionale delle origini del mezzo. A tal fine il volume riunisce un gran numero di informazioni sui primi sperimentatori e sul loro ambiente, e le inserisce nel contesto di una critica storica improntata alla genealogia di Michel Foucault e alla decostruzione di Jacques Derrida. Ma Un desiderio ardente intende soprattutto mostrare che la storia abita realmente il presente, che l’esercizio della storiografia è sempre un esercizio di potere e che essa conta (in tutti i sensi). Sarà il lettore a decidere se tali desideri siano stati esauditi oppure no (e se altri, inclusi quelli non riconosciuti dall’autore, siano stati sollecitati). La struttura del libro è piuttosto semplice, anche se le sue conclusioni non lo sono. Il primo capitolo prende in esame quelle che sembrano due contrapposte visioni dell’identità storica e ontologica della fotografia. Diversi critici postmoderni (fra cui John Tagg, Allan Sekula, Victor Burgin e Abigail Solomon-Godeau) sostengono che, poiché il significato è interamente determinato dal contesto, la “fotografia in sé” non abbia identità e la storia della fotografia sia priva di unità. Questo punto di vista è in contrasto con quello dei critici formalisti (primo fra tutti John Szarkowski), che identificano e valutano la fotografia secondo le sue presunte caratteristiche fondamentali di medium. La fotografia è così trascinata in una lotta tra coloro che la identificano con la cultura e chi invece che le attribuisce una natura intrinseca. Ma questi due approcci sono davvero così diversi come sembrano? Il secondo capitolo cerca una possibile soluzione al problema dell’identità della fotografia nella storia fondativa delle origini del medium, la cui attenta

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analisi rivela che almeno venti persone da sette diversi paesi europei presero in considerazione l’idea della fotografia negli anni compresi tra il 1790 circa e il 1839. Ispirandosi all’opera di Michel Foucault, questo libro sposta l’attenzione dalla vera e propria invenzione della fotografia al primo emergere del desiderio di fotografare. Particolare attenzione è data alle condizioni generali che permisero a qualcuno di concepire l’idea stessa della fotografia. Questo fa risalire le sue origini ai primi anni del xix secolo e spinge a interrogarsi sull’importanza della sua datazione. Il terzo capitolo esamina la questione nel dettaglio, considerando ciascuna delle aspirazioni (natura, paesaggio, immagini speculari, spontaneità) espresse da venti protofotografi e rivelando che ogni aspetto del desiderio di fotografare era in profonda crisi all’inizio del xix secolo. Crisi che si manifesta nella struttura fondamentalmente paradossale dei testi dei protofotografi. Con un brillante colpo di genio linguistico la denominazione di fotografia ricalca l’affascinante dilemma della sua identità “impossibile”. Il quarto capitolo estende tale analisi fino a includere le varie “prime fotografie” che sono state ipotizzate come le origini del medium e che comprendono improbabili candidati quali un’incisione di Albrecht Dürer, un dipinto di Joseph Wright of Derby e alcuni schizzi di Henry Fox Talbot, così come i primi 16

tentativi fotografici di Nicéphore Niépce, Louis Daguerre e Hippolyte Bayard. Ovunque si guardi, le origini della fotografia sono sostituite da un problematico gioco di differenze, da quella che Derrida ha chiamato l’economia della différance. Mentre i critici contemporanei della fotografia la vogliono identificare o con la natura o con la cultura, i primi sostenitori del medium propongono un’articolazione di gran lunga più ambigua che tiene conto di entrambi i poli, senza limitarsi a nessuno dei due. Il quinto capitolo prende in esame le conseguenze di questo diverso approccio, concludendo con una breve discussione sui limiti della teoria fotografica postmoderna. Per quanto le sue intuizioni siano indubbiamente notevoli, il Postmodernismo riproduce a ogni livello della sua operazione la stessa economia logocentrica che sostiene non solo il formalismo, ma anche più ampi sistemi di oppressione come il fallocentrismo e l’etnocentrismo. Il libro si chiude con un epitaffio incentrato sui recenti timori circa la morte della fotografia indotta dal digitale, sostenendo che anche questo dibattito pone ancora una volta importanti domande sull’identità della fotografia. La genesi di questo libro risale grossomodo al 1984, quando ero un Rubinstein Fellow nell’ambito dell’Independent Study Program del Whitney Museum of American Art di New York. Ispirato da studiosi e artisti del calibro di Ron Clark, Yvonne Rainer, Martha Rosler, Benjamin Buchloh e soprattutto Craig


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Owens, mi sono interessato alla relazione tra il Postmodernismo e le politiche fotografiche. Fedele alla logica della critica postmodernista, ho voluto ideare un modo per parlare di fotografia che si occupasse non solo della rappresentazione delle politiche, ma anche delle politiche della rappresentazione. L’opera di critici come John Tagg, Allan Sekula e Victor Burgin ha costituito un importante precedente e ha fornito un’autorevole piattaforma teoretica per le prime riflessioni su questo tema. Ancora più importanti sono state le lezioni di semiotica e quelle su Foucault e Jacques Lacan tenute da Elizabeth Grosz all’Università di Sydney: il suo eccezionale insegnamento ha confermato che la filosofia contemporanea può essere davvero utile alla critica della cultura. Più ho considerato le varie questioni che il Postmodernismo pone alla fotografia contemporanea, più mi sono sentito obbligato a tornare indietro agli inizi sia del fotografico sia del moderno e a esaminare nel dettaglio la storia del loro simultaneo emergere come entità culturali. Questo progetto rivisto si è presto tramutato in una tesi di dottorato intitolata Photogrammatology: a Study in the History and Theory of Photography (Fotogrammatologia: uno studio sulla storia e la teoria della fotografia). Dopo varie false partenze e momenti di riscrittura, la tesi è stata infine presentata all’Università di Sydney nel 1990. Devo ringraziare il mio supervisore di tesi Terry Smith per il suo paziente supporto e i suoi consigli. La mia gratitudine va anche ad Anne-Marie Willis per il suo aiuto costruttivo e a Mick Carter per i suggerimenti editoriali: entrambi hanno svolto il ruolo provvisorio di supervisori in diversi momenti della redazione della tesi. Fuori dall’ambito universitario, il lavoro di Ian Burn sulla storia dell’arte australiana è stato un modello d’ispirazione su come leggere le immagini con l’intelligenza e la profonda attenzione che meritano. I miei genitori David e Gillian Batchen non hanno fatto mai venire meno il loro incoraggiamento e supporto per tutta la durata del lavoro. Molte persone hanno agevolato il completamento della tesi e del manoscritto con critiche, assistenza nelle traduzioni, materiale di ricerca e riferimenti utili. Tra queste Vicki Kirby, Sue Best, Noel Gray, Mary Mackay, Tony Fry, Helen Grace, Julian Perfanis, Cathy Vasseleu, Marina Vloss, Hilda e Gail Tighe, Catriona Moore, Malcom Andrews, Nancy Keeler, Graham Howe, Helen Ennis, Kate Davidson, Ewa Kurilyk, Mike Weaver, Olav Westphalen, Alison Gingeras, Susan Schuppli, Joan Hostetler, Valerie Hazel, Douglas Nickel, Sheldon Nodelman, Evonne Levy, Katherine Ware, Becky Smith, Mary Warner Marien, Ed Dimendberg, Whitney Davis, Leigh Anne Langwell e Holland Gallup. Il professor Richard Terdiman mi ha aiutato nominandomi suo assistente alla ricerca per due trimestri nel 1988, dandomi così accesso alle strutture bibliotecarie della University of California di Santa Cruz. Le mie ricerche iniziali sono state supportate anche da un Commonwealth

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Postgraduate Research Award, assegnatomi nel 1985 tramite l’Università di Sydney. Le revisioni finali del manoscritto sono state facilitate da un Academic Senate Research Grant della University of California di San Diego. Questa borsa di studio mi ha permesso di avvalermi dell’assistenza di Diana Reynolds: le immagini che compaiono in questo libro non ci sarebbero senza la sua risoluta competenza. Voglio anche ringraziare Tim Nohe per il suo prezioso aiuto nella preparazione di alcune di queste immagini per la pubblicazione. Larry Schaaf è stato particolarmente generoso nel fornirmi il materiale visivo dalla sua collezione. Durante la stesura di questo libro alcuni suoi estratti sono usciti in forma embrionale e frammentaria su varie riviste. Ringrazio i redattori e gli editori coinvolti per i suggerimenti e il sostegno. Tra questi voglio ricordare Lorraine Kenny e Nadine McGann di Afterimage, Helen Grace di West, Heinz Henisch, Mike Weaver e Anne Hammond di History of Photography. La trasformazione finale della tesi in libro è stata agevolata dagli utili suggerimenti dei miei esaminatori di dottorato Hayden White e Victor Burgin della University of California di Santa Cruz e Ross Gibson della University of Technology di Sydney. I commenti critici degli anonimi revisori del manoscritto coordinati dalla mit Press hanno contribuito anch’essi a questo proces18

so. Ringrazio il mio editor presso la mit Press Roger Conover e la sua assistente Daniele Levine per il loro incoraggiamento e i preziosi consigli e Sandra Minkkinen per la sua competenza editoriale. Infine, questo libro non avrebbe avuto né un inizio né una fine senza l’ispirazione e il supporto intellettuale ed emotivo di Vicki Kirby. A lei lo dedico con riconoscenza.


1 Identità

Da questo momento, allora, bisogna chiedersi non soltanto quale sia l’“essenza” della storia, la storicità della storia, ma quale sia la “storia” dell’“essenza” in generale. E per chi voglia marcare una rottura fra un “nuovo concetto di storia” e il problema dell’essenza della storia (così come del concetto ch’essa regola), il problema della storia dell’essenza e della storia del concetto, infine della storia del senso dell’essere – ognun vede quanto lavoro gli resti da fare. Jacques Derrida, Posizioni1

Gli storici della fotografia hanno faticato molto a definire l’“essenza” del soggetto dei loro studi. L’identità della fotografia – sia come sistema di rappresentazione sia come fenomeno sociale – è stata infatti oggetto di discussione fin dagli esordi. Ma questo dibattito non è mai stato così acceso come nel corso degli anni settanta e ottanta. Gli anni settanta hanno visto la fotografia assumere un’importanza nuova nel mondo artistico anglo-americano. Di fronte all’instabilità della domanda di pittura e scultura, il mercato dell’arte ha cercato di rianimarsi promuovendo la vendita e il collezionismo di fotografie sia storiche sia contemporanee.2 Questa iniziativa ha generato i soliti discorsi legati all’industria culturale, inclusa una riscrittura della storia della fotografia con lo scopo di enfatizzare certi prodotti divenuti da poco materiale da collezione e una serie di pubblicazioni e mostre fotografiche volte a promuovere determinati artisti. Sulla fotografia, in questo arco temporale, si sono espresse anche voci critiche taglienti. All’inizio e alla metà degli anni settanta sono state pubblicate alcune testimonianze autorevoli e provocatorie come Questione di sguardi (1972) di John Berger, Sulla fotografia (1977, con i primi saggi apparsi sulla New York Review of Books nel 1973) di Susan Sontag e Image-Music-Text (apparso in inglese nel 1977 e contenente testi sulla fotografia pubblicati in Francia fin dal 1961) di Roland Barthes.3 Improntato alle tradizioni intellettuali del Marxismo e della semiologia così come agli interessi di un pubblico non specialista, ciascuno di

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questi autori ha contribuito allo sviluppo di quella che si potrebbe chiamare un’antropologia culturale della fotografia. Istantanee e immagini pubblicitarie sono trattate con lo stesso rigore critico delle fotografie artistiche, ritenendo che abbiano tutte qualcosa di interessante da dire sulla natura della vita moderna. Questo rinvigorito dibattito sulla fotografia è stato presto inglobato in una più vasta analisi dei moderni sistemi culturali e sociali conosciuta come Postmodernismo.4 Nel 1978, per esempio, la rivista newyorkese October (comunemente considerata la voce della critica culturale postmoderna americana) pubblicò un editoriale sulla rivalutazione della fotografia all’interno del mercato dell’arte. Contribuendo alla «embrionale impresa di una teoria fotografica», le due direttrici sostenevano di aver «urgente bisogno di una radicale sociologia della fotografia per imporre a noi stessi, per svelare alla vista, il carattere e le implicazioni strutturali e storiche del nostro attuale revisionismo fotografico».5 Negli anni settanta e ottanta una serie di importanti studiosi anglo-americani ha cercato di procurare alla fotografia una simile analisi “strutturale e storica”. Nel farlo, ha dato luogo a un revisionismo e a un modo di pensare che costituiscono i soggetti principali di questo libro. 20

Fotografie Sebbene io qui usi per comodità il termine “Postmodernismo”, la critica postmoderna non è per nulla caratterizzata da un punto di vista omogeneo, poiché è stata spesso influenzata da una varietà di modelli teoretici a volte in conflitto fra loro (Marxismo, femminismo, psicoanalisi, semiotica). Tuttavia, una visione piuttosto coerente della fotografia si è imposta sulla scena del dibattito critico. In un certo contesto culturale, infatti, questa visione è diventata il modello dominante di pensare il mezzo fotografico, tanto nelle lezioni universitarie e accademiche sulla storia e la critica della fotografia quanto in articoli e libri sul medium. Un paragrafo tratto dal saggio del critico inglese John Tagg riassume perfettamente questo punto di vista: La fotografia in quanto tale non ha identità. Il suo status di tecnologia varia a seconda delle relazioni di potere che la investono. La sua natura di pratica dipende dalle istituzioni e dagli agenti che la definiscono e la mettono all’opera. La sua funzione di modalità di produzione culturale è legata a condizioni di esistenza precise e i suoi prodotti sono significativi e leggibili solo nei propri particolari ambiti di diffusione. La sua storia non possiede unità. Essa fluttua in un terreno di spazi istituzionali. È questo terreno che dobbiamo studiare, non la fotografia in sé.6


· Identità ·

Che cosa si afferma qui esattamente? Innanzitutto Tagg suggerisce che la fotografia non possa essere intesa come detentrice di un’identità fissa o di un unico statuto culturale. È meglio, dice, considerarla come un campo disseminato e dinamico di tecnologie, pratiche e immagini. La versatilità del mezzo fotografico è tale da renderlo indistinguibile dalle istituzioni o dai discorsi che scelgono di farne uso. La storia della fotografia è dunque la storia collettiva e molteplice di quelle stesse istituzioni e quegli stessi discorsi. Una storia della fotografia giudiziaria, per esempio, non può essere separata da una storia delle pratiche e delle istituzioni di criminologia e del sistema giudiziario. Ne consegue che non esiste una storia coerente e unitaria della fotografia, ma piuttosto una selettiva documentazione dei suoi vari usi ed effetti. I significati di ogni singola fotografia sono ugualmente contingenti, poiché dipendono totalmente dal contesto in cui quella foto si trova in un dato momento. Essa può significare qualcosa in un contesto e qualcosa di completamente diverso in un altro. L’identità di una fotografia non dipende quindi da una sua qualità specificamente fotografica, ma da come la fotografia agisce di fatto nel mondo. Il punto cruciale è che le fotografie non possono mai esistere al di fuori di discorsi o funzioni di qualche tipo. Non esiste un terreno neutrale in cui la fotografia sia in grado di parlare “di e per se stessa”, in cui possa emettere un essenziale, “vero” significato basilare. L’intero ragionamento di Tagg si basa sul presupposto che le fotografie non abbiano un unico vero significato. Determinante per la concezione della fotografia di Tagg è il Marxismo strutturalista del filosofo francese Louis Althusser, che pone l’accento sul ruolo degli apparati ideologici nel mantenimento e nella diffusione del sistema capitalistico. È chiaro in una delle prime spiegazioni che Tagg dà del proprio approccio allo studio della fotografia: Quello che cerco di sottolineare qui è l’assoluta continuità dell’esistenza ideologica delle fotografie rispetto alla loro esistenza come oggetti materiali, la “diffusione” e il “valore” dei quali nascono in certe precise pratiche sociali storicamente specifiche e sono in definitiva una funzione dello Stato. […] Mentre è usata anche come strumento nei maggiori apparati educativi, culturali e comunicativi, la fotografia è essa stessa un dispositivo di controllo ideologico sotto l’“armonizzante” autorità centrale dell’ideologia della classe che, apertamente o attraverso un’alleanza, detiene il potere politico e governa l’apparato statale.7

Sebbene in articoli successivi Tagg arrivi a criticare la totalizzante rigidità di questo modello althusseriano di controllo politico, il suo concetto di fotografia

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conserva molto delle sue linee guida. Per Tagg il significato e il valore di ogni fotografia continuano a essere interamente determinati dalla sua relazione con altre, più potenti pratiche sociali. E, come apparato di rappresentazione visiva, la fotografia rimane prima di tutto uno strumento per spostare l’ideologia da un terreno a un altro. Egli spiega così questo processo nel suo saggio più famoso, “Power and Photography” (Potere e fotografia) del 1980: «Al pari dello Stato, la macchina fotografica non è mai neutrale. Le rappresentazioni che essa produce sono altamente codificate e il potere che essa esercita non è mai suo. In quanto mezzo di documentazione, arriva sulla scena investita di una particolare autorità a fissare, ritrarre e trasformare la vita quotidiana; un potere di vedere e documentare; un potere di sorveglianza. […] Questo non è il potere della macchina fotografica, ma il potere degli apparati dello Stato locale che la impiegano e garantiscono l’autorità delle immagini che essa costruisce».8 Malgrado la residua base althusseriana, il saggio di Tagg dà, in effetti, una più complessa descrizione di come questo dispositivo si attui. Il risultato è un lavoro pionieristico volto a mettere in relazione l’opera del filosofo francese Michel Foucault con la storia della fotografia. Come spiega Tagg, Foucault ha fornito ai critici della cultura il concetto di “microfisica” dina22

mica del potere, di un “potere disciplinare” che circola dentro e attraverso le vene del corpo sociale in modo tale che troviamo «una moltiplicazione degli effetti del potere tramite la formazione e l’accumulo di nuove forme di sapere».9 Seguendo Foucault, in questo e nei saggi successivi Tagg si concentra sulle fotografie usate da quell’“arcipelago disciplinare” di enti e apparati locali dello Stato implicati nella circolazione del potere e del sapere. Come strumento di questi enti la fotografia non esercita un proprio potere. Di conseguenza, il resoconto che Tagg fa dei suoi effetti politici si focalizza non sul medium in se stesso, ma sui meccanismi determinanti dei suoi contesti storici, sui «modi in cui la fotografia è stata storicamente coinvolta nella tecnologia del potere-sapere».10 Costruiti sull’idea foucaultiana secondo cui «il discorso crea il proprio oggetto», i saggi di Tagg insistono nel considerare la fotografia come uno strumento che facilita l’imposizione del potere da parte dei suoi detentori (solitamente i rappresentanti dello Stato) su coloro che ne sono esclusi (di solito gruppi già marginalizzati come la classe operaia, criminali, i malati di mente, le popolazioni indigene, minoranze etniche e così via). Nello schema di Tagg la fotografia non è che un canale conveniente che permette a soggetti più o meno deboli di essere rappresentati dalle forze di moderna oppressione come oggetti di conoscenza, analisi e controllo. La sua analisi dedica ben poca attenzione alla fotografia in quanto tale, proprio perché l’autore rifiuta in-


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tenzionalmente la categoria di “in sé”. L’ipotesi qui espressa è infatti che, in quanto entità priva di identità stabile o unità storica, la fotografia appartiene potenzialmente a ogni istituzione e disciplina tranne che alla propria. I princìpi basilari della visione di Tagg sono ripresi nell’opera di altri scrittori contemporanei che si occupano di fotografia. Li possiamo ritrovare, per esempio, anche nei saggi del fotografo e critico americano Allan Sekula. Ma mentre la fotocritica di Tagg deriva da una combinazione di Althusser e Foucault, Sekula riproduce una teoria dialettica della fotografia basata principalmente sul Marxismo di György Lukács. Così Sekula ha descritto la propria opera: Vedo ora il mio progetto critico come un tentativo di comprendere il carattere sociale del “traffico di fotografie”. Preso alla lettera, questo traffico implica la produzione, la circolazione e la ricezione sociali delle fotografie all’interno di una società basata sulla produzione e lo scambio di merci. Presa in senso metaforico, la nozione di traffico suggerisce il modo peculiare in cui il significato fotografico – e il discorso fotografico stesso – è caratterizzato da un’incessante oscillazione tra quelle che Lukács chiama le “antinomie del pensiero borghese”. Si tratta sempre di un movimento tra oggettivismo e soggettivismo.11

Sekula considera la fotografia come un’entità mobile, contingente e intrinsecamente sociale, sempre contesa tra le due esigenze ideologiche parallele dell’estetismo (o soggettivismo) e dello scientismo (od oggettivismo). Queste esigenze contrastanti sono indotte, a suo parere, dalla «prolungata crisi nel cuore stesso della cultura borghese». Crisi provocata dalla «minaccia e promessa della macchina», una dialettica che la cultura borghese «continua a respingere e abbracciare allo stesso tempo». Secondo Sekula, «l’immagine fotografica frammentaria e meccanicamente derivata è centrale in questo contesto di crisi e ambivalenza; la questione generale è la natura del lavoro e della creatività sotto il regime capitalista».12 Per Sekula la fotografia sembra confermare la soggettività individuale di quanti sono ritratti anche se riduce quei soggetti e le loro relazioni sociali a una cosa visiva, a un oggetto-immagine commercializzato come tutti gli altri. In quanto dispositivo di rappresentazione meccanico e in apparenza neutrale, improntato ai valori di verità empirica propri del Positivismo, la fotografia fa sembrare questa oggettivazione naturale e indubbia. Tuttavia, proprio l’oggettività della fotografia può rivelare come diverse, storiche e innaturali differenze di classe, e dunque potenzialmente passibili di un cambiamento. Questa capacità di minacciare e confermare allo stesso tempo l’ordine stabilito del capitalismo è per Sekula la fonte del fascino e del potere sociale della fotografia.

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Per questa ragione secondo lui la fotografia è una pratica essenzialmente finalizzata a evidenziare «la fiducia e le paure di una borghesia industriale in ascesa».13 Si noti, per esempio, la sua descrizione della mostra del 1955 “The Family of Man” (La famiglia dell’uomo): «Qui, ancora una volta, compaiono i fantasmi gemelli che perseguitano la pratica fotografica: la voce di un oggettivismo tecnocratico reificante e quella redentrice di un soggettivismo liberale».14 E la sua cronaca dell’incerta ricezione della fotografia nel 1839: «La fotografia promette un più accentuato dominio della natura, ma minaccia anche conflagrazioni e anarchia, un livellamento incendiario dell’ordine culturale esistente».15 Sekula scopre un simile dualismo nelle fotografie fatte dal canadese Leslie Shedden tra il 1948 e il 1968, nelle quali sono connessi «il realismo strumentale della fotografia industriale e il realismo sentimentale della fotografia di famiglia».16 Sekula analizza soprattutto il modo di rappresentare il corpo umano in diverse fotografie del xix secolo e identifica «una fondamentale tensione [che si] sviluppa tra usi della fotografia che appagano una concezione borghese del sé e usi che cercano di stabilire e delimitare il terreno dell’altro».17 In breve, egli non smette di sottolineare che, quando guardiamo una fotografia, «ci troviamo di fronte a un sistema duplice: un sistema di rappresentazione capace di funzionare simultaneamente in modo onorifico e repressivo».18 24

A consentire questo duplice meccanismo è il fatto che il significato di una particolare fotografia sia in ultimo una manifestazione delle tensioni interne allo stesso capitalismo. Come per Tagg, anche per Sekula la fotografia è veicolo di forze esterne più vaste e l’identità fotografica qualcosa di fondamentalmente dipendente da queste forze. Mai neutrale, la fotografia si trova sempre legata a un discorso (o, più precisamente, a una cacofonia di discorsi contrapposti) che assegna a ogni singola immagine i suoi significati e i suoi valori sociali. Sekula basa questo aspetto della sua teoria fotografica sulla semiotica di Charles Sander Peirce, filosofo pragmatista americano del xix secolo. Sostenendo che le fotografie sono innanzitutto “segni indicali”, Sekula intende la fotografia come un tipo di rappresentazione legato ai suoi oggetti da una relazione di causalità o connessione fisica. A suo parere, «per via di questa proprietà indicale, le fotografie sono fondamentalmente radicate nella contingenza».19 In altre parole, in quanto indice la fotografia non è mai se stessa, ma, per sua stessa natura, sempre la traccia di qualcos’altro. Come Tagg e Sekula, il fotografo e critico inglese Victor Burgin non ha tempo da dedicare a coloro che cercano una “essenza” fotografica o si concentrano su un limitato resoconto storico-artistico della fotografia e del suo sviluppo. Egli è più interessato ad affrontare la fotografia attraverso la sua relazione con «la sfera generale della produzione culturale».20 In questo contesto, egli ritiene


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che la caratteristica principale della fotografia sia la sua capacità di produrre e diffondere significato. Ma i significati delle fotografie non sono determinati dalle immagini stesse o circoscritti a esse, perché il significato viene continuamente ricreato nei contesti in cui queste immagini compaiono. Ritroviamo qui una concezione diffusa della fotografia, quella secondo cui «il significato è costantemente spostato dall’immagine alle formazioni discorsive che la attraversano e la contengono».21 Per Burgin l’oggetto della teoria fotografica non è la fotografia di per sé, ma piuttosto le pratiche di significazione che precedono, circondano, permeano e producono ogni fotografia in quanto densa di significato. La teoria fotografica non è altro che un’«enfasi in una storia e teoria generale delle rappresentazioni», così come una singola fotografia non è altro che un’intersezione all’interno di un complesso e spesso invisibile processo di produzione di significato:22 Il “testo fotografico”, come ogni altro testo, è il luogo di una complessa “intertestualità”, una serie sovrapposta di testi precedenti “dati per scontato” in una particolare congiuntura culturale e storica. Questi testi antecedenti, che sono presupposti dalla fotografia, sono autonomi: svolgono un ruolo nel testo attuale ma non vi compaiono, sono nascosti al testo evidente e si possono leggere solo “sintomaticamente” attraverso esso. […] La questione del significato va dunque costantemente riferita alle formazioni sociali e psichiche dell’autore/lettore.23

Semiotica e psicoanalisi sono due delle vie attraverso cui tali formazioni si possono articolare e il lavoro di Burgin è stato di grande importanza per aver introdotto questi modelli di analisi sociale in fotografia. Egli si è interessato in particolare al contributo dato dalla fotografia al legame – proprio della cultura occidentale – tra potere, desiderio e rappresentazione, soprattutto perché essa partecipa all’“infinito processo del divenire” messo in atto dal soggetto che guarda.24 Le fotografie sono sempre catalizzatori e punti focali di quel desiderio implicito nello sguardo. In quanto tale, l’esperienza del fotografare può essere facilmente incorporata nella teoria lacaniana del soggetto. Facendo riferimento all’enfasi data allo sguardo nel discorso lacaniano sull’immaginario, Burgin definisce in modo analogo l’effetto soggettivo della macchina fotografica come una (ingannevole) «coerenza basata sullo sguardo unificante di un soggetto puntuale unificato».25 Ne consegue che «le leggi di proiezione» della macchina fotografica «mettono il soggetto in quanto punto di origine geometrico della scena in un’immaginaria relazione con lo spazio reale».26 Ciò significa che tutte le fotografie obbediscono a queste “leggi” e hanno questo “effetto”: «È dunque importante che la teoria fotografica tenga conto

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della produzione di questo soggetto in quanto la complessa totalità delle sue determinazioni sono modulate e forzate nel loro passaggio attraverso e dentro le fotografie».27 Da notare comunque che questa versione della teoria fotografica distoglie ancora l’attenzione dalla fotografia in sé (una categoria che Burgin ha in ogni caso già abbandonato come antitetica alla semiotica della produzione di significato). Come il soggetto in preda al desiderio da lui descritto, lo sguardo di Burgin attraversa la fotografia in cerca di qualcosa che ha origine necessariamente altrove. Per lui la fotografia è ancora una delle allettanti “false piste” del desiderio: «Fondamentalmente è il soggetto inconscio che desidera. […] Ma l’oggetto cosciente del desiderio è sempre una falsa pista. L’oggetto è solo il rappresentante, nel reale, di un rappresentante psichico nell’inconscio (il freudiano “rappresentante ideazionale” dell’istinto). In realtà, il desiderio è l’istinto, come sostengono i lacaniani, “alienato in un significante” – la traccia di un’originaria, perduta, soddisfazione. L’oggetto reale […] è irrecuperabilmente assente».28 Ho solo brevemente abbozzato le teorie fotografiche presentate da questi tre autori. La mia relazione è necessariamente riduttiva, avendo tralasciato molte delle varie argomentazioni, revisioni e approfondite analisi visive che 26

animano i loro saggi e, nel caso di Sekula e Burgin, le loro opere fotografiche. Ho comunque delineato lo sviluppo di una particolare concezione della fotografia che è ora centrale per il pensiero postmoderno anglo-americano in genere.29 Per riprendere la formula d’apertura di Tagg: «La fotografia in quanto tale non ha identità» e «la sua storia non possiede unità». Questa visione non è specifica di Tagg, Sekula e Burgin, ma si ritrova nell’opera di una serie di altri critici fotografici contemporanei. Anche la studiosa femminista Abigail Solomon-Godeau, per esempio, si schiera decisamente contro una nozione di “autonomia fotografica” nella sua raccolta di saggi del 1991 intitolata Photography at the Dock (La fotografia sul banco degli imputati), ed evidenzia la sua perplessità con l’aggiunta delle virgolette nell’espressione «oggetto disciplinare “fotografia” ogni volta che vi si riferisce. Sottolineando la «mutabilità del significato fotografico», Solomon-Godeau afferma che «la fotografia è, prima di tutto e dopotutto, un mattone in una struttura più vasta». Ancora una volta, un autore rifiuta la categoria della “cosa in sé” in riferimento alla fotografia, a meno che non sia «qualcosa di dinamicamente prodotto nell’atto di rappresentazione e ricezione e già soggetto alle griglie di significato a essa imposte dalla cultura, dalla storia, dal linguaggio e così via». Di conseguenza, secondo lei «la storia della fotografia non è la storia di uomini straordinari, e ancor meno un susseguirsi di immagini straordinarie, ma la storia degli usi del mezzo fotografico». I suoi saggi esaminano abil-


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mente una serie di questi usi, tenendo sempre in considerazione sia le specifiche “determinazioni contestuali” del significato fotografico sia la grande avanzata di questi significati attraverso «l’esperienza vissuta di classe, razza, genere e nazionalità». In breve, per Solomon-Godeau si comprende meglio la fotografia se la si intende come un “canale” per forze sociali e psichiche più ampie. A suo parere: «In ultima analisi, la fotografia […] è sempre un mercenario, sempre il sicario».30 Nelle analisi di questi critici vediamo un generale spostamento del punto focale dall’immagine al contesto, dalle questioni di forma e stile (la retorica dell’arte) alle questioni di funzione e uso (l’esercizio della politica). Poiché ritengono che il significato fotografico sia del tutto mutevole e contingente, questi studiosi postmoderni logicamente concludono anche che il medium non può avere una storia autonoma o un’identità stabile. Sostengono che non possa affatto esistere una cosa come una fotografia singola, ma solo una miriade discontinua di fotografie.

La fotografia in sé Questa visione della fotografia risponde direttamente al programma storicoartistico dominante degli anni sessanta e settanta, in particolare alla corrente critica nota come formalismo modernista. Il Postmodernismo si è opposto fermamente al programma formalista, considerandolo intellettualmente sterile e politicamente conservatore.31 Per quanto riguarda la fotografia, questo indirizzo fu diffuso nei tardi anni sessanta e nei primi anni settanta principalmente attraverso l’opera di autori quali André Bazin e curatori some John Szarkowski. Negli Stati Uniti invece il formalismo si era già ben affermato come approccio alla critica d’arte in generale attraverso il formidabile patrocinio del critico Clement Greenberg. L’argomentazione fondamentale di Greenberg è ora ben nota: nell’era moderna le funzioni tradizionali dell’arte sono state usurpate (tra le altre cose, dalla fotografia); per sopravvivere l’arte deve stabilire il suo valore come irrinunciabile veicolo di grande esperienza in una cultura altrimenti alienante; per fare ciò ogni mezzo artistico deve, attraverso una rigorosa autoanalisi delle proprie azioni e dei propri effetti, stabilire le qualità specifiche che lo rendono unico. Sebbene prefigurata in scritti precedenti, questa tesi è sottolineata molto chiaramente nel saggio del 1961 intitolato “Pittura modernista”: A mio avviso l’essenza del modernismo consiste nell’uso dei metodi caratteristici di una disciplina per criticare la disciplina stessa, non per sovvertirla ma per circoscriverla con maggior rigore nella sua area di competenza. […] Le

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arti potevano salvarsi da questo appiattimento [al livello dell’intrattenimento] solo dimostrando che il tipo di esperienza che fornivano aveva un valore proprio, non riscontrabile in nessun altro tipo di attività. Si comprese che ogni arte doveva svolgere questa dimostrazione in modo autonomo. Bisognava mostrare non solo ciò che era unico e irriducibile nell’arte in generale, ma anche ciò che era unico e irriducibile in ogni singola arte. Ogni arte doveva determinare, attraverso i propri procedimenti e le proprie opere, gli effetti che le erano propri. […] Ben presto si vide che l’area di competenza unica ed esclusiva di ogni arte coincideva con tutto ciò che era unico quanto alla natura del suo medium.32

Utilizzando Kant come pietra di paragone filosofica («Fu il primo a criticare i mezzi stessi della critica […] Kant usava la logica per stabilire i limiti della logica») 33, Greenberg cerca di presentare la storia del Modernismo come una ricerca continua dell’essenza fondamentale e irriducibile di ogni forma d’arte. L’essenza della fotografia è difficile da definire in questi termini, data quella che Greenberg chiama «la trasparenza del medium […] [al] significato extraartistico, reale delle cose».34 Ciononostante egli era disposto, in un saggio del 1964 intitolato “Four Photographers” (Quattro fotografi), a indicare fotografie 28

di Jean-Eugène-August Atget e di Walker Evans quali “capolavori fotografici”, sostenendo che «sono diventate capolavori trascendendo il documentario e trasmettendo qualcosa che incide più di un mero potere conoscitivo».35 Altre valutazioni formaliste della fotografia si sono basate su argomenti simili. In “Ontologia dell’immagine fotografica” (scritto nel 1945 ma pubblicato per la prima volta in inglese nel 1967) il critico cinematografico francese André Bazin promuoveva la necessità di un «autentico realismo che ha bisogno di esprimere il significato a un tempo concreto e essenziale del mondo».36 Per Bazin, l’“oggettività essenziale” della fotografia, la peculiare qualità che la distingue dalla pittura, le permette di raggiungere questo “autentico realismo” più di qualsiasi altro medium: l’immagine fotografica è «l’oggetto stesso, ma liberato dalle contingenze temporali. L’immagine può essere sfocata, deformata, scolorita, senza valore documentario, ma essa proviene attraverso la sua genesi dall’ontologia del modello; essa è il modello».37 L’approccio di John Szarkowski alla fotografia è più vicino a quello di Greenberg che a quello di Bazin, sebbene tutti e tre condividano un’ambizione intellettuale simile. A differenza dei critici postmoderni, Szarkowski sostiene la posizione secondo cui «esiste davvero una cosa come la fotografia».38 Il problema è come definire esattamente che cosa sia. In un’intervista registrata nel 1978, egli descrive come nella sua esperienza di curatore del Museum of Modern Art si sia dedicato al «generico problema generale di cosa sia questo biz-


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zarro medium e di cosa si possa fare con esso e quali siano le sue potenzialità […] come queste energie siano usate per esplorare più a fondo le potenzialità di quella linea, quella linea evolutiva dell’essere […] il vero […] il grande serbatoio genetico delle possibilità [fotografiche]».39 In altre parole, Szarkowski si ritrova, come i suoi artisti preferiti, in una continua ricerca dell’essenza del medium fotografico. Come egli stesso dice: «Penso che in fotografia l’approccio formalista […] riguardi il tentativo di esplorare le capacità intrinseche o pregiudizievoli del medium nel modo in cui esso viene inteso in quel momento».40 Il tentativo più noto messo in atto da Szarkowski per articolare questo approccio sul piano della pratica curatoriale è la sua mostra del 1966 “The Photographer’s Eye” (L’occhio del fotografo), che, secondo le sue stesse parole, «era un modo per provare a definire certi problemi, certe questioni fondamentali, che potrebbero iniziare a fornire l’armatura per un vocabolario credibile che abbia davvero attinenza con la fotografia».41 A tal fine, nel suo saggio in catalogo Szarkowski afferma che la fotografia non solo è «nata tutta intera», ma rappresenta un «modo radicalmente nuovo di creare immagini».42 Questo nuovo e caratteristico processo è incarnato in ciascun esempio fotografico, qualunque sia l’abilità o la sensibilità (o la sua mancanza) apportata al medium dai vari autori. Le immagini che riflettono, «con successo», sulla stranezza del processo che le ha generate andrebbero considerate come «significative al di là del loro intento limitato». Questo spiega perché egli abbia costantemente incluso fotografie di autori anonimi in tutte le sue grandi mostre d’indagine, compresa la sua panoramica storica del 1989 intitolata “Photography Until Now” (La fotografia fino a oggi).43 Perché quello che interessa a Szarkowski non è solo che cosa gli artisti abbiano fatto con il medium, ma anche che cosa si possa imparare in generale dalla «fotografia – [dal] suo insieme, omogeneo e indifferenziato». Con questo fine in mente egli scova quelle fotografie che, consciamente o meno, esibiscono «i doni anonimi della fotografia stessa, dei quali è impossibile rintracciare la fonte».44 In L’occhio del fotografo Szarkowski identifica cinque “concetti” che pensa siano «propri della fotografia»; nello specifico: «la cosa in sé, il dettaglio, l’inquadratura, il tempo e il punto di vista». Le fotografie sono divise in gruppi secondo il loro presunto legame con questi “concetti” e il risultato è una sorta di storia modernista della realizzazione dell’immagine fotografica, notevolmente simile a quella proposta da Greenberg per la pittura. Szarkowski descrive così le immagini scelte: «La visione che hanno in comune non appartiene a una scuola o teoria estetica, ma alla fotografia stessa. I fotografi hanno scoperto il carattere di questa visione nel corso del loro lavoro, acquisendo una crescente consapevolezza del potenziale di cui la fotografia era dotata. Se è così, dovrebbe essere possibile considerare la storia di questo mezzo espressivo dal punto

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di vista della graduale presa di coscienza da parte dei fotografi dei caratteri e dei problemi che apparivano connaturati al mezzo stesso».45 In diverse mostre e pubblicazioni Szarkowski presenta la storia della fotografia come un’inevitabile progressione verso l’autocoscienza e in questa impresa via via si sono aggiunti a lui altri studiosi. Molte storie della fotografia sono di fatto storie dell’arte, che seguono fedelmente il solco tracciato dall’autorevole Storia della fotografia di Beaumont Newhall (pubblicata per la prima volta come catalogo di una mostra tenutasi al Museum of Modern Art nel 1937).46 Elevando la fotografia artistica al di sopra di tutti gli altri generi e le altre pratiche, queste storie tendono a privilegiare le fotografie molto autoconsapevoli, quelle che in qualche modo sembrano commentare i loro stessi processi di produzione. In tal senso questi saggi – e mi riferisco qui grosso modo a ogni recente pubblicazione che abbia cercato di affrontare la storia del medium – contribuiscono tutti, più o meno consapevolmente, al progetto formalista generale.47 Nelle osservazioni d’apertura del catalogo della mostra del 1989 “Photography Until Now”, Szarkowski esplicita la connessione affermando che la fotografia artistica incarna l’essenza di tutta la fotografia: «La mia speranza è che questo approccio permetta all’arte della fotografia di essere vista non come un caso speciale, periferico rispetto alla più ampia storia dei vasti in30

teressi e delle funzioni strumentali del medium, ma piuttosto, e semplicemente, come il lavoro che incarna la più chiara ed eloquente espressione della prolungata ricerca di una rinnovata e vitale identità da parte della fotografia».48 Questo stesso discorso è stato affrontato anche in merito a determinati aspetti della storia della fotografia. Molti hanno collegato i punti di vista di Szarkowski, per esempio, alla mostra e al catalogo di Peter Galassi, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia, realizzati sotto gli auspici di Szarkowski al Museum of Modern Art nel 1981.49 Galassi esprime la premessa revisionista della sua mostra nel seguente, ora famigerato, aforisma: «La fotografia non è stata una creatura bastarda abbandonata dalla scienza sulla soglia dell’arte, ma una legittima erede della tradizione pittorica occidentale».50 Oltre a ciò Galassi si preoccupa di collocare la fotografia all’interno di una tradizione pittorica specifica che rende i suoi spettatori «partecipi dell’esperienza contingente della vita di ogni giorno».51 Egli identifica l’espressione di esperienza contingente con una certa attitudine a produrre immagini ben rappresentata dal genere degli schizzi paesaggistici che fa la sua comparsa attorno agli inizi del xix secolo. Secondo Galassi questo genere attesta «l’emergere di una nuova norma di coerenza pittorica che ha reso possibile l’ideazione della fotografia»; «il nuovo indirizzo (e con lui le sue espressioni pittoriche) aveva iniziato a svilupparsi prima che fosse inventata la fotografia»; «la fotografia […] nacque da questa fonda-


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mentale trasformazione nella strategia pittorica».52 E continua: «Ho scelto di mettere al centro dell’attenzione quell’aspetto della pittura paesaggistica che è il sintomo più chiaro (anche se nell’invenzione più modesto) della vasta trasformazione artistica che agì da catalizzatore nell’invenzione della fotografia. Gli schizzi di paesaggio […] si caratterizzano per una nuova sintassi pittorica, fondamentalmente moderna, di percezioni immediate, sinottiche, e di forme discontinue. È la sintassi di un’arte votata al singolare e al contingente piuttosto che all’universale e all’immutabile. Una sintassi che appartiene anche alla fotografia».53 Un effetto immediato di tale argomentazione, per quanto provocatoria ad altri livelli, è che identifica sia la “sintassi” fotografica sia le sue origini concettuali con una “trasformazione” artistica piuttosto che sociale, intellettuale o politica. In conformità con Szarkowski, che privilegia il dettaglio come una delle caratteristiche tipiche della fotografia, Galassi pone l’accento sull’inquadratura “intuitiva” e “arbitraria” del mondo, che porta a immagini piene di quelle che egli chiama “forme discontinue, inaspettate”. Inoltre egli suggerisce che la produzione di questo particolare tipo di immagine modernista sia una conseguenza «del fatto che la macchina fotografica fosse incapace di comporre», vale a dire una proprietà specifica del medium.54 Numerosi critici hanno evidenziato l’astuta convenienza di Galassi nel selezionare i dipinti e le fotografie che assecondano la particolare enfasi data dalla sua argomentazione al crescente desiderio artistico di produrre “immagini di frammenti”. Generi importanti di composizione fotografica, come i ritratti dagherrotipici, sono quasi del tutto assenti dalla mostra. Allo stesso modo Galassi ignora la scuola di pittura paesaggistica dominante agli inizi del xix secolo e le fotografie paesaggistiche monumentali e altrettanto convenzionali realizzate dai primi professionisti. Come afferma Solomon-Godeau: Galassi può essere accusato a ragione di commettere una tautologia e di selezionare solo le prove che avvalorano la sua ipotesi […] per fornire una giustificazione accademica ed erudita alle preferenze curatoriali e all’apparato critico del Dipartimento di Fotografia del moma.55 “Prima della fotografia” è stata così costruita per fornire esattamente la tesi che serviva al museo: vale a dire che la storia della fotografia, essenzialmente e ontologicamente, non solo è generata dall’arte, ma è di fatto inseparabile da essa.56

Tutto ciò è indubbiamente vero. Infatti, la critica postmoderna del formalismo convince praticamente a tutti i livelli (e il nostro libro perciò la prende co-

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me un dato evidente). Ma nonostante tutto rimane ancora irrisolta un’importante domanda: da cosa esattamente è “generata” la fotografia, se non dall’arte (o, quantomeno, dalla tradizione pittorica occidentale)? Che cos’è questa cosa che chiamiamo fotografia? Dovrebbe essere chiaro da quanto detto finora che gli approcci alla fotografia appena descritti si imperniano tutti sull’identità storica e ontologica della fotografia, una questione che sia i postmodernisti sia i formalisti pensano di aver in qualche modo risolto. In un certo senso, l’intera elaborata discussione tra loro si riduce a una sola e sorprendentemente semplice domanda: si può identificare la fotografia con la (sua propria) natura o con la cultura che la circonda? I postmodernisti e i formalisti credono entrambi di sapere cosa sia (e che cosa non sia) la fotografia. La loro disputa è sull’ubicazione dell’identità fotografica, sui suoi limiti e confini, piuttosto che sull’identità di per sé.

Racconti sulle origini In questo contesto è interessante il fatto che Galassi abbia deciso di dotare la sua “fotografia” del necessario per rispondere a tutte le questioni identitarie: una collocazione nel tempo e nello spazio, un punto di origine prima del quale 32

essa non possedeva un’identità, un prima della fotografia. Questa mossa storica, questo rimando a un momento originario di nascita è, come ci dice Jacques Derrida, non solo un gesto metafisico tra gli altri, ma la richiesta metafisica per eccellenza, da sempre la più costante, la più profonda e potente.57 È sicuramente il caso di quegli studiosi che si sono interessati alla storia e ai significati della fotografia. Qualunque sia l’approccio teoretico, i critici della fotografia si ritrovano inevitabilmente a dire la loro sull’invenzione del medium e la sua o le sue cause. Infatti l’essenza dell’identità politica e culturale della fotografia è spesso esplicitamente equiparata a quella delle sue origini. Questo è dopotutto il valore d’uso delle storie sull’origine in quanto genere. Esse offrono la possibilità, come dice Derrida, di «risalire “strategicamente”, idealmente, a un’origine o a una “priorità” semplice, intatta, normale, pura, standard, identica a se stessa, al fine di pensare in seguito in termini di derivazione, complicazione, deterioramento, accidente ecc.».58 In altre parole, come manifestazione della «richiesta metafisica», ogni discorso sulle origini del medium lascia trapelare l’approccio dell’autore nei confronti della pratica narrativa (la pratica di pensiero, di storia, di rappresentazione) in generale. Come abbiamo visto, Galassi colloca le origini della fotografia all’interno di uno specifico cambiamento delle aspirazioni artistiche che ha avuto luogo nella cultura europea tra il tardo Settecento e il primo Ottocento. In Photography


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Until Now Szarkowski è un po’ più cauto, sostenendo inizialmente nient’altro se non che “nuove possibilità” come la fotografia derivano da «una complessa ecologia di idee e circostanze che includono la condizione dell’humus intellettuale, il clima politico, lo stato delle capacità tecniche e la raffinatezza del seme». Egli continua poi suggerendo più concretamente che «l’invenzione della fotografia è dipesa dal convergere di tre correnti di pensiero». Le prime due sono ottica e chimica, «la terza era l’idea poetica che fosse possibile rubare proprio all’aria un’immagine creata dalle forze della natura». Con questa architettura concettuale alle spalle Szarkowski prosegue oltre abbozzando per la fotografia la stessa preistoria che è stata ripetuta praticamente in ogni libro pubblicato sul medium. Egli traccia velocemente lo sviluppo della camera obscura dal v secolo a.C. in avanti («la camera è essenziale all’idea di fotografia»), menziona alcuni esperimenti settecenteschi su sostanze fotosensibili e poi richiama l’attenzione sul Quattrocento in Italia e l’idea, resa possibile dalla prospettiva, che l’immagine possa essere «determinata dai margini». Così Szarkowski riesce a far sì che un ampio sviluppo della storia si concentri sulla «tradizione pittorica occidentale» e su quella che per lui come per Galassi è la più importante caratteristica della fotografia: la capacità della macchina fotografica di ritrarre il mondo come una serie di vedute incorniciate (che Szarkowski chiama «l’idea della contingenza»). Nessuno di questi studiosi si è comunque preoccupato del perché all’improvviso sia stata privilegiata questa particolare abilità o del motivo per cui l’idea “poetica” della fotografia sia emersa agli inizi dell’Ottocento e non prima. Certo, Szarkowski afferma provocatoriamente che, in base alle prove disponibili, «la fotografia non è stata inventata per soddisfare un bisogno chiaramente percepito». Sembra invece il prodotto inevitabile di una sensibilità artistica le cui origini si collocano nel xv secolo. In altri termini, l’identità della fotografia si fonda sulla storia (o, almeno, sulla storia dell’arte).59 Questa equazione tra identità e storia avvicina Szarkowski e Galassi ai punti di vista proprio di quei postmodernisti che così energicamente si oppongono alle loro teorie. Il Postmodernismo vuole infatti situare anch’esso le origini della fotografia nella storia; solo che non è la stessa storia sostenuta dal formalismo. Victor Burgin, per esempio, propone una storia delle origini che assomiglia molto a quella di Szarkowski, e afferma che «nei suoi dettagli essenziali il sistema rappresentativo della fotografia è identico a quello dei dipinti classici: entrambi dipendono (il primo direttamente, il secondo indirettamente) dalla camera obscura».60 Molti altri storici, tra cui John Tagg, hanno cercato di far coincidere l’emergere della fotografia e lo sviluppo concomitante di specifiche formazioni sociali e politiche: «L’incentivo a sviluppare il bagaglio acquisito di conoscen-

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ze scientifiche e tecniche in un mezzo per fissare l’immagine della camera obscura arrivò […] da una richiesta di immagini senza precedenti tra le classi medie da poco dominanti, in una fase della crescita economica in Gran Bretagna e in Francia nella quale l’industria stava soppiantando i tradizionali modelli di produzione e gettando le basi per un nuovo ordinamento sociale».61 L’ipotesi secondo cui l’invenzione della fotografia risponde alle domande di un’ideologia borghese da poco dominante permette a Tagg di incorporare perfettamente la storia del medium in un’analisi della società europea contemporanea incentrata su un discorso di classe. E, cosa ancora più importante, rende anche l’invenzione della fotografia un ineluttabile fenomeno sociale e politico. È un’idea che ben si addice anche all’approccio teoretico di Allan Sekula. Sebbene eviti l’esigenza di definire uno specifico punto di origine (cosa che si sarebbe pericolosamente avvicinata all’essenzialismo che la sua opera dichiara di contestare), Sekula mette costantemente sullo stesso piano la comparsa storica della fotografia con il moderno sviluppo della logica del capitale: «La fotografia nel suo modo normativo di rappresentare il mondo è fondamentalmente legata a un’epistemologia e a un’estetica intrinseche a un sistema di scambio di merci».62 È già possibile notare il verificarsi di una strana congruenza tra queste di34

verse cronache delle origini della fotografia. I formalisti, apparentemente interessati soprattutto all’essenza del fotografico, si ritrovano a gettarne le fondamenta sulla storia (su ciò che resta al di fuori dell’inquadratura fotografica). Nel frattempo, i postmodernisti, apparentemente contrari a qualsivoglia ricerca dell’essenza, cercano di identificare l’epistemologia e l’estetica fotografiche che sono “fondamentali”, “essenziali” e “intrinseche” (e quindi presumibilmente interne a ogni fotografia). Finora il mio racconto risulta molto chiaro. Sebbene sia senza dubbio schematico, rivela comunque la messa in atto di quelle che a prima vista sembrano concezioni diametralmente opposte. Da un lato, c’è chi crede che la fotografia non abbia un’identità specifica perché tutte le identità dipendono dal contesto. Dall’altro, chi identifica la fotografia definendo e isolando le sue caratteristiche fondamentali, qualunque esse siano. Un gruppo vede la fotografia come un fenomeno interamente culturale. L’altro parla in termini di natura intrinseca della fotografia come medium. Un approccio guarda alla fotografia considerandola priva di una sua storia; l’altro fornisce allegramente un contorno storico nel quale si crede che tutte le fotografie occupino già in anticipo un determinato posto. Il primo sottolinea la mutabilità e la contingenza; il secondo punta sui valori eterni. Uno si preoccupa in primis della pratica sociale e della politica, l’altro dell’arte e dell’estetica. Possiamo andare oltre. Le differenze sembrano abbastanza nette.


· Identità ·

Ma lo sono? La differenza tra teorie fotografiche essenzialiste e antiessenzialiste è così marcata come appare? La critica postmoderna dell’essenza, per esempio, è la critica dell’identità “in quanto tale”; in questo caso, una critica della nozione formalista di fotografia come qualcosa di compatto e indifferenziato. Il Postmodernismo vuole dire che la fotografia non è altro che differenza e intende sostituire la sua particolare identità con fotografie multiple. Ma c’è dell’ironia nell’orchestrare questa opposizione logica. Nella critica postmoderna la fotografia ha ancora un’essenza, ma ora si fonda sulla mutabilità della cultura invece che sul suo presunto opposto – una natura immutabile. In altre parole, l’identificazione postmoderna delle fotografie con una sfera di operazioni che è interamente culturale – l’ipotesi che la mutabilità “in quanto tale” possa essere delimitata anche se l’identità “in sé” non può esserlo – è essa stessa un gesto essenzializzante. Perché, in mezzo alla generale critica postmoderna delle strutture binarie, questa divisione tra somiglianza e differenza, natura e cultura, sostanza e apparenza continua a essere essenzializzata? In breve, perché supporre che la natura sia congelata sul posto come l’origine indifferenziata contro cui la cultura può ottenere la sua identità? Si cominciano a vedere già i limiti di questi comuni modi di parlare di fotografia. Nonostante le apparenze, essi condividono la presunzione che, in ultima analisi, l’identità della fotografia possa essere determinata come conseguenza o della natura o della cultura. La distinzione tra queste due entità, più specificamente la politica di mantenimento di tutte queste distinzioni, è lasciata in sospeso. Così l’opposizione tra Postmodernismo e formalismo è binaria (ciascuno dipende dalla definizione di se stesso come non-l’altro, non permettendo a nessuno dei due di intraprendere davvero la logica dell’alterità in sé). Questa struttura oppositiva è poi ripresa nella metodologia che ciascuno applica alla fotografia, un problema sul quale tornerò. Il punto è che il Postmodernismo e il formalismo, almeno nelle loro principali manifestazioni che riguardano la fotografia, rifiutano entrambi di affrontare la complessità storica e ontologica proprio della cosa che dichiarano di analizzare. Questo libro intende riarticolare in qualche modo questa complessità. Seguendo le orme degli studiosi citati in precedenza cercherò l’identità della fotografia nella storia delle sue origini. Se non altro la ripetizione di questo gesto tradizionale mi permette di compiere un’attenta e anche rigorosa analisi delle più fondative tra queste storie della fotografia. Oltre a ciò, un’analisi simile può aiutare a definire le determinazioni proprie della fotografia stessa. L’identità della fotografia dovrebbe essere confinata entro il regno della natura o quello della cultura? O, qualunque cosa considereremo – la teoria fotografica o la storia del medium –, scopriremo che ogni determinata fondazione è

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· Geoffrey Batchen ·

continuamente dislocata da un dinamico e problematico gioco delle differenze? In tal senso, i capitoli che seguono non affrontano solo l’arcana questione dell’identità storica della fotografia, ma anche i problemi della storia e dell’identità in generale e forse anche il problema della questione in sé.

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