Carlo Scarpa. L'arte di esporre

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Nella stessa collana: Frederic Spotts Hitler e il potere dell’estetica Pierre Schneider Louvre, mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo Miriam Bratu Hansen Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno Aldo Grasso – Vincenzo Trione (a cura di) Arte in tv. Forme di divulgazione Lewis Baltz Scritti Arthur C. Danto Che cos’è l’arte Geoffrey Batchen Un desiderio ardente. Alle origini della fotografia Vincenzo Trione (a cura di) Il cinema degli architetti Jean Clair Hybris. La fabbrica del mostro nell’arte moderna Alessandra Pioselli L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi Sally Price I primitivi traditi. L’arte dei “selvaggi” e la presunzione occidentale Gabriele Guercio L’arte non evolve. L’universo immobile di Gino De Dominicis Yann Kerlau Cacciatori d’arte. I mercanti di ieri e di oggi

«Questo prezioso volume invita a comprendere come l’autore di allestimenti tanto audaci sviluppi, in un dialogo serrato con gli artisti e i direttori di museo, un metodo modernista di celebrazione del capolavoro attraverso il suo isolamento dall’ambiente circostante, neutralizzato senza essere negato.» Jean-Marc Poinsot, Critique d’art

Carlo Scarpa. L’arte di esporre

In copertina: gipsoteca canoviana, Possagno. Archivio Carlo Scarpa, Collezione maxxi Architettura, maxxi Museo nazionale delle arti del xxi secolo, Roma.

«Io ho una grande passione per l’opera d’arte. Mi sono sempre curato di conoscere, di sapere, capire e mi pare di avere anche una conoscenza critica notevole […]. Non saprei scrivere, non potrei fare un articolo critico ma sento vivamente questi valori. E allora mi emozionano. Difatti preferisco fare musei piuttosto che grattacieli.»

Philippe Duboÿ

Philippe Duboÿ è architetto, storico dell’arte e professore di Storia dell’architettura e Urbanistica a Parigi. È stato assistente di Carlo Scarpa nel 1976 in occasione del concorso per la trasformazione dell’Hôtel Salé in Musée Picasso, e alla sua morte ne ha gestito gli archivi insieme a Massimo Giacometti. Ha scritto su Jean-Jacques Lequeu, Le Corbusier, Edoardo Detti; ha fondato la collana “Histoires et Théories de l’Architecture” per la casa editrice svizzera Infolio.

Philippe Duboÿ

Carlo Scarpa L’arte di esporre

Isbn 978-88-6010-172-3

I s b n 9 7 8 -

9 788860 101723

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Il nome di Carlo Scarpa (1906-1978) è intrinsecamente legato alla storia dell’arte, al gusto e alla museografia del xx secolo, tanto che negli anni settanta lo storico dell’arte francese André Chastel scriveva: «Molti di coloro che viaggiano in Italia lo conoscono senza saperlo: è il più grande allestitore di mostre d’arte lì e forse in tutta Europa». Ancora oggi occupa un posto d’onore nel pantheon di quanti – nonostante le forti resistenze e il provincialismo diffusi all’epoca – hanno rivoluzionato i musei nel dopoguerra trasformandoli in avamposti dell’avanguardia. Dopo il successo clamoroso dell’impianto concepito per ospitare l’opera di Paul Klee alla Biennale del 1948 se ne succedono molti altri, in rapida sequenza. Le mostre monografiche di Piet Mondrian e di Marcel Duchamp, le collaborazioni con Lucio Fontana e Arturo Martini e gli interventi su numerosi monumenti storici tracciano il percorso di un architetto originale che ha saputo svecchiare il modo di esporre imponendo un modello che, con libertà quasi insolente e incomparabile poesia, si affranca dalla magniloquenza dei luoghi preesistenti favorendo uno stile spoglio e leggero. La sua carriera abbonda di leggendarie soluzioni trovate in situ, sempre nell’urgenza e nonostante una grande parsimonia di mezzi, in simbiosi con la maestria degli artigiani che lo circondano. Come orientarsi fra la moltitudine di mostre e di musei di cui Carlo Scarpa è, in toto o in parte, l’autore? Philippe Duboÿ, che ha collaborato con lui e ha avuto accesso ai numerosi archivi, è la guida ideale per introdurci alla comprensione delle piante, dei rilievi, degli schizzi, delle fotografie che arricchiscono il dossier di ogni opera scarpiana. Per questa promenade architecturale, pensata secondo il principio del sincronismo tra immagine e parola caro a Le Corbusier, ha raccolto anche i rari testi autografi di Carlo Scarpa. L’autore ci svela così personale dialogo che questa grande figura della cultura europea ha intrattenuto con l’opera d’arte.

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Saggi d’arte 19


© 2016 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Linda Cazzaniga Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di gennaio 2016 isbn 978-88-6010-172-3 Edizione originale © 2014 Association des Amis de La maison rouge, La maison rouge et jrp | Ringier Kunstverlag ag, con prefazione di Patricia Falguières. Titolo originale: Carlo Scarpa. L’Art d’exposer A pagina 6: Carlo Scarpa e la statua di santa Cecilia, Museo di Castelvecchio, Verona. Per i crediti delle immagini si veda l’apposita sezione. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile contattare. Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.


Philippe Duboÿ

Carlo Scarpa L’arte di esporre Prefazione di Patricia Falguières Traduzione di Rossella Rizzo



Ad Afra Sono morto e freddo. Ma i tuoi miraggi non sono inutili ai cadaveri; ti prego di lasciarne una buona scorta vicino alla mia tomba, a disposizione della mia voce. Ce ne sia di ogni tipo: di ogni ora, di ogni stagione, di ogni colore e grandezza. […] Addio! Divertiti, e diffondi la mia fama. […] Diffondi la mia fama, perché sai che sono stato un incantatore profetico. Ci vorrà parecchio tempo perché la terra produca degli incantatori, ma i tempi degli incantatori torneranno. Guillaume Apollinaire, L’Enchanteur pourrissant, 1909



Sommario

Nota dell’autore

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Prefazione di Patricia Falguières

L’arte della mostra. Per un’altra genealogia del white cube

15

Note

45

Introduzione

Il gioco sapiente, rigoroso e magnifico delle forme assemblate nella luce (mediterranea) Note

53 77

Antologia ed espografia

1.

La polemica sull’architettura. Adesioni al movimento razionalista – 1931

83

2.

La Galleria del Cavallino, Venezia – 1942-1947

86

3.

La mostra di Arturo Martini, xxiii Biennale di Venezia – 1942

93

4.

La nuova sistemazione delle Gallerie dell’Accademia, Venezia – 1941-1947

5. La xxiv Biennale di Venezia – 1948 6. 7. 8. 9.

99 103

La mostra di Giovanni Bellini, Palazzo Ducale, Venezia – 1949

123

La seconda Galleria del Cavallino, Venezia – 1949-1960

131

La mostra di Piet Mondrian, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma, e Palazzo Reale, Milano – 1956-1957

134

La mostra di Alberto Viani, xxix Biennale di Venezia – 1958

145

10. La mostra “Vitalità nell’Arte”, Centro internazionale delle arti e del costume, Palazzo Grassi, Venezia – 1959

153

11. La mostra “Marcel Duchamp Ready-made”, inaugurazione degli uffici Gavina, Roma – 1965

165


12. La mostra “Concetto spaziale. Attese” di Lucio Fontana, xxxiii Biennale di Venezia – 1966 13. Un’ora con Carlo Scarpa – 1972 14. Aula magna, Istituto universitario di architettura di Venezia – 1975

175 181 203

15. Progetto per il Musée Picasso nell’Hôtel Aubert de Fontenay, detto Hôtel Salé, Parigi – 1976 16. L’architettura può essere poesia? – 1976 Note

209 215 220

Epilogo

Gabriel Orozco, Biennale di Venezia – 2003

233

Note

235

Apparati

Biografia

239

Museografia

246

Bibliografia ed espografia scarpiana di Philippe Duboÿ

250

Ringraziamenti

253

Crediti delle immagini

255

Indice dei nomi

257


Nota dell’autore

Con questo libro ci si propone di privilegiare le esperienze di Carlo Scarpa museografo nel campo dell’arte moderna e delle esposizioni temporanee. Gli scritti di Scarpa sono rari, per non dire inesistenti. Uniche testimonianze del suo lavoro: le ultime lezioni allo iuav di Venezia, un numero esiguo di trascrizioni di conferenze, qualche intervista registrata e una trasmissione televisiva prodotta dalla rai nel 1972, Un’ora con Carlo Scarpa, ricca di discorsi e documenti. Indipendentemente dal fatto che si trattasse di mostre o di musei, si è deciso di dare la priorità al punto di vista dei curatori, degli storici dell’arte e degli artisti che hanno lavorato con Scarpa o l’hanno visto lavorare, o che hanno scritto delle recensioni di quelle mostre, fornendo dunque una documentazione di prima mano. Questa antologia è guidata dal principio caro a Le Corbusier del sincronismo tra immagine e parola: «Il lettore immagini d’essere in una sala conferenze. […] È notte; sullo schermo scorrono le immagini; appaiono con precisione al momento giusto; il conferenziere sviluppa la sua tesi; quest’ultima si collega alle immagini. Grazie all’impostazione grafica del libro, il lettore si troverà nella situazione dell’ascoltatore per il quale questa conferenza è stata immaginata» (Le Corbusier, Une maison, un palais, G. Crès, Paris 1928, p. 1). Per l’iconografia, si sono privilegiati i disegni di Carlo Scarpa, provenienti dagli Archivi Carlo Scarpa (maxxi – Collezione Architettura, Roma; Archivio di Stato, Treviso), dal Museo di Castelvecchio (Verona), dal Centro internazionale di studi di architettura/cisa Andrea Palladio (Vicenza), dagli Archivi Dino Gavina (Bologna), dagli Archivi del Cavallino (Venezia), dal Musée Picasso (Parigi), dallo Stedelijk Museum (Amsterdam), da archivi privati e dagli archivi personali di Tobia Scarpa (Mogliano Veneto), dove abbiamo potuto consultare la biblioteca di Carlo Scarpa. Per tutta la documentazione fotografica si rimanda alla sezione dei crediti delle immagini. Si ringrazia Gabriel Orozco per l’autorizzazione a riprodurre la fotografia dell’opera Shade Between Rings of Air esposta alla Biennale di Venezia nel 2003. Febbraio 2011

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Margherita di Brabante (1313 ca.) di Giovanni Pisano sul suo supporto telescopico, Palazzo Bianco, Genova; architetto: Franco Albini, 1949.


PREFAZIONE di Patricia Falguières


La Pinacoteca dell’Accademia di Brera, Milano, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, 1945 ca.


L’arte della mostra. Per un’altra genealogia del white cube

Italia anno zero È difficile oggi immaginare l’ampiezza delle distruzioni che, alla fine della Seconda guerra mondiale, colpirono l’Italia e i suoi musei. L’occupazione nazista e i bombardamenti alleati distrussero una parte considerevole del paesaggio monumentale italiano – pensiamo all’abbazia di Montecassino o al Camposanto di Pisa –, senza risparmiare i musei. A Milano, per esempio, i bombardamenti del 1943 rasero quasi al suolo la Pinacoteca di Brera, colpendo duramente, al punto da renderli inutilizzabili, quasi tutti gli altri musei della città: il Castello Sforzesco, l’Ambrosiana, la Galleria d’arte moderna di Palazzo Reale. Ma le rovine del 1945 non furono soltanto materiali. Era con il ventennio fascista che bisognava rompere per costruire finalmente la cultura e le istituzioni dell’Italia democratica.1 Era questa la doppia sfida di ciò che potremmo definire “la rivoluzione dell’arte di esporre” nell’Italia degli anni cinquanta. L’esposizione era investita di sfide etiche e politiche, e assunse un ruolo di assoluto rilievo nei più accesi dibattiti pubblici. Mobilitò artisti, architetti, critici, storici, conservatori e direttori di museo, la stampa, i politici e, in generale, l’opinione pubblica. Suscitò alcune delle elaborazioni architettoniche e critiche più innovative e sofisticate del xx secolo. All’avanguardia di un mondo intellettuale in ebollizione, insieme agli architetti e ai teorici dell’architettura, c’erano le riviste, che la generazione precedente, quella di Edoardo Persico e di Giuseppe Pagano, aveva reso la punta di diamante del razionalismo moderno. A quelle storiche, come Domus o Casabella, si aggiungono negli anni cinquanta Metron, Nuova città, Spazio, Sele-Arte, Zodiac, Civiltà delle macchine ecc.: una miriade di pubblicazioni animate o dirette da architetti e critici di alta levatura come Ernesto Nathan Rogers, al tempo stesso membro del gruppo milanese bbpr e caporedattore di Casabella-Continuità. Le grandi riviste generaliste, quali Comunità, ideata dall’industriale Adriano Olivetti, uno dei principali promotori dell’architettura moderna in Italia,2 o Marcatrè, la rivista genovese delle avanguardie, offrono agli architetti regolari

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· Patricia Falguières ·

tribune. Bruno Zevi crea da solo Metron e, in seguito, L’architettura. Cronache e storia, oltre a pubblicare regolarmente in quotidiani e settimanali della stampa nazionale un’analisi sugli eventi di rilievo dell’architettura dell’epoca, in Italia e nel mondo. A conferire ai dibattiti un’intensità particolare è il fatto che l’architettura italiana riannoda ufficialmente i rapporti con la modernità esattamente nel momento in cui quest’ultima viene messa profondamente in discussione “dall’interno”: gli anni cinquanta revisionano il funzionalismo dei pionieri, come testimoniano le proposte di Alvar Aalto, di Jørn Utzon, di Louis Kahn, o lo straordinario rinnovato favore di cui gode all’epoca in Europa Frank Lloyd Wright. Carlo Scarpa, come Ignazio Gardella o i milanesi del gruppo bbpr, ben dimostra in Italia la forza d’attrazione di questo revisionismo illuminato. Mondrian, Le Corbusier, il razionalismo esemplare del Bauhaus, l’architettura organica di Wright: sono tutti presenti nella biblioteca di Scarpa. Vi ritroviamo anche i libri pubblicati allora da Giulio Carlo Argan e Bruno Zevi, che configurano il dibattito critico del decennio: nel 1945, Verso un’architettura organica (Zevi); nel 1948, Saper vedere l’architettura, e successivamente, nel 1950, Storia dell’architettura moderna (Zevi); nel 1951, Walter Gropius e la Bauhaus (Argan); nel 1953, Poetica dell’architettura neoplastica (Zevi). È comprensibile che in un paese in cui la figura dell’architetto gode, sin dal Rinascimento, di un prestigio ineguaglia16

to, in cui il gesto architettonico è riconosciuto in tutta la sua portata antropologica e culturale, abbondino polemiche e pubblicazioni. Esse scandiscono passo dopo passo le innovazioni museologiche che segnano il dopoguerra. L’architettura è la strada per eccellenza di un progetto su cui tutti concordano: l’educazione attraverso l’arte. Convergono qui i fondamenti dottrinali della resistenza al fascismo in ogni sua variante (lo storicismo radicale di Benedetto Croce, il complesso materialismo di Antonio Gramsci), insieme agli aggiornamenti che la fine del ventennio rende possibili. Nel 1951 lo storico dell’arte Corrado Maltese traduce Art as Experience (1934) di John Dewey; nel 1954 è la volta di Education through Art (1941) di Herbert Read, tradotto da Argan in persona per le Edizioni di Comunità. Nel 1949, sulla rivista Comunità, un articolo di Giulio Carlo Argan intitolato “Il museo come scuola” saluta Art as Experience come «la prima grande costruzione teorica dell’arte come esperienza in atto e, per conseguenza, come educazione».3 Si delinea il museo, un museo attivo, ricco di una vita di studio e di ricerca, di cui l’accrescimento meditato delle collezioni sarà il riflesso, come luogo privilegiato di ciò che egli definisce l’«educazione alle forme» che è la condizione di una vita politica: «Soltanto l’educazione formale fornita dall’arte ci dà l’attitudine a situare gli atti della vita quotidiana in un tempo e in uno spazio definiti, cioè a prendere coscienza del mondo in cui operiamo». La conclusione possiede il rigore di un sillogismo: «Se l’arte è educazione, il museo


· Prefazione ·

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In alto, a sinistra: supporto metallico per grande specchio barocco, Palazzo Rosso, Genova; architetto: Franco Albini (realizzazione: 1952-1962). A destra: sala dei Maestri fiamminghi, Palazzo Bianco, Genova; allestimento: Caterina Marcenaro; architetto: Franco Albini (realizzazione: 1949-1951). In basso: sala Giotto, Uffizi, Firenze; architetti: Ignazio Gardella, Giovanni Michelucci e Carlo Scarpa (realizzazione: 1953-1956).


· Patricia Falguières ·

deve essere scuola». Sono dunque invocati John Ruskin e William Morris (nessuna pratica artistica può ignorare il campo della produzione in generale in cui essa si inscrive e prende senso), e l’articolo si conclude con un’indicazione inattesa del percorso a cui il museo è destinato: «Un programma completo di educazione alle forme che è stato tracciato nell’altro dopoguerra da Gropius e attuato nella Bauhaus di Weimar e Dessau». Con ogni probabilità le riflessioni italiane si inscrivono in quel movimento internazionale che, avviato negli anni trenta dalla Società delle Nazioni, porta nel 1947 alla creazione, sotto l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, del Consiglio internazionale dei musei, l’icom. E, di fatto, Argan diverrà per Museum, la rivista dell’icom, il cronista dei cambiamenti conosciuti allora dai musei italiani, di cui analizzerà le trasformazioni materiali e le politiche educative.4 Ma la situazione in Italia manifesta numerose peculiarità. Innanzitutto, una nuova generazione di soprintendenti e direttori di museo prende il posto di chi si è distinto per essersi troppo compromesso con il fascismo o di quanti, al contrario, sono stati definitivamente allontanati dal regime. Fernanda Wittgens e Costantino Baroni a Milano, Cesare Gnudi a Bologna, Mario Salmi a Firenze, Caterina Marcenaro a Genova, Palma Bucarelli 18

a Roma, Licisco Magagnato a Verona: una nuova generazione di intellettuali, uomini e donne, è a capo dei musei; alcuni hanno avuto un ruolo nella Resistenza. Il più delle volte sono anche rinomati storici e storiche dell’arte, che partecipano allo sviluppo della loro disciplina. Godono di un’autonomia ai nostri giorni inimmaginabile: in virtù del valore accordato alla loro competenza e al loro prestigio intellettuale possono imporre scelte d’avanguardia sia alla soprintendenza che ad amministrazioni comunali paralizzate dal conservatorismo provinciale. Gli episodi più eclatanti della rivoluzione museale degli anni cinquanta sono dovuti a queste alleanze tra soprintendenti e architetti, di cui Caterina Marcenaro e Franco Albini a Genova, Costantino Baroni e bbpr a Milano, Licisco Magagnato e Carlo Scarpa a Verona hanno definito il modello. L’impegno etico e lo spessore di tali figure istituzionali si possono misurare ricordando le parole che Fernanda Wittgens (1903-1957), resistente antifascista, inviò a sua madre nel 1941 dalla prigione: Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa una belva, chi ha il compito di difendere gli ideali? Sono i cosiddetti “intellettuali”. Sarebbe troppo bello essere “intellettuali” in tempi pacifici e diventare codardi quando c’è pericolo.5

Il fatto che nel 1953 Fernanda Wittgens, soprintendente ai musei della Lombardia, superando ogni ostacolo, sia riuscita a imporre alla città di Milano


· Prefazione ·

l’esposizione di Guernica tra le rovine della sala delle Cariatidi di Palazzo Reale bombardato, acquista dunque il suo pieno significato.6 Il ritorno delle grandi figure dell’emigrazione antifascista – Lionello Venturi, lo storico di Cézanne e degli impressionisti, rifugiatosi a Parigi e poi a Baltimora, o il giovane Bruno Zevi, che con il suo bagaglio di studente a Harvard portava a casa una conoscenza profonda delle opere di Walter Gropius e di Frank Lloyd Wright – rende ancor più significativo tale processo di aggiornamento.7 Ma in questa vasta impresa collettiva di rinnovamento della cultura italiana del postfascismo, la Biennale di Venezia è uno straordinario atout. Ogni due anni l’Italia deve presentarsi al mondo. Ogni due anni può fare un bilancio della cultura mondiale. Il suo comitato organizzatore riunisce esperti che non sono amministratori ma autori: artisti, nonché il gotha degli storici dell’arte e dei direttori dei musei d’Italia e d’Europa. Al di là delle tensioni polemiche che ne animano la cronaca, è sorprendente constatare sino a che punto sia concertato il programma delle prime biennali del dopoguerra, quelle di cui è segretario (dal 1948 al 1956) lo storico dell’arte veneziano Rodolfo Pallucchini. Ogni biennale deve presentare, oltre ai padiglioni nazionali (a carico delle rispettive istituzioni politiche), una o più retrospettive destinate a “sprovincializzare” la cultura figurativa italiana e a permetterle di riannodare i fili di una storia dell’arte moderna che i suoi studiosi (tra cui Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan) stanno scrivendo. Questo progetto “pedagogico”, animatamente discusso da artisti, critici e storici, fa di ogni mostra un avvenimento e una scelta strategica, che si tratti delle grandi retrospettive degli artisti francesi del xix secolo nell’ala napoleonica delle Procuratie Nuove, a piazza San Marco, sotto la guida di Roberto Longhi (l’Impressionismo francese nel 1948, i fauves nel 1950, Corot nel 1952, Courbet nel 1954, Delacroix nel 1956) o, per la Biennale del 1948, della prima presentazione in Italia delle opere di Picasso (su proposta di Renato Guttuso) e di Klee (su proposta di Felice Casorati) e, con la mediazione di Giulio Carlo Argan, dell’esposizione nel padiglione greco dei Giardini della collezione Peggy Guggenheim, una vera e propria rapida “panoramica” sulla storia delle avanguardie del xx secolo. A partire dal 1948, dalla Biennale della “resurrezione dell’Italia”, quella che consacra con il suo gran premio Georges Braque, Carlo Scarpa è al centro di questo programma di aggiornamento che carica ogni mostra di sfide culturali e politiche cruciali.

Baracche intelligenti Un’altra peculiarità spiega la rivoluzione museale che contraddistingue il dopoguerra: riguarda le condizioni d’esercizio della professione di architetto nell’Italia degli anni trenta. Durante il ventennio fascista gli architetti italiani acquisiscono una straordinaria esperienza in campo espositivo. Non si

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· Patricia Falguières ·

tratta di mostre d’arte (che generalmente fanno a meno del loro intervento), ma di due tipi di eventi – spesso coincidenti – che richiedono le loro competenze: le esposizioni della Triennale di Milano e delle fiere di Milano e di Bari; e le grandi mostre di propaganda con cui il regime vuole celebrare le sue ambizioni e i suoi trionfi. Paradossalmente, è attraverso il canale di questi esercizi di alta retorica architettonica che gli architetti italiani riescono a mantenere un contatto con le coeve avanguardie europee. Di fatto, è in occasione di “Mostra della Rivoluzione fascista” (1932), “Esposizione dell’Aeronautica italiana” (1933), “Mostra dello sport” (1935), “Mostra augustea della romanità” (1937), “Mostra autarchica del minerale italiano” (1939) e “Leonardo e la superiorità del genio italico” (1939) che essi possono mettere a frutto le innovazioni di Max Bill e Herbert Bayer, di El Lissitzky, dei costruttivisti russi e olandesi e del Bauhaus in materia di fotomontaggio, di combinazione di fotografia e arte tipografica, di scultura e di ogni sorta di illuminotecnica, rifacendosi spesso all’inventiva della loro giovinezza futurista, o come per Luciano Baldessari, discepolo di Fortunato Depero e in seguito scenografo di Piscator e Max Reinhardt a Berlino, alla loro familiarità con il teatro d’avanguardia degli anni venti.8 Il fragile traliccio di legno bianco della sala delle Medaglie d’oro, concepito da Nizzoli e Persico per l’“Esposizione dell’Aeronautica italiana” in oc20

casione della quinta Triennale di Milano nel 1933, o la “sala della Vittoria” di Nizzoli, Palanti e Persico alla sesta Triennale di Milano nel 1936 costituiscono altrettanti manifesti antiaccademici. Erberto Carboni, Marcello Nizzoli, Franco Albini, Luciano Baldessari, Edoardo Persico, Giuseppe Pagano hanno immaginato alcuni degli allestimenti più inventivi e spettacolari del xx secolo.9 Ma queste “parate industriali” non offrivano soltanto uno sbocco all’esercizio della loro professione: tali displays di stupefacente audacia, destinati a convincere il regime delle virtù dell’architettura razionalista moderna, andavano oltre le richieste ufficiali denunciandone il pomposo monumentalismo.10 Nella primavera del 1941, il numero 159-160 di Costruzioni-Casabella intitolato “Architettura delle mostre” traccia il panorama di questa serie di esposizioni trionfali (ottanta pagine per quindici anni di mostre). Giuseppe Pagano, il caporedattore, invia dal fronte greco un editoriale: “Parliamo un po’ di esposizioni”. Vi formula il sogno modernista e lo associa all’esposizione industriale e di propaganda, un genere nuovo che ormai, dopo una lunga supremazia scandinava e tedesca, sembra divenuto una produzione specificamente italiana. È una professione di fede (l’architetto, soppiantando il committente e lo storico dell’arte, sarà l’unico demiurgo di quest’arte nuova, l’uomo del “progetto totale” infine realizzato) e un programma: ciò che i profani scambiano per futili esercizi modernisti sono occasioni uniche di sperimentazione, liberate dalle ordinarie restrizioni economiche in fatto di materiali, dispositivi e


· Prefazione ·

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In alto: “Esposizione dell’Aeronautica italiana”, v Triennale di Milano, 1933. La sala delle Medaglie d’oro (a sinistra); architetti: Marcello Nizzoli e Edoardo Persico, e la sala dell’Aerodinamica (a destra); architetto: Franco Albini. In basso: “Mostra internazionale della produzione in serie”, vii Triennale di Milano, 1940; architetto: Giuseppe Pagano.


· Patricia Falguières ·

soluzioni spaziali. Sono anche formidabili strumenti pedagogici per educare i committenti, i critici e il pubblico – per quanto reticenti, conservatori o reazionari – alle forme e alle sfide dell’architettura moderna. «Da queste intelligenti baracche» conclude Pagano «il pubblico italiano ebbe modo di conoscere i primi passi dell’architettura moderna.»11 Si può constatare in effetti che, al di là della cesura della guerra, non vi è interruzione tra le ardite sperimentazioni dei padiglioni e degli stand degli anni trenta e le audacie architettoniche con cui, durante gli anni cinquanta, ogni Triennale e Fiera di Milano, ogni Fiera del Levante di Bari incantano il pubblico del dopoguerra. Ne è testimonianza lo stupefacente scalone d’onore della Triennale del 1951, concepito da Luciano Baldessari e illuminato da un arabesco di tubi al neon (Struttura al neon per la ix Triennale di Milano) di Lucio Fontana. Vi scopriamo anche, nello stesso anno, il padiglione degli Stati Uniti progettato dai bbpr, il salone d’onore di Figini e Caccia Dominioni, il padiglione dell’Industria vetraria di Sottsass padre ecc. Sempre nel 1951, alla Fiera di Milano, Baldessari immagina un’autentica promenade architecturale et métallurgique: un gigantesco condotto metallico che, letteralmente, “risucchia” un pubblico sbalordito.12 I padiglioni Breda e Sidercomit di Baldessari, gli stand Montecatini di Franco Albini, i padiglioni dell’eni di Leonardo Sinisgalli so22

no dei punti di riferimento per l’architettura delle esposizioni industriali degli anni cinquanta, come lo saranno negli anni sessanta quelli dei fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni per la rai. Prende consistenza in Italia una cultura della mostra divenuta disciplina a sé stante. Tale cultura verifica ed esplora la convergenza di architettura, design e grafica: fa suo quel rapporto con la produzione industriale in cui Giulio Carlo Argan identificava il futuro di un’arte liberata dal peso della tradizione delle Belle Arti del xix secolo.13 La mostra concretizza inoltre il programma di modernizzazione della cultura di cui l’architettura intende farsi portatrice. Imparare a sottrarre l’oggetto alla serialità a cui appartiene, dotarlo di un’individualità a partire dalle sue qualità formali, condurre il pubblico attraverso un percorso meditato, teatralizzare l’incontro dell’oggetto con il pubblico: sono questi, sino a un certo punto, princìpi comuni a ogni tipo di esposizione. Negli anni sessanta i fratelli Castiglioni faranno riferimento a Luciano Damiani, lo scenografo del Piccolo Teatro di Milano. Nel 1951, mentre è ancora impegnato alla Triennale, Baldessari allestisce sempre a Milano, a Palazzo Reale, la mostra dedicata a van Gogh, rivendicando la sua esperienza di uomo di teatro. Spiega: Le mie esposizioni, come le mie architetture pubblicitarie, sono visioni fugaci – epperò l’opera mia segnò grande apporto alla museografia – gioco di colori/fondali/luci indirette nascoste creanti luce diffusa costante – apertura del-


· Prefazione · Padiglione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, veduta esterna e interna, Fiera del Levante, Bari, 1934; architetto: Franco Albini.

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· Patricia Falguières ·

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Mostra di Pablo Picasso, sala delle Cariatidi, Palazzo Reale, Milano, 1953; allestimento: Gian Carlo Menichetti e Attilio Rossi.


· Prefazione ·

le pareti ad angolo ottuso. […] L’oggetto è più importante della messa in scena, dalla quale deve essere esaltato e non sopraffatto; il visitatore viene guidato dall’ordinamento planimetrico e la visione degli oggetti è favorita – qui per la prima volta – dall’apertura degli angoli.14

Franco Albini offre una versione più sottile di quest’affinità tra il teatro e la mostra, limitandone anche la portata. La mostra è […] per sua natura temporanea. La sua breve durata ne condiziona il carattere e la differenzia nettamente dal museo. […] La mostra ha affinità con lo spettacolo, anche in questo linguaggio visuale; e come lo spettacolo necessita di un tema chiaro, definito, conchiuso, e di un ordinamento che ne proporzioni le parti, le congegni e le concluda, come la regia fa con le azioni di una commedia.15

Di fatto, l’insegnamento principale della cultura espositiva consiste forse nella rapidità: l’architetto deve agire velocemente, e in uno specifico contesto. Tale urgenza è il “momento della verità” del progetto architettonico. Baldessari progetta e allestisce in diciotto giorni l’esposizione di van Gogh; Carlo Scarpa progetta e allestisce in meno di tre settimane la mostra di Paul Klee alla Biennale del 1948. Gli ci vuole una notte, nell’inverno del 1973, per allestire a Milano l’esposizione postuma di un amico, il pittore Tancredi, e la sua biografia abbonda di testimonianze di soluzioni leggendarie trovate in situ, nell’urgenza, nonostante (o grazie a?) una grande parsimonia di mezzi, in stretta simbiosi con la maestria degli artigiani che lo circondano.16 Ma il paradigma teatrale ha i suoi limiti. Gli organizzatori delle grandi esposizioni d’arte degli anni cinquanta ne hanno tratto il senso del “colpo di scena”: Guernica tra le rovine spettacolari delle Cariatidi di Palazzo Reale è, nello spirito di Fernanda Wittgens, di Attilio Rossi, il pittore, e di Giancarlo Menichetti, l’architetto, un momento catartico per la Milano del dopoguerra. La sala delle Cariatidi costituirà, negli anni che seguiranno (e sino agli anni ottanta), il clou di ogni esposizione d’arte, moderna o antica, nel palazzo neoclassico. A Palazzo Abatellis, a Palermo, l’improvvisa apparizione del Trionfo della Morte è predisposta da Carlo Scarpa con una incomparabile sapienza della rivelazione tragica, allo stesso modo in cui l’epifania della statua di Cangrande della Scala sul suo cavallo incanta il visitatore di Castelvecchio a Verona. Il registro della sorpresa e della meraviglia, lungamente elaborato da poeti, pittori, architetti e filosofi italiani a partire dal Rinascimento, non è certo estraneo a quanti rinnovano il museo e le esposizioni nell’Italia degli anni cinquanta. Ma a fare la forza e la bellezza delle loro proposte è anche la resistenza al modello teatrale. Se infatti Luciano Baldessari riuscì a concepire

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e allestire in diciotto giorni la mostra di van Gogh, il suo confronto serrato con Abraham Hammacher, lo storico dell’arte olandese, e Gian Alberto Dell’Acqua, il nuovo soprintendente ai musei della Lombardia, rivela che l’esposizione di opere d’arte è altra cosa rispetto alla valorizzazione di macchine da scrivere o di trivellazioni petrolifere. Occuparsi dell’allestimento di un museo non era, per gli architetti, una faccenda da poco.

I musei, avamposti dell’avanguardia Nel 1944 Carlo Scarpa è incaricato della ristrutturazione delle sale delle Gallerie dell’Accademia a Venezia, cantiere che lo impegnerà sino al 1960. È una svolta nella storia della museografia: il museo diviene, in Italia, un terreno privilegiato del progetto architettonico. La sala dei Primitivi degli Uffizi a Firenze, Castelvecchio a Verona, Palazzo Bianco e Palazzo Rosso a Genova, il Museo Correr e Palazzo Querini Stampalia a Venezia, il Castello Sforzesco a Milano, il convento di San Matteo a Pisa, Palazzo Abatellis a Palermo, la gipsoteca di Possagno e tanti altri musei meno celebri disseminati in Italia testimoniano ancora oggi la forza e la pertinenza dei progetti che un manipolo di architetti, soprintendenti e storici dell’arte seppe realizzare negli anni cinquanta.17 26

Al di là degli edifici stessi, si tratta di un insieme di pratiche di allestimento e di concezione degli spazi espositivi che i modelli italiani hanno diffuso in tutta Europa. I successi di questo decennio prodigioso non devono tuttavia nascondere l’entità delle resistenze incontrate. Nulla andava da sé: la ferocia delle campagne di stampa, la virulenza delle polemiche e l’accanimento burocratico sono testimonianza delle molteplici reticenze che un’Italia irrigidita nel provincialismo e ancora assillata dalle magniloquenze del passato opponeva a questa rivoluzione museale: dopo il 1945, i musei – sia i musei di arte medievale e rinascimentale sia quelli di archeologia e di arte moderna – erano di fatto, in quelle città sedimentate di storia, gli avamposti dell’avanguardia.

Folle da giubileo Con grande fretta furono organizzate, a guerra non ancora o appena conclusa, una serie di grandi mostre destinate a porre in primo piano, tra gli obiettivi istituzionali e politici del dopoguerra, le sfide della cultura. Già nel 1945 a Venezia, nell’ala napoleonica delle Procuratie Nuove in piazza San Marco, si apre “Cinque secoli di pittura veneta”, una formidabile retrospettiva voluta da Roberto Longhi e Rodolfo Pallucchini. Questa mostra inaugura una serie di esposizioni che segneranno la storia dell’arte, istituendo un nuovo rapporto del pubblico con l’arte e la sua storia, trasformando gli ambiti e il senso dell’“esporre” e, last but not least, introducendo gli architetti nei musei. Un mo-


· Prefazione ·

mento cruciale: nel 1949, da giugno a ottobre, la mostra consacrata a Giovanni Bellini a Palazzo Ducale a Venezia. È una prima in tutti i sensi: i musei americani ed europei, interrompendo il boicottaggio con cui avevano colpito i musei italiani, prestano alcune opere; l’esposizione si tiene in un luogo inedito, nel cuore del patrimonio civico, a Palazzo Ducale; infine l’architetto, Carlo Scarpa, vi ostenta un’insolente libertà affrancandosi da ogni magniloquenza del luogo con un tatto e un’abilità senza pari. La scelta di Scarpa da parte dei responsabili della mostra è suggerita dal successo del dispositivo realizzato per ospitare l’opera di Paul Klee alla Biennale del 1948. Scarpa trasferisce in un monumento del patrimonio italiano la scienza e la poesia dell’allestimento creato alla Biennale di Venezia per l’arte contemporanea. S’impone dunque un modello per le esposizioni. Occorre attirare un pubblico nuovo, ben oltre i circoli ristretti della cultura e dello spettatore istruito, con mostre di grande respiro, che restituiscano all’idea di patrimonio civico il suo significato. Le esposizioni monografiche celebrano un eroe della storia dell’arte locale, quelle collettive ritessono la trama di una storia regionale lacerata dal ventennio fascista, ma tutte si prefiggono l’educazione del pubblico al “saper vedere” e coincidono con progressi decisivi nel campo della storia dell’arte. Nel 1951 a Milano, la “Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi”, ideata da Roberto Longhi e Fernanda Wittgens, attira una “folla da giubileo”: più di quattrocentomila visitatori in due mesi e mezzo, che impongono l’apertura dell’esposizione dalle nove del mattino a mezzanotte ed esauriscono le numerose edizioni del catalogo, garantendo il trionfo della «presentazione severa e degna dell’attività pittorica di un maestro di cui si riconosce oggi il ruolo decisivo nell’instaurazione del concetto moderno dell’arte» (Fernanda Wittgens). La resurrezione di Caravaggio era la resurrezione della cultura a Milano. Si potrebbe dire altrettanto di tutte le grandi mostre del dopoguerra: nel 1948 Giuseppe Maria Crespi a Bologna e Alessandro Magnasco a Genova; nel 1949 il Sodoma a Vercelli e Giovanni Bellini a Venezia; nel 1953 Antonello da Messina a Messina e “I pittori della realtà in Lombardia” a Milano. Tutte queste mostre sono altrettante date nella storia della storia dell’arte: la ricerca qui va di pari passo con i progetti espositivi, ed è in occasione di questi eventi, nei loro cataloghi, che vengono pubblicati alcuni dei testi fondamentali della disciplina nel xx secolo.18 Sono inoltre, in termini di pubblico, successi di dimensioni allora inedite, e sortiscono l’effetto di introdurre durevolmente gli architetti nei musei: l’ottima riuscita della mostra “Antonello da Messina e la pittura del ’400 in Sicilia” (1953) vale a Carlo Scarpa l’incarico del restauro di Palazzo Abatellis a Palermo, mentre l’allestimento della retrospettiva di arte medievale “Da Altichiero a Pisanello” (1958) è la prima tappa della ristrutturazione completa del Museo di Castelvecchio a Verona, che accoglie la mostra.19

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Il progetto di ricostruzione della cultura italiana converge ormai con il programma modernizzatore degli architetti. Si stringe un’alleanza inattesa tra conservatori di musei, storici e avanguardia architettonica.

Arredamenti e allestimenti La situazione dei musei italiani dell’epoca è molto complessa. Sono ospitati in palazzi, fortezze o conventi, spesso di antichissima memoria. Agli architetti chiamati a rimettere in piedi il sistema museale non si richiede quindi di costruire edifici ex novo ma di lavorare all’interno di quanto è già costruito.20 Si tratta di ripensare gli spazi di un palazzo (o un convento) per farne un museo moderno. Alla fine della guerra si decide di restaurare il tessuto urbano ricostruendo in situ gli edifici danneggiati dai bombardamenti – il convento di San Matteo a Pisa, il Castello dell’Aquila, Palazzo Bianco a Genova o Castelvecchio a Verona – per restituire loro la funzione museale che già ricoprivano prima della guerra. Questa ricostruzione rende possibile la riconfigurazione degli allestimenti. I musei italiani, autentici “granai civici”, si erano più o meno sottratti alle innovazioni museali degli anni trenta. Raramente una galleria del xvii o del xviii secolo aveva conosciuto un inizio di adeguamento alle norme interna28

zionali o aveva cominciato a esplorare soluzioni inedite (è il caso della Galleria Sabauda a Torino),21 queste istituzioni restavano complessivamente tesori civici e monumenti della memoria collettiva caratterizzati dall’accumulo e dalla penombra. Lo storicismo del periodo tra le due guerre aveva prodotto pesanti “decori in stile”, di cui offriva un caso esemplare Castelvecchio a Verona. La competenza degli architetti è dunque sollecitata in una prospettiva molto particolare: la ristrutturazione dei musei è un caso di “architettura d’interni”. È quanto non esiterà ad affermare nel 1957 la Guida breve alla sezione di museologia della xi Triennale di Milano.22 Che l’architettura d’interni sia a pieno titolo architettura è ciò che gli architetti – teorici e professionisti della disciplina – avevano stabilito sin dagli anni trenta, sulla scorta di Edoardo Persico:23 arredamenti e allestimenti si offrono come momenti di sperimentazione e di messa a punto del linguaggio architettonico, dei materiali e delle tecnologie. Sono esercizi di composizione in cui trova compimento la vocazione dell’architetto al progetto totale, “dal cucchiaino alla città”.24 Nell’immediato dopoguerra, l’architettura d’interni è investita di un’ambizione ancora maggiore, e il suo sviluppo accompagna la nascita e l’affermazione del design italiano. È una disciplina di raccordo e verifica tra l’urbanistica (la città, il suo spazio eterno e stratificato) e l’effimero dei modi di vita (il design): ridà senso al costruito, addomestica l’eredità del passato e la rende contemporanea.25 Giulio Carlo Argan spinge alle estreme conseguenze quest’ac-


· Prefazione ·

A sinistra: “Mostra di Scipione e di disegni contemporanei”, Pinacoteca di Brera, Milano, 1941; architetto: Franco Albini. A destra: supporto metallico manovrabile per quadro, Palazzo Rosso, Genova; architetto: Franco Albini (realizzazione: 1952-1962).

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A sinistra: “Architettura, misura dell’uomo”, ix Triennale di Milano, 1951; concept: Ernesto Nathan Rogers, allestimento: Ernesto Nathan Rogers, Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino. A destra: “Mostra di libri, incisioni e disegni sulla proporzione”, ix Triennale di Milano, 1951; concept: Carla Marzoli, architetto: Francesco Gnecchi-Ruscone.


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cezione dell’architettura di interni accreditata a partire dagli anni trenta. Nell’articolo “Il problema dell’arredamento”,26 pubblicato nel 1956, la rimessa in discussione della distinzione tra arte e arti applicate che, nella prospettiva aperta dal Bauhaus, è il suo cavallo di battaglia, lo porta a estendere alla totalità dello spazio costruito la qualità di interno: «L’architettura moderna» scrive «pone tutto lo spazio come interno, cioè non più come natura da contemplare, ma come dimensione o ambiente del vivere e dell’agire umani».27 La pianta più che il blocco, la struttura più che il prospetto, il volume più che la facciata sono i nuovi princìpi di determinazione del progetto. L’architettura d’interni non è dunque periferica rispetto all’esercizio del mestiere di architetto; è al cuore del progetto, ne è la matrice: [L’architettura moderna] cerca nella pianta una generatrice e non più un limite spaziale;28 e quella generatrice si sviluppa in un progressivo e illimitato pianificare, dall’unità di abitazione al gruppo, all’insieme della città e della regione. [In definitiva] l’architettura moderna risolve nell’arredamento il problema dell’esistenza individuale così come risolve nella pianificazione urbanistica il problema dell’esistenza collettiva.29

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Constatiamo quindi che la frase pronunciata da Scarpa «preferisco fare musei piuttosto che grattacieli»30 è solidamente puntellata dalla corrente teorica più innovatrice dell’epoca. È proprio tramite l’arredamento di interni (l’appartamento dell’antiquario Ferruccio Asta) che nel 1932 Scarpa, giovane architetto, attira l’attenzione del più esigente critico dell’epoca, Edoardo Persico, uno dei primi teorici dell’arredamento.31 Come il museo, l’interno è, per riprendere la formula dell’architetto Gio Ponti, «una dimostrazione di civiltà» dove con il termine “civiltà” si intende un intero spettro di valori che va dallo “spirito civico” alla “civilizzazione”. È proprio grazie all’arredamento che gli architetti italiani, negli anni del dopoguerra, acquistano credito presso i musei.32 La carriera di Franco Albini, al quale si devono alcune delle esperienze museologiche più radicali e sorprendenti degli anni cinquanta, ne è un caso esemplare. Quando nel 1949 Caterina Marcenaro, direttrice delle Belle Arti di Genova, gli affida l’allestimento di Palazzo Bianco, Albini è già celebre per i suoi spettacolari padiglioni temporanei alle Triennali e alle fiere degli anni trenta, e per i suoi “interni” che propongono soluzioni straordinariamente inventive per la disposizione e il godimento quotidiano delle opere d’arte – l’“arte nella casa” è l’argomento cui tutte le riviste del momento dedicano cronache minuziose. Ha soltanto un’esposizione d’arte al suo attivo, certo ricca di audacia e d’invenzione formale: la “Mostra di Scipione e di disegni contemporanei” alla Pinacoteca di Brera di Milano nel 1941.


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