Biografie 18
© 2015 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di gennaio 2015 isbn 978-88-6010-124-2 Per i crediti delle immagini si veda l’apposita sezione. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile contattare. Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.
Elena Pontiggia
Mario Sironi La grandezza dell’arte, le tragedie della storia
A mio padre Giampiero Neri e a mia madre Annamaria
Sommario
Prima parte La stagione romana 1. Una famiglia di architetti
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2. Dagli esordi simbolisti alla crisi del 1903
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3. Amicizie e incontri: Boccioni, Severini, Balla, Prini
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4. I primi viaggi: Milano, Parigi, Erfurt
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5. L’adesione al Futurismo. Da Piedigrotta alle tavole parolibere
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Seconda parte Il tempo di guerra 6. Tra i Volontari Ciclisti. La battaglia di Dosso Casina e L’orgoglio italiano 65 7. L’incontro con Margherita Sarfatti, la morte di Boccioni, il Servizio p
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8. Il congedo e il ritorno a Roma
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Terza parte A Milano, tra fascismo e “Novecento” 9. Il salotto della Sarfatti e il “covo” di Mussolini
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10. I paesaggi urbani e la mostra alla Galleria Arte
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11. Disegnatore del Popolo d’Italia
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12. La nascita del Novecento Italiano
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13. Da 6 a 114. La Biennale del 1924 e la mostra del 1926
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14. 1928: una Biennale in extremis
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15. La carovana delle mostre (1929-1930)
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Quarta parte La scommessa della pittura murale: la lotta al sistema dell’arte moderna 16. Dalla Quadriennale di Roma alla “Mostra della Rivoluzione Fascista” 175 17. La Triennale del 1933, la mancata Biennale e il mancato processo del 1934
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18. Gli affanni della pittura monumentale 19. Le ultime imprese decorative
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Quinta parte La rovina e la solitudine 20. ÂŤNon sono rimaste che macerie e pauraÂť
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21. Gli anni del dopoguerra
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22. La perdita di Rossana, l’isolamento
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23. Gli ultimi anni
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Note
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Ringraziamenti
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Bibliografia
285
Crediti delle immagini
293
Indice dei nomi 297
Prima parte La stagione romana
1 Una famiglia di architetti
Sironi nasce in una famiglia di architetti. Il nonno materno, Ignazio Villa, è un esponente del Neogotico ottocentesco e lo zio paterno, Eugenio, è l’autore di uno dei più bei palazzi italiani degli anni dopo l’Unità. Sono dati rimasti in un cono d’ombra, complici certi studi che hanno ridotto Villa a un inventore pittoresco, mentre solo di recente è stata scoperta la figura di Eugenio. Invece la prima osservazione da cui si deve muovere, per parlare di Mario Sironi, è questa: Sironi è un figlio d’arte, e proprio dell’arte che considerava la più alta e la prima. Pur senza sopravvalutare l’influsso di quelle due figure che scompaiono quando è ancora un ragazzo (Villa nel 1895, Eugenio nel 1894), va ricordato che tra i suoi ascendenti, nella sua famiglia – nel suo codice genetico, diremmo oggi – ci sono due architetti di cui gli studiosi parlano ancora, a distanza di un secolo e mezzo. È il caso, allora, di soffermarsi brevemente su queste sue radici. Ignazio Villa era una figura di artista e scienziato dal multiforme ingegno. Lui stesso aveva stampato a Roma, nel 1880, un Elenco delle onorificenze e dei documenti scientifici e artistici di Ignazio Villa. Sarebbe però un errore soffocare sotto la mole delle sue tante attività e dei suoi riconoscimenti in vari campi la sua opera più importante, la sola che realmente conti sul piano espressivo: la Casa Rossa tra il Prato e via Santa Lucia a Firenze del 1850-1852. Ispirata al Gotico inglese e francese, con qualche eco di Orsanmichele, e impostata su una sequenza di archi acuti che si susseguono lungo i tre piani dell’edificio, ornati in quello inferiore da rosoni in ghisa, la costruzione è l’unico esempio di palazzo neogotico fiorentino. Purtroppo un infelice restauro l’ha privata di gran parte delle sue fantasiose decorazioni (pinnacoli, guglie, cariatidi, archetti, trafori) e dell’intonaco rosso, insolito nella città del Giglio, che le dava il nome. Negli anni successivi Villa lavora solo per i frati di San Giovanni di Dio, per i quali costruisce una casa in borgo Ognissanti (forse la prima, a Firenze, decorata in cemento) e ristruttura l’Ospedale vecchio. Numerosissimi
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La Casa Rossa (1850-1852) di Ignazio Villa in un’acquaforte dell’epoca.
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sono però i suoi disegni di chiese, palazzi, ponti, cimiteri, divisi tra Gothic Revival e neopalladianesimo, come le sue proposte di ricostruzioni e restauri (fra cui tre progetti per la facciata di Santa Maria del Fiore e uno per palazzo Marino di Milano), presentati senza fortuna a committenti e concorsi. Lui stesso scrive di sé: In Firenze dal 1851 in poi non ebbe che dolori morali e materiali. […] Ognuno sa quante opere d’architettura fece, e che avrebbe condotto a termine se non ci fosse stata l’invidiosa opposizione. […] Vari fabbricati e progetti gli furono tolti e vilmente distrutti.1
Nato a Milano nel 1813 da una famiglia poverissima, il nonno di Sironi aveva studiato scultura a Roma grazie all’aiuto mecenatesco del marchese Busca e di Beauharnais, viceré d’Italia, e nel 1845 si era fatto notare all’“Esposizione di Brera” con il gruppo plastico Agar nel deserto. «Il Villa ha cominciato come il Canova dai modelli in butirro [burro]… ora ha potuto cambiare il butirro con la creta» commentava Tenca, il patriota lombardo allora critico d’arte.2 Nel 1850 Villa si era trasferito a Firenze dove, dopo aver costruito la Casa Rossa, aveva scolpito numerose statue, tra cui nel 1857 il monumento fune-
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bre al principe Poniatowski, commissionato inizialmente al celebre Lorenzo Bartolini. Anche qui si era lasciato guidare dal gusto neogotico, soprattutto nel tabernacolo centrale ispirato ai modi dell’Orcagna. Busti, ritratti, temi mitologici e biblici erano i soggetti delle sue sculture, che gli venivano commissionate da ogni parte d’Europa. Nel frattempo si era sposato, ma la sua storia coniugale era stata un susseguirsi di croci, come non era raro nell’Italia dell’Ottocento. Gli era morta la prima moglie, Rachele, con tre delle quattro figlie avute da lei (l’ultima, Luigia, sarà la madre dello scrittore Lucio D’Ambra). Gli era morta la seconda moglie, Susanna, con il loro bambino ancora in fasce. Gli era morta nel 1864 la terza moglie, Cristina Torri, che aveva dato alla luce Giulia – madre di Sironi – e Celestino. Solo la quarta, Teresa Mannino, da cui aveva avuto il figlio Libero, gli sopravvive. Scomparirà nel 1912 ormai anziana e farà in tempo a lasciarsi ritrarre dal nipote Mario, con i capelli bianchi e l’abito nero di vedova. Villa, come abbiamo detto, era autore anche di varie invenzioni scientifiche. Nel campo della nautica, della meccanica, dell’aerostatica, delle armi leggere, della chimica si era arrestato a uno stadio sperimentale. In astronomia però aveva disegnato mappe e planisferi del sistema solare che erano stati accolti all’Esposizione universale di Philadelphia del 1876, ma soprattutto aveva inventato un orologio a due quadranti, stellare e terrestre, anch’esso esposto a Philadelphia, che gli era valso la medaglia d’oro di Francesco Giuseppe e la croce di cavaliere di Vittorio Emanuele ii. Purtroppo la sua fortunata attività scientifica ha fatto dimenticare la sua sfortunata ricerca artistica, cui solo gli studi recenti hanno attribuito il giusto valore. Villa, insomma, al di là dell’atmosfera aneddotica che l’ha sempre circondato, non è un folcloristico dilettante, ma un vero architetto. La sua personalità non può avere influenzato direttamente Sironi, che ha solo dieci anni quando il nonno scompare, ma la sua frequentazione quando era ancora bambino (Villa intorno al 1890 si trasferisce a Roma) e soprattutto il mito della sua figura, tenuto vivo da sua figlia Giulia, devono essere stati per lui una fonte di suggestione. Se il nonno materno dell’artista era una figura poliedrica, lo zio paterno, Eugenio, era artifex unius libri. Aveva, cioè, realizzato una sola opera: il palazzo della Provincia di Sassari, un grandioso edificio neorinascimentale tra i più eleganti del periodo. Su questo punto, però, è necessaria una precisazione. Nel 1980, a distanza di un secolo dalla sua costruzione, il palazzo è stato attribuito al padre di Sironi, Enrico, sulla base di vaghe testimonianze familiari.3 Sei anni dopo uno studio specialistico ha dimostrato, con documenti d’archivio, che l’edificio è opera dell’«ing. Eugenio
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Sironi da Como».4 Da quel momento lo sconosciuto Eugenio è stato identificato con il padre del grande pittore. Occorre dunque riesaminare quella frettolosa equazione. Mario, come leggiamo nei suoi certificati di nascita e di battesimo, era figlio di Enrico Sironi. Nato a Milano nel 1847 da Giuseppe e Giulia Vimercati, Enrico aveva studiato all’università di Bologna, dove nel dicembre 1873 si era diplomato «ingegnere civile e architetto».5 Anche lui costruttore, dunque. Nel 1877 lo troviamo infatti impegnato in lavori a Piazza Armerina in Sicilia. Nel frattempo si era sposato, ma anche la sua felicità coniugale, come quella del futuro suocero Ignazio Villa, era stata breve. Sia la prima moglie, Maddalena Grampelli, sia la seconda, Augusta Sartori, erano morte prematuramente e a trent’anni Enrico si era ritrovato due volte vedovo. Qualche tempo dopo aveva conosciuto la figlia di Villa, Giulia, che sposa in terze nozze il 15 dicembre 1881. Più giovane di lui di tredici anni (era nata a Firenze nel 1860), Giulia aveva ereditato dal padre l’interesse per l’arte e si era dedicata con passione alla lirica. Aveva studiato canto al Regio Istituto Musicale di Firenze sotto la guida del maestro Giuseppe Ceccherini, allora di qualche fama, e la sua 16
esibizione da soprano nel concerto di fine anno alla Filarmonica, dove il 29 maggio 1881 aveva eseguito una cavatina del Poliuto di Donizetti e l’Ave Maria di un certo Moretti, era stata segnalata favorevolmente da una rivista autorevole come Il Sistro: La giovane soprano signorina Giulia Villa, della quale si diceva mirabilia […], sicura tanto nelle note acute che nelle basse, canta con accuratezza e sentimento non comune.6
Colta, intuitiva, forte, appassionata di letteratura e di teatro, Giulia sarà una presenza fondamentale nella vita di Mario, che le sarà sempre legatissimo. L’artista dirà di lei, in un appunto scritto poco dopo la sua scomparsa, nel 1943: «La mamma: una donna di cuore enorme, di responsabilità, di destino, di grazia spirituale meravigliosa».7 E il figlio minore Ettore scriverà: A trasmettere a Mario le caratteristiche dell’amore per l’arte […] fu la meravigliosa personalità di sua madre… Con la infinita e pur ferma dolcezza del suo carattere, per la sua cultura ed il suo inesausto spirito di sacrificio […] poté essere la testimone attiva, la confidente addolorata e impotente, ma sempre altamente comprensiva, della vita tormentata [dell’artista].8
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Dopo il matrimonio Enrico e Giulia vanno a vivere a Sassari, dove nascono la primogenita Cristina nel 1883 e Mario due anni dopo. Nel 1886 si trasferiscono a Roma, dove Enrico è chiamato a collaborare alla costruzione di nuovi argini e ponti del Tevere, avviata dopo le esondazioni del 1870. Qui scompare il 10 aprile 1898 per i postumi di una polmonite, contratta mentre lavorava alla realizzazione del ponte Garibaldi, progettato da Vescovali dieci anni prima. Il figlio Ettore che sta per nascere (il sesto dopo Cristina e Mario, cui erano seguiti Edoardo nel 1887, Marta nel 1889 e Guido) prenderà anche il nome del padre, che non conoscerà mai. Il 20 ottobre 1898 la Gazzetta Ufficiale del Regno notifica che la Corte dei Conti ha liquidato a «Villa Giulia Maria, vedova di Sironi Enrico» una pensione di 1440 lire: una cifra non piccola, ma del tutto insufficiente per una famiglia così numerosa, in cui i figli maggiori avevano solo quindici e tredici anni. Parlando dei genitori di Sironi abbiamo però perso di vista quell’“ingegner Eugenio Sironi da Como”, autore del palazzo della Provincia di Sassari, come si legge nella scritta incastonata nell’edificio: Oggi 18 ottobre 1873, regnante Vittorio Emanuele ii, si è collocata la prima pietra del palazzo che il Consiglio provinciale di Sassari […] con architettura progettata dall’ingegnere Eugenio Sironi da Como sotto la direzione dell’ingegner Cavalier Giovanni Borgnini di Asti […] deliberava di erigere.9
A sinistra, Enrico Sironi, 1895-1897. A destra, Giulia Villa in una foto degli anni dieci.
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Come Ignazio Villa non era solo un estroso inventore ma un vero architetto, così Eugenio non era un “semplice” ingegnere. Quando nel 1872 Borgnini era stato incaricato di costruire il palazzo della Provincia a Sassari aveva subito voluto accanto a sé quel collega lombardo che, diceva, era dotato «di geniale inclinazione», si era «applicato con speciale amore agli studi di architettura» e aveva eseguito «lavori meritevoli di encomio».10 Nel 1873 gli aveva affidato l’intero progetto, di cui solo nominalmente figurava ancora come direttore. Purtroppo il palazzo, terminato solo nel 1880 con la collocazione del grande orologio civico giunto appositamente da Torino, aveva suscitato un vespaio di polemiche che dovevano aver amareggiato l’ingegner Eugenio. La Sardegna era allora la regione più povera d’Italia e quel progetto principesco aveva provocato contrasti e critiche che avevano avuto eco perfino nel senato del Regno. «In questo palazzo c’è il sangue della provincia!» gridava l’opposizione cittadina. Effettivamente Eugenio Sironi, pur scegliendo le soluzioni e i materiali più economici, aveva progettato in grande, con un respiro monumentale
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Eugenio Sironi, progetto iniziale del palazzo della Provincia di Sassari, 1873 circa.
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che troveremo – un’eredità di famiglia? – anche nel nipote Mario. Fin dal 1873 aveva annunciato che per la costruzione avrebbe dovuto spendere «100 e più mila lire», ma in realtà, nonostante il taglio delle decorazioni deciso nel 1875, i costi toccheranno l’astronomica cifra di un milione e centomila lire.11 Eppure, al di là delle spese, il palazzo della Provincia, affacciato su piazza d’Italia, sapeva unire solennità e semplicità. Le arcate cieche del primo ordine erano sovrastate da una doppia fila di finestre, scandite al centro da sei colonne corinzie giganti, mentre alla sommità compariva un fastigio marmoreo in cui era incastonato, tra statue allegoriche, il grande orologio civico. Più neoclassico che eclettico, venato di echi rinascimentali e palladiani, era imponente senza essere retorico, come lo saranno invece tante opere dell’Italia umbertina. Nella piazza di Sassari diventerà un modello, spingendo anche i nuovi palazzi a adottarne gli eleganti ordini classici. Certo, il piccolo Mario Giuseppe Eugenio Luigi, che il 12 maggio 1885 era nato a pochi passi di lì, in via Roma 31, non aveva fatto in tempo a rendersene conto, perché quando aveva appena un anno la famiglia si era trasferita a Roma. La Città Eterna, del resto, al di là dell’occasionale nascita sarda, è il luogo di formazione di Sironi, anche se le ascendenze familiari (padre milanese, zio e probabilmente nonno paterno comaschi, nonno materno milanese) avrebbero potuto indurlo a sentirsi lombardo. Non a caso il cognome Sironi è diffuso soprattutto in Brianza e deriva dal toponimo Sirone, un paese in provincia di Lecco, che a sua volta viene dal latino Sirus. L’artista però «si considerava romano e del romano aveva anche l’accento» testimonia Amedeo, il figlio di Margherita Sarfatti, la scrittrice e critico d’arte che gli fu più vicina.12 La grandiosità di Roma con «gli splendidi fantasmi dell’arte classica», come dirà lui stesso, è una fonte inesauribile di insegnamento, ma anche la sua luce gli suscita un’intensa suggestione: «Ricordo come fosse ora l’indicibile meraviglia della luce romana sui colori sulle tele sui paesaggi» scriverà tanti anni dopo.13 Il primo accenno a questa complessa geografia avviene alla Biennale di Venezia del 1924, quando la stessa Margherita lo indica come «romano di educazione, nato di famiglia lombarda a Sassari».14 E sarà ancora lei a individuare nell’artista, se non un’origine, una natura romana, intesa come vocazione a una grandezza maestosa: Di tutti i nostri pittori italiani d’oggi, egli è anche il più romano, intendendo significare con questa definizione una tendenza alla grandiosità.15
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2 Dagli esordi simbolisti alla crisi del 1903
Le prime opere di Sironi che conosciamo – se si esclude un acerbo paesaggio, datato solitamente al 1899 per le evidenti ingenuità, ma già dotato di un solido impianto architettonico – risalgono al 1900. L’artista ha quindici anni, ma da tempo dipinge e soprattutto disegna. Già alle scuole elementari riempiva i quaderni di silhouette a inchiostro nero con vele, animali, figure, e quei fogli erano addirittura venduti da un cartolaio di via del Corso. Alle medie, poi, lo rimproveravano perché disegnava cartine geografiche invece di ascoltare gli insegnanti.1 In una lettera del 1903 confessa al cugino Torquato: La mia inclinazione all’arte non è poi tanto recente quanto tu puoi credere. […] Il mio maggior piacere è sempre stato quello di trattare di cose d’arte ed ho passato parecchie ore al tavolino quando altri della mia età si divertiva.2
Di quei suoi disegni di ragazzo non è rimasto nulla. Non c’è da stupirsi, se pensiamo alla poca cura che l’artista ha sempre avuto per i suoi lavori. Amedeo Sarfatti ricorda: Per quanto – credo – ben conscio del suo valore, e certamente convinto dei suoi ideali estetici ed artistici, egli era stranamente sprezzante, almeno in apparenza, verso la sua opera di cui non si mostrava mai soddisfatto […]. Quando una persona amica gli chiedeva notizie di un lavoro iniziato o di un quadro finito rispondeva invariabilmente: “Non ne parliamo, è una porcheria”. […] Mia madre in principio ci si arrabbiava: bel modo di incoraggiare i compratori! Ma poi aveva capito l’antifona e gli rispondeva tranquilla e sorridente: “E va bene, sarà forse una porcheria, ma la compro lo stesso!”. […] D’altra parte, per provare il modo com’egli considerava e trattava la sua opera, basta ricordare le visite al suo studio di via Domenichino a Milano: si camminava su uno spesso strato di disegni, scartati da lui, benché noi li trovassimo bellissimi e ben degni di essere incorniciati. I quadri, a olio o tem-
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I fratelli e le sorelle di Sironi: in alto Edoardo ed Ettore, in basso Guido, Marta (seduta) e Cristina.
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pera, non appena finiti – spesso anche prima – erano messi negli angoli bui, voltati verso il muro; e bisognava essere vecchi amici per osare di guardarli e rivoltarli, nonostante le sue ingiunzioni e recriminazioni.3
Intorno al 1900, comunque, mentre frequenta l’Istituto tecnico di via San Pietro in Vincoli, nel cuore di Roma, Sironi inizia a interessarsi al Simbolismo internazionale che gli ispira una singolare serie di lavori, firmati con lo pseudonimo di “Rio Maro”.4 Sono figure, copie, paesaggi disegnati su cartoline postali e inviati alla fidanzatina Emma Scalzi (futura scrittrice di teatro e libri per bambini), spesso per il 27 ottobre, giorno di compleanno della giovane destinataria. Alla ragazzina Sironi indirizza anche lettere appassionate, chiamandola “mon bijou”, “ma belle”, “ma souveraine”, “ma Madonne”, e preoccupandosi che il loro legame resti segreto. «Ho paura che tua madre si insospettisca» le scrive il 30 gennaio 1901. E in un altro foglio: «Perché non vieni tu qualche volta, colla scusa di venire a trovare Cristina, in casa mia, mio amorino?». E ancora: «Ti raccomando, Emma, di bruciare queste righe: pensa a quello che succederebbe se capitassero nelle mani di qualcuno di casa tua». La natura passionale dell’artista si rivela già in queste pagine, dove leggiamo: «Non essermi tanto avara di quei rosei apostrofi alle parole t’amo, dammene tanti di baci, forti, frementi, pazzi…». Oppure: Vorrei poter dire a tutto il mondo che tu sei mia, che io ti amo e che anche tu mi ami… Non riesco ancora a credere, non sono ancora sicuro di tanta felicità…5
Nel piccolo mucchio di cartoline troviamo invece una Porta di Amsterdam ad Haarlem, ripresa da qualche fotografia e datata 27 ottobre 1900. Ci sono poi copie da Segantini (L’aratura nell’Engadina) e da Utamaro (Festa sul fiume Sumidagawa, Suonatrice, Festa notturna a Yeddo, Donna che si dipinge le labbra, quest’ultima datata 27 ottobre 1901), che nascono dall’interesse per gli autori allora più moderni: il grande divisionista, scomparso l’anno prima, e il maestro giapponese, reso popolare in Francia dalla monografia di Edmond de Goncourt (1891). Nelle copie da Utamaro, però, Sironi non si limita a un’imitazione scolastica: nella Festa sul fiume inserisce ideogrammi e sigilli inventati, nella Festa notturna isola un particolare, mentre Suonatrice e Donna sono sovrapposte a un tetto di capanna galleggiante, sempre alla Utamaro, con un effetto decorativo che scardina la prospettiva naturalistica. Vincenzo Costantini, compagno di studi di Sironi e massimo testimone della sua stagione giovanile, ricorda che l’artista aveva una «natura piuttosto raffinata, fin da ragazzo, nello sfogliar riviste».6 Ma quali riviste sfo-
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gliava? Un indizio delle sue scelte viene dal fatto che L’aratura e le quattro incisioni di Utamaro erano state tutte pubblicate con risalto sul numero di Emporium del marzo 1896. Il famoso mensile – che alternava pagine d’arte, letteratura, scienze – diffondeva allora in Italia, soprattutto con la rubrica di Vittorio Pica “Attraverso gli albi e le cartelle”, le novità del Simbolismo internazionale. «Attraverso gli albi e le cartelle di Vittorio Pica erano il paradiso ritrovato» scriverà euforicamente Bucci, ricordando l’interesse dei giovani della sua generazione (la stessa di Sironi) per la rivista.7 Al di là degli entusiasmi di Bucci, è facile immaginare che anche il giovane Mario si procurasse qualche numero di Emporium, o magari lo trovasse in casa, acquistato da Giulia. Sulla rivista Sironi poteva vedere anche qualche esempio del segno fragile e spinoso di Chéret, ai cui manifesti si riallaccia in tre cartoline con figure clownesche che tengono al guinzaglio dei porcellini. Il giovane artista, però, guarda anche altrove: a Klinger, un altro protagonista del Simbolismo d’inizio secolo, oppure al gusto decorativo di William Morris e della Glasgow School, che gli ispirano l’albero araldico di una cartolina datata «28 dicembre [190]1» e le ghirlande estetizzanti di Ars et Amor, un ex libris disegnato per Giulia. Dipinge anche paesaggi influenzati da Segantini, sempre di ascen24
denza simbolista (Il pascolo, 1902-1903).
A sinistra, Utamaro, Festa notturna a Yeddo (part.), da Emporium, marzo 1896. A destra, copia di Sironi da Utamaro, 1901.
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Qualche tempo dopo affiorano nelle sue carte certi umori maudits, tra Goya e Rops. In un suo ex libris, datato 28 febbraio 1903, un giovane pende senza vita da una rozza trave presidiata da un nido di corvi, mentre nel cielo volteggiano sinistramente i pipistrelli. L’opera è ispirata a quel mondo di fantasie macabre che dal Romanticismo erano trapassate nel Simbolismo. A quella visionarietà tenebrosa, tra l’altro, Pica aveva dedicato (nel febbraio di quell’annata 1896 di Emporium che Sironi conosceva) un lungo articolo, intitolato “Goya, Redon, Rops, De Groux”. Di Rops, in particolare, aveva pubblicato L’impiccato alla campana, dove un suicida era appeso alle colossali travi di un campanile tra cui si aggiravano corvi e pipistrelli: un’incisione che il giovane Mario doveva aver presente, almeno come soggetto. Sono gli anni, del resto, in cui, oltre a studiare la filosofia di Nietzsche e Schopenhauer, legge Leopardi, Heine, Baudelaire e ascolta – anzi suona lui stesso al pianoforte – la musica di Wagner, approfondendo una cultura romantica e simbolista di cui all’inizio del secolo si amavano soprattutto gli accenti più notturni. Un ex libris, però, non è solo una prova stilistica, ma qualcosa di più intimo: il contrassegno dei propri libri, cioè delle proprie passioni intellettuali. E la scelta di un’immagine così lugubre rivela già una dimensione drammatica che rimarrà costante nella pittura dell’artista, anche se saprà presto liberarsi dai toni patetici di gusto tardoromantico.
A sinistra, Ars et Amor, ex libris, 1901-1902. A destra, L’impiccato, ex libris, 1903.
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L’opera, d’altra parte, è anche il sintomo di quella malattia di nervi che costringe Sironi, proprio nel 1903, a lasciare i corsi di Ingegneria a cui si era iscritto l’anno precedente. Quella facoltà, per lui, era stata una via quasi obbligata, una sorta di eredità spirituale del padre da poco scomparso. Non si era però rivelata una scelta felice e la frequenza alle lezioni si era interrotta dopo pochi mesi, sotto il peso di un’improvvisa crisi depressiva che aveva distrutto tutti i suoi progetti. «Dopo aver accarezzato tanti rosei sogni veder tutto crollare non è piacevole» confida a Torquato.8 Le crisi psicologiche tormenteranno spesso l’artista, come sappiamo da tante testimonianze. «Rimase sempre un uomo tipicamente introverso e pieno di complessi» scrive per esempio Amedeo Sarfatti.9 E in una cartolina che Margherita gli invia per il capodanno 1936 leggiamo: Buon anno, buon lavoro, pace profonda e feconda e, se possibile, serena di opere grandi belle definitive al vostro cuore tormentato! Se sapeste come per i vostri amici è doloroso sapervi così. Come io vorrei, a costo di non so che, farvi trovare finalmente quel riposo del lavoro calmo, della vita fiduciosa e serena…10
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Senza tentare della psicoanalisi a buon mercato, per di più su un male a tutt’oggi oscuro, si può ipotizzare che una delle cause della depressione di Sironi sia un conflitto fra Io e Super-Io, tra il suo desiderio di dedicarsi alla pittura e la volontà paterna che desiderava per lui uno sbocco professionale più concreto? La domanda è oziosa, perché la risposta è impossibile. Certamente, però, Enrico sognava per il figlio un futuro da ingegnere e non aveva incoraggiato il suo precoce talento espressivo. In obbedienza al padre […] studiò per qualche tempo matematica all’Università. “Sennonché”, egli dice, “la mia passione per il disegno, ch’era nata in me fanciullo e non mi abbandonava, finì con il vincere”
leggiamo in un’intervista all’artista del 1932, mentre un’altra del 1956 accenna a studi di matematica a cui lo aveva avviato il padre ingegnere, mentre egli in segreto dedicava molte ore a disegnare e a dipingere. Sua madre, una donna superiore, aveva intuito la vera inclinazione del giovane e lo assecondava nascostamente dal padre.11
Entrambe queste testimonianze documentano il conflitto che l’artista viveva: un conflitto solo interiore (quando abbandona Ingegneria, Enrico era già mor-
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to da cinque anni), ma che proprio la scomparsa del padre caricava di sensi di colpa. Si combatte male contro i fantasmi della mente. Sironi, in realtà, era già allora un pittore più che un architetto o un ingegnere. I disegni di edifici rimasti fra le sue carte e riconducibili a quel periodo rivelano una passione “da pittore” per l’architettura. Cupole, portali e palazzi sono disegnati con veemenza, come schizzi di sculture monumentali, e spesso sono visti dal basso per esaltarne la grandiosità, con gorghi d’ombra che ne potenziano la volumetria. Il segno è libero, approssimativo, violento, quasi mai tracciato con riga e squadra. Certo, in ogni taccuino di architetto si trovano simili appunti compendiari, ma sono soprattutto studi preparatori o divagazioni momentanee. Qui, invece, sembrano il momento centrale della ricerca. E anche se negli anni fra le due guerre Sironi, mosso da una concezione classica della pittura, collaborerà a progetti architettonici e allestimenti (rivendicando il mestiere completo di un antico magister artium), sarà sempre un costruttore di forme più che di edifici. Dopo aver lasciato la facoltà, comunque, il giovane medita di accettare la proposta del cugino Torquato, che nel 1903 gli offre ospitalità a Milano. Ma chi era Torquato Sironi, che abbiamo già avuto occasione di nominare e che nella storiografia sironiana è liquidato come un generico medico di ambulatorio? Milanese di nascita, era figlio di Luigi, cioè del fratello o fratellastro di Eugenio ed Enrico. Non a caso Sironi viene battezzato “Mario Giuseppe Eugenio Luigi”. Maggiore esattamente di ventitré anni (era nato quasi lo stesso giorno dell’artista, il 13 maggio, ma del 1862), Torquato era già allora un chirurgo affermato. Nel 1887 si era laureato a Pavia con una tesi data alle stampe, e a cavallo del secolo aveva pubblicato vari studi di medicina che gli valgono la nomina di chirurgo al Policlinico di Milano. Interessato all’arte, era stato anche il medico di Conconi che gli aveva regalato, proprio nel 1903, l’Incontro di Gesù con le pie donne sul Calvario. Torquato lo lascerà vent’anni dopo, poco prima di morire, alla Galleria d’Arte Moderna di Milano. La sua figura, però, non è solo quella di uno scienziato, ma assume presto una dimensione pubblica. Di convinzioni liberali, nel 1905 viene nominato assessore nella giunta di Milano e lo rimane una decina d’anni; nel 1908 diventa presidente della Croce rossa cittadina; nel 1911 è tra i fondatori dell’Unione Operai Escursionisti Italiani, nata per avviare i lavoratori all’amore per la montagna, sottraendoli alla vita malsana delle periferie. (E sembra quasi che, da filantropo, Torquato nutra la stessa sensibilità per i drammi della città moderna che porterà Mario, pochi anni dopo, a dipingere i suoi paesaggi urbani.) In tempo di guerra, infine, dirige l’ospedale mobile “Città di Milano” che opera al fronte, guadagnandosi due medaglie, la croce al valor militare e il titolo di cavaliere.
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È facile, riflettendo sul carattere altruista di Torquato, comprendere lo slancio generoso che lo spinge a ospitare il giovane cugino. L’illustre medico, tra l’altro, non era sposato e doveva nutrire per lui una sollecitudine quasi paterna. Al diciottenne artista non dispiacerebbe trasferirsi a Milano («Il piacere di fare la conoscenza di tutti voi simpatici meneghini mi sorride e mi consola»), anche se lo frena il dolore di separarsi dalla madre.12 Tuttavia, invece di lavorare nel commercio o in un ufficio come gli propone il cugino, preferirebbe impiegarsi in una vetreria per non allontanarsi troppo dal campo dell’arte. Torquato allora, constatando la sua determinazione, gli offre la somma di cinquanta lire al mese per dedicarsi agli studi. Sironi decide così di iscriversi alla Libera Scuola del Nudo in via Ripetta a Roma. Come mai, potremmo chiederci, non sceglie la più ufficiale Accademia di Belle Arti? In realtà, come molti successivi protagonisti del Futurismo, da Boccioni a Severini a Carrà, Sironi preferisce una scuola che stimoli l’esercizio espressivo ma non si irrigidisca in programmi canonici. Tanti anni dopo puntualizzerà l’importanza per un giovane di un «lavoro serio e serrato. Non un’accademia, si badi bene: un lavoro libero e vivo, ma tale da dare consistenza e coesione alle sue migliori intuizioni».13 Prima di quella decisione così impegnativa, comunque, Giulia aveva chie28
sto un parere a Ettore Ximenes, l’artista palermitano allora famoso per i suoi monumenti celebrativi a Milano e Buenos Aires, e per l’omonimo villino liberty a Roma. Non contento del suo avallo, Libero – il fratellastro di Giulia – chiede consiglio anche al pittore Antonio Discovolo, di cui era amico. Figlio della quarta moglie di Villa, Teresa, lo zio Libero all’epoca era impiegato al ministero delle Finanze, nei monopoli commerciali di cui successivamente assumerà la direzione. Nel primo dopoguerra diventerà anche consigliere comunale di Roma e vicepresidente della Società degli Autori, l’attuale siae, dove fin dal 1913 aveva trovato al nipote qualche saltuario lavoretto. Sironi in seguito esprimerà varie riserve sulla sua figura («margaritas ante porcos» dirà di un suo disegno dato allo zio),14 ma in quegli anni di inizio secolo trovava in lui un aiuto paterno e prezioso. Il 15 giugno 1903, dunque, Libero manda il nipote nello studio di Discovolo in via Margutta con un biglietto di presentazione: Latore del presente è mio nipote Mario Sironi del quale ti parlai ieri sera. Ringraziandoti novellamente di quanto farai per lui, ti saluto con schietta cordialità.15
Discovolo non aveva ancora trent’anni ma godeva già di una certa autorevolezza perché proprio in quel 1903 aveva esposto, per la prima volta, alla
· Dagli esordi simbolisti alla crisi del 1903 ·
Biennale di Venezia. Dopo aver studiato a Firenze con Fattori, nel 1900 si era stabilito a Roma dove aveva maturato, soprattutto a contatto con Lionne, l’adesione al Divisionismo, pur alternandolo saltuariamente con la pittura a tutto impasto. Quella visita in via Margutta Sironi la ricordava ancora mezzo secolo dopo: il pittore bolognese gli aveva chiesto di ritrarlo e gli aveva riconosciuto «ottime qualità naturali», elogiando il disegno per «somiglianza e carattere».16 Oltre a quel breve incontro vi fu anche una sorta di apprendistato del giovane artista presso il più esperto collega? Sironi non ne parla. Ne erano convinti però critici come Nicodemi e Nebbia (che accenna a una «onestissima influenza di Antonio Discovolo»), mentre per Costantini il pittore bolognese «non andò al di là di una semplice presentazione».17 A chiarire queste contraddittorie indicazioni ci aiuta per fortuna una memoria inedita dello stesso Discovolo, che così ricostruisce i fatti: Renato Villa disse: […] “Ho un nipote che è la disperazione di tutta la famiglia. Non vuole studiare e imbratta la casa con pupazzi, teste da spaventapasseri, col carbone o col colore mentre vorremmo che cercasse di formarsi una posizione di sicuro e sollecito reddito. Io quantunque non creda che in questo ragazzo vi sia quel tale bernoccolo, da farne un artista, vorrei che tu francamente lo giudicassi da quei disegni che lui stesso sottoporrà al tuo giudizio. Qualora dovesse essere favorevole sarò io il primo a ricredermi e a persuadere sua madre a fargli coltivare le vie dell’arte”. Mario Sironi venne al mio studio la mattina dopo. Ebbi la più gradita sorpresa nel conoscerlo. Nel mostrarmi una numerosa serie di disegni restai subito impressionato dalla freschezza del segno, non comune. Gli dimostrai il mio compiacimento più vivo. Nel sentirsene lieto, disse: “Mia madre e mio padre hanno sempre combattuta questa mia passione per l’arte, rimproverandomi perché trascuravo gli studi culturali che potrebbero portarmi a una professione diversa e redditizia. Veda Lei di persuaderli che la mia strada è la pittura”.18
Discovolo si era incaricato dell’ambasciata, raccomandando intanto al ragazzo il continuo esercizio del disegno. Nonostante qualche imprecisione (difficile pensare che anche Giulia, oltre a Enrico, fosse ostile alla vocazione pittorica del figlio), la testimonianza sembra attendibile. E non accenna a nessun altro incontro, anzi tacitamente li esclude perché Discovolo, così minuzioso nel narrare la visita di quel giovane di talento, non avrebbe rinunciato a citare altre frequentazioni, se ci fossero state. La pagina, al contrario, definisce bene il suo
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· Elena Pontiggia · Mario Sironi con la sorella Cristina, 1902 circa.
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ruolo: un ruolo episodico di valutazione, incoraggiamento, consiglio, che non lascia nessuna “onestissima influenza” sull’aspirante pittore. Come del resto dimostrano le opere: Sironi approda al Divisionismo solo nel 1905 e per il momento non sembra interessato al paesaggismo e al ritrattismo discovoliani.
3 Amicizie e incontri: Boccioni, Severini, Balla, Prini
Nell’autunno 1903, all’inizio del nuovo anno accademico, Sironi comincia a frequentare la Libera Scuola del Nudo in via Ripetta. Sono di questo periodo alcune nature morte piuttosto scolastiche (Teiera, tazza e portazucchero; Natura morta con brocca; Natura morta con scarpa), riferite di solito al 1902, ma evidentemente successive alle fantasie simboliste del 1901-1903 e tipiche di un esercizio accademico. Sironi ha diciotto anni. Nel volto, dai lineamenti regolari che l’espressione spesso contratta fa sembrare marcati, spiccano profondi occhi azzurri: un particolare che sappiamo dalle testimonianze, perché non esistono sue fotografie a colori, neanche tarde. Tra gli allievi che incontra nell’aula a semicerchio della scuola c’è il già citato Vincenzo Costantini, che sposerà sua sorella Marta e lo seguirà da vicino con l’attività di critico. Sugli anni di via Ripetta è sempre riportata una sua testimonianza su una momentanea “crisi estetica” di Sironi, che aveva preso a disegnare con una violenza quasi informale: Sul gran foglio di carta fissato sulla tavola sorretta dalla spalliera della seggiola si videro tumultuare alcuni chiaroscuri di sagoma indecifrabile, nei quali i bianchi mollicati, i neri del conté e i passaggi sfumati a colpi di polpastrello si alternavano con grande violenza.1
In realtà quel “tumultuare” non era, in sé, così singolare, né indicava necessariamente una “crisi estetica”. Anche nel Tosi “alcolico” del 1898 e nel Boldini di fine secolo si ritrova una convulsa veemenza della linea, sull’esempio di certi esiti della pittura francese dopo l’Impressionismo. Singolare, piuttosto, doveva essere la drammaticità di quei chiaroscuri: una drammaticità che rimane la tonalità dominante dell’opera di Sironi e non va confusa con uno stato d’animo di tristezza o desolazione, ma convive con una potente energia costruttiva.
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Poco più anziano del futuro cognato, Costantini affianca presto all’attività di pittore quella di storico dell’arte e già nel 1911 pubblica uno studio su Michelangelo, cui seguono negli anni molti altri saggi, tra i quali una Storia dell’arte nel mondo in vari volumi. Su Vincenzo Costantini peintre uscirà a Parigi nel 1925 una monografia di Marcel Valotaire con la prestigiosa introduzione di Léonce Bénédite, ma dopo quella data il pittore sarà sempre più assorbito dall’impegno critico, tra riviste (Le Arti Plastiche, che fonda nel 1926; Emporium; La Fiera Letteraria), quotidiani (La Sera; L’Ambrosiano) e libri. Nell’aula di via Ripetta dove conosce Costantini Sironi non può invece incontrare, come si è ipotizzato, Roberto Melli, che giunge a Roma solo nel 1910, e nemmeno Balla, che non aveva motivo di frequentare la scuola né come docente né come allievo. Conosce piuttosto Cipriano Efisio Oppo, il futuro segretario della Quadriennale di Roma. E forse incontra anche Boccioni, che però si era iscritto nel 1902 e ormai vi capitava di rado. Oppo ricorda di aver conosciuto il fondatore del Futurismo una mattina «alla Scuola libera del Nudo, ove egli non veniva più ed era venuto quel giorno per curiosità o per incontrare qualcuno. C’erano Sironi, Cencio Costantini», ma non sembra intendere che anche questi ultimi l’avessero conosciuto quel giorno.2 È comunque in questo periodo che Sironi stringe amicizia con Boccioni 32
e Severini, già legati tra loro da uno stretto sodalizio. Scrive Severini in Tutta la vita di un pittore: Altri giovani artisti erano divenuti nostri camerati. Oltre Morone Pietrosalvo ed il Basilici (sempre occupato, questo, a corteggiare le belle straniere), Sironi, Costantini, Vallone (un giovane napoletano incontrato a Villa Glori), Amadio, gli scultori Calori e Longo, Ciacelli, ed altri che non ricordo, venivano spesso con noi, ma gl’inseparabili eravamo Boccioni, io ed uno scrittore che si chiamava Collini.3
È una testimonianza nota, ma non è mai stata sottolineata la sua singolarità. Severini pone Sironi nel mucchio, tra figure minori o praticamente sconosciute, quasi non ci fosse differenza tra i vari Basilici, Calori, Amadio e quello che, negli anni fra le due guerre, era stato il pittore più attivo e famoso d’Italia. Non un aneddoto, una descrizione, un cenno: nemmeno una parola oltre al nudo nome. Del resto nella sua biografia, pur riconoscendo che Sironi l’aveva aiutato in un momento difficile (quando nel settembre 1914 aveva organizzato, con altri amici, una provvidenziale colletta per permettergli di rientrare a Parigi), non gli risparmia qualche cenno malevolo. Sappiamo invece che Severini occupava un posto significativo nei ricordi del suo compagno di strada. Lo sappiamo da un testimone anomalo come Mussolini che, nelle conversazioni
· Amicizie e incontri: Boccioni, Severini, Balla, Prini ·
tenute con De Begnac negli anni trenta, rievoca il periodo in cui Sironi lavorava con lui al Popolo d’Italia e gli raccontava spesso «la giovinezza sotto le ali di Marinetti, l’amicizia con Severini».4 È un’amicizia che nelle pagine di Tutta la vita di un pittore sembrerebbe finita, ma bisogna considerare che l’autobiografia è scritta tra il 1943 e il 1946: un periodo in cui la figura di Sironi era divenuta imbarazzante. Della loro vicinanza, comunque, non rimane traccia nemmeno nei loro lavori. Nel tenebroso Ritratto (1905) di Severini si avverte qualche punto di contatto con i contemporanei ritratti sironiani, ma ciò che li accomuna è un accento simbolista allora diffuso in tutto l’ambiente romano. Anche nelle successive opere futuriste la consonanza di alcuni temi, come le Ballerine, non attenua la dissonanza degli esiti. Se il rapporto con Severini soffre di abiure retrospettive, quello con Boccioni, «l’aspro fratello dei tempi lontani» come Sironi lo chiamerà mezzo secolo dopo,5 è invece il più forte della sua giovinezza, nonostante i momenti di contrasto e di distacco. Attraverso di lui (non viceversa) Sironi conosce Balla: In quel tempo m’incontrai con Boccioni, Severini e con qualche altro artista, coi quali mi legai di viva amicizia. Boccioni specialmente mi fu di consiglio e di stimolo. Mi conduceva ogni tanto nello studio di Balla. […] Ma, in verità, io ho studiato poi sempre da me.6
L’incontro con Balla, allora maestro di Boccioni e Severini, deve avvenire fra la fine del 1903 e il 1904, propiziato anche dalla vicinanza d’abitazione, perché dal 1903 al giugno 1904 Balla risiede in via Salaria, non lontano dalla via di Porta Salaria 36, l’attuale via Piave, dove viveva Sironi. Anche la figura del pittore piemontese – come quelle di Boccioni e Severini – è troppo nota perché occorra qui tratteggiarla. Diciamo solo che Balla, più anziano di Sironi di quasi una generazione (era nato nel 1871), era giunto a Roma dalla nativa Torino nel 1895 e praticava un Divisionismo che aveva approfondito durante un soggiorno a Parigi fra il 1900 e il 1901. Nella sua pittura d’inizio secolo soggetti veristi carichi di pathos si alternavano a ritratti, interni e paesaggi, tutti impostati sulla ricerca di effetti di luce. L’influsso di Balla sul giovane allievo si scorge nelle opere del 1904, dove al Simbolismo si sostituisce una figurazione più quotidiana. Dall’artista torinese Sironi riprende l’inquadratura fotografica, i primi piani insistiti e, soprattutto, la ricerca luministica, che approderà in seguito a un irregolare Divisionismo. Deve essere del 1904, per esempio, una natura morta
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A sinistra, Al pianoforte, copertina dell’Avanti della domenica, 9 aprile 1905. A destra, Autoritratto, 1905 circa.
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come Teiera e fiasco7 che, rispetto ad altre più scolastiche, rivela maggior attenzione ai contrasti chiaroscurali, perché sul recipiente metallico si rifrangono le luci dell’ambiente, mentre lo sfondo si intesse di improvvisi riverberi chiari. È di questo periodo anche una famiglia di figure immerse in un nido di ombre (Ritratto della sorella Marta, 1904; Al pianoforte, 1905; La sorella Cristina che suona, Autoritratto, 1905). Senza luce, il titolo di un ignoto lavoro giovanile dell’artista, potrebbe essere la didascalia di tutte queste opere in cui persone e cose conquistano solo a fatica qualche spiraglio di chiarore. La visione romantica dell’Impiccato lascia spazio ora a scene familiari: Marta sullo sfondo di una finestra, Cristina al pianoforte dietro il modesto tavolo del soggiorno, un autoritratto nel buio di una stanza. Non ci sono più in questi lavori torri gotiche, corvi, pipistrelli, ma la dimensione notturna rimane, espressa da un gorgo d’ombra che diventa quasi la metafora di una condizione sfavorevole da superare: come fa la giovane donna, che non smette di suonare nella solitudine della casa e nell’avanzare della sera, quando di luce non ce n’è quasi più; o come fa l’artista stesso, il cui volto accigliato si staglia con forza su sfondi anonimi e tenebrosi. La lezione di Balla si avverte anche nei paesaggi sironiani, che sono realistici, impostati sul segno e sulla luce, lontani dalle vedute di rovi-
· Amicizie e incontri: Boccioni, Severini, Balla, Prini ·
ne, dalle scene folcloristiche con greggi e pastori, dalle facili suggestioni dei tramonti, diffuse nella pittura dell’epoca. Gli allievi di Balla andavano spesso con il maestro a dipingere dal vero nella campagna romana, ma cercavano motivi naturalistici, non pittoreschi. Nelle memorie di Amedeo Sarfatti troviamo una pagina che, al di là dell’aneddoto, apre uno squarcio su quelle giornate: A me Boccioni raccontò che quando (credo nel 1903 o 1904) egli dipingeva dal vero nella campagna romana, insieme a Balla, Severini ed altri giovanissimi pittori, usavano far preparare, nelle masserie a cui giungevano, un piatto “unico” di spaghetti al pomodoro. Ma una volta il massaro preparò la pasta in un bidone che aveva contenuto – ahimè – il petrolio. E nessuno riuscì a inghiottire quell’apparentemente così appetitosa pietanza; nessuno, cioè, a eccezione di uno, il più atletico e il più affamato, Vincenzo Costantini, che divorò tranquillamente gli spaghetti al petrolio, fra lo stupito orrore degli altri. E quando, al prossimo ritrovo degli stessi pittori, qualche giorno dopo, gli spaghetti, questa volta eccellenti, comparvero sulla tavola, nel raccolto silenzio si alzò tagliente la voce di Boccioni: “Costantini, se non ti va, sforzati!”. E da quel giorno “Sforzati Costantini” restò quasi una parola d’ordine e di riconoscimento del gruppetto di amici.8
Fra quel “gruppetto di amici” c’è qualche volta anche Sironi, che però non seguiva Balla con la stessa partecipazione di Boccioni e Severini. Per quanto sia suggestivo pensare che tre artisti di tale grandezza siano stati allievi di un solo maestro, e Boccioni stesso li abbia accomunati scrivendo che avevano appreso da lui «severità di metodo divisionismo studio del vero senza preconcetti», la maggior parte delle testimonianze non autorizza un’equazione così meccanica.9 Sironi, come abbiamo visto, non rievoca Balla con la venerazione del discepolo ma con un certo distacco, attribuendo più peso nella propria formazione ai consigli di Boccioni. Del resto la personalità del pittore piemontese, con la sua statura espressiva e l’adesione al Futurismo che gli ha dato un posto di rilievo nelle storie dell’arte internazionali, ha oscurato una figura oggi quasi dimenticata, ma anch’essa significativa per il primo Sironi, vale a dire lo scultore simbolista Giovanni Prini. Non si tratta di frequentazioni contrapposte. Giunto a Roma nel 1900, Prini aveva stretto con Balla un’amicizia che durerà tutta la vita. Intorno a loro gravita in quel periodo la stessa cerchia di giovani che si ritrovano nella fonderia e nella casa del primo, nello studio del secondo o al caffè Manciola in via del Gambero, finendo per mescolarsi e confondersi. Tuttavia in questa famiglia allargata, di cui fa parte anche Duilio Cambellotti, un altro
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protagonista del Simbolismo romano, alcuni artisti sono particolarmente vicini a Prini, come gli scultori Zanelli, Maraini, Tannenbaum e i pittori Dal Molin Ferenzona e Baccarini, giunti a Roma nel 1904. «Lo conoscemmo, ansioso di operare in accordo con i giovani più vivi e novatori. Ed ebbe nella febbrile attività spirito nuovo e puro» scriverà Sironi di Baccarini, scomparso a soli ventiquattro anni nel 1909.10 Appunto a questo gruppo priniano accennano quasi tutte le testimonianze sul giovane Mario. Elica, la figlia di Balla, precisa che Sironi faceva parte del «gruppo dello scultore Prini»; Maraini, scrivendo a Sironi nel 1927, gli ricorda «quando ci incontrammo ragazzi da Prini»; Costantini nomina Prini – non Balla – tra i frequentatori della «casa ospitale di Sironi» e Giulia, in una delle rare lettere di quel periodo, indirettamente lo conferma: «Io ebbi lunga visita di Prini».11 Solo Severini, che descrive ampiamente il salotto priniano, non nomina Sironi, ma abbiamo visto che di lui parla poco in generale. Per contro l’incoraggiamento che il diciottenne Mario aveva ricevuto da Ximenes, intimo amico di Prini, è un indizio, se non l’incipit, del suo ingresso nel gruppo dello scultore. La loro vicinanza, infine, è testimoniata anche da circostanze più private: nel 1910 Sironi tiene a battesimo il figlio di Prini, Giuliano, e poco dopo esegue un ritratto di sua moglie, Orazia Belsito. 36
È rimasta una traccia, nelle opere sironiane, di questa frequentazione? Non è facile individuarla, perché gli effetti notturni, amati da Prini come da Balla, erano cari a tanta pittura d’inizio secolo, anche sull’esempio di Carrière, che aveva esposto alle Biennali di Venezia del 1897, del 1901 e del 1903, e aveva diffuso il suo “sfumato” soffuso di vapori vellutati, dove l’oscurità era insieme uno stato fisico e uno stato d’animo. Nell’alveo di quel linguaggio, però, non mancano nelle carte sironiane alcune affinità con i disegni di Prini. Il Ritratto della sorella Marta, per esempio, si avvicina ai contrasti fra ombra e luce di Notturno-casa e Notturno-carrozzella dello scultore. E non è un caso che un’illustrazione del 1905, come vedremo, abbia potuto essere attribuita a entrambi. Sironi però sostituisce alle larvali immagini priniane figure più concrete, come ai volti gioviali o stralunati di Balla un’umanità più aspra, carica di una tensione drammatica che non si ritrova in nessuno dei due. Nelle loro opere si cercherebbero inutilmente gli autoritratti duri e pietrosi che Sironi dipinge intorno al 1905. La prevalenza di una dominante scura, del resto, segnerà quasi tutta la sua pittura, ben al di là delle sperimentazioni luministiche d’inizio secolo. Il gallerista Giorgio Marconi, che frequenterà l’artista negli anni cinquanta, dirà di lui: «Mi ha insegnato che l’ombra è più forte della luce».12 Tra i punti di incontro della cerchia di Prini e Balla c’è anche la casa di Sironi, dove intellettuali e artisti si radunano la sera della domenica, quando
· Amicizie e incontri: Boccioni, Severini, Balla, Prini ·
Cristina dà concerti al piano. Ne rimane un’eco in lavori di questo periodo come Al pianoforte, La sorella Cristina al pianoforte, La sorella che suona. Del resto per Sironi la musica, che approfondisce anche lui attraverso lo studio del piano, non è un passatempo giovanile ma una passione profonda in cui si radicano alcuni aspetti della sua pittura: l’interesse per il ritmo del quadro, il ricorrere di un titolo musicale come Composizione, la vocazione antinarrativa (Sironi non è mai descrittivo, tanto meno letterario, nemmeno quando affronta soggetti epici, storici o allegorici). Abbiamo visto che la madre Giulia aveva studiato da giovane come soprano. Alla cerchia degli amici di famiglia, poi, appartenevano i pianisti Pilstron e Roesler Franz e un baritono russo, un certo Nesdin. Fra gli amici di Prini che Sironi frequentava, inoltre, c’erano Gennaro Napoli, musicista e autore di fortunati manuali di teoria della composizione, e probabilmente Alberto Gasco, che diventerà una delle figure più rappresentative del panorama musicale romano dell’epoca. Ma fermiamoci un momento su quelle “serate domenicali”. Elica Balla sostiene che Sironi non sempre vi partecipava e le si può credere, perché l’artista era tutt’altro che salottiero, anche se non era un isolato, come non lo sarà mai. Stabilire chi le frequentasse, però, può definire meglio la sua cerchia di amicizie, e da Costantini sappiamo che fra gli artisti presenti (oltre a Boccioni, Severini e Prini) c’erano Tannenbaum e Ortiz de Zárate. Nominato sempre frettolosamente nelle ricostruzioni storiografiche, lo scultore Felix Tannenbaum, che aveva due anni più di Sironi, era uno dei suoi amici più cari. Era nato nel 1883 a Gehaus, in Turingia, da una famiglia di religione ebraica che nel 1891 si era trasferita a Erfurt, la principale città della regione. Qui aveva compiuto gli studi e risulta risiedere fino al 1908. Già verso il 1904, però, aveva soggiornato a Roma, dove nel 1905 espone alla “Mostra degli Amatori e Cultori”. Nello stesso periodo conosce Prini (che nel 1906 esegue un suo ritratto) e i giovani della sua cerchia fra cui Sironi. Decide così, nel 1908, di stabilirsi definitivamente nella Città Eterna, tornando però più di una volta a Erfurt. Nell’agosto 1908 e nel 1910-1911 vi torna anzi accompagnato dall’amico Mario: due viaggi che non si spiegherebbero (il secondo dura più di quattro mesi) alla luce di una frequentazione superficiale. Tannenbaum rientra a Erfurt nel 1914, poco dopo lo scoppio del conflitto. Quando anche l’Italia entra in guerra lo raggiunge la moglie, Asia Solovcic, anch’essa di fede ebraica, con la loro piccola Helene, nata a Roma nel 1915.13 Questa amicizia giovanile non è senza significato, non solo per la nazionalità di Tannenbaum (sulla sensibilità “tedesca” di Sironi non c’è bisogno
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di insistere), ma anche per la sua religione. Nella pittura sironiana non ci sarà mai nessun tema, anzi nessun accento antisemita, nemmeno nella pittura murale ispirata alla dottrina del fascismo e nelle illustrazioni per Il Popolo d’Italia dopo le leggi razziali. Nelle sue convinzioni deve aver contato, anche più del sodalizio con Margherita Sarfatti (ebrea di nascita, ma da ragazza laica e socialista e nel 1928 convertita al cristianesimo), la consuetudine giovanile con Tannenbaum, di cui aveva a lungo frequentato la famiglia, conoscendone da vicino le tradizioni e la fede. Più episodica è invece l’amicizia con il pittore cileno Manuel Ortiz de Zárate, che giunge a Roma intorno al 1905 dopo essere stato a Parigi. Della Ville Lumière aveva parlato appassionatamente a Modigliani e possiamo immaginare che ne discorresse a lungo anche con l’amico Mario. Agli incontri domenicali partecipano inoltre uomini di lettere. Costantini ricorda Cardarelli, che giunge a Roma giovanissimo nel 1904, e lo scrittore calabrese, ma napoletano d’adozione, Vincenzo Gerace, amico di Gentile e di Croce, che sarà fidanzato per qualche tempo con Matilde, la futura moglie dell’artista. È probabile poi che Sironi abbia conosciuto Corazzini, il poeta crepuscolare amico anche di Severini, che scompare a soli ventun anni nel 1907. È dubbio invece che abbia frequentato, già a questa data, Marinetti, ci38
tato a volte tra gli amici di famiglia, ma che all’epoca viveva a Milano. Piuttosto, tra le figure che compongono la sua cerchia, non va sottovalutato il cugino Lucio D’Ambra. E non tanto per la sua futura attività di romanziere e uomo di teatro, quanto perché già in quegli anni stava maturando una passione per la letteratura francese che lo porterà nel 1913 a recensire, per primo in Italia, la Recherche di Proust.14 Sironi, insomma, nonostante le ricorrenti crisi psicologiche, si trova fin dalla giovinezza al centro di una trama di rapporti con artisti e intellettuali italiani e stranieri che sono l’occasione di conoscenze profonde, non scolastiche, in varie direzioni espressive. La sua è una formazione poliedrica in cui la sensibilità dell’ambiente familiare si mescola agli stimoli degli amici, l’attrazione per la cultura tedesca si accosta all’interesse per la cultura francese, lo studio della pittura e dell’architettura si intreccia con quello della letteratura, della musica, della filosofia. È questa formazione complessa che contribuisce a fare di lui non un pittore letterario ma un artista colto, capace di alternare il pennello alla penna nell’esercizio della critica e della teoria dell’arte e, negli anni più tardi, della poesia.