«Il maggior filosofo dell’arte americano: documentato, lucido e coraggioso.» Richard Sennett, autore di L’uomo artigiano «Autore di erudita eleganza, che si lascia leggere con estrema facilità.» Deborah Solomon, New York Times Book Review «Danto era e rimane il gran sacerdote del pluralismo e il più convinto sostenitore dell’idea che l’arte debba avere un’essenza che la distingue da tutto il resto.» Financial Times
Che cos’è l’arte
In copertina: Mike Bidlo, Not Warhol (Brillo Soap Pads Box – Pasadena Type, 1969), 1991. Courtesy Galerie Bruno Bischofberger, Switzerland.
«Definire l’arte sembra un’impresa impossibile. Ogni scelta è coerente con l’essere arte, ma nessuna è condizione necessaria. Filosoficamente, il punto è che l’arte è sempre qualcosa in più delle condizioni necessarie per esserlo.»
Arthur C. Danto
Arthur Coleman Danto (1924-2013) è stato Professore emerito della Columbia Univer sity a New York, critico d’arte per The Nation e uno fra i più influenti pensatori sull’arte del xx secolo. Tra i numerosi libri si ricordano La destituzione filosofica dell’arte (1992), Dopo la fine dell’arte (2007), La trasfigurazione del banale (2010).
Arthur C. Danto
Che cos’è l’arte
Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo 5. Marco Meneguzzo Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) 6. Frederic Spotts Hitler e il potere dell’estetica 7. Pierre Schneider Louvre, mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo 8. Miriam Bratu Hansen Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno 9. Aldo Grasso – Vincenzo Trione Arte in tv. Forme di divulgazione 10. Lewis Baltz Scritti Isbn 978-88-6010-122-8
Che cos’è l’arte? È questo l’eterno interrogativo sul quale il filosofo e critico Arthur C. Danto ritorna in un saggio che è insieme dissertazione filosofica e riflessione autobiografica. Prendendo le distanze da chi vorrebbe ridurre l’arte a ciò che è considerato tale in un contesto istituzionale o da chi addirittura la ritiene indefinibile, l’autore individua alcune caratteristiche che le restituiscono contorni netti: l’arte ha una sua permanenza ontologica nelle forme pur variabili in cui si manifesta. A determinare un’opera d’arte è la capacità di dare corpo a un’idea, di esprimerla per mezzo di un “fare artistico” che traduce il pensiero in materia nel modo più efficace, travalicando le contingenze. Ma ciò non basta. Essa deve incarnare qualcosa di impalpabile, che la accomuni a un sogno a occhi aperti e che conduca il fruitore a uno stato emotivo e sensoriale nuovo. Danto approda così a conclusioni lontane dal relativismo che per decenni gli è stato attribuito: per capire l’arte non ci vuole un concetto aperto, ma una mente aperta. Nel guidare il lettore tra i grandi nomi del pensiero filosofico e dell’arte di ogni epoca (in particolare Michelangelo, Poussin, Duchamp e Warhol), l’autore traccia un ambizioso percorso che dalle teorie platonica e kantiana prosegue analizzando le innovazioni ‒ prospettiva, chiaroscuro, fisiognomica e nascita della fotografia ‒ che hanno segnato il progresso dell’arte occidentale, fino al suo apparente esaurimento con l’avvento delle poetiche concettuali e la scomparsa dell’estetica come valore. Che cos’è l’arte riassume riflessioni decennali, ricavandone nuovi affascinanti sviluppi, e rappresenta così una via d’accesso ideale al sistema filosofico del maggior critico americano nell’ambito delle arti visive.
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Saggi d’arte 11
© 2014 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di settembre 2014 isbn 978-88-6010-122-8 © Arthur C. Danto Titolo originale: What Art Is Yale University Press, Yale 2013 Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.
Arthur C. Danto
Che cos’è l’arte Traduzione di Nicoletta Poo
Sommario
Nota della traduttrice
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Prefazione
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Ringraziamenti
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1. Sogni a occhi aperti
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2. Restauro e significato
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3. Il corpo nella filosofia e nell’arte
63
4. Fine della gara. Il paragone tra pittura e fotografia
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5. Kant e l’opera d’arte
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6. Il futuro dell’estetica
99
Note
113
Bibliografia
117
Indice analitico
121
A Lydia Goehr
Nota della traduttrice
Com’è noto ai lettori affezionati, nelle opere a carattere divulgativo Danto spesso omette riferimenti bibliografici completi in forma di nota, prediligendo cenni discorsivi che permettono in genere di reperire i luoghi citati o parafrasati nel corso dell’argomentazione. Tuttavia, per la versione italiana è stato necessario individuare dove possibile le fonti dell’Autore e si è scelto di renderle esplicite anche per agevolare chi voglia approfondire il suo percorso concettuale. Tutte le note con esponente numerico che figurano nel presente volume, quindi, sono state inserite nel corso della traduzione e sono tutte di carattere bibliografico. Le rare note esplicative sono invece a piè di pagina o addirittura inglobate nel corpo del testo, per non interrompere la lettura. Tra i termini tipicamente legati al discorso di Danto sull’arte, ricorrono in questo testo to embody e embodiment che in Dopo la fine dell’arte (Bruno Mondadori 2008) avevo tradotto con incarnarsi e incarnazione (pp. 204-205 et passim). L’insoddisfazione per questa scelta, che tuttavia coincide con quella di altri traduttori, mi ha portato qui a usare una diversa locuzione: “prendere corpo” per to be embodied e “dare corpo” per to embody, mentre “il prendere corpo” traduce il sostantivo embodiment. Embodied meaning sarà quindi “significato che prende corpo” in una data opera d’arte, formula che mi sembra renda con semplicità e chiarezza il pensiero dell’Autore. Desidero ringraziare il professor Stefano Velotti, conoscitore e traduttore di Danto, per le delucidazioni in merito all’uso del termine theory che compare nell’ultimo capitolo (si veda la nota esplicativa). Ringrazio infine Roberta Cerini Baj e Angelo Baj per avermi lasciato saccheggiare le preziose risorse librarie di famiglia. Nicoletta Poo Milano, febbraio 2014
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Prefazione
Platone, come è noto, definiva l’arte come mimesi, anche se non è chiaro se la sua fosse una teoria o una semplice osservazione, visto che l’arte nell’Atene del suo tempo non era molto più di questo. Non c’è dubbio comunque che mimesi, o imitazione, significasse per il filosofo più o meno quello che significa per noi: somiglianza con una cosa vera senza essere la cosa vera. L’interesse di Platone per l’arte però era per lo più negativo: il suo obiettivo era progettare una società ideale – una repubblica – e non vedeva l’ora di sbarazzarsi degli artisti considerando il loro lavoro di scarsissima utilità pratica. Così tracciò una mappa della conoscenza umana collocando l’arte al livello più basso insieme a riflessi, ombre, sogni e illusioni: semplici apparenze, categoria cui apparteneva per l’appunto anche l’opera dell’artista. Se gli artisti sapevano disegnare un tavolo, ciò significava che conoscevano l’aspetto di un tavolo. Ma avrebbero saputo costruirne uno? Probabilmente no, dunque a che cosa potevano mai servire le sembianze di un tavolo? Ad Atene era in atto un conflitto aperto tra arte e filosofia: gli scritti dei poeti venivano usati per insegnare ai giovani come comportarsi mentre, secondo Platone, la morale doveva essere lasciata ai filosofi, i quali per dare una spiegazione delle cose non usavano imitazioni, ma la realtà. Nel x libro della Repubblica il Socrate platonico sostiene che, se il fine è l’imitazione, niente funziona meglio di uno specchio, che rifletterà perfettamente qualunque cosa gli venga posta innanzi con risultati in genere migliori di quelli ottenuti da un artista. Quindi, bisogna liberarsi degli artisti! I greci usavano testi come l’Iliade con finalità pedagogiche, poiché in essi trovavano modelli di giusta condotta; i filosofi però conoscevano qualcosa di superiore, che Platone chiamava idee. Una volta eliminati gli artisti, i filosofi sarebbero stati liberi di insegnare e di mettersi al servizio della società come governanti incorruttibili. In ogni caso l’arte, per come era praticata, consisteva innegabilmente in una mimesi o nella ricerca di apparenze, per parafrasare gli studiosi moderni. Che differenza rispetto ai nostri giorni! «Mi interessano moltissimo i possibili approcci al problema dell’essenza dell’arte», mi scrive l’artista e amico Tom Rose in un appunto personale. «“Che cos’è l’arte?” è una domanda che riemer-
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· Arthur C. Danto ·
ge in qualunque corso e in qualunque contesto.» È come se l’imitazione scomparisse e sopraggiungesse qualcos’altro al suo posto. Nel Settecento, quando fu inventata (o scoperta) l’estetica, si pensava che l’arte fosse portatrice di bellezza e che quindi desse piacere a chi aveva gusto. Bellezza, piacere e gusto erano una triade interessante, presa in seria considerazione da Kant nelle prime pagine del suo capolavoro, la Critica del giudizio. Dopo Hume e Kant arrivarono Hegel, Nietzsche e Heidegger, Merleau-Ponty e John Dewey, ciascuno dei quali ha avanzato tesi eleganti ma tra loro inconciliabili. E poi ci sono stati gli artisti stessi, con quadri e sculture da vendere in gallerie, fiere e biennali. Non c’è da stupirsi che la domanda sulla natura dell’arte emerga «in qualunque corso e in qualunque contesto». Che cos’è quindi l’arte? Quello che possiamo evincere dalla cacofonia del discorso artistico è che esistono troppi esempi di arte non mimetica per leggere Platone se non per il gusto di conoscerne il pensiero. Il suo fu un primo passo; Aristotele andò ancora oltre, applicando la definizione platonica alle rappresentazioni teatrali (tragedie e commedie) che a suo dire erano imitazioni di azioni. Antigone era la moglie ideale, Socrate non proprio un marito modello e così via. A mio modo di vedere, se alcuni tipi di arte sono imitativi e altri no, né la mimesi né la non mimesi appartengono alla definizione di arte filosoficamente 14
intesa. Una proprietà entra a far parte della definizione di arte solo se è condivisa da qualunque opera d’arte esistente. Con l’avvento del Modernismo, l’arte si allontanò dal modello dello specchio o, per meglio dire, la fotografia impose nuovi parametri di fedeltà; essa aveva un vantaggio rispetto ai riflessi di uno specchio, cioè la capacità di fissare le immagini in modo permanente. Salvo, naturalmente, sbiadire. Ci sono vari livelli di fedeltà nell’imitazione, quindi la definizione platonica dell’arte è rimasta valida, con poche obiezioni, fino a quando ha cessato di cogliere l’apparente essenza dell’arte. A che cosa si deve la svolta? Storicamente si deve all’avvento del Modernismo, quindi questo libro parte esaminando alcuni cambiamenti rivoluzionari verificatisi in Francia, in particolare a Parigi. La posizione platonica ebbe vita facile dal vi secolo a.C. fino al 1905-1907, quando arrivarono i cosiddetti fauves (“belve”) e poi il Cubismo. A mio avviso, per elaborare una definizione migliore di quella platonica bisogna guardare agli artisti più recenti, poiché sono più propensi a eliminare dalle teorie sull’arte qualità che in passato erano ritenute essenziali, come la bellezza. Nel 1915 Marcel Duchamp trovò il modo di sbarazzarsi del bello, mentre nel 1964 Andy Warhol scoprì che un’opera poteva essere assolutamente identica a un oggetto reale, benché tutti i grandi movimenti degli anni sessanta (Fluxus, Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale) producessero arte che non era esattamente mimetica. Per paradosso, negli anni settanta la scultura e la fotografia spostarono il baricentro dell’autoconsapevolezza artistica. Da quel momento in poi iniziò ad andare be-
· Prefazione ·
ne quasi tutto, con la conseguenza che non si capisce più se sia ancora possibile elaborare una definizione di arte. Non tutto può essere arte. Il primo capitolo, il più lungo, potrebbe sembrare un excursus di storia dell’arte, ma non lo è. I principali studiosi di estetica hanno deciso che l’arte non era definibile poiché non c’è un tratto che accomuni indistintamente tutte le sue forme; nel migliore dei casi, si può dire che essa è un concetto aperto. Io invece sono convinto che debba essere un concetto dai contorni netti, devono esistere alcune caratteristiche comuni che spiegano perché l’arte è, in un certo senso, universale. È vero che l’arte oggi è pluralistica, fatto già rilevato da alcuni seguaci di Wittgenstein. Ciò che dà all’arte una forza così grande, come pare possegga in ogni sua espressione, si deve a ciò che, in primo luogo, la rende arte. Niente riesce a smuovere lo spirito come l’arte. Ho cercato, usando Duchamp e Warhol, di elaborare una mia definizione di arte e di mostrare, basandomi su esempi storici, che la definizione è stata sempre la stessa; ho preso in esame Jacques-Louis David, Piero della Francesca e la Cappella Sistina di Michelangelo. Se si parte dal presupposto che l’arte sia qualcosa di unitario, bisogna dimostrare che quanto la rende tale ricorre nell’arco di tutta la sua storia. 15
1 Sogni a occhi aperti
All’inizio del xx secolo, a partire dalla Francia, si scatenò una rivoluzione nelle arti visive. Fino ad allora quella che, salvo diversa indicazione, chiamerò semplicemente “arte” si dedicava a riprodurre l’apparenza per mezzo di diverse tecniche. Quel progetto risultò essere frutto di una storia progressiva che, iniziata in Italia ai tempi di Giotto e Cimabue, raggiunse il suo apice in epoca vittoriana, quando gli artisti figurativi furono in grado di ottenere una modalità di rappresentazione ideale, conforme alla definizione data dall’artista rinascimentale Leon Battista Alberti nel suo De pictura: non ci dovrebbe essere alcuna differenza fra ciò che appare in un dipinto e quanto, intravisto dalla finestra, è rappresentato in quel dipinto. Un buon ritratto, quindi, dovrebbe essere indistinguibile dal soggetto del ritratto che ci guarda da una finestra. Inizialmente, questo non era possibile. La pittura di Giotto avrà anche folgorato i contemporanei ma, per usare un esempio dello storico dell’arte Ernst Gombrich, il suo tratto appare rudimentale se confrontato con l’immagine di una ciotola di cereali disegnata con l’aerografo da un pubblicitario dei nostri giorni.1 Tra le due rappresentazioni sono intercorse varie scoperte: la prospettiva, il chiaroscuro e la fisiognomica, ovvero l’arte di rappresentare in maniera naturalistica tratti del volto umano che esprimano sentimenti adatti alla loro situazione. Visitando una mostra di Nadar, il fotografo francese del xix secolo, con volti da cui trasparivano emozioni diverse, Cindy Sherman disse che le sembravano tutti uguali. Spesso è il contesto a illuminarci: una maschera di orrore davanti a una scena di battaglia può diventare un’espressione divertita alle Folies Bergère. L’arte, nei suoi vari generi quali ritratto, paesaggio, natura morta e pittura storica (quest’ultima molto apprezzata nelle accademie di corte) aveva forti limiti nella raffigurazione del movimento. Si poteva capire che un personaggio era in movimento, ma non si riusciva propriamente a vederlo nell’atto di muoversi. La fotografia, inventata negli anni trenta del xix secolo, era già considerata un’arte da uno dei suoi inventori, l’inglese William Henry Fox Talbot, il quale la definiva “la matita della natura”, come se quest’ultima ritraesse se stessa per
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· Arthur C. Danto ·
mezzo della luce, interagendo con superfici fotosensibili. La luce era un’artista assai più abile di Fox Talbot, a cui piaceva portare a casa immagini di quello che vedeva, ma non sarebbe stato in grado di dipingerle. Eadweard Muybridge, un inglese trapiantato in California, poté fotografare un cavallo al trotto grazie a una batteria di macchine fotografiche azionate dal passaggio dell’animale; realizzò così una serie di scatti che mostrava le varie fasi del movimento chiarendo anche l’annosa questione degli zoccoli dei cavalli in corsa, che non vengono mai posati a terra tutti e quattro contemporaneamente. In un volume dal titolo La locomozione animale, pubblicò altre fotografie simili di animali in movimento e di esseri umani. Poiché rivelava dettagli invisibili all’occhio nudo, la macchina fotografica era ritenuta più fedele alla natura del nostro organo visivo. Per questo motivo molti artisti erano convinti che la fotografia mostrasse quello che vedremmo se la nostra vista fosse più acuta. Ma le immagini di Muybridge, come accade spesso con i fogli di provini, non sono sempre d’immediato riconoscimento poiché il soggetto non ha avuto il tempo necessario per comporre i propri tratti in un’espressione familiare. Solo con l’avvento della cinepresa, che muoveva stringhe di pellicola con regolarità meccanica, fu possibile vedere, in fase di proiezione, qualcosa di simile al movimento. Grazie a quest’invenzione i fratelli Lumière realizzarono veri e propri filmati cinematografici proiettandoli 20
per la prima volta nel 1895: la nuova tecnologia riproduceva il movimento di uomini e animali come dal vero, l’osservatore esterno non doveva più intuirlo. Va da sé che a molti queste scene risultarono poco interessanti (come gli operai che uscivano in fila dalla fabbrica dei Lumière) e forse per lo stesso motivo anche i Lumière conclusero che il cinema era un’invenzione senza futuro. Come è noto, l’avvento del cinema narrativo dimostrò il contrario. Fu così quindi che le immagini in movimento si allearono con le arti letterarie, legame ulteriormente rafforzato in seguito dal sonoro. Unendo suono e movimento il cinema aveva due caratteristiche che la pittura non poteva emulare, così il progresso delle arti visive in quanto storia della pittura e della scultura s’interruppe e gli artisti che speravano di procedere lungo questa strada restarono senza una meta. Si metteva così fine all’arte com’era intesa prima del 1895. Ma in realtà proprio allora la pittura entrò in una fase gloriosa e, dopo un decennio dalla prima proiezione dei Lumière, conobbe una vera e propria rivoluzione. Per i filosofi terminò la supremazia del criterio di Alberti, circostanza che in qualche modo spiega la carica politica del termine “rivoluzione”. Esaminiamo ora un esempio paradigmatico di pittura rivoluzionaria, ovvero Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, eseguito nel 1907 ma rimasto nello studio dell’artista per vent’anni. Oggi è un’opera ormai familiare, ma nel 1907 rappresentò una svolta, il definitivo abbandono del criterio di Alberti. Si poteva dire che quella non era arte, ma con ciò bisognava intendere che non apparteneva alla storia inaugurata da Giotto. Una storia, peraltro, che aveva escluso alcune
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fra le pratiche artistiche più significative, con l’eccezione della pittura cinese e giapponese, che pure non si adattavano perfettamente al progresso storico; avevano, per esempio, un tipo di prospettiva che appariva scorretto. L’arte polinesiana, africana e molte altre forme invece erano state giudicate inaccettabili2 e oggi sono visibili nei cosiddetti musei “enciclopedici”, come il Metropolitan Museum di New York o la National Gallery di Washington. In epoca vittoriana, le opere di tali tradizioni culturali vennero definite “primitive”, ritenute cioè di un livello paragonabile a quello degli albori dell’arte europea, come i primitivi senesi. L’idea era che quelle opere fossero arte nel senso di perfetta imitazione della realtà, ammesso che quelli che le creavano ne fossero consapevoli. Nel xix secolo opere appartenenti a queste tradizioni vennero esposte nei musei di storia naturale, a New York, Vienna o Berlino, e studiate da antropologi più che da storici dell’arte. Eppure era arte, e in quanto tale riveste un’importanza considerevole per questo libro che si propone di analizzare il concetto in un senso molto più ampio del mio iniziale uso del termine. Le enormi differenze tra l’arte che appartiene alla storia cosiddetta “albertiana” e quella che non vi appartiene evidenziano come la ricerca della verità visiva non rientri nella definizione di arte. Si può dire che essa sia una delle grandi conquiste della civiltà occidentale e che sia quindi il tratto distintivo dell’arte iniziata in Italia e progredita in Germania, Francia, Olanda e altrove, compresa l’America. Ma non è una caratteristica dell’arte in quanto tale. Solo ciò che appartiene a tutta l’arte appartiene all’Arte in quanto tale. Vedendo un’opera che lascia interdetti spesso ci si chiede: “Ma è davvero arte?”. A questo punto, però, entra in ballo la differenza tra essere arte e saperla riconoscere. L’ontologia studia le modalità dell’essere, mentre il riconoscere è compito dell’epistemologia – la teoria della conoscenza – sebbene nel nostro caso più che di conoscenza si parli di competenza di un intenditore. Lo scopo di questo libro è contribuire all’ontologia dell’Arte, intendendo con la maiuscola il termine nell’accezione più ampia, che includa proprio tutto quello che i membri del mondo dell’arte considerano degno di essere esposto e studiato nei grandi musei enciclopedici. Molti reduci da un corso base di storia dell’arte probabilmente sanno che Les Demoiselles di Picasso è un capolavoro del primo Cubismo che raffigura cinque prostitute in un noto bordello di Barcellona, e che l’opera prende il nome dalla strada in cui si trovava la casa chiusa. Le dimensioni della tela (243,9 × 233,7 cm) sono quelle di un quadro storico di battaglia, il che implica una dichiarazione rivoluzionaria, un messaggio sbandierato. Nessuno può davvero credere che le donne raffigurate fossero proprio come Picasso le ha ritratte. Una fotografia del quintetto chiarirebbe subito che all’artista non interessava riprodurre le loro sembianze, eppure nell’immagine ci sono elementi di realismo. La scena si
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svolge nel salone del bordello e due delle cinque donne alzano le braccia per mostrare le proprie grazie ai clienti. C’è una ciotola di frutta sul tavolo, per far capire che la scena si svolge in un interno. Nel quadro sono presenti tre tipi di donne, in diversi stili. Sarebbe impossibile vedere attraverso una finestra quanto è raffigurato nel quadro. Le due con le braccia alzate sono dipinte in stile fauve – che descriverò a breve –, i volti cerchiati di nero e gli occhi sproporzionati. Sulla destra del quadro ci sono altre due donne, una con il viso coperto da una maschera africana e un’altra con il capo uguale alle immagini delle divinità africane. Una è accovacciata a terra. Sul lato sinistro della tela sta facendo il suo ingresso una donna bella, nel caso le altre due non risultassero sufficientemente attraenti. Leggendo la tela da destra a sinistra, è evidente un’evoluzione di figure femminili da primitive a civettuole in stile fauve, per poi approdare a una bellezza simile a quella che caratterizza il periodo rosa. Le due donne che ammiccano sono inondate di luce, investite dall’alto da una specie di pioggia luminosa, e questo suddivide la scena in tre aree verticali: a destra una specie di tenda composta di frammenti cubisti, a sinistra una sezione completamente diritta come una quinta di palcoscenico che conferisce allo spazio qualcosa di teatrale. La sequenza di corpi (e teste!) femminili è come uno schema freudiano di Es, Io e Super-Io. A chi avesse contestato 22
che le donne rappresentate nel dipinto non assomigliano per niente a quelle vere, Picasso avrebbe potuto controbattere che a lui non interessavano le apparenze, ma la realtà. Le due in stile africano sono selvagge, impetuose, aggressive. Quelle al centro sono prostitute flessuose e seducenti. Dalla sinistra, invece, entra in scena una giovane parigina dai tratti convenzionali. Dalla prospettiva della pittura tradizionale, si registra senz’altro un’incoerenza stilistica. Questa incoerenza tra i tre tipi di donna è servita a Picasso per rappresentare tre livelli psicologici o tre stadi nell’evoluzione fisica femminile. Tanto la triade psicologica, quanto quella evolutiva si snodano sullo sfondo del postribolo. Alla domanda su quale sia il tema del quadro, la risposta corretta sarebbe probabilmente “le donne come Picasso ritiene che siano realmente”, ovvero destinate al sesso. L’arte di Picasso, infatti, è una battaglia contro le apparenze e quindi contro la storia progressiva dell’arte. Les Demoiselles sono dipinte in un modo nuovo per far emergere quella che era, secondo Picasso, la verità sulle donne. Nel 1905 Parigi era già stata colpita da una ventata rivoluzionaria, con il Salon d’Automne tenutosi al Grand Palais. Una galleria in particolare manifestò un’ostilità tale da spiegare perché Picasso abbia poi rifiutato di esporre in pubblico il suo capolavoro. I soggetti raffigurati erano ordinari (barche a vela, bouquet, paesaggi, ritratti, scampagnate), ma non rappresentati come li vediamo dal vero. Un critico dell’epoca descrisse il contenuto della sala come «un Donatello in mezzo alle belve [fauves]». Il critico, Louis Vauxcelles, usò il termine con ironia, come quando chiamò “cubisti” Picasso e Georges Braque coniando un
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nuovo termine. La parola “belve”, però, si adatta meglio ai quadri realizzati verso la fine della storia progressiva delineata da Alberti, perché i soggetti erano terrificanti, per esempio il quadro di Paul Delaroche in cui lady Jane Grey, bendata, cerca il ceppo per offrire il collo al boia. Nel caso dei fauves erano gli artisti a essere “belve”, non quello che dipingevano, che era al contrario piuttosto delicato. Impossibile non elogiare chi allestì un accostamento così spettacolare: Donatello, un maestro del Rinascimento, circondato da opere di artisti che il pubblico giudicava incapaci di dipingere o scolpire. Usavano colori vivaci, molto probabilmente spremuti direttamente dal tubetto, contornati da pesanti tratti neri: le due demoiselles rosa di Picasso, anch’esse bordate di nero e con gli occhi spalancati come arcaiche sculture spagnole, incarnano lo spirito fauve. Due famosi fauves erano Henri Matisse e André Derain. Che gli artisti presenti apprezzassero o meno, la strategia di esibire opere caratterizzate dallo stesso stile stravagante – più era selvaggio, meglio era – era sintomo di un’innovazione in atto nel mondo dell’arte. Tanto meglio se il pubblico rispondeva con risa e motteggi: confermava la cifra rivoluzionaria di quel tipo di arte. C’era anche una tradizione in tal senso: a causa di giudici particolarmente severi che avevano respinto molte opere dal Salon del 1863, il re Luigi Napoleone aveva deciso di allestire un Salon des refusés in cui potessero esporre, se lo volevano, gli artisti esclusi dalla mostra principale. Come prevedibile, davanti a quei quadri, tra cui c’era anche l’Olympia di Manet, i parigini si sbellicarono dalle risate. Il quadro raffigurava una nota prostituta, Victorine Meurant, nuda e bellissima, con i piedi sporchi, un nastro intorno al collo e uno sguardo di sfida in volto; al suo servizio una donna di colore, con in mano un mazzo di fiori senz’altro dono di un cliente. Claude Monet successivamente riuscì a trovare un gruppo di ammiratori che acquistò Olympia, destinata a diventare un tesoro dell’arte nazionale. Un fatto importante della mostra del 1905 fu l’acquisto di Donna con cappello di Matisse da parte del collezionista americano Leo Stein (non la sorella Gertrude); Leo Stein era tra coloro che inizialmente pensavano che Matisse non sapesse dipingere. Annotò la sua prima impressione proprio vedendo Donna con cappello: «Geniale e potente, ma è la più sgradevole crosta di vernice che abbia mai visto». Era, scrive John Cauman, il primo acquisto di un Matisse da parte di un americano. La modella era la moglie dell’artista, il quale probabilmente ne aveva voluto evidenziare l’indole forte e indipendente; anche qui è palese che non c’era l’intenzione di ritrarre l’aspetto che la donna avrebbe avuto in una fotografia, ma piuttosto il suo modo di essere, offrendo una precisa interpretazione di quanto accade nel dipinto. Matisse l’ha raffigurata con tratti caratteriali invece che visivi. Il quadro doveva quindi esprimere ammirazione, e sta a noi comprendere che cosa intendesse con quel messaggio. Secondo me, l’appariscente cappello è lo specchio del carattere: una donna che sceglie un copricapo del ge-
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nere vuole attirare l’attenzione, e lo stesso vale per il gioco cromatico del vestito, ben diverso dal classico nero indossato dalle signore della borghesia. Anche lo sfondo è un insieme di macchie di colore che spesso richiamano l’abito; non è ritratta in una stanza o in un giardino, ma sullo sfondo di disordinate chiazze di vernice mutuate da Cézanne. Con l’atteggiamento tipicamente riservato all’arte che non rispettava i canoni di Alberti, il pubblico francese derise il modo in cui Matisse aveva ritratto la moglie e, in tutta la sua umanità, l’artista cominciò a dubitare del proprio talento; l’accoglienza da parte degli Stein gli fece ritrovare fiducia. Le vendite alle mostre infatti non sono mai un semplice scambio arte-denaro; soprattutto agli albori del modernismo, il denaro rappresentava una vittoria dell’arte contro quella derisione volta a screditarla. A questo punto vorrei citare un estratto dall’Uomo con la chitarra blu, del poeta americano Wallace Stevens, che comprese molto bene i quadri che stiamo analizzando. Dissero: “Hai una chitarra blu, non suoni la cosa come fu”. L’uomo rispose: “La cosa come fu cambia sulla chitarra blu”. 24
Allora dissero: “Ma suona, devi, una musica superiore eppure nostra, una musica sulla chitarra blu della cosa precisamente come fu”.3 E infatti questo è ciò che i primi modernisti fecero. Nel 1910 il pittore americano Arthur Dove iniziò a fare pittura astratta insieme al suprematista Malevič, il quale realizzò il suo Quadrato nero nel 1915; l’astrazione infatti piaceva ai pittori d’avanguardia del primo modernismo e, successivamente, agli esponenti del modernismo maturo della cosiddetta Scuola di New York (noti anche come espressionisti astratti), attivi negli anni quaranta e cinquanta. Fino all’avvento dell’astrazione, i dipinti erano anche immagini: per molto tempo, anzi, erano stati quasi intercambiabili. Il critico Clement Greenberg, per esempio, parlava delle opere dell’Espressionismo Astratto chiamandole immagini, come se ogni quadro dovesse essere per forza un’immagine, benché astratta; si poneva quindi la domanda di quale potesse essere il soggetto, dato che non assomigliava a niente di riconoscibile. La risposta, ovvia, era che l’artista dipingeva i suoi sentimenti, non qualcosa di visibile. In un celebre articolo Harold Rosenberg, il critico rivale di Greenberg, affermò che i pittori astratti compivano un’azione sulla tela, come un torero compie un’azione nell’arena. Questo in un certo senso spiegava gli entusiastici lanci di colore con bastonci-
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ni o pennelli di Pollock, o le pesanti pennellate tipiche di Willem de Kooning, spesso combinate a formare una figura, come nella famosa serie di donne del 1953. All’epoca però la critica versava in uno stato tale che la teoria di Rosenberg venne demolita con giochi di parole del tipo: “Come si può appendere al muro un’azione?». La pennellata dei pittori cui pensava Rosenberg rappresentava tracce di azione, come il segno di una sbandata è traccia della sbandata. Negli anni quaranta a New York esistevano due concetti di astrazione. Secondo l’accezione europea, l’artista compie un’astrazione a partire dalla realtà visiva, in modo che esista per così dire un percorso che va dalla superficie del quadro al mondo reale diverso da quello tradizionale in cui la superficie dell’opera “imitava” la cosiddetta superficie della realtà. Sullo sfondo, sempre l’assunto rinascimentale discusso in precedenza in base al quale guardare un’immagine era come guardare da una finestra sul mondo. Era come se l’artista riproducesse sul pannello o sulla superficie della tela la stessa sequenza di stimoli visivi che interessavano l’occhio di uno spettatore che guardasse attraverso una superficie trasparente il soggetto di un quadro. L’astrazione spezzava questo collegamento: la superficie della pittura raffigurava solo astrattamente l’esteriorità dell’oggetto. Eppure sopravviveva un percorso tra realtà e pittura, per questo si continuava a parlare delle astrazioni come “immagini”. Una celebre e autorevole sequenza di dipinti di Theo van Doesburg mostra i diversi stadi attraverso cui il Cubismo passa dalla semplice immagine di una mucca a un’astrazione dello stesso soggetto che non assomiglia per niente a una mucca. Se Pasifae, attratta dal toro e mascheratasi da giumenta, avesse avuto l’aspetto dell’ultima tela di van Doesburg, nessun toro al mondo l’avrebbe degnata di uno sguardo. Non c’è alcuna evidente somiglianza tra la mucca e la pittura, come non c’è alcuna somiglianza tra la prima e l’ultima tela della sequenza. Tuttavia, quello che van Doesburg voleva dimostrare era che l’arte astratta deve prendere le mosse dalla natura, dalla realtà oggettiva così come essa ci appare. All’epoca, il percorso verso l’astrazione era la geometrizzazione in una forma, quasi sinonimo di modernità. Il più significativo protagonista dell’astrazione naturalista fu l’artista e maestro Hans Hofmann, fondatore di una fortunata scuola di pittura a New York, nel Greenwich Village, che in estate si trasferiva a Provincetown (Cape Cod). Quando Hofmann disse a Jackson Pollock che l’astrazione viene dalla natura, Pollock rispose: «Io sono natura», un’affermazione che si basava sulla teoria dell’automatismo nell’accezione usata dai surrealisti. La mente, persino quella inconscia, fa parte della natura. In merito al Surrealismo, Hofmann aveva le sue riserve. Esso insisteva sulla sur-realtà, cioè sul superamento della realtà, su una sorta di psicologia della realtà nascosta alla mente conscia che secondo i surrealisti costituiva la base della vera arte. Il punto di partenza restava la natura, che può essere penetrata
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affinché riveli la sua base psichica; nel caso di un individuo, per l’appunto, era la realtà psicologica, quella che i freudiani chiamano sistema inconscio. Strumento privilegiato di accesso all’inconscio è il sogno, definito dal padre della psicoanalisi la «via regia alla conoscenza dell’inconscio». Un’altra strada è la scrittura automatica o il disegno automatico, quello che Robert Motherwell ha reso familiare con il nome di “scarabocchio”. Secondo l’accezione americana del termine astrazione, contrapposta a quella europea, il processo non passava dalla geometrizzazione, ma dalla spontaneità, quindi attraverso una sospensione del controllo conscio: grazie al disegno o alla scrittura automatica l’artista entrava in contatto con il suo Io più intimo. Durante la Seconda guerra mondiale un gruppo di surrealisti finì in esilio a New York; fortissima fu l’influenza che esercitarono sugli artisti della città, che rimasero abbagliati da André Breton e si trovarono finalmente a diretto contatto con vere e proprie celebrità come Salvador Dalí. Nel primo manifesto surrealista del 1924 Breton definì il movimento in chiave metodologica: «automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».4 26
Breton, è importante sottolinearlo, vedeva l’inconscio da una prospettiva epistemologica: era un organo cognitivo che ci apre un mondo con cui abbiamo perduto contatto, un mondo meraviglioso che ci appare nei sogni e cui accediamo grazie alla scrittura e al disegno automatici. In altre parole, l’automatismo non ci porta semplicemente alla mente inconscia, ma attraverso di essa ci introduce al mondo con cui si trova in contatto, un sovra-reale, al di là del reale. Quel mondo, attraverso la mediazione dell’inconscio, si esprime attraverso la scrittura automatica. Praticare l’automatismo significa congedare la ragione, il calcolo e ogni singola componente dei «più alti centri cerebrali», per citare un’espressione utile. E poiché per Breton era impossibile non identificare l’automatismo con l’arte, l’arte che preferiva era un flusso non premeditato e non controllato di linguaggio, senza guida né censura, una sorta di glossolalia con cui il portavoce spiritualista faceva parlare lo Spirito Santo in persona. Non c’è da meravigliarsi se i primi espressionisti astratti, profondamente influenzati dai toni del pensiero surrealista più che dalla sostanza, si consideravano sciamani, veicolo e sfogo di forze oggettive. Il surrealista più vicino ai newyorkesi fu però Roberto Matta, architetto e artista cileno che teneva lezioni di scrittura automatica. Vi partecipavano tra gli altri Robert Motherwell, Arshile Gorky e persino Jackson Pollock. Motherwell non ammirava particolarmente la pittura di Matta («[I suoi quadri] erano teatrali e lucidi, troppo illusionistici per i miei gusti»), ma gli piacevano molto i coloratissimi disegni a matita: «I quadri non sono mai stati all’altezza dei dise-
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gni». E il disegno si presta allo “scarabocchio” molto più facilmente della pittura: oppure la pittura deve essere per così dire reinventata per lasciare spazio a scarabocchi pittorici. (Dalí avrebbe potuto dipingere splendidi scarabocchi, ma è difficile immaginarlo cimentarsi in essi tanto per fare.) In una lettera del 1978 a Edward Henning, Motherwell scrive «Il principio fondamentale di cui io e lui discutevamo continuamente, per la sua rivolta di palazzo [contro alcuni esponenti del Surrealismo, N.d.T.] e per la mia ricerca di un principio creativo originale, era quello che i surrealisti chiamano automatismo psichico, e un freudiano libera associazione, nella forma specifica dello “scarabocchio”». «La cosa che mancava al Modernismo americano» ha affermato Motherwell in più d’una occasione era un «principio creativo originale»; qualcosa che, una volta scoperto, mettesse gli artisti statunitensi in condizione di produrre opere moderniste originali, a differenza di quanto accadeva all’epoca, dove si cercava di essere modernisti emulando le opere europee, moderniste per definizione, un proposito in cui emergevano chiaramente la formazione e la sensibilità filosofica di Motherwell. «Il problema in America» sottolineò nella sua discussione con Barbaralee Diamonstein, «è trovare un principio creativo che non sia uno stile, non stilistico, non un’estetica imposta». Problematizzò la questione in almeno due occasioni, pensando specificamente a Gorky: «artista di straordinario talento, aveva attraversato un periodo alla Cézanne e negli anni quaranta si trovava in un periodo picassiano che era del tutto fuori moda, mentre molti europei meno dotati di lui avevano sviluppato una “voce autonoma”, per così dire, perché erano più vicini alle radici vitali del Modernismo internazionale (in effetti fu attraverso i surrealisti e, soprattutto, i contatti personali con Matta, che di lì a poco Gorky sarebbe decollato come un razzo)». Motherwell aggiunse che Matta «portò Gorky dall’imitazione dei Cahiers d’Art – una rivista europea equivalente all’odierna Artforum – a un pieno sviluppo autonomo», un’esperienza paradigmatica, quindi, delle potenzialità del principio creativo originale. «Con un principio creativo come questo i modernisti americani potevano smettere di essere manieristi» disse Motherwell a Henning. Esso trasformò Gorky, portando a compimento il suo talento naturale, da modernista di maniera ad artista originale (purtroppo, sua moglie lo lasciò per Matta e lui si suicidò). L’automatismo psichico era un espediente quasi magico che metteva ognuno nella condizione di essere artisticamente fedele al suo vero Io e, contemporaneamente, moderno. «E quello che era “americano”» notò Motherwell «era destinato a camminare con le proprie gambe, come infatti accadde nel giro di breve tempo.» Poco dopo il matrimonio con l’americana Agnes Magruder Gorky accompagnò lei e i figli nella residenza estiva dei suoceri in Virginia: era il 1946. Lì rimase colpito dai fiori nei prati intorno alla casa che somigliavano a quelli che ricordava di aver visto nella sua terra, l’Armenia, da cui era stato costretto a fuggire
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con la madre per motivi religiosi. Aveva iniziato la sua carriera imitando pedissequamente la Scuola di Parigi e in particolare Picasso: «Se Picasso sgocciola, io sgocciolo». Ma disegnò e dipinse anche i prati, che lo commossero in virtù della loro somiglianza con quelli della terra natale. Quindi, in un certo senso, il suo “principio creativo originale” era armeno-americano, proprio come disse Motherwell. Gorky fu tra i primi a aderire alla Scuola di New York. Nel 1912 i fratelli di Marcel Duchamp, membri di un gruppo cubista che prendeva molto sul serio gli aspetti matematici cari al movimento, lo indussero a ritirare un quadro da un’esposizione cubista a Parigi perché era fuori tema. La stessa tela (Nudo che scende le scale n. 2), esposta all’Armory Show di New York nel 1913, lo rese celebre in America. Il problema di quell’opera era che usava tecniche cubiste per trasmettere l’idea di movimento di un soggetto, contaminando quindi il Cubismo attraverso la sovrapposizione di diversi piani. Il movimento però, in particolare la velocità, era la cifra del Futurismo, così gli ortodossi insistevano perché i cubisti non sconfinassero in territori estranei. In America, invece, quei piani sovrapposti ai critici piacquero da morire, che li descrissero intelligentemente come «un’esplosione in un deposito di tegole».5 Insieme alla Mademoiselle Pogany di Brancusi, l’opera diede agli Stati Uniti un 28
primo assaggio di Modernismo. Per quanto divertita, la risata degli americani era comunque assai diversa da quella francese, che stroncava qualunque innovazione artistica. A partire dal Cubismo e dai fauves, negli anni si susseguirono vari movimenti artistici, ciascuno con uno stile originale e spesso con un manifesto per chiarire le posizioni sociali e politiche abbracciate. Il Futurismo appoggiava il fascismo nei quadri e nell’architettura e il Realismo socialista celebrava naturalmente il lavoro, industriale e agricolo, come comunicato dalla falce e martello, anche se in Unione Sovietica secondo alcuni il destino dell’arte era il Cubofuturismo. Il criterio di Alberti non descriveva più l’arte in toto, ma divenne un movimento come gli altri, identificato come Realismo; vantava grandi maestri come Edward Hopper, che si mise a picchettare il Whitney Museum convinto che i sovrintendenti avessero dei pregiudizi in favore dell’arte astratta. A New York negli anni trenta c’erano molti artisti comunisti, o quanto meno marxisti, la cui opera era bollata da Gorky come «povera arte per povera gente». Gli studiosi hanno rintracciato oltre cinquecento manifesti, anche se non tutti i movimenti ne hanno prodotto uno. Non esiste per esempio un manifesto fauve. Dopo il Cubismo e i fauves ci furono Surrealismo, Dada, Suprematismo, Astrazione Geometrica, Espressionismo Astratto, Gutai in Giappone, Color Field (sostenuto da Greenberg), Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale negli anni sessanta, Irwin in Slovenia e il Citazionismo a SoHo, e poi gli Young British Artists guidati da Damien Hirst, e moltissimi altri.
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Anche se la maggior parte di questi movimenti abbandonò il severo canone di Alberti e non aveva interesse ad aggiungere alcunché al progresso che si dava per scontato nel xix secolo, persisteva però una continuità di mezzi – colori a olio, acquerello, acrilico (quando fu inventato), pastello, creta da modellare, gesso per i calchi, bronzo da fondere e legno per intagli e sculture. C’erano poi le varie tecniche di stampa: xilografia, litografia e acquaforte con le sue varianti (acquatinta, puntasecca, mezzatinta). Negli anni settanta, invece, subentrò un sostanziale cambiamento, tuttora in atto, cioè l’abbandono dei “materiali artistici” tradizionali e l’introduzione nell’arte di qualunque tipo di oggetto, in particolare cose e materiali provenienti da quello che la fenomenologia chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, delle nostre esperienze quotidiane. Questo pone una domanda fondamentale per la contemporanea filosofia dell’arte, cioè come distinguere tra l’arte e gli oggetti reali che non sono arte ma potrebbero benissimo essere utilizzati come tale. Questo pensiero mi venne all’improvviso un giorno in cui avevo un appuntamento con un gruppo di studenti di arte – o forse di filosofia – per un seminario informale a Berkeley. Entrando nell’edificio, passai accanto a una grande aula con degli imbianchini al lavoro; c’erano scale, stracci, secchi di vernice e acquaragia, pennelli e rulli. Pensai subito: e se si trattasse di un’installazione dal titolo Imbiancare? La coppia di artisti elvetici Fischli e Weiss realizzarono in effetti un’installazione nella vetrina di un negozio al centro di una città svizzera, forse Zurigo, fatta proprio di scale, bidoni di vernice, stracci macchiati di colore e simili. Chi conosceva gli artisti andò a vedere la vetrina come prodotto culturale; ma che interesse avrebbe avuto per gli amanti dell’arte se fosse stata, invece che arte, un semplice lavoro di imbiancatura, senza la maiuscola? Negli anni settanta il carismatico artista tedesco Joseph Beuys, professore a Düsseldorf, dichiarò che qualunque cosa poteva essere arte. La sua opera era coerente con questa affermazione, dato che nei suoi lavori arrivò a utilizzare persino del grasso: alla sua personale presso il Guggenheim Museum, nell’atrio c’era una montagna di grasso delle dimensioni di un piccolo iceberg. Un altro materiale tipico dei suoi lavori è il feltro. La motivazione, o leggenda, alla base del significato di questi due materiali si trova nell’incidente aereo che Beuys ebbe in Crimea, quando era pilota d’aviazione durante la Seconda guerra mondiale. Fu tratto in salvo da un gruppo di abitanti del luogo che lo curarono con impiastri di grasso animale e lo avvolsero in coperte di feltro. Questi elementi acquistarono quindi un valore speciale, molto più profondo dei colori a olio, dato che il calore è un bisogno umano universale. Nel catalogo della mostra “Sixteen Americans at the Museum of Modern Art” del 1955 Robert Rauschenberg scrisse: «Un paio di calzini non è meno adatto per fare un quadro di legno, chiodi, acquaragia, olio e tela». Impiegò nei suoi lavori coperte, bottiglie di Coca-Cola, copertoni d’automobile e animali impa-
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gliati. L’ingresso della realtà nell’arte, quando la realtà era stata fino ad allora l’oggetto della rappresentazione artistica, cambiò il modo in cui le persone si rapportavano a essa, aspetto che ci porta dritto al cuore della domanda filosofica sulla natura dell’arte oggi. Prima di affrontarla, tuttavia, restano altri punti da toccare. Il primo artista su cui devo soffermarmi è il compositore John Cage, che si chiese perché i suoni musicali dovessero limitarsi alle note convenzionali ordinate in scale; il mondo uditivo, infatti, ne comprendeva molti altri che non rivestivano alcun ruolo nella composizione tradizionale. Sollevò il problema con un’opera che fu eseguita dal pianista David Tudor il 29 agosto 1952 a Woodstock, nei pressi di New York. Il brano si intitola 4'33", che è il tempo di esecuzione scelto da Cage, e consiste in tre movimenti di diversa durata. Tudor segnalò l’inizio coprendo la tastiera con il panno, dopodiché fece partire un cronometro. Alla fine del movimento risollevò il panno. Fece poi la stessa cosa una seconda volta e una terza. Non suonò neanche una nota, ma al termine dell’esibizione fece un inchino. Cage utilizzava tanti fogli di pentagramma quanti riteneva necessari. Spesso si dice che il suo scopo fosse insegnare al pubblico ad ascoltare il silenzio, ma non era questa 30
l’intenzione. Al contrario, voleva che il pubblico imparasse ad ascoltare i suoni della vita: cani che abbaiano, pianto di bambini, tuoni e fulmini, vento tra gli alberi, motori a scoppio, a regime o intasati. Perché suoni come questi non possono essere musica? Woodstock non era Parigi, ma il pubblico reagì alla parigina: se ne andarono in massa, mormorando che Cage aveva davvero esagerato. Cage aveva insegnato al Black Mountain College, dove incontrò il grande ballerino Merce Cunningham e Robert Rauschenberg. I tre collaborarono a una performance d’avanguardia, L’evento, influenzandosi reciprocamente in maniera profonda. Rauschenberg dipinse una tela completamente bianca e Cage la descrisse come una pista d’atterraggio completa di luci, ombre… e mosche. In realtà, la pittura bianca ispirò il concetto di brano musicale silenzioso, in cui entravano in gioco rumori ordinari che diventavano parte della musica. Parallelamente, Rauschenberg incorporava nei suoi lavori oggetti che portarono la realtà all’interno dell’arte dei primi anni cinquanta. In più, naturalmente, la pittura veniva stesa in maniera grossolana, come in Bed, e questa scelta ricollegava l’artista alla Scuola di New York. Jasper Johns usava bersagli, numeri e bandiere; a mio parere lo faceva probabilmente perché l’immagine di una bandiera è una bandiera, un numero è un numero e la raffigurazione di un bersaglio è un bersaglio, quindi l’oggetto è ambiguo, in bilico tra arte e realtà. E Cy Twombly, almeno nei primi anni, scelse come motivo la sostanza degli scarabocchi.
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In un momento imprecisato degli anni settanta l’assetto sociale del mondo dell’arte cambiò di nuovo. Nacquero associazioni che andavano a caccia di artisti emergenti, per i quali venivano allestite mostre personali in gallerie di prim’ordine, le opere collezionate come investimento, mentre scomparvero i movimenti che anticipavano il futuro. Alla fine di quello stesso decennio l’artista Robert Rahway Zakanitch, i cui quadri raffiguravano spazi e oggetti domestici, volle dar vita a un movimento per opporsi al dilagare dell’estetica minimalista, ma fu costretto a chiedere in giro come si faceva a fondarne uno. Poiché gli artisti che simpatizzavano con le sue idee erano molti, nacque Pattern and Decoration (p&d), a mio parere l’ultimo movimento di un qualche significato, almeno in America. Un tempo i newyorkesi aspettavano le biennali del Whitney per conoscere le nuove tendenze dell’arte, e per anni l’autorità in merito fu il critico Clement Greenberg. Nel 1984, però, il suo regno era ormai tramontato. Invece dei movimenti artistici, erano quelli politici, come il femminismo, a richiedere spazi espositivi. Il multiculturalismo non fu tanto un movimento quanto la deliberata scelta dei curatori di presentare l’arte di neri, asiatici, indiani d’America e omosessuali. Un anno prima di diventare critico d’arte, alla Biennale del 1983, ebbi la netta sensazione che le opere in mostra non fossero più – per parafrasare l’espressione che circola tra gli addetti ai lavori – quello che stava per succedere: sorgeva dunque spontaneo chiedersi che cosa sarebbe successo. All’improvviso non ci si aspettava più un “grande evento” e l’esercito degli artisti non era che un grande serbatoio di individui molto dotati, emergenti o già affermati, sorvegliati da curatori sempre più potenti che promuovevano i propri gusti e idee. Rispetto ad altri momenti della storia, il problema di che cosa sia l’arte diventa una questione molto diversa; soprattutto alla fine del xx secolo, infatti, l’arte cominciò a manifestare la sua intima verità. Era come se la storia dell’arte, dopo secoli di progresso, avesse finalmente cominciato a rivelare la natura dell’oggetto dei suoi studi. Nella Fenomenologia dello spirito alla fine lo spirito trova ciò che era l’obiettivo della sua ricerca; secondo Hegel, l’arte è una componente dello spirito, insieme alla filosofia e alla religione. In un certo senso, la mia analisi fino a questo punto ha qualcosa in comune con quella hegeliana: ho cercato di tracciare per sommi capi la storia dell’arte moderna per arrivare a un punto in cui poter finalmente “aggredire” la questione fondamentale: c’era qualcosa nel modo in cui veniva pensata l’arte che rispondeva alla domanda sulla sua precisa natura. Prendiamo in esame due grandi artisti che, a mio parere, hanno dato i contributi più significativi all’argomento: Marcel Duchamp nel 1915 e Andy Warhol nel 1964. Entrambi ebbero legami con un movimento, il Dadaismo nel caso di
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Duchamp e la Pop Art nel caso di Warhol. Tutti e due i movimenti avevano una componente filosofica e privavano il concetto di arte di condizioni ritenute fino ad allora irrinunciabili. Duchamp cercò di attenersi al principio dada di non produrre arte bella. Lo fece per ragioni politiche: era un attacco alla borghesia che, secondo i dadaisti, era responsabile della Prima guerra mondiale; molti membri del movimento ne attesero la fine a Zurigo o, nel caso di Duchamp, a New York, dal 1915 al 1917, anno in cui l’America decise di intervenire nel conflitto. Così, per esempio, disegnare i baffi su una cartolina della Gioconda “abbruttiva” una celebre icona di bellezza. Nel 1912, anno in cui fu costretto a ritirare Nudo che scende le scale n. 2 dalla mostra cubista, Duchamp assistette a uno spettacolo di aviazione poco fuori Parigi, insieme al pittore Fernand Léger e allo scultore Costantin Brancusi. In Marcel Duchamp: Artist of the Century si racconta che i tre artisti si ritrovarono di fronte a una grande elica di legno. Duchamp commentò: «Chiuso con la pittura. Chi potrebbe far meglio di quest’elica? Dì, tu ne saresti in grado?». Forse l’elica era sinonimo di velocità che, secondo i futuristi – e secondo lo stesso Duchamp – era cifra della modernità. O forse evocava il volo, un’altra novità moderna; o forse il potere. L’episodio non è ulteriormente commentato, ma è una delle prime volte in cui si stabilisce un confronto e una contrapposizione tra macchina e opera d’arte.6 32
In ogni caso l’elica non fu, e non poteva essere, una di quelle cose che Duchamp chiamò readymade, usando una formula vista per caso nella vetrina di un negozio di vestiti accanto al suo opposto confezionati su ordinazione. L’utilizzo del termine risale infatti al 1915, anno in cui Duchamp approdò a New York già famoso grazie a Nudo che scende le scale n. 2. In alcune interviste pare abbia detto che la pittura era europea e che l’arte europea in generale era «finita». Ai giornalisti, infatti, dichiarò: «Se solo l’America si decidesse a capire che l’arte europea è finita – morta – e, invece di attribuire tutto quello che fa alle tradizioni europee, si mettesse in testa che il futuro dell’arte è proprio in America! […] Guardate i grattacieli!».7 Per poi aggiungere in seguito i ponti e, com’è noto, i sanitari. Sempre nel 1915 Duchamp acquistò una pala da neve in un ferramenta di Columbus Avenue, che portò in spalla fino all’appartamento del suo mecenate, Walter Arensberg. L’intitolò In Advance of the Broken Arm (Anticipo per il braccio rotto), frase che scrisse a chiare lettere sul manico. Molti anni dopo in A proposito dei ready-made, un intervento al Museum of Modern Art di New York, affermò: «C’è un punto che voglio definire molto chiaramente: la scelta di questi readymade non mi fu mai dettata da un qualche diletto estetico. La scelta era fondata su una reazione d’indifferenza visiva, unita a una totale assenza di buono o cattivo gusto… dunque un’anestesia completa».8 Duchamp disprezzava profondamente quella che chiamava “arte retinica”, cioè arte gratificante per lo sguardo. Secondo lui, quasi tutta l’arte a partire da Courbet era retinica. Ma c’erano altri tipi di
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arte, religiosa o filosofica, cui non interessava tanto compiacere la vista quanto approfondire il pensiero. Attenzione alla data: 1915; era il secondo anno della Prima guerra mondiale, la «guerra che deve porre fine alle guerre» e Duchamp fece il suo numero dadaista con un attacco alla bellezza. Attaccando il “gusto”, però, metteva in dubbio il concetto chiave dell’estetica elaborato da filosofi come Immanuel Kant, David Hume e dall’artista William Hogarth. Inoltre, tutti i venti readymade creati da Duchamp erano oggetti della Lebenswelt elevati a opere d’arte, eliminando dal concetto artistico tutto ciò che aveva a che fare con l’esecuzione, il tocco e persino l’occhio. Infine, nell’attacco alla bellezza c’era qualcosa di più che la volontà dei dadaisti di punire la borghesia per la partecipazione alla guerra, che consegnava alla morte milioni di giovani vite sui campi di battaglia europei. Il readymade, quindi, era molto più di uno scherzo. Non stupisce che Duchamp abbia detto: «Il concetto di readymade potrebbe essere l’idea più importante che emergerà dal mio lavoro».9 Essa introdusse non pochi problemi per i filosofi, come me, preoccupati di definire l’arte. Dove tracciare i confini? Come distinguerla da tutto il resto, se qualunque cosa può essere considerata tale? Ci resta solo un’idea, non molto confortante: anche se ogni oggetto può essere arte, ciò non significa che tutto lo sia. Duchamp riuscì a screditare quasi tutta la storia dell’estetica, da Platone al presente. Il readymade più celebre è un orinatoio rovesciato e firmato con un nome falso, “R. Mutt 1917”, scribacchiato sul bordo. In quell’anno l’America entrò in guerra, mentre chiudeva i battenti la Galleria 291 di Alfred Stieglitz, così chiamata dal civico della Fifth Avenue dove aveva sede. Duchamp aveva presentato l’orinatoio alla mostra allestita dalla Society of Independent Artists ed è lecito credere che volesse mettere in difficoltà l’istituzione, la cui politica era esibire qualunque cosa purché l’artista pagasse la tassa di ammissione, senza prevedere premi. Allo stesso modo si muoveva la Società francese degli artisti indipendenti, i cui membri non dovevano necessariamente frequentare accademie di belle arti. Com’è noto, la Society rifiutò di esporre Fountain (così l’aveva battezzato ironicamente Duchamp). Il presidente giustificò la scelta dicendo che sebbene fosse accettato qualunque oggetto artistico, un orinatoio era un oggetto sanitario e non un’opera d’arte. Tornando alla Galleria 291, era un’istituzione di indubbia autorevolezza che si dedicava all’arte moderna ed esibiva opere di artisti come John Marin, Marsden Hartley, Charles Demuth e della moglie di Stieglitz, Georgia O’Keeffe. Anche Stieglitz era un artista poiché, se esistono fotografie artistiche, le sue lo sono senza ombra di dubbio. Ma la fotografia come arte era molto discussa in quegli anni e forse per questo motivo i mecenati di Duchamp portarono il readymade alla Galleria 291 e lo fecero fotografare da Stieglitz; questi lo immortalò in un bel
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color seppia, proprio come un’opera d’arte, collocata come una scultura proprio sotto a un quadro di Marsden Hartley. Si tratta di un orinatoio dallo schienale piatto modello Bedfordshire che Duchamp, si dice, aveva adocchiato nella vetrina di un negozio di forniture sanitarie. Il mistero è che questo modello, in teoria prodotto dalla Mott Iron Works (cfr. Mutt Iron Works), sembra scomparso dalla faccia della terra. Nemmeno il Museum of Modern Art è stato in grado di trovarne uno per una grande retrospettiva dell’opera di Duchamp. Perlomeno sappiamo che aspetto aveva. Adagiato sullo schienale, con i buchi di scolo alla base, assomiglia molto a una donna che sta sotto nella posizione del missionario, anche se l’orinatoio sarebbe progettato per la comodità dell’uomo. Duchamp non disdegnava mai le allusioni sessuali quando se ne presentava l’occasione. La sua opera è filosoficamente ricca, in particolare per l’atteggiamento verso la bellezza, per secoli ritenuta intrinseca al concetto di arte. In fondo, a partire dal xvii secolo, le scuole per artisti in molte lingue avevano nel nome un riferimento alle belle arti. Il fatto che potesse esistere qualcosa di artistico, ma non bello, è uno dei grandi contributi filosofici del xx secolo. Durante la riunione in cui venne deciso di rifiutare l’orinatoio di Mr Mutt, Arensberg cercò di difendere Duchamp: «Svincolata dai suoi scopi funzionali si rivela una forma affascinante, di conseguenza si tratta di un vero contributo estetico».10 In verità, il contributo di Duchamp fu di aver fatto un’opera d’arte in assenza di estetica. 34
Per The Blind Man, un’effimera pubblicazione uscita insieme a The Blind Man’s Ball, scrisse un articolo dal titolo “The Richard Mutt Case” (Il caso Richard Mutt): «Che il signor Mutt abbia fatto con le sue mani la Fontana o no, non ha nessuna importanza. È lui che l’ha scelta. Ha preso un articolo comune della vita di tutti i giorni, lo ha sistemato in modo che il suo significato utile scomparisse con il titolo nuovo e il nuovo punto di vista – ha creato un nuovo pensiero per questo oggetto».11 Conclude poi il testo scrivendo: «Quanto al fatto che si tratta di un sanitario […] le uniche opere d’arte che l’America abbia mai prodotto sono tubature e ponti».12 Come i grattacieli, si tratta di beni, di oggetti con un’utilità pratica. Non sono, come diceva Arensberg, contributi estetici. Rovesciando l’orinatoio in quel modo si assicurava «la scomparsa del suo significato utile». Il contributo di Andy Warhol alla definizione di arte non viene da un testo, ma da uno straordinario corpus di sculture che fu il suo primo progetto quando, nel 1963, si stabilì nella Silver Factory; fu esposto la primavera successiva alla Stable Gallery (oggi è l’ingresso dei dipendenti del Whitney Museum sulla 74th Street). Le Brillo Box divennero una specie di stele di Rosetta filosofica: ci consentivano infatti di decifrare due linguaggi, quello dell’arte e quello della realtà. La parziale definizione di arte che ho elaborato nel mio libro La trasfigurazione del banale è stata il frutto delle riflessioni sulle domande poste da questo straordinario oggetto.
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Prima di quella che possiamo definire l’epoca di Warhol, i maggiori studiosi di estetica americani erano largamente influenzati dalla famosa analisi esposta da Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, un potente attacco contro quella ricerca di definizioni filosofiche incarnata dal Socrate platonico. Nei Dialoghi di solito Socrate discute con gli ateniesi nozioni come giustizia, conoscenza, coraggio e anche arte (benché i greci non avessero una parola corrispondente), concetti che tutti gli appartenenti a quella cultura sapevano utilizzare con una certa approssimazione. Se fossero esistiti i dizionari, ci sarebbero state le rispettive definizioni, ma nessuno le avrebbe consultate poiché i termini che interessavano Socrate erano usati con dimestichezza nella conversazione quotidiana. Così nella Repubblica si cerca di delineare la società ideale, e il tema trattato è la giustizia. Socrate chiede a Cefalo, un anziano commerciante, che cosa sia secondo lui la giustizia. La risposta è pagare i debiti e mantenere le promesse, di certo regole fondamentali per un onesto uomo d’affari. Socrate offre allora un contro esempio: è forse giusto restituire un’arma a un uomo dopo che è diventato pazzo? È vero che gli appartiene e che lui ha diritto a riaverla, ma le armi sono pericolose e non si può sapere se il proprietario saprà usarle. La struttura del dialogo consiste di una tesi, un’antitesi e una revisione della tesi alla luce dell’antitesi, finché i partecipanti non hanno più niente da dire. Nel Teeteto, Socrate e un giovane matematico di talento definiscono la conoscenza come credenza aderente al vero, pur intuendo che la conoscenza è molto più di questo. In tempi più recenti, gli epistemologi hanno aggiunto altre condizioni, ma siamo ancora lontani da una conclusione definitiva. Nel x libro della Repubblica, Socrate definisce l’arte come imitazione, formula che calza perfettamente alla scultura greca. Naturalmente Socrate cerca un contro esempio e ne trova subito uno, cioè lo specchio, che ci offre senza sforzo riflessi molto più accurati di qualunque disegno. Tutti hanno un’idea generica di che cosa siano giustizia o conoscenza. La definizione di conoscenza data nel Teeteto prevede due caratteristiche, ma la ricerca di ulteriori parametri è una componente fondamentale dell’epistemologia. La definizione socratica dell’arte si sgretola completamente nel xx secolo, con l’avvento dell’astrazione e dei readymade. Senza dubbio, la maggior parte delle opere prodotte in Occidente è stata di carattere mimetico, per usare un termine greco, e gli artisti occidentali sono diventati sempre più esperti in questo tipo di arte. Quando fu inventata la macchina fotografica ci vollero alcuni decenni prima che il volto umano potesse essere reso in maniera assolutamente fedele, ma la macchina fotografica non significava che i precedenti tentativi di imitare, come quelli di Giotto o Cimabue, non fossero arte. Tuttavia la mimesi non può più essere parte della definizione di arte, poiché l’arte moderna e contemporanea presenta troppi contro esempi. È anche vero che non si può pretendere di sapere che cosa sarà l’arte tra duemila anni, a meno che non
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sia già giunta al termine. Nonostante il suo intelletto brillante, Socrate non ha molto da dire sul futuro e sembra convinto che l’arte continuerà senza sostanziali mutamenti. Considerando l’astrazione e i readymade, trovare una definizione diventa sempre più arduo. Per questo motivo la domanda: “Che cos’è l’arte?” è stata posta sempre più spesso e ha dato vita a un dibattito molto animato. L’aspetto positivo della mimesi è che chiunque è in grado di identificare l’arte in culture come quella in cui si muove Socrate. Ma quanto sono utili le definizioni? Wittgenstein fa un esempio in cui esse appaiono inutili, non necessarie: il concetto di gioco. Di solito riusciamo a distinguere bene le attività che rientrano nella categoria dei giochi, ma quando prendiamo in esame quelli esistenti nella loro grande varietà – campana, poker, girotondo, sciangai, gioco della bottiglia, nascondino e infiniti altri – è difficile mettere a fuoco quale caratteristica abbiano in comune. E, di conseguenza, capire come sia possibile isolare una definizione, anche se i bambini non hanno quasi mai difficoltà a riconoscere i diversi giochi né a farli. Si potrebbe dire che i giochi sono un divertimento e non una cosa seria, ma questo non può rientrare in una definizione generale, poiché c’è chi diventa addirittura violento dopo una sconfitta della propria squadra. È inutile dirgli che è solo un gioco. Ci ritroviamo quindi senza una definizione e, se36
condo Wittgenstein, averne una non necessariamente sarebbe un vantaggio. Il massimo che possiamo fare è trovare una somiglianza, come tra i membri di una stessa famiglia; come un bambino che ha il naso del papà e gli occhi della mamma. Oppure possiamo immaginare una serie di cose: a, b, c, d; anche se a assomiglia a b, b assomiglia a c e c assomiglia a d, a non assomiglia a d. Non esiste quindi un tratto che accomuni in maniera indistinta tutti i giochi su cui basare una definizione. Curioso, pensarono i wittgensteiniani, che i giochi non condividano alcuna caratteristica! Nemmeno i filosofi sono andati oltre nella ricerca. Il tentativo di trasferire il paradigma dei giochi alle opere d’arte risale al 1956. Morris Weitz pubblicò “The Role of Theory in Aesthetics” (Il ruolo della teoria nell’estetica), in cui sostiene che quello di “arte” è un concetto aperto, fatto che intuitivamente risulta vero considerando l’immensa varietà di oggetti presenti in un museo enciclopedico. Weitz utilizzò l’esempio dei romanzi, ma anche se c’è un abisso tra i romanzi di Jane Austen e quelli di James Joyce, la storia delle arti visive appare di gran lunga più aperta. Basta osservare i cambiamenti intercorsi da Manet alle Demoiselles d’Avignon di Picasso. Per quanto riguarda le arti visive, inoltre, in quello che ho definito il Mondo dell’Arte, cioè l’insieme di tutte le opere d’arte al mondo, venne sempre più facilmente concesso diritto di cittadinanza alle tradizioni artistiche di diverse culture. Che cosa deve avere un oggetto per essere un’opera d’arte alla luce dei cambiamenti registrati nelle acquisizioni dei musei? Come fa un oggetto a ottenere cittadinanza nel Mondo
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dell’Arte? Ai neri e alle donne in America è stato a lungo negato il diritto di voto, una condizione radicata in una diffusa convinzione della loro inferiorità, ma di fatto l’unica base concettuale era un pregiudizio razzista e sessista. Alla fine, i neri, sostenuti dai bianchi, riuscirono ad aiutare altri neri a rivendicare i propri diritti civili. La brutale violenza che rimbalzò sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo provocò il crollo della resistenza negli stati del Sud. Nel 2008, le primarie presidenziali del Partito Democratico americano si giocarono tra un nero e una donna: la razza e il sesso erano ormai legalmente irrilevanti. Negli anni sessanta il filosofo George Dickie formulò la cosiddetta “teoria istituzionale dell’arte” che fece passare in secondo piano il pensiero di Weitz. In risposta alle critiche ricevute, Dickie ha fornito diverse versioni del termine “istituzionale”, ma sostanzialmente la teoria vuole che la decisione di che cosa sia arte spetti in tutto e per tutto a quello che Dickie chiama il Mondo dell’Arte, definito però in maniera diversa da come lo descrivo io. Secondo Dickie, infatti, il Mondo dell’Arte è una rete sociale formata da curatori, collezionisti, critici, artisti (naturalmente) e altri soggetti che ruotano intorno a questo settore. Una cosa, quindi, è un’opera d’arte se il Mondo dell’Arte la decreta tale. L’idea di Duchamp è che Mr Mutt aveva scelto di rovesciare un orinatoio trasformando così l’oggetto da sanitario a opera d’arte. Ma deve pur esserci qualche motivazione in base a cui i membri del Mondo dell’Arte decidono che qualcosa sia o meno arte. Secondo Arensberg, Duchamp ha voluto mettere in risalto la bellezza dell’orinatoio. Altri potevano sostenere che volesse attirare l’attenzione sul risvolto erotico dell’oggetto, sdraiandolo sulla schiena e con i buchi di scolo che alludono all’apparato urinario femminile. L’idea di Dickie, comunque, assimila l’arte a un titolo cavalleresco: non tutti possono conferirlo, solo re e regine. Colui che viene investito si inginocchia e si rialza solo quando è stato nominato cavaliere. Ma anche con questo principio anche con questo principio, si possono addurre precise ragioni per la scelta: draghi uccisi, giovinette tratte in salvo e altre meritevoli gesta. Qualche re folle potrebbe conferire un titolo al suo cavallo, ne avrebbe l’autorità, ma magari giustificandolo con il fatto che il cavallo gli ha salvato la vita. Nell’Eutifrone il Socrate platonico costruisce una solida argomentazione contro quella specie di sacerdote che, appellandosi alla certezza che gli dèi amino gli uomini, pretende di sapere quali cose siano giuste. Socrate risponde chiedendo se gli dèi amino gli uomini perché sono giusti, oppure se gli uomini sono giusti perché gli dèi li amano. Nel primo caso, anche noi uomini conosceremmo il giusto tanto quanto gli dèi. Ma se gli uomini sono giusti perché gli dèi li amano, perché dovremmo accettare che gli esseri umani siano intrinsecamente giusti? Alcuni funzionari di dogana dovettero consultare il sovrintendente del National Museum of Canada, considerato un esperto in materia, per sapere se i readymade erano sculture. Lui rispose chiaro e tondo che no, non lo erano. La sua semplice appartenenza al Mondo dell’Arte non rende di per
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sé valido il suo giudizio. Ci sono quindi non poche difficoltà da appianare prima di accettare la teoria istituzionale dell’arte. Per tornare alla teoria di Weitz, il 1956 non era l’anno migliore per proclamare una nuova filosofia dell’arte. L’Espressionismo Astratto era al culmine del suo sviluppo, ma tutto cambiò nel decennio successivo quando, con la Pop Art, il Minimalismo e l’Arte Concettuale, comparvero opere diverse da quanto si era visto fino a quel momento. Il pittore Barnett Newman aveva definito la scultura la cosa contro cui vai a sbattere quando cammini all’indietro per vedere meglio un quadro; all’inizio degli anni settanta, invece, essa visse un momento di straordinario progresso a partire da Eva Hesse. Vennero poi Robert Smithson, Gordon Matta-Clark, Richard Serra, Sol LeWitt e Charles Simonds. Matta-Clark sezionava edifici, Smithson fece la Spiral Jetty – un molo a forma di spirale sul Grande Lago Salato dello Utah –, Serra utilizzava le pareti e il pavimento del Warehouse di Leo Castelli come stampi da fusione, LeWitt faceva monumenti con blocchi di cenere e Simonds costruiva casette di argilla nelle crepe degli edifici del futuro quartiere di SoHo, che secondo lui erano occupate da “omini”. Weitz e i suoi potrebbero a buon diritto concludere che gli anni sessanta e settanta di fatto confermano l’idea che l’arte sia un concetto aperto, sposando quell’atteggiamento spesso definito anti essenzialista. Io, però, sono un essen38
zialista; a mio parere la logica della storia dell’arte la fa senza dubbio apparire un concetto aperto: l’arte greca era mimetica, mentre quella romanica non lo era affatto. L’astrattismo dimostra che la mimesi non è un requisito essenziale dell’arte, ma nemmeno l’astrazione lo è. Sembra impossibile sapere che cosa appartenga all’arte e cosa non vi appartenga. Tuttavia credo che Warhol ci aiuti a capire che cosa è sempre inerente all’essenza dell’arte, valido finché ci sarà produzione artistica. Il problema è che sono proprio i filosofi ad arrivare alla conclusione che l’arte sia un concetto aperto perché non riescono a trovare una serie di proprietà visive comuni. Forse hanno smesso di cercare: io, infatti, ne conosco almeno due che possono rientrare nella definizione di arte. Dobbiamo semplicemente continuare la caccia e trovare una caratteristica condivisa da tutte le opere. Ai tempi di Wittgenstein, i filosofi erano sicurissimi di riuscire a riconoscere quali creazioni fossero opere, ma identificarle non significa capirle. Bisogna trattarle da opere d’arte, come le tratterebbe un critico. Quello che serve è una mente aperta, non un concetto aperto. La Stable Gallery si trovava al piano terra di un’elegante residenza di pietra bianca, l’ingresso impreziosito da marmi bianchi e neri e una sinuosa scalinata con una lucida balaustra di ottone. La galleria vera e propria era a sinistra, oltre una pesante porta baronale di mogano laccato. Tutta un’altra cosa rispetto alla stalla in cui si trovava in precedenza e di cui conservava il nome: ormai era una delle gallerie più belle di New York. Una volta entrati, però, si aveva l’impressio-