Hunter Drohojowska-Philp scrive su numerose riviste e testate americane: Artnews, Art in America, Architectural Digest e Los Angeles Times. Vive a Los Angeles. Questo è il suo primo libro. Foto di copertina: Georgia O’Keeffe © John Loengard/Time Life Pictures/Getty Images
Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima
«La biografia più completa su Georgia O’Keeffe che ci capiterà fra le mani per molto tempo. Un ritratto a tutto tondo.» Sarah Douglas, Artnet Magazine «Finalmente una biografia di Georgia O’Keeffe che trascenda gli stereotipi più diffusi per rivelare un’artista complessa, accorta, qualche volta naïve, sempre ostinata. Un’artista che ha saputo elevare l’epiteto di “pittura floreale” a una categoria iconica a sé stante.» Christopher Knight, Los Angeles Times
Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana
Quella di O’Keeffe è anche una storia di sofferenze accompagnate da battute d’arresto professionali e affettive. Il successo non la immunizza, infatti, dalle ferite, tanto da sentirsi spesso fraintesa dai suoi più fedeli sostenitori. Avversa alle etichette, ha un rapporto travagliato con la critica maschile: quando la elogiano per lo sfrontato cromatismo, risponde con tonalità sommesse; se invece le ampie volute vengono lette in chiave sessualmente allusiva, replica abbandonando i soggetti più carichi di sentimentalismo per tornare a un repertorio realistico, magari “saccheggiato” ai colleghi maschi. La fama significa però progressivo distacco da Stieglitz, che non tradisce il suo ruolo di mentore dedicandosi a una nuova creatura da plasmare, la ventunenne Dorothy Norman. O’Keeffe trascorre sempre più tempo nel New Mexico. Si appassiona agli aspri paesaggi del deserto disseminati di teschi sbiancati di animali, che diventano un’ulteriore fonte del suo già ricco repertorio di soggetti pittorici. La morte di Stieglitz sancirà definitivamente il ritiro di O’Keeffe ad Abiquiu.
Georgia O’Keeffe (Sun Prairie, 1887- Santa Fe, 1986) è una delle artiste statunitensi più innovative degli anni in cui la pittura si affranca dal realismo. Pioniera di un’arte non-oggettiva che miscela chiarezza di visione e urgenza emotiva, sviluppa un punto di vista personale sull’astrattismo ed elabora un metodo compositivo che trova la più fortunata espressione in quei celebri ritratti di fiori dall’intensa carica sensuale. Il libro intreccia cammino personale e artistico,
Hunter Drohojowska-Philp
Georgia O’Keeffe Pioniera della pittura americana
€ 33
e accanto alle vicende della protagonista si accalcano personaggi del calibro di Steichen, Strand, Demuth, Dove, Marin, Hartley: uno spezzone altamente rappresentativo dell’espressione artistica del secolo breve d’oltreoceano. Nata nel Wisconsin, O’Keeffe conosce un’adolescenza segnata da crisi finanziarie e da frequenti sradicamenti. Ventenne è a Chicago, città in cui prosegue gli studi e in cui comincia a operare come illustratrice, e i primi passi nell’universo della creatività avvengono sotto la guida di Arthur Wesley Dow. Poi, a New York, l’incontro con colui che diverrà il suo mentore, il maturo e sposato Alfred Stieglitz, fotografo e gallerista di fama che segnerà profondamente il futuro di O’Keeffe. Sotto l’ala di Stieglitz, nel frattempo divenuto non solo sodale ma compagno di vita, matura come artista e musa. I due ritraggono i medesimi soggetti, si confrontano, si influenzano. La consuetudine con la fotografia permette a O’Keeffe di elaborare uno stile radicato nel realismo – seppure astratto – in virtù di tecniche mutuate dalla camera oscura e dall’obiettivo. S’impone così nella comunità artistica: un risultato senza precedenti per una donna, in un’epoca in cui la pittura è appannaggio quasi esclusivo degli uomini. Pur insofferente agli obblighi sociali e familiari, difficili da conciliare con un feroce bisogno di solitudine, accetta nel 1924 di sposare Stieglitz. Tre anni dopo è all’apice del proprio rigoglio creativo: risalgono a questo periodo i dipinti floreali e urbani destinati a far scuola nel Novecento americano. Nei lunghi anni newyorkesi, intervallati da soggiorni nella casa estiva di Lake George, si guadagna una solida reputazione.
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Georgia O’Keeffe Pioniera della pittura americana
Traduzione di Michele Piumini
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Quando O’Keeffe la visitò all’inizio di quell’inverno, la galleria di Stieglitz si trovava a un punto cruciale nella sua storia. Nel 1905, insieme all’artista Edward Steichen, Stieglitz aveva fondato la Little Galleries of the Photo-Secession, poi diventata famosa come “la 291” per il numero civico sulla Fifth Avenue, tra 30th e 31st Street. Gli studi fotografici erano diffusi sin dalla Guerra Civile, ma la 291 era stata la prima galleria degli Stati Uniti a esporre lavori di fotografia come forma d’arte. La mostra di Rodin visitata da O’Keeffe e i suoi compagni segnava un ulteriore passo avanti per Stieglitz, che stava introducendo negli Stati Uniti l’arte moderna parigina di Cézanne, Matisse e Picasso, ancora sconosciuta a New York. Stimato pioniere della fotografia artistica, nel 1908 Stieglitz era diventato anche impresario, scrittore, editore e agente: una personalità già leggendaria, insomma, plasmata da un misto di perspicacia ed egocentrismo, generosità e tagliente senso critico, sensibilità sperimentale e ideali romantici del xix secolo. Nato a Hoboken, New Jersey, il primo giorno del 1864, Alfred Stieglitz era il primogenito di una facoltosa coppia di ebrei di origine tedesca, Edward e Hedwig Stieglitz. Emigrato in America nel 1849, Edward aveva avviato un’attività di importazione di stoffa di lana e produzione di camicie. Era un inflessibile perfezionista, con una disciplina severa e un debole per le donne. Piuttosto attraente ed elegante, amoreggiava spesso e volentieri con Ida e Rosa Werner, le sorelle nubili di Hedwig.1 Per quanto avessero già tre inservienti a tempo pieno, nel 1865 Rosa si era trasferita a casa della sorella e del cognato, ufficialmente per aiutarli con la crescente prole. Con ogni probabilità la relazione intima tra Rosa e Edward non aveva fatto che approfondirsi nei sei anni successivi, ogni volta che Hedwig era costretta a letto dalle numerose gravidanze. Dopo la nascita di Alfred nel 1864, Hedwig aveva dato alla luce Flora nel 1865, i gemelli Leopold e Julius nel 1867, Agnes nel 1869 e Selma nel 1871. Con l’arrivo dell’ultima figlia, Edward Stieglitz trasferì la famiglia dal quartiere borghese tedesco nel New Jersey a una nuova e lussuosa area di New York. Qui, al 14 di East 60th Street, poco lontano da Fifth Avenue, davanti ai pascoli non edificati di Central Park, aveva acquistato una casa in arenaria bruno-rossa-
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stra a cinque piani. Dotata di diversi comfort come i lampadari a gas, il riscaldamento a vapore e l’acqua refrigerata, l’abitazione aveva due stanze separate per Edward e Hedwig. L’impresa di Edward, la Hahlo and Stieglitz Company, era fiorita dopo l’incendio di Chicago del 1871 grazie alla scarsità e all’aumento del prezzo della lana. Dopo questo improvviso afflusso di entrate, Edward si era reinventato come mecenate. Pittore della domenica, aveva abbracciato la nobile prospettiva secondo la quale il dilettantismo era un requisito e un privilegio della sua condizione di aristocratico americano. I suoi amici non erano uomini d’affari, ma artisti, tra i quali il pittore tedesco Fedor Encke e lo scultore americano Moses Ezekiel. La domenica erano spesso ospiti a pranzo, e il giovane Alfred era lusingato quando gli chiedevano di scendere in cantina a prendere il vino o di giocare a biliardo con loro. La natura competitiva di Alfred lo portò a dedicarsi al biliardo con tale fervore che all’età di nove anni riusciva già a battere suo padre. Erano vittorie effimere, però: nella lotta tra padre e figlio, Alfred aveva sempre la peggio. Da Edward aveva ereditato parecchi tratti: l’impulso naturale al sostegno finanziario degli artisti, il perfezionismo e l’irascibilità. Il padre gli aveva trasmesso anche l’istinto per gli affari, ma Alfred lo rifiutava 58
per principio, convinto com’era che i soldi fossero la causa dell’infelicità dei genitori. Edward rimproverava la moglie di mettere a repentaglio il bilancio familiare. Alfred si schierava con la madre, ma ammetteva: «Pur ribellandomi contro mio padre e trovandolo vanitoso, impaziente e intrattabile, io lo ammiravo».2 Per sfuggire alle filippiche di Edward, Hedwig leggeva romanzi popolari e ascoltava musica. Alfred si rifugiava nell’ipocondria, oppure tentava di conquistare l’approvazione dei genitori mostrandosi iperattivo. Ancora bambino, si dedicava alle attività di un tipico signore vittoriano: le corse ippiche, la collezione di autografi, lo studio del pianoforte, le gare di biliardo e tiro con l’arco. Nell’autunno del 1871, a sette anni, Alfred fu mandato al Charlier Institute, la migliore scuola privata di New York, di orientamento cristiano. Né il padre né la madre praticavano il giudaismo dei loro genitori tedeschi: determinato a integrarsi nella società newyorkese, Edward Stieglitz divenne il primo membro ebreo del Jockey Club. Nel 1872, inoltre, cominciò a portare la famiglia negli eleganti luoghi di villeggiatura a Lake George. Nel 1880 prese in affitto Crosbyside, il maestoso “cottage” più tardi acquistato dai Trask per fondarvi Amitola, la colonia per artisti. Nelle sue memorie, Alfred avrebbe affermato di aver trascorso quell’estate nella stessa camera che ventotto anni dopo sarebbe stata assegnata a O’Keeffe. Un anno prima che si diplomasse al Charlier, i genitori lo iscrissero a una scuola secondaria pubblica, in modo che potesse ottenere i requisiti per l’ammissione al City College di New York. Il ragazzo trovava i corsi di una facilità
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ridicola, e Edward decise che i suoi figli dovevano studiare secondo i rigidi princìpi delle scuole tedesche. Nel 1881 Edward Stieglitz vendette la sua quota della Hahlo and Stieglitz Company per quattrocentomila dollari, investì nel mercato azionario e si trasferì in Europa con la famiglia. A bordo del transatlantico Alfred conobbe Joseph Obermeyer e Louis Schubart, due ragazzi ebrei di origine tedesca che, pur avendo qualche anno in più, sarebbero rimasti suoi cari amici per trentacinque anni. In Germania, Alfred e i suoi fratelli si iscrissero al Realgymnasium di Karlsruhe, Agnes e Selma a una scuola di Weimar. Nella stessa città, al conservatorio, Flora iniziò a studiare pianoforte. Con i figli a scuola, Edward, Hedwig e Rosa presero a viaggiare per le capitali europee, un pellegrinaggio a base di teatro, musica e terme. L’idea del padre accudito e coccolato da due donne avrebbe lasciato il segno su tutta la prole degli Stieglitz. Nel 1882 Alfred entrò alla Technische Hochschule di Berlino. Annoiato dagli studi di ingegneria meccanica e forte di una generosa indennità di milleduecento dollari al mese, passava le giornate a leggere romanzi e bazzicare i caffè. La vie de bohème perse però parte del suo fascino quando Alfred conobbe Hermann Wilhelm Vogel, un professore di fotografia al dipartimento di chimica che aveva inventato la tecnica del ritocco dei negativi al collodio per i ritratti fotografici. Iscrittosi al suo corso, in poco tempo Alfred si ritrovò ad aiutare il professore a testare le sostanze chimiche, imparando il procedimento del collodio umido. Stregato da una disciplina che gli permetteva di conciliare le sue inclinazioni creative e scientifiche, nel 1883 andò in Klosterstrasse ad acquistare il suo primo banco ottico, che avrebbe utilizzato con le lastre asciutte, un treppiede e un portalastre. Due anni dopo, Edward Stieglitz tornò in America insieme alla moglie e alle figlie, mentre i figli rimasero in Germania. Benché i fratelli avessero intrapreso il dottorato, Alfred aveva il permesso di non preoccuparsi della prosecuzione degli studi e dell’addestramento professionale: libero di coltivare la passione fotografica a Berlino, l’anno seguente ottenne una menzione speciale per sette fotografie di vacanza pubblicate sull’Amateur Photographer. Fu allora che cominciò a maturare la convinzione che la fotografia potesse essere praticata come forma d’arte. Questo suscitò le provocazioni di alcuni artisti berlinesi, i quali dissero a Vogel che le immagini di Alfred avrebbero potuto essere arte solo se fossero state realizzate a mano e non da una macchina. Nel 1888, dopo sette anni, Alfred e i fratelli tornarono a New York in occasione delle nozze di Flora con Alfred Stern, direttore dell’ufficio losangelino del produttore di vini e brandy californiani Charles Stern. Quell’autunno i giovani Stieglitz tornarono in Germania. Poco più tardi, Alfred intrecciò una relazione con una prostituta di nome Paula. Pur avendo già venticinque anni, probabilmente fu con lei che ebbe il suo primo rapporto sessuale. Alfred la invitò ad
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abitare con lui nell’appartamento al 44 di Kaiser Wilhelmstrasse. Non ci sono giunti nudi di quel periodo, ma Paula è il soggetto di Sunlight and Shadows–Paula del 1889. Lungo abito nero a balze, colletto di trine e capelli biondi piegati alla francese sotto un ampio cappello scuro, Paula scrive seduta a un tavolo dando le spalle all’osservatore, con fasci di luce che filtrano dalle veneziane. Appesi alla parete, nella fotografia, si notano gli altri ritratti di Paula realizzati da Alfred, tra i quali un primo piano del volto con i capelli sciolti mentre la giovane è stesa sul letto in maniera provocante. Quella relazione rivestiva un’importanza enorme per Alfred, tanto che dopo il 1890, anno in cui si lasciarono, continuò a inviare a Paula centocinquanta dollari al mese finché non seppe che un altro cliente abituale l’aveva resa proprietaria di un caffè. All’inizio del 1890, Flora morì dando alla luce un bambino morto. La tragedia familiare convinse Edward e Hedwig Stieglitz a richiamare i figli lontani. Julius era tornato a New York nel 1889 con un dottorato dell’Università di Berlino; Lee sarebbe arrivato da Heidelberg nel 1891, laureato in medicina con lode. Joe Obermeyer e Lou Schubart, gli amici di Alfred, erano pronti a riprendere la vita a Manhattan dopo aver conseguito il dottorato in chimica a Berlino. Solo Alfred, le cui fotografie avevano vinto la medaglia d’argento in un’esposizione ed erano pubblicate su prestigiose riviste, era restio a tornare in una città che 60
ormai considerava rozza e incolta. Quando nel 1890 il padre lo minacciò di tagliargli l’indennità, si imbarcò con riluttanza sul transatlantico. Alfred si considerava un artista della macchina fotografica, e arrivato in America si rifiutò di vendere i suoi scatti o cercare un impiego. Il padre lo aiutò così a diventare direttore della Heliocrome Company, dove Alfred non tardò ad assumere gli amici Schubart e Obermeyer. Quando la compagnia fallì, Edward acquistò l’attrezzatura, e nel 1891 Alfred fondò la Photocrome Engraving Company con Schubart e Obermeyer come direttori. Come aveva fatto alla Heliocrome, Alfred esigeva una qualità produttiva tale, e pagava agli impiegati stipendi così alti, che ricavare un profitto dall’attività era praticamente impossibile. Quello stesso anno entrò nella Society of Amateur Photographers e li convinse ad allestire una mostra a New York, dove i suoi lavori vinsero una medaglia. Nel 1889, George Eastman inventò la Kodak, la macchina fotografica portatile a cassetta, per la quale coniò lo slogan “Tu premi il bottone, noi facciamo il resto”. Alfred Stieglitz detestava il nuovo giocattolo e la popolarità che ottenne. In un articolo per Photographic Mosaics del 1892, sostenne la necessità di elevare il livello qualitativo per creare «una fotografia di valore artistico; in altre parole, un dipinto». La sua tesi era che le fotografie potevano essere “dipinti” se avevano una qualità simile: da qui l’invenzione del termine “fotografia pittorica”, a richiamare immagini romantiche e sfocate che emulassero la pittura nel tema e nella composizione. L’articolo segnò l’apertura della crociata di Stieglitz per la creazione e l’esposizione di fotografie con il crisma delle belle arti.
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Nel 1892 Stieglitz fu nominato direttore dell’American Amateur Photographer, ma per evitare sospetti di parzialità – fondati o meno che fossero – si rifiutò di percepire uno stipendio. Era lui a scrivere gran parte della rivista, dozzine di articoli e recensioni molti dei quali a sostegno del lavoro delle numerose donne fotografe. Non ancora accolta a pieno titolo tra le belle arti né caduta sotto il controllo dell’establishment maschile, la fotografia rappresentava una sbocco naturale per le donne, senza contare che era socialmente accettata: la Regina Vittoria, fotografa dilettante, aveva allestito una camera oscura al castello di Windsor. In Germania, i fratelli gemelli di Alfred si erano innamorati di una coppia di sorelle, le Stieffel. Nel 1891 Julius sposò Anny, tre anni dopo Lee sposò Elizabeth. Nel 1892 Selma diventò moglie di Lou Schubart, l’amico di Alfred. Con tutti i fratelli e gli amici in procinto di convolare a nozze, la famiglia cominciò a insistere perché anche l’ormai ventinovenne Alfred si sistemasse. Un pomeriggio di sole Alfred fece una gita in barca sul fiume Hudson con Obermeyer ed Emmeline, la sorella ventenne di quest’ultimo. I tre si fermarono a Nyack per un picnic, e sulla via del ritorno Emmy, come veniva soprannominata, posò la testa sulla spalla di Alfred e lo invitò a casa sua. La giovane era molto affascinata dal fotografo, che però la trovava grassottella e bruttina. Ciononostante, un paio di sere dopo si presentò da lei e trovò il campo libero: i genitori erano deceduti e Obermeyer, tutore di Emmy, era al piano di sopra. Alfred dovette prendersi qualche libertà, perché più tardi Obermeyer gli disse che li considerava fidanzati a tutti gli effetti. Alfred protestò, ma l’amico non voleva sentire ragioni: l’integrità di Emmy era stata compromessa. Di fronte alle ulteriori proteste di Alfred, Obermeyer si rivolse a un’autorità superiore, Edward Stieglitz, il quale costrinse il figlio a cedere. Le ragioni fatte valere, a quanto pare, furono economiche oltre che morali. Il mercato azionario era crollato, e nel giugno del 1893 il paese era entrato in depressione. In seguito a pesanti perdite in borsa, Edward Stieglitz aveva ripreso a lavorare nel tentativo di salvare il suo patrimonio. Emmy Obermeyer era l’erede del padre David, fondatore della fabbrica di birra Obermeyer and Liebmann, Brewers, Maltsters and Bottlers: una considerevole eredità che avrebbe contribuito a mantenere Alfred, il quale, com’era sempre più evidente, non sarebbe mai riuscito a fare soldi da solo. La quota di Emmy nell’azienda di famiglia produceva un lauto ricavo annuale di quasi tremila dollari, e Edward acconsentì a versare una cifra equivalente per il figlio. La coppia stabilì di dividere le spese: lei avrebbe pagato per mantenere il suo lussuoso stile di vita e allevare gli eventuali figli; lui per i costi delle proprie attività fotografiche, benché spesso e volentieri Emmy sovvenzionasse anche queste. Il fidanzamento di Emmeline Obermeyer e Alfred Stieglitz fu annunciato in giugno, e i due si sposarono il 16 novembre 1893 al ristorante Sherry’s sulla Fifth
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Avenue. Seguendo il consiglio della madre, Stieglitz bruciò parecchi volumi del diario che teneva sin dai nove anni. Il matrimonio si dimostrò infelice da subito.3 Emmy presumeva di poter persuadere il marito ad assumersi le proprie responsabilità alto-borghesi, ma lui sdegnava esplicitamente le sue pretese da classe media. Emmy reagì impedendogli di toccarla. Partirono per la luna di miele soltanto il 5 maggio 1894, ma il viaggio in Europa non fece che amplificare i contrasti. A Milano, Stieglitz lasciò Emmy in albergo e andò a vedere una propria mostra. A Venezia e Parigi faceva fotografie e incontrava colleghi, pressoché ignorando la piagnucolosa moglie. A Londra incontrò i membri di Linked Ring, un gruppo di fotografi convinti come lui del potenziale artistico del mezzo. Il clou della luna di miele, insomma, sembrava essere il fatto che Stieglitz fu uno dei primi americani accolti nella prestigiosa organizzazione. In settembre gli Stieglitz, a matrimonio non ancora consumato, ripresero il transatlantico per l’America. Nel gennaio del 1895, oltre un anno dopo le nozze, Alfred si ammalò gravemente di polmonite. Spaventata, Emmy fece marcia indietro e promise di concedersi al marito se si fosse ripreso. Dopo una miracolosa guarigione, in una località di villeggiatura a Rockledge, Florida, Alfred Stieglitz deflorò finalmente la moglie. 62
Nella primavera del 1896 Stieglitz fu tra le menti della fusione tra la Society of Amateur Photographers e il Camera Club di New York, per dare vita una delle associazioni più consistenti e ricche del paese. Situato al 3-7 di West 29th Street, il Camera Club era dotato di biblioteca, camere oscure e apparecchiature fotografiche. Nel 1897 Stieglitz cominciò a pubblicare Camera Notes, un trimestrale per i soci illustrato con fotocalcografie e mezzetinte, in cui tornava a insistere sul principio del «dipinto più che fotografia, sebbene la fotografia debba essere il metodo di rappresentazione grafica».4 L’artista più pubblicato sui numeri della rivista fu naturalmente lo stesso Stieglitz, con otto scatti. Come aveva fatto all’American Amateur Photographer, Stieglitz non volle percepire alcuno stipendio e utilizzò i propri fondi per coprire i debiti. L’anno seguente, com’era prevedibile, Stieglitz venne scelto come giurato per il primo salone fotografico d’America, organizzato dalla Pennsylvania Academy of Arts e dalla Photographic Society of Philadelphia. Solo centonovanta delle quindicimila opere candidate furono accettate, e l’esposizione si aprì con trenta fotografie di Stieglitz, Gertrude Kasebier e Clarence H. White – anche loro pittorialisti –, dieci per autore. White aveva subito l’influsso dell’arte giapponese, mentre Kasebier aveva studiato con Arthur Wesley Dow, che aveva integrato l’estetica nipponica nelle proprie teorie artistiche e pittoriche. Nebbiosi ed evocativi, i loro scatti ricordavano i famosi quadri orientalisti di James McNeil Whistler. Il matrimonio tra Alfred ed Emmy non sarebbe mai stato felice, ma a quanto pare i doveri coniugali non venivano trascurati: il 27 settembre 1898 venne alla
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luce Katherine Stieglitz. Su insistenza di Emmy, si trasferirono in un grande appartamento al 1111 di Madison Avenue, dove assunsero una camerierache faceva anche da governante e da cuoca. Il raggiante padre cominciò il Photographic Journey of a Baby, ritraendo la piccola Kitty – come era stata soprannominata – in braccio alla madre. Alfred vedeva la nascita della figlia come un’occasione per dimostrare la sua tesi secondo cui un vero ritratto comincia alla nascita e dura per l’intera vita del soggetto. Il diario fotografico di Kitty fu interrotto quattro anni dopo da Emmy, che notava un certo imbarazzo nella bimba. Siccome Stieglitz esprimeva attraverso la fotografia il suo affetto per il prossimo, le sue interazioni con la figlia si diradarono. Da allora, ferito e incompreso, Stieglitz tornò di rado a scattare fotografie di Kitty ed Emmy. Gli Stieglitz vivevano secondo lo stile del periodo e dei loro genitori, con il soggiorno pieno di scuri mobili vittoriani. Alle pareti, le fotografie di Alfred si alternavano a stampe simboliste di Franz von Stuck, pittore secessionista di Monaco, come Il peccato, cupa raffigurazione di una Eva nuda con un grosso serpente. Soltanto nei locali del Camera Club, però, Alfred si sentiva davvero a casa. Nel 1899, Theodore Dreiser gli dedicò un articolo sulla rivista Success. Stieglitz era impegnato a fotografare i palazzi di New York in via di costruzione o demolizione, cimentandosi in prove tecniche sempre nuove quali gli scatti notturni o sotto la pioggia battente. Il suo lavoro era ostacolato dall’uso di un’apparecchiatura ingombrante e di materiali mai sperimentati, e dal fatto che ciascuna esposizione richiedeva parecchi minuti. Ma dopo le interminabili ore trascorse in camera oscura, le sue foto abbattevano le barriere tecniche oltre che estetiche. Stampata nel 1900, Spring Showers mostra un esile albero e un uomo piegato in avanti, bagnato e avvolto dalla foschia, in un lungo formato verticale memore della pittura a inchiostro giapponese. Nel maggio dello stesso anno, al Camera Club, Stieglitz fece la conoscenza di Edward Steichen, un allampanato e attraente ventunenne. Era stato Clarence White a organizzare l’incontro, definendo Stieglitz «il capofila nella lotta per l’affermazione della fotografia pittorica come arte». Avido lettore di Camera Notes, Steichen era a New York prima di partire per Parigi, e voleva mostrare a Stieglitz il suo portfolio di fotografie alla gomma bicromatata. Come Stieglitz, Steichen era figlio di immigrati europei. Nato in Lussemburgo nel 1879, all’età di due anni era stato portato dai genitori nella cittadina mineraria di Hancock, Michigan. Dieci anni dopo, per offrire migliori opportunità a Edward e alla sorella Lillian, la famiglia si era trasferita a Milwaukee. Completata la scuola a quindici anni, Steichen iniziò l’apprendistato presso uno studio litografico, la American Fine Art Company, e in poco tempo fu promosso al rango di progettista e litografo. Affascinato dalla tecnologia, nel 1895 acquistò la sua prima macchina fotografica, cogliendone immediatamente il potenziale, e convinse i progettisti litografi della società a farlo lavorare a parti-
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re dalle fotografie, consentendogli di sviluppare le sue abilità tecniche durante l’apprendistato. La sera, invece, studiava pittura alla Milwaukee Art Students League. Dopo cinque anni all’American Fine Art Company, Steichen aveva messo da parte abbastanza fondi per proseguire gli studi pittorici all’Académie Julian. Pur amando la fotografia, trovava frustrante la scarsa considerazione di cui la disciplina godeva rispetto alla pittura. Di passaggio a New York, decise di chiedere consiglio a Stieglitz. L’esperto fotografo apprezzò il lavoro di Steichen, ma soprattutto comprò tre dei suoi scatti a cinque dollari l’uno e si adoperò perché fossero esposti al Philadelphia Photographic Salon. Nei due anni a venire, in uno studio di Boulevard du Montparnasse, Steichen si dedicò alla sua eterea pittura paesaggistica e alle fotografie, che l’americano F. Holland Day incluse nella mostra “The New School of American Photography”, aperta a Londra nell’autunno del 1900.5 Steichen inserì Day nel suo portfolio fotografico di “Grandi Uomini”, insieme allo scrittore Maurice Maeterlinck, all’artista George Frederick Watts e ad Auguste Rodin. L’anziano scultore apprezzava in modo particolare la compagnia di Steichen, che parlava un ottimo francese, e in poco tempo prese l’abitudine di invitarlo nel suo studio ogni domenica. Dopo un anno, Steichen si 64
sentiva abbastanza in confidenza da realizzare Rodin–Le Penseur, la leggendaria fotografia dell’artista in posa con la statua di bronzo Il pensatore. Da Parigi, Steichen intratteneva una corrispondenza torrenziale con Stieglitz, il quale vedeva nel simultaneo successo del giovane artista come pittore e fotografo una conferma alla propria tesi che l’arte sta nel messaggio, non nel mezzo. Su Camera Notes, diede ampio risalto ai trionfi di Steichen, tra i quali la partecipazione al Salon des Champs de Mars. Le fotografie pubblicate da Stieglitz e i suoi amici venivano accolte con freddezza dai soci del conservatore Camera Club. Tanto che nel febbraio del 1902, Stieglitz lo abbandonò per formare Photo-Secession – in omaggio alla Secessione di Monaco del 1892 –, un gruppo di artisti in rivolta contro l’egemonia della pittura accademica. Pur definendo inizialmente Photo-Secession come «il corpo di fotografi più radicale ed esclusivo» e un movimento di «protesta», Stieglitz e i suoi compagni mantennero i rapporti con il Camera Club per poterne sfruttare le camere oscure.6 Steichen tornò a New York in tempo per mettere il suo impetuoso temperamento al servizio di Photo-Secession, convincendo Stieglitz a diventarne il direttore e a fondare una nuova rivista. Presto il gruppo arrivò a contare centoventi membri, un terzo dei quali erano donne. Erano i loro contributi a consentire l’allestimento delle mostre e la pubblicazione di Camera Work: progettato da Steichen e diretto da Stieglitz in collaborazione con l’amico fotografo Joseph T. Keiley, in poco tempo sarebbe diventato uno dei maggiori periodici d’arte americani.
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Nel 1903, il primo anno di pubblicazione, Camera Work totalizzò 647 abbonati per un costo annuale di cinque dollari. Stampate dalla Photochrome Engraving Company di Stieglitz, le fotocalcografie erano montate a mano su ciascuna copia dal direttore e i suoi amici. Quando la compagnia fallì, Stieglitz insistette per stampare la rivista in Germania, con enorme aggravio di spese. Nei quindici anni di vita di Camera Work, 357 delle 473 fotografie pubblicate furono opera di quattordici artisti, i più rappresentati dei quali erano Stieglitz e Steichen. Sulle pagine trovavano spazio anche gli articoli dei critici più acuti dell’epoca, tra i quali Sadakichi Hartmann – fotografo a sua volta – e il britannico Charles H. Caffin del New York American. A quest’ultimo si deve Photography As a Fine Art: The Achievements and Possibilities of Photographic Art in America, del 1901, uno dei primi manifesti del pittorialismo. Nel giro di pochi anni la rivista iniziò a pubblicare articoli sull’evoluzione dell’arte moderna in Europa, insieme ad alcune delle prime riproduzioni dei quadri. La dedizione di Stieglitz a Camera Work era così totale che, dopo due anni, Emmy si rese conto che l’unica soluzione per passare del tempo con lui era una vacanza in Europa. Arrivato in Germania nel maggio 1904, Stieglitz ebbe un esaurimento nervoso e fu ricoverato in una clinica di Berlino. Dopo un mese di convalescenza, si unì a Emmy, Kitty e l’istitutrice di quest’ultima per il giro del continente, e in settembre andò a Londra per assistere al primo Salone Fotografico della città, organizzato da Linked Ring. Tornati a New York, Stieglitz e Steichen decisero di allestire un loro salone. Non potendosi permettere l’affitto di uno spazio ufficiale, optarono per l’ex studio di Steichen – accanto a quello nuovo, più grande – al 291 di Fifth Avenue. Steichen progettò gli interni in stile secessionista viennese, con pareti rivestite di tela ruvida grigio-verde e boiserie marroni. Appeso al lucernario c’era un trasparente, per garantire un’illuminazione soffusa alle fotografie incorniciate di legno scuro. Su un tavolo al centro della galleria, un largo vaso d’ottone battuto pieno di rami d’albero. La Little Galleries of the Photo-Secession aprì il 25 novembre 1905, con cento scatti di fotografi legati al movimento. Una commissione del quindici percento sulle eventuali vendite era trattenuta per il fondo della galleria. Nel marzo del 1906, al ventiseienne Steichen fu dedicata una retrospettiva di sessantuno fotografie, tra le quali i ritratti e i paesaggi lirici. La galleria era situata in un’area cittadina alla moda, e secondo Stieglitz durante la prima stagione contò quasi quindicimila fra curiosi e visitatori. Quando lui e Steichen erano via, ad aprire la galleria provvedeva Clara, la moglie di quest’ultimo. Al costo medio di quarantacinque dollari, furono vendute una sessantina di opere, molte delle quali di Stieglitz, che in un futuro si augurava di riuscire a dar vita a un museo della fotografia. Ogni giorno Stieglitz dava un pranzo per fotografi, artisti, critici e mecenati nel lussuoso ristorante dello Holland
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House Hotel, all’angolo tra Fifth Avenue e 30th Street, pagando il conto con l’indennità fornita dalla moglie. L’affascinante e ambizioso Steichen finì per essere adottato dalla famiglia Stieglitz. Edward acquistò i suoi quadri e organizzò la commissione per il celebre e imperioso ritratto del finanziere J.P. Morgan realizzato dal fotografo, mentre Lee Stieglitz diventò il medico di famiglia degli Steichen. Eppure, malgrado tante attenzioni, Steichen avvertiva la necessità di tornare a Parigi, dove si trasferì nel 1906 con Clara e le figlie Mary e Kate. Dopo la partenza di Steichen, Emmy si dichiarò entusiasta della prospettiva che il marito desse finalmente un taglio alla folle impresa della galleria. Alfred era stanco di provvedere alle continue esigenze dei numerosi fotografi, ma l’idea di placare Emmy rafforzò la sua determinazione e lo convinse a rinnovare l’affitto biennale. Dopo vent’anni, Stieglitz stava finalmente vincendo la battaglia per elevare la fotografia allo statuto di arte. Per ribadire la loro posizione, Stieglitz e Steichen decisero di presentare le fotografie accanto ad altre opere d’arte moderna: Steichen si assunse l’incarico di setacciare Parigi a caccia di artisti per le esposizioni a venire. Dopo la mostra dei foto-secessionisti del 1906, tuttavia, Stieglitz scelse di esporre i disegni e gli acquerelli di una ventottenne america66
na residente a Londra, Pamela Colman Smith. Allieva di Arthur Wesley Dow a New York, giunta a Londra Smith aveva fatto amicizia con i poeti William Butler Yeats e Arthur Symons. Stieglitz la trovava vitale e attraente come i suoi lavori, di derivazione simbolista. I simbolisti sposavano il principio della spiritualità e della dimensione inconscia come fonti primarie dell’arte, intrecciandolo a un filone di romanticismo tedesco che informava gli exploit più intuitivi di Stieglitz. La mostra fu un successo di critica e pubblico pagante, ma fece imbestialire Steichen, che l’aveva promessa a Rodin. A mandarlo su tutte le furie, inoltre, era il fatto che Stieglitz sembrasse aver deciso da solo di esporre opere non fotografiche alla 291. Nel giugno del 1907, Stieglitz, la moglie, la figlia Kitty e la governante ripartirono per l’Europa. Durante la traversata, vedendo la calca dei passeggeri appoggiati al parapetto sopra e sotto il ponte, Alfred tornò di corsa in cabina a prendere la sua 4x5 Graflex. La fotografia che scattò, The Steerage, sarebbe diventata tra le sue più famose. Arrivato a Parigi sviluppò la lastra e se la portò appresso per quattro mesi, in attesa di poterla stampare a casa. The Steerage è stata erroneamente interpretata come una provocatoria immagine di poveri immigrati in viaggio per l’America, a simboleggiare la divisione tra la classe superiore e quella inferiore. Al contrario, tutti i soggetti, in coperta e sotto, sono operai di terza classe che tornano in Europa con i risparmi messi da parte in America.7 Giunto a Parigi, Stieglitz scoprì che il suo amico lo aveva superato quanto a conoscenza dell’arte moderna. Steichen era una presenza fissa nei salotti dei
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ricchi fratelli Stein – due fratelli e una sorella –, espatriati di San Francisco. Leo Stein abitava al 27 di rue de Fleurus, vicino a boulevard Raspail, insieme alla sorella Gertrude, che ancora non aveva scoperto le proprie doti di scrittrice. Leo e Gertrude Stein erano collezionisti di Picasso, che Steichen aveva conosciuto di persona. Michael Stein e la moglie Sarah collezionavano invece Matisse, al quale Steichen fu presentato in casa della coppia. Stieglitz non aveva peli sulla lingua. Quando lo portarono alla Galerie Bernheim-Jeune a vedere gli acquerelli di Cézanne, morto due anni prima, qualcuno gli spiegò che costavano un centinaio di franchi l’uno. «Vorrà dire una dozzina» sbuffò Stieglitz. «Qui non vedo altro che carta bianca con qualche chiazza di colore qui e là.» Più tardi, tentò di recuperare: «A essere sincero, ho espresso quei commenti perché i quadri mi hanno lasciato senza parole».8 Straordinariamente sensibile a tutto ciò che poteva rivelarsi controverso, Stieglitz fu però rapido a cogliere la portata dell’arte moderna europea. Prima di riprendere il transatlantico per New York, aveva già allargato i suoi obiettivi: la 291 avrebbe esposto gli stupefacenti quadri e sculture che aveva visto a Parigi. Di nuovo, era destinato a lottare contro i conservatori e l’accademia, continuando la sua «ribellione contro l’autocrazia delle convenzioni». La sua prima cartuccia fu Rodin. Il 2 gennaio 1908, Stieglitz inaugurò la mostra degli acquerelli erotici di Rodin. Pur sapendo che avrebbero scioccato la maggior parte dei visitatori, per aumentare ulteriormente l’impatto decise di stampare sul catalogo un estratto del saggio di Arthur Symons: «Lei si volta su se stessa in cento pose, sempre facendo perno sul sesso».9 Oltre a essere provocanti, gli acquerelli erano qualcosa di mai visto a New York: profili di forme femminili a matita con pennellate di una carnosa tinta pesca o di un blu ombreggiato. William Merritt Chase, che si professava un artista moderno di larghe vedute, rimase talmente scandalizzato che giurò di non mettere più piede alla 291. I suoi studenti, tra i quali Georgia O’Keeffe, furono mandati all’esposizione allo scopo di conoscere un modello da non imitare. Un docente disse a O’Keeffe che «non sapeva se Rodin volesse farsi beffe anche di Stieglitz e dell’America, inviandoci un gruppo di disegni così ridicoli, o se forse Stieglitz sapeva il fatto suo e voleva divertirsi a scoprire quante sciocchezze poteva propinare al pubblico americano».10 Miglior cliente di se stesso, Stieglitz acquistò diversi degli acquerelli di Rodin, oltre ad alcune opere di Matisse, la cui mostra, quello stesso anno, attirò quattromila visitatori. Secondo Stieglitz, quei semplici tratteggi di donne nude coricate rappresentavano «idee nuove» partorite da «un autentico anarchico» che suscitavano «parecchi accesi dibattiti». I critici liquidarono come «indecente» l’esposizione di Matisse. Nei primi due anni di attività della 291, Stieglitz e Steichen provarono a bilanciare mostre destinate e fare scalpore con altre più innocue, quali la perso-
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nale di Willi Geiger – un pittore tedesco che aveva studiato con Franz von Stuck – nel 1908 e i disegni teatrali di Gordon Craig. La scelta era parzialmente dovuta al fatto che, inizialmente, Stieglitz non comprendeva l’arte europea più radicale; e persino il più aggiornato Steichen aveva le sue riserve: in una lettera a Stieglitz, scrisse che la 291 doveva alternare l’arte «comprensibile», come quella di Craig, all’«arte che ha lo stesso effetto del drappo rosso agitato di fronte al toro. I Picasso sarebbero perfetti come drappo rosso se riuscissi a metterci sopra le mani, ma lui è uno zoticone».11 Due giorni dopo l’apertura della mostra di Rodin, il segretario del Camera Club scrisse a Stieglitz per chiedergli di dimettersi, accusandolo della perdita di soci subita dal club. Stieglitz rispose citando il club in giudizio, e il 10 marzo fu reintegrato come socio a vita, salvo poi rinunciare al processo e presentare le dimissioni, che furono accettate.12 Privo dei contributi dei foto-secessionisti, tuttavia, Stieglitz aveva bisogno di nuovi finanziatori per la 291. Nel 1907 aveva conosciuto Agnes Ernst, una splendida e laureata bionda di Barnard che lavorava al New York Morning Sun. Intervistandolo sulla mostra di Rodin, la giornalista si era convinta che la 291 rappresentasse l’affrancamento dalle convenzioni che lei cercava. Dopo aver studiato arte a Parigi, nel 1909 era tornata per sposare il finanziere Eugene Meyer. 68
Il legame con Stieglitz era rafforzato dal fatto che Aline Meyer, sorella di Eugene, l’anno prima aveva sposato Charles J. Liebman, cugino di Emmy. Aline Liebman e Agnes Ernst Meyer divennero importanti sponsor della 291. Eugene Meyer offrì agli artisti consulenze finanziarie gratuite, che Steichen seguì fino a costruirsi una sostanziale indipendenza economica. Stieglitz, al contrario, rifiutò come sempre qualsiasi aiuto e continuò a contrarre debiti; nel 1912 fu costretto a chiedere un prestito al cognato Obermeyer. Il principale patrono di Stieglitz era Paul Burty Haviland, il cui padre francese era direttore dell’azienda di famiglia, la Limoges, da tre secoli produttrice di porcellana fine. La madre era figlia del critico francese Philippe Burty, paladino dell’Impressionismo. Conclusi gli studi all’Università di Parigi, Haviland era stato mandato a Harvard per migliorare l’inglese e costruirsi una rete di contatti. Trasferitosi a New York come rappresentante dell’attività di famiglia, prima di acquistare numerosi disegni di Rodin era profondamente annoiato dal conservatorismo culturale della città. Scaduto l’affitto della galleria, Stieglitz esitò a rinnovarlo per via del raddoppio della rata. Nella primavera del 1909, Haviland firmò un contratto d’affitto triennale – cinquecento dollari l’anno – per i locali più piccoli al 293 della Fifth Avenue. Dal momento che i due edifici condividevano l’ingresso, la galleria continuò a operare con il nome di 291. Haviland era coinvolto in ogni aspetto dell’impresa: la conduzione delle vendite, la vicedirezione di Camera Work e la scrittura di una rubrica fissa per la rivista.
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Oltre a esporre le opere scelte da Steichen a Parigi, la 291 ospitava i lavori di Marius de Zayas, un aristocratico messicano la cui famiglia era fuggita negli Stati Uniti nel 1907 dopo aver perso la propria tenuta durante la dittatura di Porfirio Díaz. De Zayas si era fatto un nome con le caricature di artisti e personaggi dell’alta società per il New York Evening World. Nel 1910, la sua mostra “Boulevardier” alla 291 attirò file di visitatori per sei mesi. Su una grande piattaforma di legno, de Zayas sistemò cento cartoline con caricature dei newyorkesi più famosi a passeggio lungo la Fifth Avenue davanti al Plaza Hotel. Quell’anno, dopo un viaggio a Parigi, de Zayas si sostituì poco alla volta a Steichen – che si era trasferito nel villaggio di Voulangis con la famiglia – come procacciatore di artisti per la 291. Fu lui a scoprire Picasso. La lingua comune gli permise di condurre un’approfondita intervista con il pittore spagnolo, pubblicata su Camera Work nel numero di aprile-luglio. Nel 1911, Stieglitz acquistò il quadro cubista Standing Female Nude dalla mostra di Picasso allestita alla 291, descrivendolo come «un cocktail intellettuale». Il 24 maggio 1909, il padre di Stieglitz morì di una malattia renale. Hedwig si trasferì in un appartamento al 14 di East 60th Street, un palazzo costruito sul sito della casa in arenaria nella quale avevano abitato, poi demolita. Alfred ricevette un’eredità di diecimila dollari, ma pur giurando che non li avrebbe mai toccati finì per investirne settecento all’anno nel mantenimento della galleria. Quell’estate, Stieglitz tornò in Europa con Emmy, Kitty e la governante, ansioso di conoscere altri degli artisti, collezionisti e agenti che avevano colonizzato la Rive Gauche di Parigi. Fece visita a Rodin, nel suo studio di Meudon. Vide i Matisse di Michael e Sarah Stein, i Cézanne e i Picasso di Gertrude e Leo Stein. Mentre Leo lo erudiva sul valore del Cubismo, la sorella restava seduta in silenzio. Tre anni dopo, Stieglitz sarebbe stato il primo americano a pubblicare, su Camera Work, gli eccentrici scritti di Gertrude Stein sulla sua amicizia con Matisse e Picasso. Grazie a Steichen, Stieglitz conobbe il pionieristico agente d’arte Ambroise Vollard e l’artista americano John Marin, i cui acquerelli cubisti erano stati esposti alla 291 in aprile. «Nel primo istante in cui vidi il lavoro di Marin pensai: “Ecco un’arte piena di gioia”» ricordava Stieglitz. Dopo aver trascorso del tempo con l’artista e visionato le sue ultime opere, si affrettò a prendere accordi per un’altra mostra. Marin si ritrasferì negli Stati Uniti e divenne uno dei migliori amici di Stieglitz. Al suo ritorno a New York, quell’autunno, Stieglitz era ormai un raffinato intenditore d’arte moderna. Nel 1911, durante l’esposizione delle litografie di Cézanne realizzate a partire dal quadro Le bagnanti, dichiarò a un giornale di New York che «senza comprendere Cézanne [...] è impossibile per chiunque capire, anche a grandi linee, gran parte di quello che accade oggi nel mondo dell’arte». L’allestimento di mostre d’arte moderna alla 291 rispondeva a uno scopo edu-
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cativo, e nessuno imparò più dello stesso Stieglitz, che arrivò a vedere in questa arte una metafora della liberazione individuale. L’evoluzione personale degli artisti, per lui, contava quanto le opere prodotte. Come disse l’amico de Zayas: «La esponeva non solo per ciò che era, ma per consentire a ciascun individuo di trovarvi il proprio io. [...] L’arte moderna era incomprensibile ai più; e questo ne faceva lo strumento migliore per permettere alla gente di capire se stessa».13 Stieglitz concepiva il processo artistico come un percorso spirituale di espressione del sé, la galleria come un laboratorio di ricerca estetica e il proprio ruolo come quello di uno sciamano. Rifiutando ogni suggerimento teso alla gestione della galleria come attività commerciale, era noto per essere tutto tranne che un agente artistico. «Se era convinto che qualcuno volesse comprare giusto perché aveva i soldi, poteva raddoppiare il prezzo di un quadro» raccontava Marie Rapp Boursault, segretaria di Stieglitz per lungo tempo. «E se qualcun altro si entusiasmava per un’opera e non pensava ad altro, poteva dargliela a metà prezzo!»14 A dispetto – o forse a causa – di queste insolite procedure, gli artisti adoravano esporre alla 291. Negli anni successivi, Stieglitz ospitò i lavori di Henri Toulouse-Lautrec, Constantin Brancusi, Henri Rousseau e Francis Picabia, oltre a quelli di Picasso, Cézanne e Matisse. A partire dal 1913, si dedicò ai più 70
rischiosi pittori moderni americani: Marin, Marsden Hartley, Arthur Dove e Paul Strand. In seguito ai colloqui con gli artisti e i collezionisti, tra il 1909 e il 1913 Stieglitz ribaltò la sua posizione sul pittorialismo, cominciando a sostenere che la fotografia non doveva essere indebitata con la pittura, ma, al contrario, la fotografia doveva dotarsi di una missione avvincente quanto quella dei pittori e degli scultori moderni. Qual era il ruolo dell’arte, dopo Cézanne e Picasso? Quale il significato della rappresentazione? Malgrado il sincero tentativo di rafforzare la posizione della fotografia intrecciando un dialogo con le altre arti, i foto-secessionisti si sentirono emarginati dal voltafaccia di Stieglitz. La tiratura di Camera Work crollò dalle 1000 copie del 1903 alle 304 del 1912. Nel 1910, Stieglitz tentò di placare la frustrazione dei foto-secessionisti inserendoli nella collettiva della Albright Knox Gallery di Buffalo. L’obiettivo di veder accettata la fotografia come bella arte fu raggiunto quando l’istituto comprò dodici degli scatti per la sua collezione: fu uno dei primi musei a compiere il passo. Finalmente, Stieglitz aveva la sensazione che il suo impegno per la causa fosse andato a buon fine.15 «Persino la signora Stieglitz, quando l’ha visto, si è resa conto che qualcosa è successo» osservava seccamente, ancora convinto che la moglie fosse l’epitome delle forze conservatrici. «È stata un’autentica rivelazione per lei!»16
libro secondo 1918-1946
Sono convinta che una vera forma viva sia il risultato naturale dello sforzo di un individuo di ricreare ciò che è vivo dal proprio avventurarsi in territori sconosciuti, dove ha conosciuto o percepito qualcosa che non ha compreso; da quell’esperienza nasce il desiderio di rendere noto l’ignoto. Georgia O’Keeffe a Sherwood Anderson, 1925
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Pochi mesi dopo il matrimonio, il 9 marzo 1925, Stieglitz e O’Keeffe erano in preda all’entusiasmo per l’apertura della nuova mostra all’ultimo piano della Anderson Galleries: “Alfred Stieglitz Presents Seven Americans: 159 Paintings, Photographs & Things, Recent & Never Before Publicly Shown, by Arthur G. Dove, Marsden Hartley, John Marin, Charles Demuth, Paul Strand, Georgia O’Keeffe, Alfred Stieglitz”. Considerata una sorta di ventesimo anniversario della 291, durò due settimane e rimase la più grande esposizione mai allestita da Stieglitz. McBride paragonò la serata del ricevimento inaugurale a un «vernissage francese». «C’era un incessante brusio di persone interessate le une alle altre quanto lo erano ai nuovi dipinti, perché alle prime di Stieglitz accorrono tutti gli chic della città» scrisse.1 La sera dell’apertura, O’Keeffe aveva un diavolo per capello. Aveva passato gli ultimi mesi a completare frettolosamente il suo primo paesaggio urbano notturno, New York with Moon, raffigurante il Chatham Hotel con un lampione di ferro sullo sfondo e la luna velata dalle nuvole. Si aspettava di vederlo appeso insieme alle opere degli “uomini”, ma al suo arrivò non lo trovò. Il primo gesto ufficiale del marito di Georgia O’Keeffe era stato la censura di quello che lei riteneva un bel quadro. «Ero furibonda» avrebbe ricordato, ancora stizzita, oltre cinquant’anni dopo. La pittrice moriva dalla voglia di competere con gli altri artisti, ma Stieglitz non la mise neppure in gara. Così, fu costretta a ripiegare sulla potenza delle petunie e del granturco dell’estate precedente, che riscossero comunque un grandioso successo. «Se mi soffermassi a pensare a ciò che gli altri – le autorità – potrebbero dire, non riuscirei a combinare nulla.»2 Il catalogo era una curiosa raccolta di teorizzazioni sconclusionate e meditazioni aforistiche. Sherwood Anderson, che aveva dedicato l’autobiografica Storia di me e dei miei racconti a Stieglitz, contribuì con un poema in prosa sull’apatia di Manhattan. La mostra, scrisse, rivelava «il distillato della limpida vita emotiva di sette artisti autenticamente americani». Presa alla lettera, era una descrizione quanto meno bizzarra del gruppo: Stieglitz e Dove erano adulteri; fino a sei mesi prima, O’Keeffe era una mante-
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nuta; Hartley e Demuth erano noti per quella che era considerata una piccante omosessualità decadente. Lo stesso Anderson aveva abbandonato il solido passato cittadino con moglie, figli e un lavoro nella pubblicità per dedicarsi alla vita dell’autore bohémien. L’espressione «limpida vita emotiva» si riferiva alla volontà da parte degli artisti di infrangere le convenzioni allo scopo di mantenere «emozioni limpide» nei confronti di se stessi. Nel catalogo trovarono posto altri saggi a opera dello scultore tedesco Arnold Ronnebeck, il quale, pur confessando una certa perplessità sull’inflessibile capitalismo del suo paese adottivo, plaudeva ai sette artisti per la loro creatività auto-analitica, equiparandola «nientemeno che alla scoperta del ruolo indipendente dell’America nella Storia dell’Arte». Arthur G. Dove spiegò che le immagini erano parte integrante dei loro autori e forse anche dell’America. Più incisivo del suo breve articolo era però il collage The Critic: una figura squadrata di carta di giornale con la testa vuota, il corpo composto da una sperticata recensione del pittore realista George Luks e un aspirapolvere Energex per ripulire il mondo dell’arte. La satira era diretta al critico Royal Cortissoz. In nove lunghe recensioni, i critici sostanzialmente promossero i risulta216
ti artistici passati e presenti di Stieglitz, esprimendo un particolare apprezzamento per gli ultimi scatti delle nuvole. Com’era prevedibile, si divisero sul resto dei lavori esposti. Con le sue tetre e pesanti nature morte di aringhe e paesaggi del Maine, Hartley fu bollato come eccessivamente “Vecchio Mondo”. Tra gli assemblaggi di Dove, c’era un ritratto di Stieglitz composto da uno specchio, una lente, una molla di orologio e della lana d’acciaio. L’opera suscitò grande costernazione, mentre Strand fu ricoperto di elogi per le sue fotografie di luccicanti parti di macchinari, così come Marin, da sempre beniamino della critica, per i suoi paesaggi. All’ingresso della galleria, a sottolineare la fraternità che univa il circolo di Stieglitz e per lo sconcerto di molti critici, Demuth espose una serie di ritratti degli artisti formato poster, presentati con lettering e simboli pubblicitari. Appesi insieme all’entrata, “reclamizzavano” letteralmente l’ultima impresa di Stieglitz. O’Keeffe è ritratta come una sansevieria, dentro un vaso sopra un tavolo. Accando al vaso c’è una mela, toccata dall’estremità fallica di un cetriolo collocato in posizione coitale sotto il cognome della pittrice, che è stampato capovolto e al contrario, come visto dal mirino di una macchina fotografica. La mela e il cetriolo rappresentavano O’Keeffe e Stieglitz; le due pere una sopra l’altra all’ombra del vaso potevano alludere alla sessualità di Demuth. Malgrado l’assenza di New York with Moon, O’Keeffe ricevette più elogi rispetto agli “uomini”, anche da parte di Cortissoz, che ammirava le sue doti. La giornalista Helen Appleton Read non riusciva a contenere il suo entusia-
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smo per le petunie giganti e «le calle, le composizioni di foglie e fiori, gli avocado e le astrazioni che somigliano a cose alle quali forse non volevano somigliare, tutte dipinte alla sua limpida e precisa maniera». Auspicando una nuova analisi critica dell’opera di O’Keeffe, Read osservava: «È un peccato che tanto sia stato letto sotto la superficie della sua pittura, eppure è vero che alcuni dipinti sono possibili [sic] di curiose doppie interpretazioni dei suoi stati emotivi. Le presentazioni delle sue precedenti mostre non hanno fatto che rafforzare questa idea».3 L’esposizione non suscitò un entusiasmo sfrenato. Se mai, ci fu una reazione critica contro il multiforme catalogo, che esaltava la superiorità degli americani in un’epoca nella quale gli artisti moderni europei si stavano affermando a New York. Era difficile convincere i collezionisti che l’attuale vivaio locale di Stieglitz fosse all’altezza degli artisti d’oltreoceano – Picasso, Cézanne, Matisse – che lui stesso era stato il primo a esporre, e che ora facevano registrare vendite cospicue. Peggio ancora, lo stress gli provocò un doloroso attacco di calcoli renali, e O’Keeffe si ritrovò costretta, insieme ad altri, a dirigere la galleria. Vendere i proprio quadri a parenti e amici era umiliante, per non parlare di quella che chiamava la «gente untuosa e volgare».4 A casa faceva l’infermiera di Stieglitz, praticandogli iniezioni di morfina a intervalli regolari, finché il dolore non crebbe a tal punto da rendere necessario un ricovero. Fidandosi del suo intuito, Ida suggerì a Stieglitz di bere due quarti di siero di latte al giorno per dieci giorni. Lui odiava il latte, ma dopo altre due settimane di sofferenza si decise a seguire il consiglio e, come previsto, dopo dieci giorni espulse il calcolo. Ida aveva visto giusto: Stieglitz era talmente furioso che giurò di gettare il maledetto calcolo dalla finestra.5 Man mano che maturava artisticamente, O’Keeffe imparava ad accettare che i suoi lavori erano di fatto diversi da quelli prodotti dagli “uomini”. Invece di imitarli, sempre più spesso sceglieva di sottolineare la differenza utilizzando tonalità delicate. Quando selezionava un soggetto dal regno degli “uomini” – come la capanna marrone o il paesaggio urbano – lo faceva consapevolmente. In quanto oggetto artistico dell’era moderna, il fiore era pregno di un sentimentalismo problematico, troppo facilmente associato ai cliché sulla femminilità. Nel suo articolo su Seven Americans, Edmund Wilson osservò che i dipinti floreali di O’Keeffe avevano «un’intensità tipicamente femminile che [...] sembra manifestarsi, di norma, in maniera assai diversa da quella maschile».6 O’Keeffe rendeva i suoi fiori intensi e oggettivi affidandosi all’occhio neutrale della macchina fotografica. Doveva aver visto parecchi esempi di fiori isolati e ingranditi fotograficamente. Nel 1923, Vanity Fair aveva pubblicato un singolo loto ritratto da Steichen. Grosso modo nello stesso periodo Imogen Cunningham, una fotografa della West Coast, aveva inaugurato una serie di primi piani
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di calle e magnolie incredibilmente simili ai quadri di O’Keeffe. È possibile che lei li avesse visti, dal momento che Cunningham aveva conosciuto Stieglitz alla 291 nel 1909. Cunningham ammetteva di essersi ispirata al loto galleggiante in una scodella fotografato da Baron de Meyer nel 1908, un’immagine che Georgia poteva senz’altro aver visto su Camera Work.7 Ma più che a questo o quello scatto di Stieglitz o Strand, era alla forza grafica della fotografia in quanto tale che O’Keeffe attingeva ora per i suoi dipinti floreali. Pur avendo sperimentato alcune tecniche coloristiche, come la maggior parte dei fotografi Stieglitz lavorava in bianco e nero. A differenza dei fotografi, invece, O’Keeffe fu attratta dai fiori per i loro colori. Come Monet, sceglieva i soggetti nel suo giardino: per poterne studiare più attentamente le tenui e splendide sfumature, piantava letti di petunie porpora a Lake George. Solo dopo aver piantato i propri fiori nell’estate del 1924 cominciò a ritrarli ingranditi. Non fu un caso se questi grandi fiori furono esposti nella prima collettiva insieme agli “uomini”. Le petunie miravano a competere in dimensioni e potenza visiva con i grattacieli di New York fotografati da Stieglitz e Strand: «Se riuscissi a dipingere quel fiore in scala enorme, diventerebbe impossibile ignorarne la bellezza».8 A livello intuitivo, O’Keeffe coglieva le implicazioni rivoluzionarie della scel218
ta di un immaginario “femminile” come quello floreale. Fu uno dei risultati più importanti ai quali approdò: «Sono una dei pochi artisti, forse l’unica oggi, a voler definire grazioso il mio lavoro» spiegava. «Non mi dispiace che sia grazioso. Credo che rinunciare a questo termine sia un peccato: se ci impegnassimo abbastanza a fondo, forse, riusciremmo a farlo tornare in voga.»9 O’Keeffe comprendeva che l’attributo “grazioso” era deriso in quanto associato alla creatività femminile. La sua reazione non fu abbandonare la “grazia”, ma sbarazzarsi dell’assunto maschile che la etichettava come inferiore. Si era resa conto che, se volevano fare arte alla pari degli uomini, le donne dovevano farla in maniera diversa, assecondando la sensibilità, l’esperienza e il contesto che le contraddistinguevano. Si tratta di una distinzione cruciale, che si colloca nel campo di battaglia sul quale la storia dell’arte è stata riconcepita negli ultimi quarant’anni. I fiori di O’Keeffe – ancora oggi liquidati come sciocchi o fanciulleschi da alcuni critici – fungono da bombe di profondità camuffate, pronte a far esplodere le concezioni più vetuste sulle gerarchie sessuali. Ironia della sorte, le armi scelte da O’Keeffe per conquistare un linguaggio che le permettesse di esprimere i propri sentimenti – i fiori, i colori a pastello – erano esattamente le soluzioni estetiche che Stieglitz cercava di ostacolare. «Quando cominciai a dipingere i fiori grandi lui disse: “Be’, dove speri di andare con questi?”. Era sempre nervoso, finché non arrivarono le prime recensioni. [...] Eppure era interessato, più di chiunque altro.»10
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Col tempo, O’Keeffe avrebbe finito per trovare irritanti le interferenze del marito: «Credo che Stieglitz non mi avrebbe infastidito tanto, comunque si ponesse nei miei confronti, se non avesse tentato costantemente di allontanarmi dalla mia strada».11 Incoraggiata dalle reazioni, O’Keeffe realizzò quattro quadri di petunie porpora scuro a coppie e a mazzi di tre, oltre a una petunia singola. Non erano grandi come quelli dell’estate precedente, ma il colore era più intenso e compiuto, specie in Black and Purple Petunias, con i fiori piegati all’ingiù contro foglie color malachite. Eseguì anche tre nature morte con petunie rosa e porpora dentro un bicchiere di latte sopra un panno bianco, e un’altra con una petunia porpora in una sottile bottiglia di salamoia. Un piccolo studio di tulipani gialli e rosa fu ingrandito e intitolato Pink Tulip, composizione astratta di archi rosso scuro con increspature verde pallido e limone. I rugosi fiori di zucchina gialli nel giardino divennero il soggetto di tre dipinti, e O’Keeffe tornò al pastello per riprodurre in grande formato i bordi dentellati dei piselli odorosi gialli. Sperimentando con il giallo, O’Keeffe realizzò quello che probabilmente è il primo abbinamento di un pompelmo e un’indivia nella storia dell’arte. Infine, dopo dozzine di canne rosse, l’apoteosi. Settantacinque centimetri per novanta, Red Canna è un’esplosione di petali allungati in focose tinte cremisi, topazio e fucsia. Ancora speranzosa di allinearsi ai raffinati gusti di Stieglitz, Georgia provava un certo rimorso per i propri istinti immaginosi. «Aveva uno straordinario senso del colore, molto più fine del mio» ricordava. «Il mio era scontato e appariscente al confronto. Mi piacciono le cose spettacolari.»12 Nel giugno del 1925, all’inizio di una vacanza alla Collina, O’Keeffe ebbe una grave reazione allergica a una vaccinazione contro il vaiolo. Le ghiandole su fianchi e gambe erano così gonfie che non riusciva a camminare. Lee le prescrisse un mese a letto con le gambe avvolte in fasce strette. A O’Keeffe, che conosceva gli scritti di Charlotte Perkins Gilman, non poteva sfuggire l’ironico parallelismo con La carta gialla, il racconto di una donna che, su ordine del suo medico, si mette a letto ed evita ogni stimolo mentale e fisico. La protagonista non può leggere, scrivere né muoversi, e il suo amorevole marito si ostina a voler monitorare la “terapia” con tale insistenza da farle perdere rapidamente il lume della ragione. Immobilizzata nel caldo della sua stanza, senza il sollievo delle passeggiate, della lettura e della pittura, O’Keeffe ricordava forse che il famoso racconto si basava sull’esperienza della stessa Gilman alla mercé del marito e di un medico. O’Keeffe notava amaramente che Stieglitz «era al settimo cielo quando ero a letto malata, perché sapeva dov’ero e cosa facevo».13 Profezia autoavverante o conseguenza dello stress emotivo, O’Keeffe si ammalò gravemente almeno una volta all’anno dall’inizio della vita con Stieglitz fino agli anni trenta, quando co-
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minciò a passare del tempo lontano da lui. Alcuni attacchi erano vere e proprie cure di riposo autoimposte per sfuggire alle pressioni che tendeva a interiorizzare. Dopo aver inaugurato i pellegrinaggi nel New Mexico, la salute di O’Keeffe migliorò sensibilmente. Nonostante le coliche renali, quell’estate Stieglitz era in forma migliore rispetto alla moglie. Mentre lei era a letto, lui scriveva storielle spinte a Beck, spiegandole che riusciva a farlo solo perché la piccante intimità che le aveva ispirate «sembra ormai un lontano ricordo». La sognava di notte, e aveva voglia di fotografarla. Il suo desiderio, a malapena camuffato, prorompeva in dichiarazioni come questa: «I miei sentimenti puntano decisamente in alto. Non fraintendere, ti prego, ma è pur vero che a puntare in alto non sono solo i sentimenti!».14 Per evitare le complicazioni di un ulteriore soggiorno estivo a Lake George, gli Strand andarono a Five Islands, nel Maine, dove conobbero lo scultore Gaston Lachaise e la moglie Isabelle, che stavano costruendo una casa a Bath. Qui andavano a nuotare nudi, senza interventi della polizia o tensioni sessuali di sorta. Beck inviava a Stieglitz copie delle fotografie che aveva cominciato a realizzare, e lui rispondeva facendole i complimenti. Lamentandosi di O’Keeffe, le scrisse: «C’è un prezzo per tutto, anche per l’amore».15 Sebbene il bungalow di Leo e Lizzie fosse quasi pronto, la loro cuoca con220
tinuava a cucinare raffinati pranzi e cene per l’intera famiglia. Non potendo muoversi, O’Keeffe evitava i pesanti pasti di mezzogiorno preparandosi insalate di verdure, crescione, aglio e cipolla condite con olio e aceto. Mangiava in silenzio, da sola, nella veranda che dava sull’acqua. Alla fine di luglio, appena fu in grado di riprendere a dipingere, una terribile grandinata ridusse in poltiglia fiori e granturco, i suoi soggetti. Un mese dopo, arrivarono altri motivi di frustrazione. Le piccole Sue e Peggy Davidson erano state invitate a Lake George senza i genitori. Ad accompagnarle furono invece gli zii Flora e Hugh Straus, che si portarono dietro i loro due figlioletti. O’Keeffe non gradì l’invasione di bambini. Quando Sue, tre anni, allungò la manina e le chiese «Come stai, zia Georgia?», per tutta risposta lei le mollò uno schiaffo, gridando: «Non ti azzardare a chiamarmi “zia”».16 Rosenfeld passò quasi tutta l’estate alla Collina, tentando di scrivere un romanzo. Alfred Kreymbourg, avvilito per la scarsa attenzione suscitata dalla sua autobiografia Troubador, prese alloggio con la moglie nel vicino cottage Dalrymple. Insieme a Stieglitz, i due scrittori lamentavano la scomparsa di prestigiose riviste d’arte come The Seven Arts e Broom, diretta da Kreymbourg. Entrambe le pubblicazioni avevano chiuso per mancanza di finanziamenti, mentre Dial era diventato un veicolo per scrittori già affermati. Stieglitz presentò Rosenfeld e Kreymbourg a un altro ospite fisso di Lake George: Samuel Ornitz, redattore letterario per la Macaulay Company. Ornitz propose di fondare una rivista annuale dedicata ai lavori di autori meno noti, diretta da Rosenfeld e Kreymbourg in-
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sieme a Lewis Mumford e Van Wyck Brooks. American Caravan – così fu battezzata – poteva contare sul sostegno finanziario di Ornitz e della Macaulay Company. Pubblicata nel 1927, fu un successo critico ed economico. Tra gli scrittori inclusi c’era l’afroamericano Jean Toomer, anche lui ospite a Lake George quell’estate. Waldo Frank aveva conosciuto Toomer nel 1920 a Spartanburg, South Carolina, dove il primo stava effettuando ricerche sul tema del linciaggio per il suo romanzo Holiday. Toomer, cresciuto in una residenza signorile a Washington e nipote del governatore della Louisiana, scriveva sull’esperienza dei neri pur avendo trascorso solo due mesi in un quartiere nero. Canne, il suo romanzo del 1923 sulla vita degli schiavi, fu esaltato da alcuni fautori dell’Harlem Renaissance come Carl Van Vechten. Come molti intellettuali e letterati di Manhattan, Frank e Toomer condividevano una passione per gli insegnamenti di Gurdjieff. (Quell’inverno Toomer andò a Taos per fare visita a Mabel Dodge, che gli diede quattordicimila dollari per l’Institut Gourdjieff pour le Développement Harmonique de l’Homme in Francia.) Due anni prima, tuttavia, facendo visita a Frank nel Connecticut, Toomer aveva sedotto sua moglie Margaret Naumburg. Qualche mese dopo, lei aveva lasciato Frank per trasferirsi a New York con lui. Quell’autunno i due si presentarono insieme a Lake George, e O’Keeffe confessò a Anderson di essere rimasta colpita dalla sensuale bellezza di Toomer, la cui pelle era così chiara che poteva passare per un bianco. Stieglitz lo ritrasse in quindici fotografie, elegantemente vestito in soprabito, cardigan leggero e camicia scollata. Stieglitz si rifiutò di invitare Ida al lago fino alla fine di ottobre, dopo la partenza di Rosenfeld. Dopo gli amoreggiamenti dell’estate precedente e il tempo trascorso insieme a New York, in primavera Rosenfeld aveva chiesto a Ida di sposarlo. Lei aveva rifiutato, per poi cambiare idea e chiedere a Stieglitz di comunicare a Rosenfeld la sua nuova decisione. Convinto che non fosse nel loro interesse, Stieglitz informò Ida che Rosenfeld aveva bisogno «di chiarirsi le idee, & potrà farlo soltanto lavorando & tenendosi alla larga dalle sottane e da tutto ciò che comportano».17 Può darsi che Stieglitz fosse convinto di proteggere Ida, in ogni caso non provvide mai a riferire il suo messaggio a Rosenfeld: un sabotaggio di cui doveva andare fiero, perché lo annunciò come un grande successo. Se anche sapeva del ruolo di Stieglitz nel determinare il futuro di Ida, O’Keeffe si astenne dall’intervenire. Ida, che faceva l’infermiera per un uomo anziano a Norwalk, Connecticut, non amava Stieglitz. Quando seppe che i suoi piani erano falliti, pianse lunghe e amare lacrime asciugandosi gli occhi con un fazzoletto di seta bianca, un’abitudine che doveva aver ereditato dal nonno conte. Durante l’estate e l’autunno, dopo essere guarita dalla reazione allergica,
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O’Keeffe si alzava prima dell’alba e, in barca a remi, raggiungeva la sponda opposta del lago per osservare da vicino una vecchia betulla con parecchi tronchi uniti alla base. Quando fotografava gli alberi, Stieglitz si concentrava spesso sui tronchi scultorei e i rapporti tra le angolazioni dei rami, come in Dancing Trees del 1922. O’Keeffe assorbì l’idea e dipinse mezza dozzina di tele, tutte 60x90, con i tronchi bianchi che si contorcono in mezzo al fogliame, verde d’estate e bronzeo d’autunno. White Birch è spruzzato di un alone d’oro. La serie dei sette alberi culminò in Grey Tree, Lake George, dove il tronco e i rami spogli sono avvolti in un prisma di verdi e grigi di ascendenza cubista. Benché O’Keeffe si ispirasse agli scatti di Stieglitz, il suo interesse per gli alberi nasceva da Dow, il quale aveva scritto: «Un tronco d’albero con i rami è un buon esempio di questo genere d’armonia, l’unità ottenuta attraverso la relazione tra principale e subordinato, fino alla venatura delle foglie: una moltitudine di parti organizzata in un semplice intero».18 O’Keeffe nominava spesso la sua copia di Trees and How to Know Them di W.A. Lambeth, un testo del 1913. È probabile che la passione per gli alberi avesse diminuito l’interesse di O’Keeffe per il lago, ritratto in due soli quadri, tra i quali Grey Lake George, una cupa veduta invernale di onde e nuvole argentee. Nello stile degli ultimi due anni, realizzò poi due semplici composizioni di foglie autunnali e Red and Brown Leaves, una 222
tela 60x45 raffigurante una splendida foglia d’olmo dorata sovrapposta a un acero cremisi e mandarino su campo ottone. Stieglitz raccontò a Seligmann che quando O’Keeffe era in crisi aveva dipinto per lui una prima versione di Red and Brown Leaves: «Tutti i quadri sono belli, ma alcuni nascono da un particolare momento, e per qualche ragione appaiono eccezionali e irripetibili».19 Insieme a Canna Leaves, sottile riproduzione in verticale di due ovali verde veronese venati di scarlatto, Red and Brown Leaves dimostra che la visione di O’Keeffe era stata profondamente alterata dalle tecniche fotografiche dell’ingrandimento e della riduzione spaziale utilizzata nei dipinti floreali. Inoltre, doveva aver osservato con attenzione le fotografie di foglie che Strand aveva esposto quella primavera in una personale. Georgia aveva sperimentato la possibilità di appendere le sue opere astratte in verticale, in orizzontale o capovolte. Stieglitz cominciò a fare altrettanto con le fotografie delle nuvole, in modo che i cirri sembrassero linee di fumo verticali. Abbandonata l’analogia musicale, dichiarò che gli scatti delle nuvole rappresentavano le sue emozioni: la serie fu battezzata Equivalent, un titolo modificato due anni più tardi in Equivalents. Forse l’idea risaliva a O’Keeffe, che aveva detto: «Dovevo creare un equivalente di ciò che osservavo, non una copia».20 In novembre, mentre il clima di Lake George scoraggiava le visite, Stieglitz passò ore intere nella gelida camera oscura, con le dita screpolate dall’acqua ghiacciata, a realizzare trecentocinquanta stampe della serie Equivalent. Ne strappò più di trecento. «È fantastico dopo diciotto ore di lavoro sentirsi ancora addosso l’energia di diciassette stalloni» esultava.21
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O’Keeffe, forse, non era altrettanto ottimista. Quell’autunno realizzò Little House with Flagpole, un’interpretazione della casupola bianca con la porta aperta sulla camera oscura decisamente meno allegra rispetto ai quadri con lo stesso soggetto di qualche anno prima. Questa volta l’edificio viene ritratto al crepuscolo e l’asta è piegata, quasi fosse avvilita. Una mezza luna proietta un’ampia ombra circolare sulla scena, forse un’allusione all’obiettivo della macchina fotografica, mentre la banderuola punta all’ingiù. In confronto all’aura estatica dei dipinti del 1921 e 1923, Little House appare piuttosto tetro. Tornati in città, Stieglitz e O’Keeffe si trasferirono in un appartamento allo Shelton Hotel all’angolo tra Lexington Avenue e 48th Street, il primo edificio a torre di New York. Pur trattandosi di una sistemazione ben al di sopra delle loro abitudini, O’Keeffe riuscì a convincere il marito a prendervi alloggio fin da metà novembre. Lo Shelton era il non plus ultra quanto a edilizia di lusso all’avanguardia. L’architetto Arthur Loomis Harmon, che aveva progettato anche l’Empire State Building, era stato tra i primi a utilizzare le riseghe per consentire a luce e aria di circolare nei piani superiori. Impreziosito da soffitti a volta, vetrate istoriate e un imponente scalone, lo Shelton vantava anche una piscina olimpionica, nella quale Houdini si era esibito in una delle sue evasioni subacquee da una bara di tre metri e mezzo. Colazione e pranzo si consumavano in una tavola calda con caminetto. Pare che costasse poco, e Stieglitz e O’Keeffe la frequentavano insieme a pochi altri ospiti dell’albergo. Blanche Matthias li presentò all’architetto e scrittore Claude Fayette Bragdon, autore di un libro sulla quarta dimensione, che li affascinò con la sua cultura teosofica. Il personale dell’albergo provvedeva a tutte le faccende domestiche: O’Keeffe, ansiosa di sbarazzarsi delle incombenze che toglievano tempo alla pittura, tirò un sospiro di sollievo, specialmente dopo essersi sobbarcata per mesi gran parte della manuntenzione quotidiana di Lake George. Abituato alla cuoca e alla governante, Stieglitz non si aspettava che fosse O’Keeffe a cucinare e rassettare, ma il trasferimento allo Shelton segnò comunque il rinsaldarsi del loro legame: Georgia si rese conto che il matrimonio non comportava necessariamente impegni domestici per lei. Non meno importante, pagavano l’affitto solo per i mesi invernali che trascorrevano allo Shelton, e siccome l’appartamento era ammobiliato, d’estate avevano poche cose da mettere in magazzino. Benché lo Shelton fosse territorio straniero per lui, Stieglitz era elettrizzato dalla sua modernità: «Viviamo su in alto. [...] Ci sembra di stare in mezzo all’oceano, c’è un grande silenzio a parte il vento, & la tremante e vibrante carcassa d’acciaio in cui viviamo. È un posto magnifico».22 La suite all’undicesimo piano era formata da un’umile camera da letto, il bagno e il soggiorno. O’Keeffe documentò i dintorni con otto schizzi a matita del
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profilo della città e un carboncino della cattedrale di St. Patrick, visibile a ovest, due soggetti che presto trovarono spazio nella sua pittura. Di notte, le insegne colorate in cima ai palazzi e i fari del traffico incessante erano come illustrazioni grafiche del futuro. «Oggi la città è più grande e complessa di quanto sia mai stata nella storia» osservò Georgia. «E scappare non servirebbe a nulla. Non lo farei nemmeno se potessi.»24 Quando non era al lavoro, copriva i dipinti incompleti con un lenzuolo. Pezzetti di corallo, conchiglie, ciottoli e vasi d’erba secca erano sparsi per l’appartamento. Considerato il volume della loro collezione, le opere che li seguirono allo Shelton furono relativamente poche. «Mi piacciono le pareti spoglie perché posso immaginarci sopra quello che voglio» spiegò O’Keeffe.24 Tra le eccezioni alla regola c’era Rain, il toccante assemblaggio di Dove che fu sistemato alla base del caminetto. O’Keeffe, che lo aveva comprato per centocinquanta dollari, in seguito avrebbe raccontato di essere stata la prima acquirente dei controversi assemblaggi di Dove e che, per non separarsi dall’opera, aveva rifiutato un’offerta di cinquecento dollari da parte del Metropolitan Museum. Un altro sorprendente elemento dello scarno arredo era il ritratto di Georgia dipinto dalla sorella Ida. «È davvero splendido» avrebbe ammesso la stessa O’Keeffe con insolita benevolenza. Ida lo aveva realizzato con i colori e la tela 224
che Stieglitz le aveva inviato, forse per scusarsi di aver boicottato i suoi piani con Rosenfeld. Frances O’Brien, che le fece visita allo Shelton, fu una dei pochi giornalisti ad aver mai visto O’Keeffe al lavoro. Ecco la sua descrizione della scena: Una donna alta ed esile vestita di nero con un grembiule gettato sul grembo. Accanto a lei c’è una tavolozza di vetro, molto grande, molto pulita, i colori sulla superficie perfettamente separati l’uno dall’altro. Appena una tonalità viene miscelata e applicata alla tela, i resti vengono attentamente rimossi dalla tavolozza, che quindi mantiene sempre la sua aura di verginità. Per quanto fosse sceso il crepuscolo, O’Keeffe continuava a dipingere, e a qualcuno che la chiamava al telefono rispose: «Ti dispiace richiamare dopo il tramonto?».25
O’Keeffe annotava su delle schede i colori utilizzati per ogni opera, e si assegnava sfide tecniche: dipingere quadri che potessero essere appesi da qualunque lato, eseguire una tela dall’angolo in alto a sinistra a quello in basso a destra senza tornare indietro. Tentò di ritrarre la neve che cadeva, come aveva fatto da bambina, e quando dipingeva un fiore si rifiutava di mostrarlo agli altri finché l’originale non era avvizzito. Al termine della giornata di lavoro, si ricompensava con una lunga passeggiata. Con un affitto non indifferente da pagare, Stieglitz divenne più attento all’importanza delle vendite. Stando a una testimonianza di Seligmann, «tro-
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vava difficilissimo abituare O’Keeffe all’idea di doversi separare dai suoi lavori. [...] Dopo essersi staccata dal [suo] primo quadro, le ci erano voluti dieci giorni per riprendersi».26 Questi commenti dovevano essere il frutto dell’elaborata messa in scena di Stieglitz, perché sono smentiti da quanto O’Keeffe diceva in merito alle vendite e dalla sua dolorosa e rassegnata consapevolezza della necessità di trovare un mercato per la sua arte. Un giorno, ritirando alcuni quadri dal corniciaio, avrebbe addirittura detto: «Sono terrorizzata da quanti ce ne sono; se penso a quanto è difficile sbarazzarmene».27 Non era affatto così, però. Per dirla con McBride, O’Keeffe era un successo. Dopo il trasferimento allo Shelton, le sue opere cominciarono a vendere regolarmente, e sbarazzarsene divenne ben più facile che tenerle, soprattutto ora che Stieglitz si dedicava alla sua nuova impresa, la Intimate Gallery.
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