In copertina: Joachim Schmid, n. 217, Los Angeles, marzo 1994, da Bilder von der Straße, 1982-2012. © Joachim Schmid
Nella stessa collana: 1. Maria Perosino (a cura di) Effetto terra 2. Marco Tonelli Pino Pascali – Il libero gioco della scultura 3. Stefano Pirovano Forma e informazione – Nuove vie per l’astratto nell’arte del terzo millennio 4. Alberto Zanchetta Frenologia della vanitas – Il teschio nelle arti visive 5. Elio Grazioli La collezione come forma d’arte
«Schmid colloca il proprio lavoro al massimo grado dentro al fitto, inestricabile tessuto della produzione vernacolare contemporanea, considerata con occhio democratico, senza gerarchie: in questo modo non solo studia lo stato della fotografia in epoca postmoderna, o postfotografica che dir si voglia, ma sceglie l’immagine tecnologica come emblema stesso del diffondersi delle pratiche artistiche dentro le più minute e intime pieghe della complessa società odierna.» Dall’introduzione di Roberta Valtorta «Trovo che il modo in cui Joachim Schmid scava nel mondo digitale delle foto degli altri sia affascinante, divertente, eccentrico ed esteticamente vicino alla perfezione. Tuttavia, esso mi spaventa. La fotografia vive ormai nel nostro cervello. Ci dice chi siamo. E non riusciamo a farla stare zitta.» John S. Weber
joachim schmid e le fotografie degli altri
Roberta Valtorta - Direttore scientifico del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo-Milano Mark Durden - Professore di Fotografia alla University of Wales, Newport John Weber - Direttore dell’Institute of Arts and Sciences alla University of California di Santa Cruz Simone Menegoi - Critico e curatore Franco Vaccari - Artista e teorico della fotografia Joan Fontcuberta - Artista, curatore e docente
joachim schmid e le fotografie degli altri — a cura di roberta valtorta
Joachim Schmid (Balingen, 1955), paradossalmente soprannominato “il fotografo che non fotografa”, lavora con la fotografia dai primi anni ottanta senza produrre alcuna immagine propria. «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!» ha infatti dichiarato nel 1989 in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’invenzione di questo mezzo espressivo, un principio a cui è rimasto fedele fino a oggi. In un’odierna “civiltà dell’immagine” caratterizzata da una crescente proliferazione di fotografie, ai limiti dell’assuefazione e del non-senso, Schmid ha deciso di sospendere la produzione e di limitarsi a cercare, raccogliere e riutilizzare fotografie già esistenti e scattate da altri. Un materiale sconfinato che include anche figurine, inviti di mostre, manifesti, cartoline, immagini trovate ai mercatini delle pulci o negli archivi, immagini scaricate da siti Internet e social network. L’artista tedesco le preleva dal grande flusso della comunicazione contemporanea, le archivia, se ne appropria, le associa tra loro, talvolta manipolandole, in cerca di nuovi possibili significati. Collezionista, entusiasta del riciclaggio, catalogatore ed ecologista piuttosto che fotografo, dunque, Schmid ha lasciato il segno nel dibattito teorico in merito a questo mezzo espressivo fondendo nella sua posizione due temi fondamentali dell’arte contemporanea: da un lato l’idea del readymade duchampiano, dall’altra quella della “morte dell’autore” formulata da Roland Barthes. Avendo indagato tutte le pratiche fotografiche diffuse a livello di massa e tutti i diversi linguaggi a esse connessi, Joachim Schmid è probabilmente la persona che negli ultimi decenni ha visto, ma soprattutto utilizzato, più immagini di ogni altro uomo al mondo. E così il suo nuovo, ironico motto oggi è: «Per favore non smettete di fotografare».
Parole e immagini 6
Il Museo di Fotografia Contemporanea ringrazia la Deutsche Bank, l’Associazione Amici del Museo e il Goethe-Institut Mailand per il supporto al progetto su Joachim Schmid © 2012 Johan & Levi Editore Redazione Lucia Ferrantini Traduzione dall’inglese dei saggi di Mark Durden e John S. Weber Ester Borgese Traduzione dallo spagnolo del saggio di Joan Fontcuberta Sergio Giusti Progetto grafico Silvia Gherra in collaborazione con Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Per i testi © Museo di Fotografia Contemporanea, gli autori Per i crediti delle immagini si veda l’apposita sezione Finito di stampare nel mese di novembre 2012 isbn 978-88-6010-094-8 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
Joachim Schmid e le fotografie degli altri A cura di Roberta Valtorta
un progetto
sommario
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Piccola introduzione a Joachim Schmid e al tema del riutilizzo delle immagini Roberta Valtorta
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Dalla strada alla rete: l’estetica trasgressiva di Joachim Schmid Mark Durden
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Il fotografo elettronico siamo noi John S. Weber
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Attualità dell’opera di Joachim Schmid Simone Menegoi
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Bilderbuch 1.1 Joachim Schmid
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Lumpenphotographie Franco Vaccari
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Domando le immagini infuriate Joan Fontcuberta
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Elenco delle opere e dei crediti
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Indice dei nomi
Piccola introduzione a Joachim Schmid e al tema del riutilizzo delle immagini Roberta Valtorta
Tra due frasi perentorie e insieme divertite lanciate da Joachim Schmid in tempi diversi è possibile racchiudere il senso della sua “strategia culturale”. La prima, molto nota, datata 1989, anno delle celebrazioni del centocinquantenario dell’invenzione della fotografia, è «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!». La seconda, recente, è: «Per favore non smettete di fotografare». Nell’una, l’artista espone il programma di lavoro al quale rimarrà per sempre fedele: non fotograferà ma, alla maniera di un collezionista – di un catalogatore, di un riciclatore, di un critico – utilizzerà immagini esistenti, le raccoglierà, le accosterà tra loro, le dividerà per temi, le organizzerà (in sequenze, archivi, atlanti), le manipolerà, anche, per proiettarle verso nuovi, eventuali significati, se questi si daranno. Come potrebbe fare un sociologo, un antropologo, uno psicologo o, anche, un indovino o un ecologista. Nell’altra, esorta ironicamente e insieme drammaticamente tutti noi, uomini e donne avvolti nella spirale della civiltà contemporanea delle immagini, a continuare a produrne, così da fornire sempre nuove figure e nuove fantasie al suo sfrenato e bulimico, ma al tempo stesso lucido e progettato, bisogno di materiali visivi. «Joachim Schmid è un ladro e un bugiardo» è stato scritto con ammirazione e umorismo, come lo furono i surrealisti che, dopo aver acquistato vecchie fotografie ai mercati delle pulci di Parigi, le presentavano come genuini prodotti dell’inconscio.1 Nel 1989 (proprio mentre la fotografia analogica festeggiava i suoi centocinquant’anni e stava per chiudere la sua storia cedendo il passo all’immagine digitale), Schmid pensava soprattutto alle immagini anonime, amatoriali, trovate sulle bancarelle dei mercatini, negli archivi, per strada, negli album di famiglia e in ogni altro luogo di conservazione, memoria e socializzazione delle fotografie. Oppure pensava, subito dopo e di conseguenza, alle fotografie pubblicate sui giornali, sui depliant, sugli inviti di mostre, sugli stampati pubblicitari, sulla carta, la grande risorsa della comunicazione nell’età moderna. A tutte queste immagini 7
dell’era analogica prodotte non da lui ma dagli altri, da chiunque, 2 Schmid decideva di dare un’accoglienza mai ricevuta prima e insieme un simbolico addio, consistenti, l’una e l’altro, nel fatto di appropriarsene e riutilizzarle, sottraendole all’oblio e alla distruzione e ri-presentandole in forme organizzate estremamente varie, caleidoscopiche. Come dimenticare, parlando di oblio e di distruzione, l’opera dell’artista canadese Max Dean, As Yet Untitled, 1992-1995? L’installazione presenta un robot industriale che pesca continuamente da uno schedario una fotografia alla volta (si tratta anche in questo caso di foto-ricordo e foto di utilizzo sociale) e la sottopone all’attenzione dell’osservatore: il quale con un gesto può decidere di conservarla (in questo caso il robot la riporrà in un altro schedario) oppure di distruggerla (e in questo caso il robot la infilerà in un tritadocumenti). Compleanni, ritratti, gite in montagna, interni di case, feste, gruppi di amici al mare, e tutte le memorie a essi collegate sopravvivranno oppure moriranno ridotti in striscioline e poi buttati. Anche due opere di Andreas Müller-Pohle parlano della distruzione delle immagini così copiosamente prodotte dalla nostra civiltà: Entropia, un rumoroso video del 1996 che mostra gli ingranaggi di una macchina che trita fotografie, pellicole litografiche, lastre, immagini incorniciate, a indicare il nostro mondo contemporaneo che compulsivamente produce, riproduce, consuma e distrugge immagini; e Photo Box, del 2001, una scatola di plexiglas piena di pezzi di fotografie strappate, 3 ormai spazzatura eppure bellissimi nella loro quantità, nei colori e nei materiali, che richiama i contenitori di spazzatura di Arman o di Joseph Beuys.4 Opponendosi alla distruzione e alla dimenticanza e, anzi, aprendo le braccia con comprensione e senso dell’umorismo agli scatti di tutti coloro che, essendo al mondo in epoca fotografica, hanno finito per fotografare, Schmid mette dunque in salvo grandi quantità di immagini. In questo senso Bilder von der Straße (Immagini dalla strada), iniziata nel 1982 e terminata simbolicamente di recente, nel 2012, con il millesimo “pezzo” raccolto (tutto prima o poi finisce), ha un significato centrale: si tratta infatti delle fotografie più anonime, diseredate, neglette, strappate, rovinate dal corso del loro destino. Le strade di molte città del mondo gliele hanno consegnate per mano del Caso, divinità suprema che si è introdotta nell’arte con il Dada e il Surrealismo e che Schmid ascolta. Alla raccolta segue una meticolosa archiviazione con luogo e data del ritrovamento. Ma anche Archiv, 1986-1999, un’imponente, divertente, tenera raccolta di immagini divise per temi, è un lavoro capitale nel percorso di Schmid, poiché rappresenta una sfida alla possibilità, peraltro remota, di suddividere, classificare, catalogare enormi quantità di figure, creando categorie, somiglianze, appartenenze, per cercare di capire. È l’utopia di poter dominare il caos di una realtà che continua a ramificarsi espanden8
Joachim Schmid e le fotografie degli altri
dosi e variegandosi, con l’ausilio di un ordine e di una regola sistematicamente applicata, la ricerca di un metodo, quello stesso che, come sappiamo, sostenne Aby Warburg e lo spinse a pensare che il possibile significato di un’immagine risieda nella sua relazione con altre immagini con cui ha in comune qualche carattere. Una prospettiva alla base della nascita dell’iconologia.5 Il pensiero va al libro di Georges Perec Pensare/Classificare, elegante e assurdo esercizio di riordino dei libri della sua biblioteca, azione semplice della quotidianità che conduce però irrimediabilmente alla sensazione di entrare in un labirinto dal quale è impossibile uscire.6 Così è per l’opera classificatoria e tassonomica di Joachim Schmid, che più avanza e si organizza, più lascia intravedere l’immenso numero di possibilità altre rispetto a quelle messe in pratica, simile in questo, per restare in tema fotografico, a un’inquadratura che, quanto più è esatta nel circoscrivere il suo oggetto d’attenzione tanto più rimanda vertiginosamente al resto della grande realtà che esclude. E a proposito di immensità, in tempi più recenti e con coerenza, Schmid ha rivolto la sua attenzione prevalentemente a Internet, ai social network nei quali cultura popolare e cultura tecnologica di massa si compenetrano, alla tempesta di immagini (un delirio, preconizzava Vilém Flusser nei primi anni ottanta7) che è in corso nella rete, dove si agita una inarrestabile polvere di figure. Esse si depositano in questo inedito – ma repentinamente familiare, addirittura abitudinario – luogo virtuale, eppure vicinissimo alle nostre vite, nel quale sono all’opera milioni di produttori e distributori di immagini, instancabili in ogni istante del tempo globale: all-photographers, si usa dire, ma anche all-distributors, aggiungerei. Questo significa che Schmid segue passo passo gli sviluppi della nostra civiltà, non solo tenendola sotto controllo e scrutandola, ma lasciandosi coinvolgere in tutte le complicate pieghe che essa offre. La posta in palio è molto alta: misurarsi idealmente con la sterminata produzione di immagini che non appartengono (o almeno non originariamente) alla storia dell’arte, ma che costituiscono la sostanza della pratica sociale, mettendo così in discussione, con il renderle parte essenziale del suo gesto artistico, la consolidata divisione tra le immagini che sono “opere d’arte” e tutte quelle che non lo sono. Entrano così in crisi i criteri che abitualmente guidano lo storico dell’arte, il critico e lo studioso verso quelle e non queste (molto significativo, a questo proposito, il lavoro dal titolo Masterpieces of Photography. The Fricke and Schmid Collection, presentato nel 1990, che comprende fotografie trovate ai mercatini molto somiglianti, per soggetto o stile, a capolavori di riconosciuti maestri della storia della fotografia). Schmid, in questo, agisce come un vero critico (lo è stato, peraltro, nel senso letterale della parola, sulla rivista Fotokritik da lui stesso fondata, dal 9
Piccola introduzione a Joachim Schmid e al tema del riutilizzo delle immagini
1982 al 1987), oggi che, a un secolo dallo scossone impresso all’arte dalle avanguardie e a cinquant’anni dal successivo colpo destabilizzante infertole dalle neoavanguardie, artista, critico, organizzatore, curatore e comunicatore sono figure ormai sovrapposte; oggi che produzione artistica e riflessione sull’arte coincidono. L’artista tedesco, inoltre, oggi che le regole della distribuzione delle merci, comprese quelle di tipo culturale e in primis i libri, vengono totalmente riscritte dalla rete, agisce anche sul concetto di libro (tipico luogo della promozione dell’arte, prodotto di un’editoria di pregio, spesso oggetto elitario e di culto), dedicandosi a libri autoprodotti, stampati e distribuiti on demand, inserendosi così in più precarie ed elastiche modalità di produzione e di comunicazione, diciamo day-by-day, in linea con la nostra era intermittente e aggrovigliata. Per esempio, il suo vasto progetto Other People’s Photographs, 2008-2011, si muove esemplarmente, per non dire didatticamente, su più piani della comunicazione sia storica sia contemporanea: si tratta di immagini prelevate da Flickr, secondo un criterio di campionatura e organizzate per temi e pattern ricorrenti, e poi raccolte in una serie di novantasei libri (un numero arbitrariamente limitato rispetto a un potenziale illimitato), a costituire una sorta di enciclopedia, «una biblioteca della fotografia vernacolare contemporanea, nell’era della tecnologia digitale e delle fotografie ospitate online», per citare le parole che troviamo sul sito di Joachim Schmid, un’esemplare opera d’arte dinamica online.8 Nuovamente e fatalmente la struttura del lavoro, pur stretta dentro precise regole chiarificatrici, è in realtà di tipo labirintico («a specchio», così la definisce l’autore) e rimanda al caos conclamato che segna la comunicazione contemporanea. La serie di libri è governata dal criterio del print on demand e inoltre, a chiudere questo complesso cerchio di significati e di modalità di scambio, è pubblicata su Flickr. L’opera di Schmid è enorme, serrata, multiforme, e gli studiosi invitati a scriverne in questo volume, realizzato in occasione della mostra “Joachim Schmid e le fotografie degli altri” presso il Museo di Fotografia Contemporanea, ne delineano la profondità, la densità e l’acuta attualità. In questa sede mi sono dovuta limitare a citare alcuni lavori emblematici, anche se la portata dell’opera di Schmid è comprensibile solo se viene osservata nel suo vasto insieme: un sistema di sistemi. L’artista tedesco colloca il proprio lavoro al massimo grado dentro al fitto, inestricabile tessuto della produzione vernacolare contemporanea, considerata con occhio democratico, senza gerarchie: in questo modo non solo studia lo stato della fotografia in epoca postmoderna, o postfotografica che dir si voglia, ma sceglie l’immagine tecnologica come emblema stesso del diffondersi delle pratiche artistiche dentro le più minute e intime pieghe della complessa società odierna. Oggi infatti assistiamo alla confluenza di arte e comunicazione, pratica creativa quotidiana e progetto artistico, autorialità e produzione immediata e funzionale in senso sociale e territo10
Joachim Schmid e le fotografie degli altri
riale (si pensi non solo alla fotografia, ma ai progetti di arte pubblica e partecipata, al design, al cinema, alla moda, alla televisione e alle altre forme che mediano creatività e intrattenimento). Il processo all’interno del quale ci troviamo è quello tante volte indicato dalle poetiche del readymade e dell’objet trouvé care a Duchamp e a tutti gli artisti dell’area dada-surrealista (che ha poi generato enormi conseguenze nell’arte contemporanea, dalle neoavanguardie ai giorni nostri), quello del dibattito intorno alla “morte dell’autore” sollevato dal noto scritto di Roland Barthes,9 nonché quello, altrettanto importante, che riguarda la progressiva erosione del concetto di “originale” avviato dallo storico scritto di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,10 e quello dello smontaggio contemporaneo del concetto stesso di “opera d’arte” anche in base al meccanismo della riappropriazione. Schmid appartiene a una grande, variegata famiglia di artisti che nell’arco del Novecento hanno scelto l’importante strada del riutilizzo e della rivitalizzazione dei materiali, degli oggetti e delle immagini già esistenti, che spesso si incrocia con quella della serialità e della catalogazione, conducendoci nello stratificato mondo di tutto ciò che, vissuta una vita, ne vive un’altra e un’altra ancora, e anche dentro percorsi che puntano a padroneggiare il caos e la proliferazione delle forme attraverso sistemi concettuali fortemente strutturanti, in primis quello dell’archivio. E possiamo citare i nomi di Marcel Duchamp, Man Ray, Kurt Schwitters; ma anche August Sander, Karl Blossfeldt, Ed Ruscha, Bernd e Hilla Becher, Gerhard Richter; e Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Arman, César, Jean Tinguely, Josef Beuys; e poi Christian Boltanski, Hans-Peter Feldmann, Jochen Gerz, il nostro Paolo Gioli, e Richard Prince, Larry Sultan, Barbara Kruger, Sherrie Levine; ma anche Yasumasa Morimura, Thomas Ruff, Joan Fontcuberta e John Stezaker. L’elenco, peraltro parziale, dice che la famiglia di questi artisti è molto ampia, ed è giusto che sia così, poiché incommensurabile è il tema nel quale essi si cimentano: la riflessione sul destino di tutto ciò che gli uomini vanno producendo da che esistono le macchine, una riflessione che è nata ancora prima della postmodernità nella quale ci agitiamo. In questo nobile contesto artistico Schmid si assume il compito rigoroso, scientifico, ma scanzonato a un tempo, di indagare la fotografia come grande fenomeno di massa che si è intimamente insediato dentro i comportamenti umani. Osserva con un sorriso i molti volti e le molte storie che emergono dalle immagini che raccoglie, mentre l’immagine tecnologica si trasforma, e la società anche.
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Piccola introduzione a Joachim Schmid e al tema del riutilizzo delle immagini
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Stephen Bull, http://cefvigo.com/ingles/galeria_ joachim.htm. Per una bibliografia dedicata alla fotografia vernacolare, si veda: http://www.projectb.com/ articles/17. Queste opere di Max Dean e di Andreas Müller-Pohle si trovano pubblicate in Roberta Valtorta (a c. di), Alterazioni. Le materie della fotografia tra analogico e digitale, Museo di Fotografia Contemporanea/Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2006. Molti gli artisti che hanno riutilizzato i rifiuti. Cfr. l’importante catalogo a cura di Lea Vergine, Trash. Quando i rifiuti diventano arte, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto/Electa, Milano 1997. Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006. Georges Perec, Pensare/Classificare, Rizzoli, Milano 1989. Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia (1983), Bruno Mondadori, Milano 2006. A Library of Contemporary Vernacular Photography in the Age of Digital Technology and Online Photo Hosting: così è definita la serie dei novantasei libri di Other People’s Photographs sul sito di Joachim Schmid, http://schmid.wordpress.com. Roland Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica, Einaudi, Torino 1966.
Joachim Schmid e le fotografie degli altri
Dalla strada alla rete: l’estetica trasgressiva di Joachim Schmid Mark Durden
La fotografia è un sistema di modificazione visiva. Si tratta essenzialmente di racchiudere in una cornice una porzione del proprio cono visivo, trovandosi nel posto giusto al momento giusto. Come negli scacchi, o nella scrittura, la questione di fondo è scegliere tra un certo numero di possibilità, solo che nel caso della fotografia queste possibilità sono infinite. Oggi nel mondo esistono più fotografie che mattoni, e sono tutte sorprendentemente diverse l’una dall’altra. Perfino il più servile dei fotografi non è ancora riuscito a duplicare con esattezza un lavoro già fatto in passato da qualche grande e riverito maestro. Il lettore può verificare la veridicità di quest’affermazione consumando un intero rullino della Leica o dell’Instamatic di famiglia senza neppure alzarsi dalla sedia: basta puntare la macchina a caso in una direzione o nell’altra, velocemente e senza pensarci su. Una volta sviluppata la pellicola, ogni scatto delimiterà un soggetto diverso da qualsiasi altro soggetto che sia mai stato delimitato prima. A peggiorare le cose, c’è la probabilità che alcune di queste fotografie siano di un interesse alquanto marginale. Anche le telecamere che registrano l’andirivieni in una banca descrivono fatti e relazioni sorprendenti soltanto per i testimoni oculari. John Szarkowski, William Eggleston’s Guide, Museum of Modern Art, New York 1976, p. 6.
Joachim Schmid si occupa di fotografia in eccesso. A suo modo di vedere, la qualità è quantità: «Cinque fotografie scattate in strada sono piuttosto prive di interesse, ma cinquanta sono interessanti e cinquecento sono estremamente interessanti».1 E non è solo in termini di numero che possiamo parlare di fotografia in eccesso, ma anche perché la raccolta fotografica di Schmid – la sua arte, infatti, prevede sempre la collezione e l’organizzazione di fotografie altrui – è sempre in eccesso rispetto al modo in cui concepiamo le convenzioni e le qualificazioni tradizionalmente attribuite all’arte e alla fotografia. Schmid ha cominciato scrivendo di fotografia, in qualità di critico per European Photography e per altre pubblicazioni come l’autoprodotta 13
Fotokritik, ma il fascino per le found photographs, le “fotografie trovate”, e l’abitudine a collezionarle lo hanno indotto a pubblicare libri d’arte; poi, alla fine degli anni ottanta, la sensazione che questo materiale fosse, per citare le sue testuali parole, «molto più ricco degli argomenti di cui scrivevo» lo ha portato a diventare lui stesso un artista.2 L’uso della fotografia di Schmid può assumere due forme ben diverse. La sua attività si divide tra l’analogico e il digitale: da un lato le fotografie fisiche provenienti dalla strada o dai mercatini delle pulci, o che gli sono state recapitate a casa – inserendo annunci pubblicitari su giornali e riviste, ha fatto conoscere il suo Institut zur Wiederaufbereitung von Altfotos (Istituto per il riciclaggio delle fotografie usate) e ha chiesto ai lettori di inviargli le fotografie di cui volevano liberarsi perché venissero riciclate in modo sicuro –, e dall’altro quelle tratte dalla massa di immagini disponibili sul web. Nel suo lavoro con fotografie reali andrebbe incluso anche il riciclo di rifiuti fotografici ridotti a strisce – per esempio inviti a mostre d’arte, biglietti di partite di baseball e menu di pizzerie d’asporto –, ma anche i libri sulla fotografia, per esempio i collage astratti Statics (1995-2003), che esprimono già nel titolo il rapporto con il rumore bianco, come schermi analogici d’interferenza colti in un momento storico ben preciso. È proprio dall’infinità di immagini presenti su Internet che Schmid crea la sua arte: un processo di elaborazione e appropriazione che ha già portato a una notevole produzione enciclopedica dal titolo Other People’s Photographs, oltre tremila immagini raccolte in novantasei libri pubblicati tra il 2008 e il 2011. I volumi presentano una selezione e un’elaborazione di immagini tratte da Flickr, il sito di photosharing fondato nel 2004 e diventato, come sostiene lo stesso Schmid, «il più grande bacino d’immagini mai accumulate nella storia dell’umanità», dove sono immagazzinati miliardi di fotografie cui ogni giorno vanno ad aggiungersi altri milioni d’immagini caricate dagli utenti. 3 Il lavoro di Joachim Schmid è una sorta di banco di prova. Sulla base di quali distinzioni culturali stabiliamo che alcune fotografie sono arte? Come afferma lui stesso, infatti, qualsiasi fotografo può produrre un capolavoro per caso, ma ciò non accade a un pittore o a un musicista. Quello che Schmid ha fatto e continua a fare con la fotografia è, in realtà, allargarla alla “fotografia totale”, sollevando questioni sulla natura di questo mezzo artistico a fronte dei suoi usi amatoriali e culturalmente “bassi”, esplosi nell’era digitale in una torrenziale fotografia di massa che circola pubblicamente in rete. Per la sua Bilder von der Straße Schmid ha messo insieme fotografie trovate per strada a partire dal 1982. Le immagini sono numerate e classificate in base a luogo, mese e anno di ritrovamento, secondo un ordine e una sequenza che coincidono con l’ordine con cui sono state trovate. In quest’opera è implicita l’imposizione di un criterio estetico 14
Joachim Schmid e le fotografie degli altri
Joachim Schmid, n. 1000, Gallipoli, marzo 2012, da Bilder von der Straße, 1982-2012.
minimo e, per certi versi, essa rappresenta l’espressione di “fotografia trovata” più pura di tutto il lavoro di Schmid. In altri progetti, infatti, entrano in gioco procedimenti come la selezione e la modificazione, che implicano gerarchie, distinzioni e valutazioni culturali. Il migliaio di fotografie che compone Bilder – opera ormai conclusa – introduce un’estetica particolare strettamente connessa al tempo: tutte le immagini si presentano consumate dalla strada e logorate dall’esposizione agli agenti atmosferici. Questa materialità è parte integrante della loro identità. Che si tratti di fotografie smarrite a cui si era molto legati o di foto strappate in un gesto di rabbia, il tema dominante è il ritratto, e ciò conferisce all’opera un aspetto molto affettivo. Il progetto amplifica la fragilità e la transitorietà del volto umano nella fotografia, il pathos del ritratto inteso come genere. Si avverte un senso di salvezza e riparazione, specialmente nel gesto di rimettere insieme i frammenti strappati, il più delle volte però senza riuscire a ricomporre per intero l’immagine originaria. La cura posta nel raccogliere, conservare e anche aggiustare le fotografie è spesso in contrasto con la loro distruzione violenta. Questi rifiuti fotografici vanno visti come un contrappunto ai superiori e fondamentali capolavori del momento associati alla fotografia di strada. Quella di Bilder è un’estetica fotografica memorialistica, una fotografia di frammenti, un’archeologia: «Mi sento molto vicino a quegli archeologi che non si interessano tanto ai gioielli della Corona, quanto alle vestigia della vita di tutti i giorni».4 Il senso di queste vestigia è l’aspetto qualificante di Bilder. Other People’s Photographs è più incentrata sull’istante e sul momento, su una socialità dell’uso e dell’esibizione dell’immagine, del piacere e del divertimento che si traggono nel fare fotografie, delle istantanee nel 15
Dalla strada alla rete: l’estetica trasgressiva di Joachim Schmid
Joachim Schmid, Sunset, Coffee e The Picture, da Other People’s Photographs, 2008-2011.
senso più pieno della parola. In Bilder si ha molta più consapevolezza del vissuto delle fotografie, che sono di seconda mano, hanno cambiato proprietario, sono state usate e poi smarrite o distrutte. Questo vissuto ci sembra ancora più pertinente dal momento che in questa sede ci occupiamo appunto di fotografia analogica: la fotografia in quanto oggetto, stampa fisica su carta, e non immagine circolante da un dispositivo elettronico all’altro. Schmid interviene sulla fotografia di massa presa da Flickr organizzandola non per autore, bensì per comunanza di contenuti, e privandola di tutti quei tag o commenti che accompagnano le foto caricate online. Le immagini sono assemblate come fossero libri, in base a uno strano ordine e metodo di classificazione, in cui ogni pezzo è dedicato a un tema specifico e ordinato alfabeticamente, dalle fotografie dei pasti in aereo ai particolari di mappe con tanto di indicazione “Voi siete qui”. È un’archiviazione assurda, specchio del caos e del disordine del web. Per certi versi i libri trattano la fotografia come espressione del consumismo, ma dimostrano anche che non esistono due scatti uguali. Si può riprodurre la stessa identica immagine, ma non scattare la stessa fotografia. Other People’s Photographs mette in pratica un procedimento che si avvicina molto alla ripetizione, raggruppando immagini affini per argomento: parcheggi, assegni bancari, scollature, caffè, pane, pizza e così via. Le fotografie ci informano sul modo in cui le persone compiono il rituale del registrare, sull’ubiquità della fotografia nell’epoca dei social media e degli smartphone, sull’eccessiva facilità con cui scattiamo foto e le facciamo circolare. La forma del libro conferisce stabilità e presenza alle immagini, che come tali vengono unite, raccolte, stampate e rilegate. Campeggiando sulla pagina bianca, le foto acquistano lo status e l’identità di arte. Tuttavia, sono «tutte sorprendentemente diverse l’una dall’altra», ed è proprio questo il punto: sono proprio la varietà e l’eccessiva quantità accumulata a renderle interessanti. Esse ci rivelano il comportamento di massa, secondo cui tutti scattano all’apparenza le
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Joachim Schmid e le fotografie degli altri
stesse fotografie, ma in realtà queste non sono mai esattamente identiche. La fotografia, insomma, presenta variazioni all’interno della comunanza. Per quanto potrebbero dare prova di un riflesso pavloviano uniforme, in queste immagini c’è qualcosa in più, qualcosa di intrinseco al medium, una variabilità che contrasta con l’omogeneità standardizzata della cultura globale. Sono gli scarti e le differenze tra una data idea e la norma a conferire umorismo, bellezza e umanità a quest’opera. Le problematiche che Schmid ha sollevato e continua a sollevare con il suo lavoro non sono inedite in questo campo. La novità consiste nell’aver aumentato la posta in gioco, alzando l’asticella fin quasi al punto di rottura, dove si rischia di perdere il senso del valore, della coerenza e della certezza di cosa sia l’arte intesa in termini fotografici. Una delle più importanti storie della fotografia, quella di Szarkowski, racconta di un rapporto particolare con il fotografo dilettante e non professionista. Questo rapporto, per certi versi, rappresenta una prova o un suggerimento delle questioni estetiche che l’opera di Schmid solleva. L’aspetto dilettantistico è parte integrante dell’estetica di John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art di New York (1962-1991), il quale decise di sostenere un certo tipo di arte fotografica caratterizzata da un’estetica diretta e spogliata di qualsiasi abbellimento. Ne sono un esempio tanto Walker Evans quanto il meno noto Darius Kinsey, la cui opera documentaria del lavoro dei taglialegna nei boschi dello stato di Washington fu preferita alla pretenziosità e all’artificio di fotografi pittorialisti come Edward Steichen. Szarkowski apprezzava molto gli scatti che “andavano dritti al punto”, e questo spiega perché Walker Evans abbia avuto un ruolo centrale nel suo modo di raccontare la fotografia. Con la straordinaria rappresentazione di volti esposti in vetrina tramite diverse fotografie di ritratti – nell’opera 17
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del 1936 dal titolo Penny Picture Display, Savannah –, per certi versi Evans rende omaggio all’umile e onesto lavoro dei fotografi su commissione. Per altri, presentandoci oltre duecento ritratti all’interno di una singola immagine l’artista apre la fotografia alla consapevolezza della produzione di massa delle immagini, una fotografia en abîme in cui possiamo scorgere anche una fonte d’ispirazione per la pratica vertiginosa di Schmid. L’aspetto saliente di Penny Picture Display sta nell’attenzione verso l’invasione di immagini registrata all’interno del panorama americano, ravvisabile non solo nell’esposizione di fotografie altrui ma anche nella loro affinità con la pubblicità: si pensi allo sguardo di donne celebri che campeggia da due cartelloni pubblicitari in prossimità di due villette, o al dettaglio ingrandito di una locandina in cui l’attore e l’attrice protagonisti del film sono divisi da uno strappo. La lungimirante prospettiva di Walker Evans sulla cultura e sull’umanità, che trova continuità nell’attuale impegno di Schmid, rende le immagini di Evans tuttora attuali, eccezionali. Non sorprende dunque che l’artista tedesco abbia reso il suo personale omaggio ad American Photographs (1938) di Evans usando le immagini tratte da Flickr. Certo, il libro di Schmid è più incentrato sulle differenze che non sulle somiglianze e c’è da dire che negli anni trenta prendere in esame il valore estetico delle esposizioni in vetrina, delle locandine cinematografiche e della pubblicità era molto più insolito di oggi. Con la mostra di fotografie a colori di William Eggleston nel 1976 al moma, l’apprezzamento di Szarkowski nei confronti del dilettantismo e del luogo comune sollevò una serie di polemiche. Per molti, quelle fotografie erano troppo simili a istantanee amatoriali. Nel catalogo, tuttavia, Szarkowski fece attenzione a mantenere la distinzioWalker Evans, Case e manifesti ad Atlanta, New York 1936.
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Joachim Schmid, Penny Picture Display, Savannah 2008, da American Photographs, 2011.
ne, affermando che l’affinità tra le immagini di Eggleston e le Kodachrome era: […] autentica, nello stesso senso in cui le belle lettere di una volta hanno in genere un rapporto, quanto a trama, riferimenti e ritmo linguistico, con il gergo colto dominante dell’epoca. A grandi linee, le frasi di Jane Austen erano presumibilmente simili a quelle delle sue sette sorelle. Allo stesso modo, non dovrebbe sorprendere se la migliore fotografia odierna si ricollega, quanto a iconografia e tecnica, allo standard contemporaneo del camera work dilettantistico, spesso di fatto ricco e sorprendente. 5
A ogni modo, la differenza restava importante, e consisteva in «una questione di intelligenza, immaginazione, intensità, precisione e coerenza».6 L’interesse di Schmid si rivolge proprio a quelle Kodachrome, al linguaggio delle sorelle della Austen. Non esiste distinzione. Il suo è un allontanamento volontario dai canoni dell’opera d’arte comunemente accettata. La sua ripresa di “American Photographs” è stata un tentativo di produrre una versione contemporanea della fotografia dilettantistica anonima che aveva influenzato Evans. In precedenza aveva già offerto i suoi equivalenti dei capolavori: Meisterwerke der Fotokunst (1989), con Adib Fricke, presentava repliche fotografiche attinte dalla fotografia amatoriale, un Ansel Adams o un August Sander. Sotto questo aspetto, è 19
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Joachim Schmid, Torn Movie Poster, 2008, da American Photographs, 2011.
in parte una risposta all’affermazione di Szarkowski secondo cui, nonostante i miliardi di fotografi e sebbene esistano più fotografie che mattoni, nessuno è mai riuscito a replicare con esattezza un capolavoro precedente. Schmid abbandona la distinzione e il valore estetici e, sostenendo che la fotografia abbia a che fare con la casualità e la produzione di massa, assume una posizione piuttosto estrema: «È arrivato il momento di accettare l’idea che i fotografi non sono creatori ingegnosi, ma estensioni della loro tecnica. Il capolavoro non è che un’urgenza casuale, che avviene con più frequenza se le persone scattano più fotografie».7 Nel suo Sulla fotografia del 1977 Susan Sontag tratta della difficoltà di distinguere esteticamente la fotografia dalle immagini di massa. La fotografia come medium trasforma l’arte, la colpisce, ne turba la purezza e la singolarità; può addirittura ridurla al kitsch. Con Schmid torniamo a riflettere su questo problema, ma a uno stadio più avanzato. Nel suo caso, ci troviamo davanti a un livellamento della fotografia, a una diffusione del suo uso consumistico. Nell’affermazione di Schmid del 1989 «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti» riecheggia la fine del libro della Sontag, scritto all’alba del Postmodernismo, dove si invocava un’ecologia delle immagini.8 Quella di Schmid, però, è un’ecologia strana, perché implica che lui ci fornisca un numero sempre maggiore di immagini. La sua pratica è lontana dalla sensibilità che associamo al tipo di arte apprezzata dalla Sontag, al difficile Modernismo di Jean-Luc Godard o di Ingmar Bergman, ovvero un’arte che resiste all’interpretazione preconfezionata. Con Schmid abbiamo una fotografia sempre in eccesso, incessante, inesauribile, diarroica. 20
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In The Picture, tratto da Other People’s Photographs, ci sono diverse Monna Lisa. Sfocate, distorte e di diversi colori, queste fotografie sono scattate in mezzo alla folla che quotidianamente si reca a vedere il dipinto più famoso del mondo. Tutte, tranne due, riescono a evitare le teste degli altri frequentatori del museo. Queste immagini d’arte tratte dal museo svilite dallo sguardo dei turisti ci riportano alla fotografia artistica di natura museale della Scuola di Düsseldorf. Sotto diversi aspetti, quest’arte monumentale è esattamente l’opposto della pratica di Schmid. La grande fotografia di Thomas Struth che ritrae la cima di El Capitan nello Yosemite National Park, per esempio, include la fila di visitatori arrivati anche loro fin lì per fotografare il paesaggio, ma non ha nulla a che fare con quel turismo. Struth include le persone come un promemoria del fatto che la sua immagine di quella meraviglia naturale, così spesso fotografata, è diversa. Lo stesso si può dire per Evans. Pur potendo leggere i suoi piccoli ritratti come un omaggio, un attestato di stima a Struth, allo stesso tempo l’uso del grande formato Deardorff per ritrarre la massa di volti riafferma una gerarchia: l’immagine di Struth è più particolareggiata e molto più compiuta dei ritratti scattati dai fotografi-lavoratori anonimi. Nella fotografia di William Eggleston, il suo uso del procedimento di stampa del colore Dye Transfer era costoso e accostabile ai canoni della pubblicità, un lusso contraddetto dall’apparente quotidianità del suo tema. Il libro di Schmid con le riproduzioni dei dipinti di Leonardo, tuttavia, è in tutto e per tutto un esempio di cattiva fotografia, dove l’istantanea del turista appare lontanissima dall’opera d’arte elevata e culturalmente apprezzata custodita nel Louvre. Un’immagine talmente usurata che ormai non riusciamo più a vederla per quella che è. La folla che si reca a visitare le opere d’arte ha affascinato Thomas Struth nelle sue Museum Photographs, immagini in cui la realtà fotografica delle persone e delle folle dell’arte si contrappone all’arte bella dei musei. Di nuovo, il rapporto è significativo e riguarda il fatto che nelle fotografie di Struth è insito un forte desiderio di impatto, durevolezza e valore delle immagini nel museo. I libri di Schmid celebrano le fotografie degli altri, lo sguardo del turista, mentre quella di Struth è una visione memorialistica: i valori del museo sono parte integrante del suo uso della fotografia, particolareggiata, di grande formato e in larga scala. Schmid è immagini-dipendente, un divoratore di fotografie, soprattutto quelle banali, usa e getta e a buon mercato. Una fotografia grande e definita è una fotografia fatta apposta per un museo. Ma si percepisce che è frutto di un atto retrospettivo, praticato da uno sguardo nostalgico per l’arte degli Antichi Maestri, di fronte alla scomparsa della durevolezza e dell’attenzione propria dell’attuale cultura dell’immagine, accelerata e incentrata sul consumatore. E non dimenti21
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Thomas Struth, Audience 07 (Galleria dell’Accademia), Firenze 2004. © Thomas Struth.
chiamo che, fissando fotograficamente gli spettatori davanti alle stesse immagini, Struth vuole darci l’illusione che le persone guardino le opere d’arte più a lungo di quanto non facciano in realtà. Quando si concentra sui gesti e sulle distrazioni dei turisti dell’arte – Audience (2004) – radunati davanti alla Galleria dell’Accademia di Firenze nelle loro sgargianti magliette estive per vedere il David di Michelangelo, Struth anziché concentrarsi sull’oggetto d’arte che sono venuti a vedere, si avvicina all’estetica trasgressiva di Schmid. È facile immaginare come Schmid sia compiaciuto di questo cambiamento di valori, di questo sguardo obliquo. Come lui stesso ha affermato: «Posso benissimo passare oltre la chiesa più importante d’Italia, se proprio lì accanto appeso alla vetrina di un bar vedo un manifesto interessante».9 I libri di Schmid ci conducono nel mondo dei turisti, ci fanno vedere attraverso i loro occhi, o piuttosto attraverso gli occhi dei loro smartphone e delle loro macchine fotografiche. Questa è la dissonanza, l’esuberanza, l’incoerenza, ma anche lo spirito vivo del suo lavoro. Martin Parr ha certamente già incorporato questa visione nella fotografia, e il disprezzo in cui è incorsa la sua opera ha a che fare con la gerarchia culturale e con lo snobismo che essa sfida: interessarsi a orecchini e acconciature, al modo in cui teniamo in mano un cellulare o mangiamo un hamburger significa interessarsi all’estetica del presente consumistico. Solo nel ruolo di documentarista Parr resta in disparte, lontano da questa cultura. Other People’s Photographs, invece, ci porta dentro questa visione, ci fa vedere il mondo con gli occhi di chi è all’interno dei meccanismi del consumismo. La “fotografia Flickr” di Schmid parla della quotidianità, di tazze di caffè, torte di compleanno, currywurst e tramonti. Ed è proprio in virtù di questa appropriazione che esse ci riportano alla realtà di una cultura comune immediata e contemporanea. Indirettamente, veniamo “sommersi dal fascino” della quotidianità altrui.10 L’identità espansionistica di Flickr testimonia delle infinite possibilità e trasformazioni del 22
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fotografare il mondo, di una fotografia totale e onnipresente. Diversa da quella automatica e inconsapevole dei dispositivi di sorveglianza delle banche, come anche dalle mappe di Google Street View, essa attinge alla forma pubblica espansa dell’album fotografico privato e amatoriale di Flickr, un documento imponente di vite, comportamenti e preoccupazioni umane. Secondo Schmid, ci sono molti artisti sconosciuti su Flickr.11 Eppure la sua selezione e la sua elaborazione azzerano la paternità delle immagini, i suoi libri sono organizzati secondo una continuità tematica tra fotografi diversi. Torniamo per un attimo a Szarkowski e alla sua fondamentale distinzione riguardante l’atto creativo del fotografo, «una questione di intelligenza, immaginazione, intensità, precisione e coerenza». Il rapporto con il dilettantismo era parte integrante della sua visione estetica, segnata dal disprezzo per la pretenziosità e l’intenzionalità artistica in fotografia. E la sua estetica fotografica predilige, infatti, una fotografia chiara, diretta e priva di abbellimenti. L’estetica di Schmid, se così possiamo definirla, è di respiro molto più ampio, è più maliziosa e confusa. Il suo impegno ossessivo nella fotografia dilettantistica contemporanea sul web si avvicina, quasi a strizzargli l’occhio, al caos e all’incongruenza. Nel fare ciò, però, espande la fotografia dai suoi più noti, angusti e ben definiti confini estetici, e perdipiù la allontana da un’estetica della perdita. Bilder pone l’accento sulla fotografia come arte funerea e imbevuta di pathos; Schmid non smette di scegliere i pezzi fotografici, e non se ne va neanche a festa conclusa. Other People’s Photographs, invece, è guidata da un’affermazione e una celebrazione particolari dell’essere nel mondo: ancora una volta un orizzonte a lungo termine e per certi versi lontano dal nostro comportamento fotografico attuale, ma che tuttavia offre un chiaro assaggio delle ossessioni, delle assurdità e dei piaceri riscontrabili nell’ordinario e nel quotidiano. Martin Parr, Zürich, da Common Sense, 1997-1999. © Martin Parr.
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Note 1 2 3
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Joachim Schmid citato in John S. Weber, “Joachim Schmid and Photography: The Accidental Artist”, in Joachim Schmid: Photoworks 1982-2007, Steidl, Göttingen 2007, p. 18. Ivi, p. 13. Joachim Schmid, “Reload Currywurst, Photo Sharing: You Can Eat Your Sausage and Have It, Too”, disponibile online all’indirizzo http://fotokritik.wordpress.com/2008/11/11/ reload-currywurst/ (ultimo accesso del 1° settembre 2012). Intervista rilasciata a Mark Durden in ArchivoZine, disponibile online all’indirizzo http://photoarchivo.org/archivozine-archive (ultimo accesso del 1° settembre 2012). John Szarkowski, William Eggleston’s Guide, Museum of Modern Art, New York 1976, p. 10. Ibidem. Joachim Schmid, “Reload Currywurst, Photo Sharing: You Can Eat Your Sausage and Have It, Too”, cit. Joachim Schmid, citato in John S. Weber, op. cit., p. 12. Intervista rilasciata a Mark Durden in ArchivoZine, disponibile online all’indirizzo http://photoarchivo.org/archivozine-archive (ultimo accesso del 1° settembre 2012). Intervista rilasciata a Mark Durden in ArchivoZine, disponibile online all’indirizzo http://photoarchivo.org/archivozine-archive (ultimo accesso del 1° settembre 2012). Joachim Schmid, “Reload Currywurst, Photo Sharing: You Can Eat Your Sausage and Have It, Too”, cit.
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