«Occorre far saltare le camere di piombo politiche, sociali e personali, ossia uscire dall’isolamento crescente. “Quello di cui abbiamo bisogno” disse Beuys “è calore.”» «Il palazzo da conquistare e da abitare degnamente è la testa dell’uomo. La nostra testa. […] ogni uomo è finalmente sovrano. Ogni uomo è un Re Sole.» Joseph Beuys su “Palazzo regale”
Foto di copertina: Joseph Beuys a documeta 6, Kassel, luglio 1977 © Ullstein Bild-Behr/Archivio Alinari
Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli 7. Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi 8. James Westcott Quando Marina Abramović morirà 9. Ambroise Vollard Memorie di un mercante di quadri 10. Luca Ronchi Mario Schifano. Una biografia
Joseph Beuys. Una vita di controimmagini
«Tuttora, il miglior profilo di Joseph Beuys.» Frankfurter Allgemeine Zeitung
Heiner Stachelhaus
Otto-Heinrich Stachelhaus (1930-2002), in arte Heiner Stachelhaus, è stato giornalista e critico d’arte. Ha lavorato alla Neuen RuhrZeitung/Neuen Rhein-Zeitung (nrz) e dal 1980 al 1989 è stato vicepresidente dell’Associazione internazionale dei critici d’arte. «Senza voler sottovalutare l’importanza della critica» ha dichiarato Stachelhaus nel 1987 in occasione dell’uscita di questa biografia «credo che se non mi fossi confrontato con Beuys per oltre vent’anni non avrei mai potuto scrivere questo libro.»
Heiner Stachelhaus
Joseph Beuys Una vita di controimmagini
ISBN 978-88-6010-033-7
Gilet da pescatore su camicia bianca, jeans e cappello di feltro. D’inverno una lunga pelliccia di lince rivestita di seta blu, da giovane una cravatta nera fermata da una piccola mascella di lepre. Così si presentava Joseph Beuys, l’inconfondibile aspetto di un personaggio fantastico a cavallo tra il clown e il gangster. Appena entrava in scena, faceva sempre il contrario di quanto ci si aspettasse, spesso e volentieri cose che a prima vista non avevano alcun senso: avvolgersi nel feltro, vivere con un coyote, staccare gelatina da una parete, rimanere fermo per ore nella stessa posizione, spazzare il bosco, spiegare quadri a una lepre morta o bendare un coltello dopo essersi ferito il dito. Tutto questo – e il grasso che guarisce, il feltro che riscalda, il miele che nutre, le batterie che si ricaricano – per trasmettere scariche di energia e provocare negli spettatori uno choc salutare, un ampliamento della consapevolezza. La creatività è una «messa in forma» della libertà, ed è patrimonio di tutti: allora «sii sempre vigile» ripeteva Beuys, e «diventa artefice della tua rivoluzione. Ogni uomo è un artista». Rinunciando, con rare eccezioni, alle interpretazioni e ai giudizi stereotipati su uno dei personaggi più discussi e vivisezionati del xx secolo, Heiner Stachelhaus mette insieme un ritratto a tutto tondo di Joseph Beuys a partire dalle “controimmagini” della sua stessa vita: gli studi di scienze naturali e il confronto con l’antroposofia steineriana; l’incidente in Crimea e le esperienze tra i tartari, l’insegnamento e l’occupazione dell’Accademia, le 7000 querce e la battaglia ecologista, il Beuys privato che beveva acqua del rubinetto in bicchieri di cristallo molato. Fino ad arrivare al BloccoBeuys di Darmstadt, il museo-laboratorio in cui ancora aleggia lo spirito dell’«unico artista», come disse Karl Ströher, «capace di esprimere la specificità della nostra epoca».
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Heiner Stachelhaus
Joseph Beuys Una vita di controimmagini
Traduzione di Roberta Gado
Prefazione
Quando Heiner Stachelhaus scrisse la biografia che state per leggere, Joseph Beuys era scomparso da poco più di un anno. Una frequentazione ventennale con l’artista e l’intuizione che tutto era già scritto e raccontato nelle sue opere gli diedero la possibilità di delineare un ritratto che è rimasto intatto e che in qualche modo ha fatto da apripista agli altri studi e approfondimenti teorici effettuati su di lui sino a oggi. Come tutti i veri maestri, Beuys ha trasmesso la sua lezione attraverso l’esperienza diretta. Lo ha fatto in maniera trascinante negli anni infuocati dell’insegnamento, quando era il professore che affascinava gli studenti e inquietava i dirigenti dell’Accademia di Düsseldorf. Lo ha fatto con le sue discussioni infinite e le sue “azioni” inimitabili. Un metodo, il suo, che si svelò in maniera emblematica in “Palazzo regale”, la sua ultima mostra inaugurata il 23 dicembre 1985 al Museo di Capodimonte, a Napoli. Trenta giorni prima della sua morte. In due grandi bacheche di ottone e cristallo aveva raccolto la sua storia, la sua vita, il suo pensiero. Vi aveva voluto la sua lunga pelliccia di lince indossata nei giorni dell’occupazione dell’Accademia di Düsseldorf; la testa di ferro di Anacharsis Cloots, il rivoluzionario tedesco nato nel 1755 a Kleve, la stessa città di Beuys, e ghigliottinato a Parigi nel 1794 per ordine di Robespierre. Nelle bacheche aveva disposto uno zaino, un cuneo di pietra, dei pezzi di grasso, due bastoni di rame, dei morsetti elettrici. E alle pareti del Salone dei Camuccini aveva collocato sette grandi teche di ottone specchianti e completamente vuote. Alla mostra aveva cominciato a lavorare a Capri già nell’estate di quell’anno, e voleva esplicitamente che il lavoro restituisse un forte senso di monumentalità. Voleva che fosse una grande e definitiva architettura di tutta la sua produzione, quasi avesse urgenza di dettare un testamento. «Infatti “Palazzo regale”» scrisse Fabrizia Ramondino «è un vero e proprio monumento funebre, come ne facevano edificare una volta prìncipi e faraoni: ed essendo Beuys artista, non lo ha commissionato ad altri, ma lo ha ideato, eseguito e allestito egli stesso.» In quell’occasione solennità e povertà, regalità e umanità, suono e silenzio furono gli elementi costruttivi di un Palazzo
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regale che prima di ogni altra cosa apparve come l’autoritratto più compiuto e più veritiero di Beuys. Allo stesso tempo, tutti questi elementi modulavano anche la sua appassionata dichiarazione di amore per la vita, per gli uomini, per la libertà. Parlando del senso della regalità che è in ogni uomo, così andava ragionando Beuys nei giorni in cui allestiva la mostra: Il palazzo da conquistare e da abitare degnamente è la testa dell’uomo. La nostra testa. L’idea di “Palazzo regale” è presente già in moltissimi miei lavori precedenti. Già nel 1960, in un’azione che feci a Colonia, affermai che ogni uomo è finalmente sovrano. Ogni uomo è un Re Sole, nonostante la politica ci neghi tutto questo e la nostra sovranità viene rappresentata e tradìta da altri individui…*
La consapevolezza della centralità dell’individuo e la ricerca continua dell’energia presente in ogni forma di vita sono stati il centro della sua ricerca sin dagli anni giovanili, quando scompariva dai suoi lavori, soprattutto dai disegni ancora intrisi di umori espressionistici, una pratica tradizionale alquanto diffusa, e avvertiva sempre di più l’esigenza di portare l’arte verso una dimensione più concreta per l’uomo. La “Rivoluzione siamo noi” è stato il suo motto 10
e il suo programma: «Nel momento in cui gli artisti, gli uomini creativi si renderanno conto della forza rivoluzionaria dell’arte, in quel momento essi riconosceranno i veri obiettivi dell’arte e della scienza» affermò Beuys nel 1971 in un colloquio con Achille Bonito Oliva in occasione della sua prima mostra italiana alla Modern Art Agency di Lucio Amelio. Ora unisco arte e scienza in un concetto più grande: la creatività sta al centro. Il problema è molteplice e abbraccia più concetti. Infatti la libertà è legata all’individualità dell’uomo, dell’uomo come singolo. Nel momento in cui l’uomo prende coscienza di questa individualità vuole anche essere libero per il suo desiderio antiautoritario di governarsi e di autodeterminarsi […]. Quando gli uomini avranno preso coscienza, avranno imparato a vivere politicamente secondo queste forze, allora sarà possibile realizzare una costellazione politica completamente nuova.
Era il Beuys politico che parlava, lo stesso che poi avremmo visto tra i fondatori del partito tedesco dei Grünen (i Verdi) e che impressionò fortemente
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Le dichiarazioni di Beuys riportate in questa “Prefazione” sono citate testualmente dal dattiloscritto in lingua italiana preparato dall’artista per Il Mattino di Napoli e dalle interviste concesse a Michele Bonuomo e ad Achille Bonito Oliva. [N.d.R.]
· Prefazione ·
noi giovani di allora, impegnati con sana incoscienza a “portare l’attacco al cielo”. E in Italia aveva scelto Napoli per lanciare il suo programma politico di “scultura sociale”. Napoli divenne la sua città elettiva, il Mezzogiorno d’Italia la sua nazione e Foggia la capitale. Alla città pugliese era rimasto legato sin dalla Seconda guerra mondiale quando, giovane mitragliere della Luftwaffe in attesa di essere spedito al fronte, aveva avuto modo di esplorare i paesaggi del Gargano e di conoscere una terra e delle genti che lo rassicuravano. Foggia era il luogo in cui tutto era necessariamente felice (Die Leute sind ganz prima in Foggia recita il titolo di una sua storica edizione pubblicata nel 1973 da Lucio Amelio, Giorgio Marconi e Klaus Staeck). Uno degli ultimi desideri dell’artista fu quello di donare tutta la sua collezione alla città per farne un museo: per insipienza degli amministratori locali di allora, e per somma gioia dei suoi galleristi, il progetto non andò mai in porto. Dal primo “ritorno” di Beuys, nel 1971, comincia la lunga stagione delle sue “tracce in Italia”. A Napoli aveva trovato in Lucio Amelio un amico fedele, più che un gallerista, un compagno d’armi di una lotta continua vera. Aveva trovato interlocutori raffinati e intelligenti che, volta per volta, divennero parte integrante del suo lavoro: Achille Bonito Oliva, il primo a iniziare una lucida indagine critica, collezionisti devoti e illuminati come Peppino Di Bennardo e Vittorio Baratti, artisti come Nino Longobardi e studenti onnivori come il sottoscritto, allora ventenni, cresciuti nella sua lezione. Da Beuys abbiamo imparato che l’arte è di tutti; che ogni gesto, se dettato da consapevolezza, è un gesto di libertà; che la rivoluzione siamo noi. Abbiamo imparato che c’è molta più arte nel rispetto della Natura che nella lunga serie di trattati teorici a nostra disposizione. Quando, nel 1980, la Campania fu squassata dal terremoto Beuys fu uno dei primi artisti ad accorrere e a sostenere che l’energia negativa della Natura doveva trasformarsi in un’occasione ad alta intensità creativa. Assieme visitammo i paesi devastati e la sua emozione fu pari soltanto all’energia che aveva accumulato dentro di sé. Qualche mese dopo, tutto questo si trasformò in una straordinaria azione e in una mostra ormai storica (“Terremoto in Palazzo”). In quell’occasione redasse Alcune richieste e domande sul Palazzo nella testa dell’uomo, un testo-proclama scritto per il quotidiano Il Mattino di Napoli il 16 aprile 1981, ma mai pubblicato perché giudicato dalla redazione troppo “forte”: «Ogni uomo possiede il Palazzo più prezioso del mondo nella sua testa, nel sentimento, nella sua volontà… Entriamo in noi stessi! Ci siamo autodistrutti (materialismo, egoismo), ma ora ci ricostruiamo da soli. Uomo, tu possiedi la forza per la tua autodeterminazione!». Questa è stata la sua vita. Questa è la sua arte. Michele Bonuomo Milano, 2012
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Gli animali svolsero un ruolo essenziale nella vita di Beuys sin dalla prima infanzia. La fantasia di essere un pastore circondato da un gregge immaginario, poi il piccolo zoo privato a casa dei genitori, l’interesse per il loro comportamento, gli studi di zoologia all’università di Posen e le escursioni con Heinz Sielmann sono tutti indizi dell’importanza che essi ricoprivano per l’artista, il quale ribadì più volte di considerarli la massima espressione della natura. Nei lavori d’esordio si riscontra senz’altro una certa influenza di Mataré, soprattutto formale. Come per il maestro, anche per l’allievo si trattava di cogliere ed esprimere con disegni e sculture l’essenza dell’animalità. A differenza di Mataré, però, che ridusse i volumi scultorei fino a ottenere forme quasi geometriche, Beuys si concentrò sul lato esistenziale della natura zoomorfa. A interessarlo erano la rappresentazione della fragilità e dell’interiorità o, come disse una volta Franz Joseph van der Grinten, «l’intelligenza dell’animale, la sua qualità mitica o totemica». A questo si ricollega anche il fatto che della guerra Beuys non conservò il ricordo delle battaglie, ma «della steppa, del nomadismo, dello sciamanesimo». I suoi animali preferiti sono la lepre, il cervo, l’alce, la pecora, l’ape e il cigno, che emergono in vari contesti e nelle più diverse combinazioni lungo tutto l’arco della sua attività grafica, plastica e performativa. Com’è noto, il cigno è un riferimento abbastanza diretto alla storia della sua terra: esso è infatti l’animale araldico dei conti di Kleve che si vogliono discendenti di Lohengrin. Non a caso il segnavento sullo Schwanenburg di Kleve è un cigno. E nel 1961 per il municipio cittadino Beuys progettò un rilievo che raffigurava Lohengrin. Conosceva la leggenda del cavaliere del cigno del Basso Reno, sapeva che era l’uccello sacro ad Apollo e che Zeus era apparso a Leda sotto le spoglie di detto animale: non stupisce, quindi, che anche Leda sia un soggetto ricorrente dei suoi disegni. Pecore, alci e cervi sono importanti per Beuys in quanto vivono in branco: la figura del pastore ispirò innumerevoli fantasie al piccolo Joseph. Per la sua prima grande azione, la Sibirische Symphonie (Sinfonia siberiana) del 1963, l’arti-
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sta aveva scelto il cervo. Poiché però non riuscì a procurarsene uno morto, usò una lepre. Ciò nonostante i “monumenti ai cervi” divennero una parte importante della sua produzione. A questo animale sono attribuite forze magiche sin da tempi remoti: la leggenda vuole che le sue corna, polverizzate e cremate, proteggano dai malefici. Nell’antica Grecia il cervo era sacro alla dea Artemide, per i romani Diana, e veniva spesso raffigurata in compagnia di questo animale. Anche i germani orientali lo consideravano una creatura divina. Armin Zweite, esperto monacense di Beuys, sostiene che nelle sue opere il cervo compaia in genere come animale condannato a morire, convalidando la propria tesi con titoli come Blutender Hirsch (Cervo sanguinante), Verwundeter Hirsch (Cervo ferito), Toter Hirsch und Mond (Cervo morto e luna), Toter Mann auf Hirschskeletten (Uomo morto su scheletri di cervo), Toter Riesenhirsch (Cervo gigante morto). Significato analogo ha l’alce, il cervide più grande che esista oggi sulla Terra. Diffuso nelle tundre e nelle foreste paludose dell’Eurasia settentrionale e del Canada, l’alce possiede zoccoli dotati di falangi in grado di aprirsi che gli consentono di muoversi con sicurezza sui terreni paludosi. Anche in questa creatura Beuys vede la fragilità e la vulnerabilità. Dall’insieme delle sue raffigurazioni zoomorfe emerge soprattutto la preoccupazione di cogliere le energie psichiche e spirituali degli animali e di stabilire così analogie 60
con il comportamento delle creature in generale, compreso quello dell’uomo. Nella visione plastica di Beuys, api e lepri, come grasso e feltro, sono “materiali” di particolare fascino e rilevanza. Per quanto riguarda le api, Beuys ne studiò con passione le funzioni e il comportamento. La sua enorme Honigpumpe am Arbeitsplatz (Pompa di miele sul posto di lavoro) per documenta 6 (Kassel, 1977) è la quintessenza della ricerca artistica sulle api a cui lo avevano spinto anche gli studi steineriani. Beuys conosceva le quindici conferenze tenute agli operai al Goetheanum di Dornach nel 1923 in cui Steiner aveva presentato l’ape come un animale sacro sin dall’antichità, «sacro perché con il suo lavoro fa comprendere quanto accade nell’uomo stesso». Quando si tiene fra le mani un pezzetto di cera d’api, si ha un prodotto intermedio tra sangue, muscoli e ossa. Allo stato non solidificato, penetra all’interno del corpo umano e rimane liquido finché non può essere trasformato in sangue, muscolo o cellule ossee. Dunque la cera ci mette di fronte agli occhi le forze che sono dentro di noi. […] Le api operaie portano a casa quel che raccolgono dalle piante e lo trasformano in cera nel proprio corpo, creando una struttura cellulare meravigliosa. Ma lo fanno anche le cellule sanguigne della mente umana, che dalla testa si diramano in tutto il corpo. E se, per esempio, osservate un osso, noterete che contiene ovunque robuste cellule esagonali. Il sangue che circola nel corpo esegue lo stesso lavoro dell’ape nell’arnia.
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L’idea beuysiana di scultura deriva da questo processo vitale specifico delle api: per lui la scultura è «un plasmare organico dall’interno». In una fruttuosa conversazione con B. Blume e H.G. Prager, pubblicata sul numero di dicembre 1975 della Rheinische Bienenzeitung, la più antica rivista per apicoltori, Beuys prese posizione su questo problema in modo esaustivo e molto originale affermando che l’ape ama vivere in un ambiente dotato di un certo carattere caldo e organico. Esemplare in questo senso era la vecchia arnia intrecciata di paglia. Il legno delle arnie moderne è infatti un materiale piuttosto indurito, che ha perso questo carattere termico originario. E qui emerge un elemento che mi ha sempre interessato di tutte le sculture: il loro generale carattere termico. In seguito ho sviluppato un tipo di teoria plastica in cui detto carattere, la scultura termica, assolve un grosso ruolo, teoria che in fondo si può estendere all’intera società. […] E nell’ambito dei rapporti globali bisogna considerare il tutto prendendo a modello l’ape. […] Il carattere termico si trova nel miele, ma anche nella cera, nel polline e persino nel nettare, perché l’ape si nutre di ciò che, nelle piante, ha il carattere termico più elevato possibile. Da un punto di vista alchemico troviamo il primo stadio del miele, per così dire quello prodotto dalla pianta stessa, nella parte del fiore in cui avviene il grosso del processo termico vero e proprio, dunque dove hanno origine le sostanze odorose che si disperdono nell’aria e dove si forma il nettare, propriamente miele vegetale. L’ape lo succhia, lo fa passare attraverso il proprio corpo trasformandolo così in qualcosa di superiore ed elevando l’efficacia dell’azione che il miele già possiede di per sé. È evidente, infatti, che in natura esiste un’azione, un’attività generale del miele. L’ape si limita a fare da collettore e a elevarla di grado. Occorre rendersi conto sino in fondo che tutto questo è in certo qual modo un patrimonio culturale. L’arnia intera, così come ci appare oggi, è un prodotto creato dall’uomo per l’allevamento. Le api selvatiche lavorano in modo analogo alle vespe, in maniera piuttosto anarchica. Costruiscono solo piccoli favi molto irregolari. L’arnia quale la conosciamo oggigiorno è una forma culturale antichissima; deriva da una specie di vespe selvatiche che vive nelle piante, perlopiù sugli alberi. E questa struttura si è poi perfezionata. Ciò esprime di per sé una profonda comprensione plastica e, naturalmente, terapeutica. In origine il miele era usato a scopi curativi, e lo è ancora oggi, sebbene venga consumato più come alimento o genere voluttuario. […] Nell’antichità il miele era considerato una sostanza spirituale anche in rapporto alla mitologia, e perciò l’ape era una divinità. Si praticava il culto delle api, era persino molto diffuso: in realtà si trattava di un culto di Venere, però veniva rivolto soprattutto alle api. Non si attribuiva alcun valore al fatto che il miele si mangiasse, si guardava al fenomeno globale come a
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un importante processo che unisce dimensione cosmica e terrestre facendo confluire ogni cosa. […] In fondo anche le mie sculture sono una specie di culto dell’ape: non devono essere interpretate come un’affermazione sui processi biologici all’interno dell’arnia, ma vanno considerate in senso più ampio, estendendo per esempio il discorso al culto dell’ape come espressione del socialismo. Un tempo a La Chaux-de-Fonds c’era la repubblica delle api, uno dei primi movimenti socialisti nacque proprio lì, in Svizzera, dove si fanno gli orologi. Vi si vedono ancora moltissime sculture ai muri delle case che raffigurano api, api dappertutto. Lì l’idea del socialismo ha trovato espressione nel simbolo dell’ape.
Vale la pena seguire il percorso dei pensieri di Beuys, perché in pratica l’artista sviluppa il suo concetto ampliato dell’arte e la teoria della scultura sociale prendendo a modello proprio creature piccole come le api. Nell’intervista concessa alla Rheinische Bienenzeitung emerge la questione della perfetta organizzazione “statale” degli insetti. Beuys non è d’accordo con questa definizione: diversamente dal nostro Stato, infatti, secondo lui quello delle api non è un sistema composto da individui, poiché la singola ape non svolge alcuna funzione individuale, è solo membro di un insieme, l’equivalente di un pelo nel corpo umano. «In questa prospettiva» afferma Beuys «anche il mio corpo è uno Stato che funziona alla 62
perfezione.» Nel corpo vengono assolte funzioni differenti, proprio come nello “stato” delle api. Il cuore ha un compito diverso da quello del cervello, e nell’uomo la funzione dell’ape regina è suddivisa tra questi due organi, mentre l’eliminazione delle cellule morte avviene quotidianamente poiché siamo dotati di una funzione escretiva. Cosa succede, invece, ai fuchi in sovrannumero? Non si può parlare di omicidio di individui, bensì di eliminazione di cellule che prima servivano per portare avanti il processo e che all’occorrenza verranno prodotte di nuovo, a differenza di altre formazioni cellulari che vivono più a lungo. Una cosa analoga avviene anche nella fisiologia umana, quindi bisogna guardarsi dal considerare la singola ape come un individuo. In realtà si tratta di una cellula, proprio come una cellula cutanea, muscolare o sanguigna. Il miglior paragone è forse quello con le cellule sanguigne che circolano nel nostro corpo. Anche in questo caso ne esistono di diversi tipi: alcune vengono rinnovate in continuazione, mentre altre vivono più a lungo. Pure l’essere umano, quindi, è uno sciame d’api, un’arnia.
Nella ricerca di Beuys confluiscono vari influssi mutuati dalla zoologia, dalla medicina e dalle scienze naturali, senza dimenticare la sociologia. Come dimostrano anche le argomentazioni della Rheinische Bienenzeitung, l’influenza più forte è senz’altro quella di Rudolf Steiner, che fu il pirmo a ricondurre la natura
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dell’uomo a quella delle api inspirando a Beuys, con il suo pensiero anticonformista, paragoni altrettanto interessanti fra ape e uomo. E la lepre? La lepre è davvero parte di Beuys. «Non sono un uomo» disse una volta tra il serio e il faceto «sono una lepre.» E un’altra volta arrivò ad affermare: «Sono una lepre arrapata!». La storia culturale della lepre ha origini antichissime: era l’animale sacro ad Ase, dea germanica della primavera e, nella xv provincia dell’Alto Egitto, a Nebet-Unut, dea dalle sembianze umane che portava sulla testa uno stendardo con una lepre distesa. Come riferisce Plutarco, gli egizi le attribuivano proprietà divine in virtù dei suoi eccellenti organi sensoriali e della sua velocità. La catturavano viva e la sacrificavano alla dea della fertilità, come gli antichi greci ad Afrodite. Molti popoli, tra cui gli aztechi e i cinesi, la consideravano un animale lunare perché credevano di scorgere la sua forma nella luna, mentre il Medioevo ne fece un simbolo della resurrezione di Cristo. Dal punto di vista paleontologico l’esistenza della lepre è documentata dall’era eocenica, più o meno cinquanta milioni di anni fa. È un mammifero diffuso in tutto il mondo in circa quarantacinque specie. Sua peculiarità anatomica sono gli arti posteriori allungati che in caso di pericolo la rendono in grado di correre molto velocemente e di deviare all’improvviso dalla direzione di fuga per trarre in inganno l’inseguitore. Le zampe posteriori sono fatte in modo da poter essere richiamate in avanti durante la corsa a fianco di quelle anteriori. Si calcola che l’animale possa superare i sessanta chilometri orari. Beuys, che aveva fatto mettere una statuetta a forma di lepre sul cofano della sua Bentley, attribuiva all’animale della steppa qualità straordinarie. La metteva in rapporto diretto con la nascita e con la terra, in cui lei si nasconde per diventare tutt’uno con essa. Per lui era, inoltre, il simbolo dell’incarnazione ed era anche molto legata alla donna, al parto, al mestruo e a tutte le trasformazioni chimiche del sangue. Ne è un esempio Hasengrab (Tomba di lepre) del 1962-67, che non raffigura una lepre, bensì un ammasso di sostanze chimiche: colori, soluzioni, farmaci, acidi, iodio, uova di Pasqua colorate. Con questa rappresentazione plastica Beuys volle forse portare consapevolmente all’assurdo l’immagine realistica o naturalistica suggerita dal titolo, come pretesto per aprire una breccia nel modo comune e consolidato di vedere e pensare le cose. Certo è che aveva eletto la lepre a creatura con cui ridare nuova vita a rituali e miti ormai dimenticati. Beuys la concepiva di fatto come un organo dell’uomo, un organo esterno. La sua incredibile prolificità, la sua capacità di scartare dalla traiettoria e di vivere tra i confini, la sua provenienza dalla steppa, l’abitudine di nascondersi sottoterra, il caratte-
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re ctonio: tutto ciò lo indusse a considerarla l’animale che meglio esprime la sua vera natura. Era convinto che la lepre, e tutti gli animali con lei, fossero catalizzatori dell’evoluzione umana: «Gli animali si sono sacrificati affinché l’uomo potesse diventare ciò che è».
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L’opera di Joseph Beuys e la sua ricezione sono troppo complesse per poter essere affrontate in questa sede in tutti i dettagli e le sfaccettature: molto è ancora il materiale da scoprire, esaminare, studiare. Stando al suo Curriculum vitae/ Curriculum delle opere, tra l’inizio degli studi all’Accademia (1947) e la morte (1986) Beuys realizzò una settantina di azioni e una cinquantina di installazioni. A ciò si aggiungono circa centotrenta personali e, soprattutto a partire dalla metà degli anni settanta, innumerevoli attività “politiche”: conferenze, dibattiti, colloqui, interviste. Tutto ciò lo consumava, tanto più che vi si dedicò sempre con un’appassionata intensità, persino quando si trattava di una delle molte mostre collettive. Non si può non ripensare alle sue parole: «Mi nutro dell’energia che dissipo». Nella sua opera investì, di fatto, enormi quantità di energia fisica e psichica. Visse sempre al centro dell’attenzione, perennemente sotto i riflettori sin dalle sue prime apparizioni. Le pubblicazioni su di lui e la sua attività sono sterminate. Beuys, l’enigma. Faceva tutto in modo diverso dagli altri, ma ciò che faceva era radicato nella sua vita, nel suo destino: era inconfondibilmente parte di lui, della scultura Joseph Beuys. Sia nelle azioni e installazioni, negli oggetti, nei disegni e nei multipli, sia nella sua attività sociopolitica si avverte la forte volontà di plasmare, di integrare in una forma globale tutti gli aspetti della sua opera variegata. Considerandone l’evoluzione, dalle prime ricerche infantili sulle piante e gli animali dei boschi e dei campi intorno a Kleve agli approfonditi studi di scienze naturali negli anni del liceo e della guerra, non è difficile riconoscere nella sua produzione la forte eco delle sue inclinazioni naturalistiche. Attraverso la natura Beuys traspone, trasfonde nella sua dimensione artistica immagini della natura stessa, di energia, materia, irradiazione, della creazione umana e animale; è arte come la intende lui, Plastik, ampliamento teso a realizzare la scultura sociale. A questa concezione resterà fedele sempre, vedendovi la realizzazione della sua vita artistica e servendosi di tutti gli elementi che soddisfano la sua visione naturalistica del mondo, arricchita
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dall’antroposofia di Rudolf Steiner. Nelle azioni, installazioni e sculture dà concretezza alle sue idee artistiche trasformando materiali energetici: se si fosse limitato a dipingerle, sarebbero rimaste “soltanto” quadri. Invece Beuys usa il grasso che guarisce, il feltro che riscalda, il rame che conduce, il miele che nutre, le batterie che si ricaricano. Utilizza motori, ricevitori, filtri, trasmettitori, condensatori, dinamo, registratori e videoregistratori, telefoni, bottiglie di Leida, radiografie. Lavora con sangue e fango, fasce, cerotti, garze, siringhe, ossa, capelli, unghie, gelatina. «I contenuti di Beuys sono semplici» scrive Franz Joseph van der Grinten nel catalogo pubblicato a Kranenburg nel 1963: Con poca spesa e limitandosi a pochi elementi indispensabili, in un’estrema economia di mezzi, crea forme ruvide e delicate al contempo, poetiche senza eccitare i sensi. Nel suo ascetismo intelligente, esclude i materiali che già di per sé con la loro bellezza potrebbero sedurre lo spettatore. Non si abbandona mai al lusso, né alla fantasticheria o a un incanto fiabesco. Sono lievi, gli accenti posti da Beuys, decisi quel tanto che basta a renderli inequivocabili. Fa risuonare sonorità quasi imponderabili, individua il fascino più recondito del singolo componente e lo rivela nella combinazione con le cose che vi accosta.
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La fantasia di Beuys, ci sta dicendo van der Grinten, gioca un gioco silenzioso, ripiegato su se stesso. Il suo occhio, sottraendosi per metodo alla costrizione del vedere empirico, capta gli impulsi emanati dalle cose cogliendo il momento in cui la loro anima si manifesta: «Dal mondo della sua immaginazione e dei suoi ricordi filtrano associazioni di idee, e la sua mano improvvisa, ricolloca, raggruppa, integra». Che cosa effettivamente Beuys riuscisse a mettere insieme è ben descritto dal suo grande estimatore Willi Bongard su Die Zeit del 6 settembre 1968: Ratti putrefatti in erba secca. Un Frankfürter Würstchen verniciato di pittura marrone per pavimenti. Bottiglie, grandi e piccole, aperte e chiuse. Api morte su una torta. Accanto, una forma di pane integrale fasciata a una estremità con del nastro isolante nero. Una cassetta di latta piena di sego, con un termometro infilato dentro. Crocifissi di feltro, legno, gesso, cioccolata. Blocchi di grasso grandi come mattoni sulle piastre di un vecchio fornello elettrico. Un biberon. Barrette di cioccolato marroni, riverniciate nella stessa tinta. Pezzi di feltro grigio. Pile di vecchi giornali legati con lo spago e disegnati a croci marroni. Salsicce ammuffite. Due paioli attaccati a un pezzo di ardesia con un filo metallico. Unghie dei piedi tagliate. Un vaso da conserve pieno di pere. Stanghe di rame avvolte nel feltro. Estremità di salami. Gusci di uova colorate per Pasqua. L’impronta di una dentiera nel sego.
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Questa la reazione alla mostra della collezione Ströher, tenuta nell’agosto 1968 al Kunstverein di Amburgo. L’anno precedente Karl Ströher, industriale di Darmstadt, aveva acquistato in blocco i pezzi dell’esposizione di Beuys al Museo civico di Mönchengladbach: ben centoquarantadue! Il mecenate, allora settantaseienne, motivò così il suo gesto: «Dopo vari incontri con Beuys, sono assolutamente convinto che sia pressoché l’unico a esprimere la specificità della nostra epoca». Il monsignore viennese Otto Mauer, figura leggendaria dell’avanguardia che fondò e diresse la celebre galleria Nächst St. Stephan a Vienna, in una conferenza su Beuys a Mönchengladbach (1967) spiegò che l’artista mutava radicalmente il senso e la destinazione degli strumenti di cui si serviva, sì, li «transfinalizzava», volendo utilizzare un concetto dalla teologia eucaristica. Assegnava dunque un significato del tutto nuovo ai suoi oggetti. Mauer definì il suo lavoro «opprimente, kafkiano». Per lui Beuys non era un progressista, ma apparteneva piuttosto «al nostro mondo antico, alla sua saggezza». La carriera di Beuys come “azionista” cominciò nel 1962 con l’idea del Pianoforte di terra; sebbene non realizzata, segnò l’ingresso dell’artista nel movimento Fluxus. Beuys aveva in mente di proporre un’azione per pianoforte utilizzando uno strumento reale o una Plastik di terra: avrebbe potuto essere un tipico exploit alla Fluxus. All’epoca era già in contatto con il coreano Nam June Paik, esponente di primo piano di detto movimento, e per tutti coloro che vi appartenevano era assodato che Beuys fosse uno di loro. Del resto, lo stesso Beuys sentiva di farne parte. Erwin Heerich, l’amico calmo ed equilibrato, affermò: L’incontro con Fluxus mutò in modo determinante la ricerca di Beuys su vita e arte. Vi scorse una corrente vitale che liberò in lui il nuovo: fece emergere l’altro lato di Beuys, la sua potente intuizione, la sua grande predisposizione per l’esibizione, per la mediaticità.
Ma che cos’è esattamente Fluxus? È un movimento neodadaista nato nei primi anni sessanta allo scopo di fluidificare – di qui il nome – i confini tra le arti e tra arte e vita, di stravolgere il concetto di arte tradizionale, di armonizzare arte ed esistenza. Il principale ideologo del movimento, George Maciunas, si ispirava a compositori d’avanguardia come John Cage e Paik e a performer come Wolf Vostell, Emmett Williams, Dick Higgins, George Brecht, Robert Filliou, Daniel Spoerri e Yoko Ono. Fluxus si differenzia dall’happening poiché in quest’ultimo, ideato dall’americano Allan Kaprow alla metà degli anni cinquanta, il pubblico partecipa attivamente alle azioni come attore, mentre il primo ha carattere di rappresentazione: gli artisti agiscono su un palcoscenico davanti al pubblico. Ma-
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ciunas, uomo di cultura poliedrica (come anche Kaprow), nato in Lituania e morto a quarantasette anni a New York nel 1978, affermò che Fluxus perseguiva scopi «sociali, non estetici»: in ultima istanza, si trattava di eliminare le belle arti, concentrandosi piuttosto su «finalità sociocostruttive, […] per esempio le arti applicate». In Fluxus Beuys trovò senza dubbio una base artistica adeguata. Superata la grave crisi esistenziale, in quegli anni era già molto impegnato a formulare la sua specifica visione dell’arte e della creatività. Era giunto alla conclusione che l’incanto del Dadaismo si era spezzato da tempo e il nuovo compito dell’arte era riflettere le condizioni di una diversa realtà sociale. In questa situazione il movimento neodadaista Fluxus gli sembrò, almeno all’inizio, lo strumento più adatto. Oltre a Paik, Beuys conobbe Maciunas e si inserì in fretta nella cerchia dei fluxisti, dei quali apprezzava la trasversalità, la leggerezza delle azioni e la vena di improvvisazione: a parte i “mobili” grandi, come pianoforti, tavoli, scale a pioli, ciascun attore poteva portare in scena ciò che preferiva. Nel 1963 Beuys organizzò il primo concerto Fluxus all’Accademia di Düsseldorf: l’evento del 2 e 3 febbraio si svolse all’insegna del motto “Festum fluxorum Fluxus”. Vi parteciparono tutte le personalità di rilievo del movimen120
to, tra cui George Brecht, Alfred E. Hansen, Dick Higgins, Arthur Köpcke, La Monte Young, George Maciunas, Nam June Paik, Tomas Schmit, Daniel Spoerri, Wolf Vostell, Robert Watts ed Emmett Williams. La prima sera Beuys eseguì una Komposition für zwei Musikanten (Composizione per due musicisti), la seconda una Sibirische Symphonie, 1. Satz (Sinfonia siberiana, primo tempo), in cui si presentò per la prima volta con una lepre morta. Improvvisò un movimento, poi mise in sottofondo un brano di Erik Satie, appese la lepre a una lavagna, preparò il pianoforte con mucchietti d’argilla, infilò un rametto in ognuno di essi, fissò un filo metallico che collegasse il pianoforte alla lepre ed estrasse il cuore dell’animale. Con questa azione Beuys si differenziò subito dai suoi compagni di Fluxus: era una provocazione. Anche se la lepre era morta, la violenza dell’operazione lasciò senza fiato molti spettatori. Lo stesso Beuys la considerò una rottura, per se stesso e rispetto a ciò che chiamava “arte associativa”. In linea di principio era contrario ad attivare il pubblico in modo avventato, ma era chiaro che sin dall’inizio aveva cercato lo choc per mettere in moto un processo creativo. Vedeva le azioni come una sorta di terapia e riteneva che le interpretazioni – soprattutto le autointerpretazioni – fossero antiartistiche perché nullificavano l’efficacia dell’opera. La partecipazione al Festival der neuen Kunst, ospitato nell’aula magna del Politecnico di Aquisgrana il 20 luglio 1964, promosse Beuys tra i principali “azio-
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nisti” internazionali. Sottotitolo della manifestazione: “Actions/Agit-Pop/DéCollage/Happening/Events/Antiart/L’Autrisme/Art Total/Refluxus”. Beuys vi presentò le seguenti opere: Kukei, akopee-Nein!,* Braunkreuz (Croce marrone), Fettecken (Angoli di grasso), Modellfettecken (Angoli di grasso modello). Ai tempi Helmut Rywelski di Art intermedia, l’ex galleria di Beuys a Colonia, descrisse così lo spettacolo sulla rivista Neues Rheinland: Un’assurdità: il professor Beuys dell’Accademia di Düsseldorf è venuto ad Aquisgrana per riempire un pianoforte di detersivo, marca Omo. L’attore ha alzato il coperchio del pianoforte, ha rovesciato dentro il detersivo e ha schiacciato i tasti a casaccio, ma non era soddisfatto della qualità dei suoni. A questo però si poteva rimediare. Ha trovato un cestino pieno di immondizia e lo ha svuotato nel pianoforte. A quel punto sembrava che i suoni cominciassero a piacergli, benché si trattasse di rumori che provenivano dal pianoforte solo per modo di dire. Il professore di Düsseldorf si è poi procurato un trapano elettrico e ha forato il legno dello strumento: quella sì che era musica per le sue orecchie. Onde evitare malintesi: i fori del professor Beuys seguivano delle note, vale a dire delle macchie marroni spennellate su uno spartito. Potrei aggiungere altre assurdità, ma non riuscirei comunque a dare l’idea di ciò che volevano gli attori dell’happening. Gli studenti di Aquisgrana hanno impedito agli artisti invitati di arrivare alla fine. Non si è capito quale fosse lo scopo dell’happening, se le assurdità volessero far riflettere o se magari la forma dell’happening dovesse infine venire respinta come una follia insensata, perché gli studenti hanno censurato la cosa a suon di pugni: questa è la problematica della sera del 20 luglio 1964 ad Aquisgrana.
Quella sera successe anche dell’altro: uno degli attori fece ascoltare una registrazione arrangiata del famigerato discorso pronunciato da Joseph Goebbels, ministro della Propaganda di Hitler, al palazzo dello sport di Berlino. La sua voce sovrastò il tumulto dell’aula magna: «Volete la guerra totale?». Scoppiò un baccano indescrivibile. Nel mentre Beuys stava facendo sciogliere blocchi di grasso su un fornello. Ci fu un’esplosione, una bottiglia di acido si rovesciò, gli spettatori presero d’assalto il palcoscenico, uno studente scoprì di avere un buco nei pantaloni e diede la colpa all’artista. Questi lo respinse e lo studente indignato gli sferrò un pugno sul naso, che cominciò a sanguinare. In quello stesso istante Joseph Beuys diventò leggenda. Sì, perché il caso volle che avesse con sé un crocifisso di legno con la base estensibile. Così levò al cielo la “croce
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I titoli di alcune opere di Beuys, come per esempio Kukei, akopee-Nein!, sono intraducibili. [N.d.T.]
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pneumatica” con la sinistra e tese la destra in segno di saluto con il naso che grondava sangue. Un fotografo assisté alla scena e immortalò l’aura sciamanica dell’artista. La manifestazione fu interrotta ben prima della fine: qualcuno chiamò la polizia, i danni erano seri. Come se non bastasse, l’Arbeitskreis 20. Juli 1944* di Berlino sporse denuncia presso il tribunale di Aquisgrana contro il presidente del Comitato studentesco, tutti gli artisti coinvolti ed espressamente il professor Joseph Beuys per “grave turbativa dell’ordine pubblico”. Gravi disturbi dell’ordine pubblico dovettero temere anche i responsabili del ministero degli Interni della Renania settentrionale-Vestfalia quando, esaminando il curriculum dell’accademico ribelle Joseph Beuys accluso al programma della manifestazione di Aquisgrana, vi scoprirono il seguente punto: 1964, Beuys suggerisce di aumentare di 5 cm l’altezza del Muro di Berlino (per migliorarne le proporzioni!). Alla richiesta di chiarimento inviatagli, in una nota del 7 agosto indirizzata al ministro degli Interni Beuys rispose: [Il Muro] è un’immagine e come tale va considerato. Solo in caso di emergenza o per esigenze didattiche si ricorre all’interpretazione. Non mi capacito di come, senza interpretazione, non riusciate a coglierne il senso palese. Risposta interrogativa n. 1: È un paradosso con cui gli artisti di tutti i tempi hanno lavorato
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per accedere a uno strato più profondo? Risposta interrogativa n. 2: È un segno convenzionale? Faccio un cenno a indicare che quanto meno le risposte non sono sbagliate, però adesso prendo le redini della cosa affinché non prosegua sui binari del paradosso. Comincio in modo del tutto real-banale (metodo dell’understatement!). Mi pare proprio che sia ancora consentito prendere in esame il Muro di Berlino concentrandosi unicamente sulle proporzioni della costruzione. Questa prospettiva lo sdrammatizza subito. Con una risata interiore. Distrugge il Muro. Non si resta più attaccati al muro fisico, si è attratti verso quello spirituale, per superarlo, ed è questo che conta. Innanzitutto, dunque, il muro si supera attraverso di me, per me. Motto: Se al governo ci fosse stato il mio cuore, il Muro non sarebbe stato nemmeno costruito. Domanda che mi sorge spontanea: Quale parte dell’essere, mio o degli altri uomini, ha fatto sì che sorgesse questa cosa? In che misura ognuno di noi ha contribuito e continua a contribuire a renderla possibile? Ciascun uomo è sufficientemente interessato a farla scomparire? Che genere di formazione
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Associazione di reduci di guerra e perseguitati dal nazismo nata per commemorare la Resistenza antinazista interna che prende il nome dalla data del celebre attentato fallito al Führer di Claus von Stauffenberg del 20 luglio 1944. [N.d.T.]
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antiegoistica, antimaterialistica e spirituale ricevono i giovani rispetto alla realtà per poter superare il muro? Quintessenza: Il Muro come tale è irrilevante. Non parlatene così tanto! Create le basi per una morale migliore attraverso l’autoeducazione e tutti i muri spariranno. Ci sono già così tanti muri fra me e te. Di per sé un muro è molto bello, se le proporzioni sono giuste. Quando vengo a Berlino, dopo cinque minuti al massimo vengo circondato da gente che mi chiede: «è già stato al Muro?». Sì, conosco il muro per esperienza interiore. So precisamente cos’è, quel muro. Inoltre mi dichiaro disposto a eliminare il problema del muro anche dalla mia vita, se me ne si darà l’opportunità. Da molti anni, infatti, gli esiti delle ricerche dimostrano che è possibile. Ai risultati già sperimentati se ne sono aggiunti di nuovi, che non si limitano a voler essere buoni, ma lo sono davvero. Contengono un’energia terapeutica. Si è già manifestata e si manifesterà sempre più.
Per molti aspetti Aquisgrana segnò quindi una svolta nel percorso di Joseph Beuys: capito di non poter seguire la tendenza neodadaista di Fluxus, l’artista sentì la mancanza di un programma, di uno scopo. La provocazione, da sola, non gli bastava. Così contrappose alle rappresentazioni fluxiste la propria “scarica di energia”, con cui sperava di raggiungere un ampliamento della consapevolezza. Era perfettamente sicuro di sé: la visione più profonda, la più grande, era la sua. Inoltre aveva l’indole del “guerriero solitario”, un talento sciamanico di quelli travolgenti. Come si era visto alle prime esibizioni con Fluxus, finiva sempre per emergere dal gruppo e, volente o nolente, per diventare il fulcro intorno a cui ruotava ogni cosa: prima da liceale, poi da studente e infine da professore universitario. Era inevitabile, quindi, che entrasse in contrasto con gli altri fluxisti. Beuys era condannato a seguire la sua oscura strada solitaria. Aveva cominciato a farsene una ragione già nel 1959, quando affrontò per la prima volta il progetto della Transsibirische Bahn (Ferrovia transsiberiana), una baracca in cui non si poteva entrare, ma soltanto guardare attraverso lo spioncino posto su una delle pareti. Nel 1961 realizzò l’omonima scultura e, nel 1970, basandosi sulla stessa idea Ole John girò il video Ferrovia transsiberiana con Beuys nel ruolo di protagonista. Come già Andy Warhol negli anni sessanta aveva ripreso con una cinepresa fissa l’Empire State Building di New York e filmato una stanza d’albergo dal buco della serratura, in Ferrovia transsiberiana la macchina da presa coglie la stanza da uno spioncino, che equivale all’occhio dello spettatore. Il senso di isolamento è perfetto. Di tanto in tanto entra Beuys, avvolto in una lunga pelliccia, si ferma davanti alla parete anteriore, ci picchia contro. Per il resto la scena è vuota. Verso la fine della pellicola di ventidue minuti l’inquadratura comincia a oscillare avanti e indietro, molto lentamente, poi gli oggetti si sdoppiano. Mistero.
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La prima esibizione di Beuys per Fluxus da solista, Der Chef (Il capo), si tenne nell’agosto 1964 a Copenhagen, al castello di Charlottenburg; il 1° dicembre Beuys la replicò alla galleria René Block di Berlino: Der Chef, FluxusGesang (Il capo, canto Fluxus). Il pezzo era concepito per due esecutori, ma il compagno di Beuys, Robert Morris, si trovava molto lontano, a New York. L’americano, un appassionato del feltro come Beuys, presentò lo stesso Canto Fluxus oltreoceano proprio nello stesso momento, per così dire in sincronia. A Berlino la rappresentazione si svolse nel modo seguente: alle 16 in punto Beuys si avvolse in un rotolo di feltro, alle cui estremità giaceva una lepre morta per parte. Sulla parete a sinistra era disposta una striscia di grasso vegetale parallela al battiscopa, su di essa una ciocca di capelli e, accanto, due unghie. Tre angoli della stanza erano occupati da altrettanti “angoli di grasso”, nel quarto c’era un quadrato dello stesso materiale. A sinistra, vicino al rotolo con Beuys, una barra di rame anch’essa avvolta nel feltro, dall’altro lato un amplificatore. Beuys emetteva dei rumori a intervalli irregolari attraverso il microfono e l’amplificatore: lo si sentiva respirare, rantolare, tossire, sibilare, fischiare, sospirare. In aggiunta, un registratore magnetico diffondeva, sempre a intervalli irregolari, composizioni di Eric Andersen e Henning Christiansen. Otto 124
ore dopo, a mezzanotte in punto, Beuys uscì dal rotolo di feltro, sorridente e molto accaldato, e spiegò a chi voleva ascoltarlo che si era trattato della dimostrazione di un principio plastico, di dare informazioni in vece delle lepri morte, per esempio che il linguaggio umano contiene anche elementi di quello animale. D’altra parte Beuys sottolineò che il titolo, Il capo, poteva essere considerato una specie di codice, come molti titoli delle sue azioni. Il capo è appunto quello che ha l’ultima parola, ma è anche ciascuno di noi, se prendiamo sul serio l’autodeterminazione. Il capo è, per ciascuno, la propria testa. Il 5 giugno 1965 Beuys partecipò all’happening 24-Stunden (Ventiquattro ore) alla galleria Parnass di Wuppertal con l’opera und in uns… unter uns… landunter (e in noi… sotto di noi… sott’acqua). Al suo fianco c’erano Bazon Brock, Charlotte Moorman, Nam June Paik, Eckart Rahn, Tomas Schmit e Wolf Vostell. Quest’ultimo, disteso sul pavimento, conficcava spilli in polmoni di animali, dopo aver disposto per la stanza del filo spinato che, collegato a una vecchia lavatrice, si muoveva. Alcuni suoi collaboratori erano sdraiati sugli scaffali come merci, Bazon Broch stava a testa in giù mentre dietro a una finestrella sfilavano, per un quarto d’ora ciascuna, lettere dell’alfabeto collocate su un disco rotante. Al termine delle ventiquattro ore, le lettere avevano composto la frase: Nach experimentellen Ergebnissen tötet ein Gramm Kobragift 83 Hunde, 715 Ratten, 330 Kaninchen oder 143 Menschen (Secondo i dati sperimentali, un grammo di veleno di cobra uccide ottantatré cani, settecentoquindici topi, trecentotrenta conigli o centoquarantatré persone), la didascalia apposta sulla gabbia di un
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cobra dello zoo di Francoforte. Rahn emetteva suoni con un altoparlante, un contrabbasso e un flauto dolce; Schmit era seduto in un cerchio di secchi di plastica e interrompeva la rappresentazione ogni qual volta entravano degli spettatori. Paik comandava un robot fatto di rottami e Charlotte Moorman, avvolta nella plastica, suonava il violoncello. Beuys trascorse le ventiquattr’ore perlopiù accovacciato su una cassetta di arance; origliava in una scatola di grasso o appoggiava la testa a una scultura di margarina installata accanto a lui, su un semplice podio; ai suoi piedi c’erano due blocchi di margarina a forma di bassi sgabelli. Di tanto in tanto cercava di prendere, da seduto, degli utensili sparsi tutt’intorno, ma invano. Poi si alzò, impugnò una delle due vanghe a due manici con la pala a forma di cuore e la levò verso l’alto. Mantenne a lungo la posa. Il 26 novembre 1965 Beuys fece della lepre la protagonista di un’azione intitolata Come spiegare i quadri a una lepre morta. La rappresentazione si svolse alla galleria Schmela di Düsseldorf, che sostenne da subito e con vigore l’opera di Beuys contribuendo largamente a diffonderne la fama. L’artista era seduto su una sedia in un angolo della galleria vicino alla porta di ingresso. Si era colato del miele sulla testa e vi aveva applicato sopra foglie di oro vero. Teneva in braccio una lepre morta e la guardava fisso. Poi si alzò e prese a girare per la sala, sempre con la lepre morta in braccio: la avvicinava molto ai quadri alle pareti, sembrava che le parlasse. Di tanto in tanto interrompeva la visita guidata e scavalcava insieme alla lepre un abete secco che si trovava a terra, in mezzo alla galleria. Il tutto era di una tenerezza indescrivibile e trasmetteva grande concentrazione. Forse l’azione della lepre è quella in cui Beuys ha saputo esprimere con più semplicità e chiarezza ciò che lo (com)muoveva. Lui stesso affermò che, con le sue azioni e installazioni, voleva suscitare delle “controimmagini” negli spettatori, provocare qualcosa dentro di loro che generasse una “scarica di energia”. Cosa doveva produrre quella scarica? A Beuys era chiaro che le sue “immagini”, o meglio “controimmagini”, liberavano nelle persone energie mentali e spirituali che l’abitudine tende a soffocare. Il suo scopo era proprio concretizzare queste immagini, e non rappresentare simbolicamente processi e attività. «Non lavoro con i simboli» insisteva «ma con i materiali.» Si serviva dei materiali e di determinate combinazioni degli stessi per creare “nature morte” concrete, ossia immagini in grado di rivelare nuove connessioni tra essere e tempo. A volte si tratta di combinazioni improbabili, ma anche i cavalli blu non esistono, eppure Franz Marc li ha dipinti. La natura è piena di misteri. Generando controimmagini, Beuys vuole espressamente oltrepassare dei confini: ampliare gli orizzonti dell’arte, e di conseguenza il nostro modo di vedere, è uno scopo più che convincente. Così Beuys può permettersi di affermare seriamente che «il più grande
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compositore contemporaneo è il bambino focomelico».* In un’azione tenuta nell’aula magna dell’Accademia di Düsseldorf il 7 luglio 1966, l’artista collocò questa frase al centro di un diagramma sviluppato su una lavagna a muro. Sul palco dell’aula c’era un pianoforte a coda avvolto nel feltro, sotto il quale Beuys aveva sistemato un’anatra giocattolo che starnazzava e sbatteva le ali. Con il pianoforte privato delle sue funzioni, muto, per così dire sofferente, l’orribile schiamazzo dell’anatra e il diagramma, Beuys volle proporre una controimmagine della tristezza, del lutto presente nel destino del bambino focomelico, in cui l’esperienza del dolore interiore ed esteriore è “composta” in unità. «Joseph Beuys. A giudicare dall’aspetto, è uno di quei personaggi fantastici a cavallo tra il clown e il gangster.» Così comincia il resoconto dello scrittore danese Troels Andersen dell’azione Eurasia und 34. Satz der Sibirischen Symphonie (Eurasia e trentaquattresimo movimento della sinfonia siberiana) – tema introduttivo: Kreuzesteilung o The Division of the Cross (Divisione della croce) – ospitata dalla galleria 101 Gruppe, Handwagen 13 a Copenhagen il 14 e 15 ottobre 1966. «Non appena entra in azione» prosegue Andersen Beuys si trasforma, si fa risucchiare dall’esibizione, è intenso e suggestivo. Si
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serve di simboli molto semplici. Il pezzo più lungo delle due serate è stato il brano di un’ora e mezzo (il Trentaquattresimo movimento, appunto) tratto dalla sua Sinfonia siberiana. Il tema introduttivo era La divisione della croce. Beuys, inginocchiato per terra, spostava lentamente due piccole croci sul pavimento fino a una lavagna. Su ciascuna croce era stato montato un orologio con la suoneria impostata. Quindi ne ha disegnata un’altra sulla lavagna, poi ne ha cancellata metà e vi ha scritto sotto «Eurasia». Nel resto del pezzo Beuys ha manovrato una lepre morta, con le zampe e le orecchie prolungate da bacchette di legno nere lungo una linea tracciata a terra. Quando teneva la lepre sulle spalle, le stecche sfioravano il pavimento. Beuys si è spostato dalla parete fino alla lavagna, dove ha posato la lepre per poi riprenderla in mano. Ripercorrendo il tratto al contrario, sono successe tre cose: Beuys ha sparso della polvere bianca tra le zampe dell’animale, gli ha messo un termometro in bocca e ha soffiato in un tubo. Poi si è voltato verso la lavagna con la mezza croce e ha mosso le orecchie alla lepre, mentre lui stesso librava un piede a cui era fissata una lastra di ferro sopra una lastra dello stesso genere
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Letteralmente, «figlio del Contergan», ossia bambino nato deforme a causa del talidomide, principio attivo del Contergan, il farmaco venduto negli anni cinquanta e sessanta come rimedio sedativo, anti-nausea e ipnotico soprattutto alle donne in gravidanza. [N.d.T.]
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posta sul pavimento. Di tanto in tanto colpiva energicamente la lastra con il piede ferrato.
Due settimane dopo Beuys replicò Eurasia alla galleria René Block di Berlino, in questo caso omettendo La divisione della croce e sostituendo il trentaquattresimo con il trentaduesimo movimento della Sinfonia siberiana 1963. Nella sua analisi, Andersen definisce l’azione della divisione della croce una «scissione tra Oriente e Occidente, tra Roma e Bisanzio» e interpreta la polvere bianca come neve, il termometro come freddo e il soffio nel tubo come vento: insomma, tutto ruota intorno alla Siberia. Persino la lastra di ferro, che Beuys aveva al piede anche mentre spiegava i quadri alla lepre morta, secondo Andersen è legata a quel contesto: «Si cammina a fatica e la terra è gelata». Strettamente collegata a Eurasia è Bastone eurasiatico, pezzo che Beuys mise in scena per la prima volta il 2 luglio 1967 nell’azione Eurasienstab fluxorum organum op. 39 alla già citata galleria viennese Nächst St. Stephan, con l’accompagnamento della musica per organo del compositore Henning Christiansen. Il bastone, in rame con una normale impugnatura da passeggio, era lungo 3,64 metri e pesava cinquanta chili. Beuys plasmò un angolo di grasso e fissò quattro angoli di feltro tra pavimento e soffitto a formare uno spazio più o meno cubico. Poi tirò fuori il bastone dall’involucro di tela cerata e lo avvicinò ai quattro angoli di feltro, lo portò con grande fatica in posizione orizzontale, lo orientò verso i quattro punti cardinali e lo mise in rapporto all’angolo di grasso dicendo di tanto in tanto «Bildkopf – Bewegkopf – der bewegte Isolator».*∗ Beuys e Christiansen si esibirono insieme anche il 20 marzo 1967 alla galleria Franz Dahlem di Darmstadt per l’inaugurazione della mostra “Fettraum” (Spazio di grasso) con l’azione Hauptstrom (Corrente principale), un concetto fondamentale per l’artista tedesco. Mentre Christiansen trafficava con quattro nastri registrati (frammenti di musica e parole), Beuys agì per dieci ore in una stanza lungo le cui pareti aveva eretto un muro di margarina che modificava senza posa. Di tanto in tanto mordeva il grasso e deponeva a terra le impronte che ne ricavava o se lo premeva negli incavi delle ginocchia e sotto le ascelle, ottenendo sculture che pure disponeva sul pavimento. Di tanto in tanto si metteva a saltellare per la stanza come una lepre. In queste numerose azioni, Beuys operava in diversi modi. A volte ripeteva il repertorio, altre lo variava. Utilizzava accessori di scena ormai noti anche in contesti differenti da quelli usuali. Il suo talento nell’armonizzare i mate-
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Si tratta di espressioni composte quasi intraducibili che compongono una sorta di formula magica: testa-immagine (ma anche testa votiva, per esempio) – testa mobile (ma anche testa motore) – isolatore animato (o mosso). [N.d.T.]
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riali più disparati in modo da far nascere sempre nuove tensioni e riferimenti inaspettati è sconvolgente. Ogni cosa si trasforma e sfuma nell’altra senza soluzione di continuità. L’elemento di un’azione veniva riutilizzato, alla stregua di un “relitto”, all’interno di un’installazione, oppure confluiva in una mostra: Fluxus, quindi, anche nel senso della componibilità, della compenetrazione dell’opera di Beuys in ogni sua parte. Con Christiansen Beuys tenne un altro concerto Fluxus nel marzo 1969 al Museo civico di Mönchengladbach intitolato …oder sollen wir es verändern? (…o dobbiamo cambiarlo?). Beuys suonò il pianoforte, il suo compagno il violino. Il primo prese dello sciroppo per la tosse e si mise delle gocce nel naso, il secondo accese un registratore magnetico da cui si sentì recitare una voce maschile: «Ssì-sì-sì-sì-sì, nno-no-no-no-no». E poi versi di uccelli, sirene, rumori di strada, suoni elettronici. Beuys suonò un flauto per bambini e di tanto in tanto il pianoforte, prese di nuovo lo sciroppo per la tosse, tossì al microfono, guarnì il leggìo con dei crauti. Nel frattempo Christiansen produsse suoni striduli al violino, fumò la pipa, afferrò un violino verniciato di verde, ci raschiò sopra, schiacciò palle di gomma. Una volta Beuys spiegò che anche l’acustica è scultura (Plastik) e che la scultura si può sentire. Presentò spesso sculture acustiche, come alla festa del128
le matricole dell’Accademia nell’autunno 1967. Beuys arrivò con un’ascia in mano e inaugurò l’evento con un assolo di dieci minuti, composto da latrati, fischi, sibili e bramiti al microfono. Chiunque abbia mai visto Beuys parlare o fare versi durante le azioni non può non aver notato come il suo stesso modo di esprimersi fosse plastico. Alla fine di maggio 1969 Beuys si esibì tra ospiti illustri come J.W. Goethe, Claus Peymann, William Shakespeare e Wolfgang Wiens a experimenta 2, un evento organizzato a Francoforte dall’Accademia tedesca di arti figurative. Sul palcoscenico c’era un cavallo bianco in carne e ossa che mangiava fieno in un recinto di funi. Beuys agì davanti a lui con microfono, zucchero e margarina; ogni tanto si appoggiava un pezzo di ferro sulla testa e suonava un piatto da orchestra. Coperto da una lunga pelliccia citò, interpretò e commentò a gesti brani del Tito Andronico di Shakespeare e della Ifigenia in Tauride di Goethe; in sottofondo, montaggi di registrazioni di entrambi i drammi, declamati con voce monotona da Peymann e Wiens. Così il drammaturgo Botho Strauss descrisse l’azione Ifigenia/Tito Andronico nello speciale “Chronik und Bilanz eines Bühnenjahres” (Cronaca e bilancio di un anno di palcoscenico) sulla rivista Theater heute: Beuys ci pone di fronte a immagini metaforiche: il cavallo è la sua epifania personale; lo aveva continuamente davanti agli occhi mentre leggeva i testi. Nel cavallo si materializzano un’interpretazione e un medium tra l’azione e
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Beuys. Il testo scorre come un misto di declamato-registrato, un continuum sonoro non plastico, indifferenziato, evidentemente letto al microfono da grande distanza; si percepisce soprattutto il ritmo con cui la drammaturgia avanza verso la fine. I temi del collage sono noti, se uno si ricorda le due opere li ha ben presenti: barbarie e dominio come contenuto e come forma. Beuys non spiega il testo e non lo illustra, non è una partitura stimolante per lui, non imbriglia né guida il suo comportamento; eppure è materiale acustico, un prodotto pronto a cui si espone, che affronta in vari modi, che non può interiorizzare. Recitando il testo lo trasferisce nella propria sfera, nell’ambito di una spontaneità antiteatrale e di un imbarazzo tanto rilassato che nessuno si aspetterebbe di trovare sul palcoscenico. La sua arte priva di finzione si pone contro il teatro, contro lo spazio tradizionale e la fantasia letteraria. Beuys ha le mani puntate sui fianchi, passeggia avanti e indietro davanti al microfono, caratterizza il movimento come stereotipo a lui congeniale tentando di imitare il volo di un uccello, facendo gesti emblematici come accovacciarsi e portare le palme delle mani rovesciate alla fronte e al mento in un atto che ricorda le danzatrici indiane o qualcosa del genere. Tutte le sue azioni sembrano prive di un progetto, intuitive. A ciò si aggiunge, in movimenti che si susseguono in controllata scioltezza, la capacità di giocare per contrasti con il testo tradizionale e il suo andamento monotono.
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Nell’articolo “Titus, Iphigenie und das Pferd” (Tito, Ifigenia e il cavallo), apparso su Die Zeit del 13 giugno 1969, lo scrittore Peter Handke espresse invece le seguenti riflessioni: Una cosa è certa: quanto più gli avvenimenti vengono messi in scena osservando una certa ermetica distanza, tanto più lo spettatore può riferire i concetti astratti alla propria situazione specifica in modo chiaro e razionale. […] Gli avvenimenti ermetici della produzione di Beuys si prestavano più di qualsiasi altra rappresentazione di experimenta a imporgli questi pensieri […]; e anche lui, invece di assumere un atteggiamento ermetico e il più distante possibile, talvolta mostrava reazioni banali nei confronti del pubblico, applaudendo a sua volta quando la gente batteva le mani perché il cavallo orinava. Il suo passeggiare, il suo accovacciarsi, il suo bel modo dilettantesco di ripetere i versi avrebbero potuto essere molto più marcati, molto più disperatamente illusionistici. […] Quanto più l’avvenimento si allontana, però, tanto più irrilevanti diventano queste anomalie e, per contro, tanto più il cavallo, l’uomo che passeggia sul palcoscenico e le voci dagli altoparlanti vanno a comporre un’immagine forte, che potremmo definire ideale. Nel ricordo sembra marcata a fuoco nella propria vita, suscita nostalgia e anche il desiderio di lavorarci: infatti inizia ad agire dentro di noi solo a posteriori. E ci coglie una calma
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eccitata al pensiero che ci attivi, è così dolorosamente bello il fatto che diventi utopica, e dunque politica.
All’Edinburgh College of Art si svolse nell’agosto 1970 l’azione Celtic (Kinloch Rannoch), Schottische Symphonie [Celtic (Kinloch Rannoch – un paesino della Scozia –), Sinfonia scozzese]. Ad affiancare Beuys c’era sempre Henning Christiansen. Beuys raccontò a Hagen Lieberknecht che, non appena giunse sul posto, fiutò l’aria, rizzò le antenne e si sentì subito in sintonia con il luogo: La Scozia, la Tavola rotonda di re Artù e la saga del Graal li avevo già dentro da molto tempo. Lì i vari elementi si incontrarono e vennero in superficie. Grazie al lavoro preliminare. Non va considerato come una semplice partitura. Il lavoro preliminare è inseparabile dalla mia vita.
Per l’azione Beuys utilizza mangiacassette, registratori a nastro, proiettori, un altro pianoforte, un microfono, un giavellotto, un bastone, un’ascia, un grande piatto d’argento, una lavagna a muro, una scala a pioli, della gelatina. La sala è buia, un registratore magnetico riproduce brani suonati al pianoforte. Dalla punta del giavellotto pende un filo rosso: sangue. Beuys traccia un diagramma sulla lavagna posata a terra, la sposta per la stanza con il bastone, fa 130
segno di proiettare il video Bastone eurasiatico con un sottofondo musicale tratto da fluxorum organum. Nel prosieguo dell’azione, all’improvviso si vede Beuys al centro della stanza che si contorce, salta su un piede solo, tiene il bastone sulla schiena, se lo infila tra le gambe da davanti, fa le smorfie e contorsioni più indiavolate, ride. Poi introduce nuovi elementi, per esempio una pellicola girata nelle Highlands con Beuys stesso e altri interpreti: Rannock Moor, musica di Arthur Köpcke. Le note dell’organo rimbombano dagli altoparlanti, risuonano grida. Beuys sale sulla scala e raschia pazientemente, pezzo per pezzo, mucchietti di gelatina dalle pareti gettandoli sul piatto d’argento che tiene in equilibrio sulla mano sinistra. Quando ha finito, mette via la scala, leva il piatto sopra la testa e si versa addosso la gelatina vischiosa. Posa il piatto, alza la lavagna con il diagramma, prende il giavellotto con la destra e rimane immobile in quella posizione per un’ora. Beuys e Christiansen replicarono il pezzo dieci volte in cinque giorni, sempre in eventi “privati”, come contributo al Festival di Edimburgo. All’inizio di aprile 1971 ripeterono l’azione con il titolo Celtic +
nei locali della Protezione
civile del Comune di Basilea, benché con modifiche considerevoli rispetto alla precedente. A Basilea Beuys esordisce lavando i piedi a sette persone: pur circondato dalla calca degli spettatori, porta a termine lo spettacolare primo atto con grande disciplina. Ciò che segue è quasi identico alla rappresentazione di Edimburgo, tranne il fatto che all’inizio Beuys fa fatica a muoversi tra la fol-
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la nel modo che ritiene più appropriato. Il pubblico comincia a diradarsi solo quando il performer si mette a raschiare la gelatina dalle pareti e la depone sul piatto d’argento. Poi si rovescia addosso la massa gelatinosa, solleva oltre la testa la lavagna dove è raffigurato il Graal, emette suoni incomprensibili e, con un lungo bastone nella mano destra, si dispone dietro alla lavagna appoggiata al pavimento, mantenendo la posizione per oltre mezz’ora: Beuys custode del Graal. Poi si lega una torcia elettrica per coscia, entra in una vasca piena d’acqua e il compagno Christiansen gli versa addosso altra acqua da un innaffiatoio. «È bene descrivere ciò che si vede» disse una volta Beuys «in questo modo si ha accesso all’ambito di ciò che si pensa.» Ed è bene anche immaginarlo, intuirlo: così facendo si mette in moto qualcosa. «Solo in caso di emergenza o per esigenze didattiche si ricorre all’interpretazione.» Gran parte della produzione di Beuys è incomprensibile con la razionalità. Per questo è tanto importante l’intuizione, da lui descritta come una forma più elevata di raziocinio. È da qui che derivano le controimmagini che Beuys voleva suscitare, immagini di un mondo interiore misterioso e potente. «Non mi piace parlare al telefono» diceva Beuys «mi interessano le energie coinvolte in quel processo.» La forza dei segni, il fascino dei riti: Beuys accettava consapevolmente i malintesi che potevano derivarne. La lavanda dei piedi e il battesimo sono atti rituali che appartengono alla storia della salvazione: era senz’altro un gesto ardito usarle nella propria arte, tanto che l’accusa di kitsch fu immediata. Eppure il rigore con cui Beuys trasferiva le sue idee nella realtà concreta era sorprendente, come il modo in cui riusciva a esprimere rapporti complessi tramite azioni fondamentalmente semplici. Oggi non si irrita più nessuno se i registi rielaborano i drammi classici, se li stravolgono, magari per adattare i vecchi contenuti al presente. Attraverso le sue azioni, Beuys attribuì ai vecchi segni nuovi significati che ciascuno, messo a confronto con essi, deve chiarire da sé. Con le sue controimmagini Beuys offriva materia di stupore e riflessione in abbondanza. Qualsiasi cosa dicesse e facesse, ovunque si esibisse, non mancavano mai sorprese e avvenimenti eccezionali. Si assunse la colpa della nevicata che cadde dal 15 al 20 febbraio 1969 e dieci anni dopo decretò che la scultura più efficace era il sanguinaccio. Il 12 maggio 1971 festeggiò il suo cinquantesimo compleanno facendosi decorare dagli studenti con uova, riso e foglie, mentre nel marzo 1977 si mise a piantare patate davanti alla galleria Block di Berlino. Per pagare il vitto dei suoi collaboratori alla Libera Università Internazionale, a documenta 6 (1977) produsse la stampa offset Food for Thought (Cibo per il pensiero) e il 9 giugno 1982 protestò con una Blutaktion (Azione di sangue) davanti all’ambasciata turca a Bad Godesberg-Mehlem «contro la tortura in Turchia, stato membro della nato». Il 10 luglio 1982 partecipò a una dimostrazione pacifista sulle sponde del Reno a Bonn con la canzone
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Sonne statt Reagan (Sole anziché Reagan).* Il suo Curriculum riporta colloqui con il Dalai Lama, l’ex cancelliere austriaco Bruno Kreisky e l’influente banchiere tedesco Hermann J. Abs. Nel novembre 1970 appese le lische del pesce mangiato a casa al soffitto della galleria Eat-Art di Düsseldorf, allora gestita da Daniel Spoerri. Chiamò quest’azione Freitagsobjekt 1a gebratene Fischgräte (Oggetto del venerdì lische di pesce cotto benissimo): si strofinò il viso di cenere, scrisse certificati per la vendita delle lische e, avvolto in un lungo cappotto scuro, si mise in un angolo della galleria appoggiato a un bastone, rimanendo così per ore. Questa, se vogliamo, è un’antiazione. Un’azione di Beuys contro se stesso. Aveva le gambe pesanti, non avrebbe dovuto fumare. Spesso fumava solo metà della sigaretta e metteva via il mozzicone in una tasca del gilet da pescatore. Avrebbe dovuto condurre una vita di assoluto riposo e attenersi a una dieta rigorosa. Con l’azione del pesce del venerdì evocò, per così dire, una controimmagine della propria sofferenza. Nel 1971 si immerse nello Zuider Zee, a Ostenda, una grande area paludosa vicino al mare la cui bonifica avrebbe comportato la distruzione dell’equilibrio idrogeologico. Con l’Aktion im Moor (Azione nella palude) Beuys volle sensibilizzare l’opinione pubblica una volta di più, e sempre con i suoi metodi drastici, nei 132
confronti di un problema che sarebbe poi stato riconosciuto come compito di primaria importanza della collettività: la salvaguardia dell’ambiente. Dodici anni dopo diede vita a un’altra iniziativa ambientale, il progetto pilota per i campi di Altenwerder, situati nella zona dell’Elba meridionale, nei pressi di Amburgo. Si tratta di campi ricoperti di fanghi altamente tossici provenienti dall’Elba e del mare del Nord, raccolti da anni proprio ad Altenwerder. Del villaggio era rimasta solo la chiesa: tutto il resto, anche i vasti frutteti, era stato sepolto. Beuys reagì suggerendo di piantare nella zona contaminata alberi e cespugli nell’ambito del progetto “Kunst im öffentlichen Raum” (Arte negli spazi pubblici) istituito dall’Ente per la cultura e la Commissione per l’arte di Amburgo. La proposta di Beuys, basata su conoscenze scientifiche, prevedeva di trattenere le sostanze tossiche nei campi mediante le piante, onde evitare di inquinare la falda. Al centro del territorio da salvare si sarebbe dovuto collocare uno dei blocchi in basalto realizzati per l’installazione Ende des 20. Jahrhunderts (Fine del xx secolo). Sebbene le autorità di Amburgo fossero favorevoli e il finanziamento sembrasse non creare problemi, alla fine non se ne fece nulla poiché il primo sindaco, Klaus von Dohnanyi, contestò «il carattere artistico del progetto» ad Aspekte, una trasmissione culturale del secondo canale, affossando l’iniziativa.
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Gioco di parole tra Regen (pioggia) e Reagan, il presidente statunitense. [N.d.T.]
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Un altro progetto ottenne invece un successo strepitoso: 7000 Eichen (7000 querce), presentato a documenta 7 (Kassel, 1982). Il 19 giugno, giorno dell’inaugurazione, Beuys piantò il primo albero a Friedrichsplatz, davanti al Museum Fridericianum, e sempre lì avrebbe voluto piantare l’ultima delle settemila querce cinque anni dopo, il giorno di apertura di documenta 8. La morte glielo impedì, ma nel 1982 l’idea fu accolta con grande entusiasmo. L’evento si svolse all’insegna del motto “Stadtverwaldung statt Stadtverwaltung”.* Il progetto prevedeva di piantare settemila querce nel territorio comunale di Kassel, collocando accanto a ogni quercia una colonna di basalto alta un metro e venti. Prezzo di vendita della singola opera, comprensivo di trasporto, impianto dell’albero e della colonna: cinquecento marchi. I costi complessivi dell’azione sarebbero ammontati a circa quattro milioni di marchi. All’acquirente venivano consegnati la ricevuta della donazione e il Baumdiplom, il “diploma dell’albero”, firmato da Beuys con il timbro della Free International University. Quando, nel 1982, i settemila blocchi di basalto vennero depositati a Friedrichsplatz, formando una montagna cuneiforme, piovvero proteste da parte dei cittadini, che si lamentavano per la deturpazione del “salotto” del centro storico di Kassel e si rifiutavano di accettare il “messaggio ecologico” imposto da Beuys. Gli automobilisti temevano di perdere i parcheggi, altri erano preoccupati che il rimboschimento della città, quando le piante fossero cresciute, potesse mettere a rischio la distribuzione di gas ed elettricità. Ciò nonostante, l’“Ufficio di coordinamento 7000 querce” di Kassel pubblicò dichiarazioni entusiaste: comitati locali, associazioni e iniziative civiche proposero luoghi in cui piantare gli alberi e, così, le querce di Beuys rinverdirono numerosi cortili di scuole, asili e parchi giochi. Insomma, ci furono anche diversi cittadini che non ebbero pregiudizi o seppero superarli, contribuendo a far crescere le chiome verso il cielo nei propri quartieri. Gli alberi – oltre a querce, anche frassini, platani, aceri, castagni –, però, furono donati solo in piccola parte dai cittadini e dalle istituzioni di Kassel: la maggior parte fu acquistata da sponsor stranieri, giapponesi in testa con più di mille alberi. Alla morte di Beuys ne erano stati piantati cinquemilacinquecento. Se l’artista fosse vissuto fino al 12 maggio 1986, giorno del suo sessantacinquesimo compleanno, sarebbe stato molto contento di sapere che nel frattempo gli alberi piantati a Kassel insieme ai rispettivi blocchi di basalto erano saliti a seimilacento. All’apertura di documenta 8, il 12 giugno 1987, il figlio Wenzel piantò la settemilesima quercia in presenza di Eva Beuys. Oggi Kassel possiede una scultura che cresce di anno in anno, certamente la più
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Gioco di parole che equivale a “rimboscare anziché amministrare la città”. [N.d.T.]
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grande scultura ecologica della Terra: la deve al “suo” Joseph Beuys che, dalla prima partecipazione a documenta nel 1964, vi tenne sempre esibizioni di levatura mondiale. A questa “azione-albero” Beuys associava idee per lui fondamentali. Riteneva che ai nostri tempi gli alberi sono molto più intelligenti delle persone. Insieme al vento, tra le loro chiome si agita l’essenza dell’uomo sofferente. Gli alberi la percepiscono e soffrono essi stessi, privati dei propri diritti come gli animali. Beuys dichiarò di voler rendere alberi e animali soggetti giuridici. La vicenda delle settemila querce fu senz’altro un contributo fondamentale alla realizzazione della scultura sociale. A Beuys premeva di migliorare la «qualità della vita urbana», rappresentare in concreto il concetto di un tempo «sovrumano», ossia immedesimarsi nella prospettiva di vita di una quercia, che secondo i suoi calcoli poteva arrivare a ottocento anni: in sostanza, sentiva come suo compito improrogabile risvegliare in tutto il mondo la coscienza della tutela ambientale. «Andremo anche in Russia e in Cina» disse a Kassel.
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