L'immagine come punto interrogativo

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Clément Chéroux

L’immagine come punto interrogativo o il valore estatico del documento surrealista

Clément Chéroux  L’immagine come punto interrogativo

Ciò che i surrealisti sembrano invocare nell’immensa produzione della fotografia documentaria è la sua capacità di produrre enigmi visivi o “immagini indovinello”, come le chiamava Breton. Clément Chéroux, storico della fotografia e direttore della rivista Études photographiques, è conservatore del fondo fotografico del Centre Pompidou e curatore di numerose mostre. Fra i suoi libri usciti in edizione italiana: Henri-Cartier Bresson. Lo sguardo del secolo (2008), L’errore fotografico. Una breve storia (2009) e Diplopia. L’immagine fotografica nell’era dei media globalizzati: saggio sull’11 settembre 2001 (2010).

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Nella stessa collana: 1. Marco Belpoliti Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio

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2 ISBN 978-88-6010-077-1


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Clément Chéroux

L’immagine come punto interrogativo o il valore estatico del documento surrealista

Traduzione di Elio Grazioli



L’immagine come punto interrogativo

I surrealisti hanno amato appassionatamente le immagini. All’interno delle diverse formazioni d’avanguardia dei primi decenni del xx secolo sono stati senza dubbio tra i più “iconofili”. Nella vastissima varietà visiva che offriva loro la società moderna sembrano essersi particolarmente interessati alle immagini funzionali, prodotte in un contesto utilitario, a fini di documentazione o di informazione: tavole scientifiche, etnografiche o topografiche, materiali d’inchiesta, fotografie della polizia e della stampa periodica. «Non conosco niente di più esaltante» scriveva André Breton «dei documenti fotografici che ci restituiscono la luce di questa epoca.»1 Per Salvador Dalí il dato fotografico – che in spagnolo si dice, senza che vi sia niente di anodino, dada fotográfica – «è sempre essenzialmente il veicolo più sicuro della poesia e il processo più agile per percepire le delicate osmosi che si determinano tra realtà e surrealtà».2 A quell’epoca uno dei migliori fornitori di documenti fotografici era il giornale illustrato che, a partire dai progressi ottenuti nei procedimenti di stampa fotomecca-

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nica all’inizio del secolo, conosceva uno straordinario sviluppo. Nel suo Poisson soluble, pubblicato nel 1924, André Breton descrive così il piacere che prova a sfogliare i giornali come un mondo che si misura a grandi passi, a lasciarsi colpire da un’immagine intrigante come ci si abbandonerebbe completamente al sortilegio di un profumo scoperto alla svolta di un viottolo in un boschetto: «La terra, sotto i miei piedi, non è altro che un immenso giornale aperto. Talvolta passa una fotografia, è una curiosità qualunque e dai fiori sale uniformemente il profumo, il buon odore dell’inchiostro di stampa».3 Un’altra testimonianza di questo gusto per la “raccolta” delle immagini nei giornali è fornita dal Cahier de permanence del Bureau des recherches surréalistes. Il 1° novembre 1924 Jacques-André Boiffard vi consegna la proposta seguente: «che qualcuno si informi sull’identità del personaggio che si occupa delle curiose fotografie sulla prima pagina dell’Intransigeant – e se è possibile chiedere il suo aiuto».4 Come si può verificare, questo giornale pubblicava effettivamente ogni giorno in prima pagina dei documenti insoliti accompagnati da titoli o commenti laconici (Figg. 1-2). Il numero del 13 settembre 1924 presenta, per esempio, la fotografia di un incidente automobilistico in cui un albero aveva finito con l’incastrarsi violentemente in un autobus. L’immagine tuttavia è stata presa in modo tale che la pianta al primo sguardo sembra cresciuta naturalmente lì, nel bel mezzo del veicolo. «L’albero nell’autobus… o l’autobus nell’albero (Fig. 3)»5 commenta il giornale. È esattamente questo il genere di sorprese visive che i surrealisti amavano veder fiorire sulla stampa.

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Fig. 1. “La casa del Presidente”, in L’Intransigeant, 5 ottobre 1924. Fotografia anonima. Bibliothèque nationale de France, Parigi.

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Fig. 2. “La più grande ‘in the world’”, in L’Intransigeant, 27 ottobre 1924. Fotografia anonima. Bibliothèque nationale de France, Parigi.

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Fig. 3. “L’albero nell’autobus…”, in L’Intransigeant, 13 settembre 1924. Fotografia anonima. Bibliothèque nationale de France, Parigi.

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Al di là del puro piacere della scoperta fortuita sulle pagine dei giornali, i surrealisti hanno anche cercato attivamente e talvolta perfino collezionato queste immagini. L’esempio più noto è quello di Eugène Atget. A metà degli anni venti Man Ray scopre questo fotografo documentarista il cui atelier è situato a pochi passi dal suo, in rue Campagne-Première. Tra le migliaia di documenti che il vecchio fotografo proponeva a cinque franchi l’uno, Man Ray gli acquista una quarantina di immagini i cui soggetti – mercati delle pulci, parchi giochi, vetrine o manichini – si inscrivono a pieno titolo nell’immaginario surrealista.6 Ma questa non è l’unica manifestazione dell’interesse dei surrealisti per la fotografia documentaria. La dispersione degli archivi di André Breton nel 2003 ha rivelato che aveva conservato in proprio possesso molti documenti fotografici – ritratti antropometrici, immagini di incidenti (Fig. 4), rilievi topografici, fotografie di lampi o di cristallizzazioni (Fig. 5), eccetera.7 Gli album della collezione di cartoline di Paul Éluard oggi accessibili mostrano che il suo interesse non era circoscritto soltanto all’immaginario sdolcinato della Belle époque, alle ragazze in fiore o agli amanti sconsolati, alle scenette comiche e leggermente spinte, alle vignette fantasiose e alle cartoline con finestrella.8 Tra le pagine dei suoi album si infilavano regolarmente autentiche cartoline documentarie che contrastavano fortemente per la loro sobrietà visiva: la veduta dall’alto della scalinata di trecentotredici gradini del faro di Eckmühl nel Finisterre, la fotografia di profilo di un tapiro indiano, «dalla schiena bianca», o ancora

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Fig. 4. J. Champroux, Automobile rovesciata, 1929 circa. Fotografia pubblicata su La Révolution surréaliste, n. 12, 15 novembre 1929, p. 56. Già collezione André Breton, attuale ubicazione sconosciuta.

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Fig. 5. Étienne Léopold Trouvelot, “Scintilla elettrica diretta ottenuta con una bobina Ruhmkorff”, 1888 circa, collezione Ordóñez-Falcón.

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l’immagine di una ghigliottina, «vista dal lato della testa», estratta da una serie di cartoline giustamente timbrate “Bibliothèque documentaire” (Figg. 6-8). Non è certamente il valore documentario originario di queste immagini ad affascinare i surrealisti. In un articolo del 1923, intitolato Les Documentaristes (I documentaristi), Robert Desnos spiega il suo scarso interesse per le possibilità propedeutiche, o anche semplicemente informative, del cinema: «Me ne infischio delle virtù pedagogiche del cinema e non vi cerco di che istruirmi. La conoscenza è la cosa di cui mi sono stancato più velocemente e imparare qualsiasi cosa mi sembra tanto ridicolo quanto collezionare francobolli, conchiglie o fermacarte».9 Lo stesso vale per le fotografie documentarie. I surrealisti sembrano essersi interessati più all’opportunità che queste immagini offrivano loro di convocare all’interno dell’ambito artistico delle forme di anti-arte.10 Man Ray è conquistato da Atget perché quest’ultimo rifiuta qualsiasi assimilazione artistica: «Atget mi pregò di non menzionare il suo nome. Ogni forma di pubblicità lo ripugnava. Diceva che non faceva nient’altro che fotografia documentaria».11 Nella rivista Minotaure Marcel Jean si interessa allo stesso modo delle cronofotografie di ÉtienneJules Marey, perché sono, per usare le sue parole, «le immagini meno premeditate possibili».12 «La fotografia è bella precisamente perché non è arte» scrive ancora il surrealista ceco Karel Teige.13 Quanto a Dalí, quando nel 1929 stila la lista delle ultime «tendenze anti-artistiche», non manca di inscrivervi, accanto agli oggetti surrealisti, all’isteria, al suono gomma o alle inchieste sessuali, tutta

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Fig. 6. Édition A. Dantan, Finisterre. Il faro di Eckmühl, 1920 circa. Cartolina compresa nella collezione di Paul Éluard. Musée de la Poste, Parigi.

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Fig. 7. Editore non identificato, Tapiro indiano dalla schiena bianca. Cartolina compresa nella collezione di Paul Éluard. MusÊe de la Poste, Parigi.

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Fig. 8. Édition Neurdein, La ghigliottina vista dal lato della testa, Bibliothèque documentaire, 1920 circa. Cartolina compresa nella collezione di Paul Éluard. Musée de la Poste, Parigi.

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l’immagine documentaria.14 Poiché non è né il frutto dell’arte né il prodotto degli artisti, la fotografia documentaria offre ai surrealisti un autentico contro-modello – al contempo formale e concettuale – dei tradizionali regimi di rappresentazione, così dell’accademismo come dell’estetica borghese. I surrealisti non sono gli unici a essersi interessati alla fotografia documentaria come antidoto all’ortodossia artistica della loro epoca. Per convincersene basta sfogliare le opere di László Moholy-Nagy, di Amédée Ozenfant o di Le Corbusier.15 Esse abbondano di documenti fotografici presi come tali. Questo gusto condiviso per l’iconografia documentaria è certamente anche un fenomeno generazionale, ma i documenti fotografici scelti dai surrealisti non assomigliano tuttavia in niente a quelli selezionati dagli artisti della Nuova Visione o dell’Esprit Nouveau. L’inclinazione di questi ultimi li porta più volentieri verso le immagini di motori d’aerei, di ciminiere, di travi metalliche che celebrano l’era industriale, o l’“età della macchina”, per riprendere il titolo di una famosa mostra del Museo d’arte moderna di New York del 1934.16 Esse esprimono un lirismo moderno che generalmente manca ai documenti preferiti dai surrealisti, affascinati quanto loro da una forma di poesia del desueto, come aveva fatto notare molto bene Walter Benjamin.17 In questo senso si può dire che vi è una forma di specificità dei documenti fotografici che ha risvegliato la curiosità dei surrealisti. Quale esattamente? A percorrere l’insieme degli esempi fin qui citati appare chiaramente che nessun genere documentario in partico-

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lare è stato privilegiato dai membri del gruppo. Si sono interessati allo stesso modo alle fotografie scientifiche, della stampa periodica o di architettura, così come ai documenti estratti dagli archivi della polizia, o alle immagini etnografiche o medico-legali. Al di là del genere, ciò che sembra aver attratto l’attenzione dei surrealisti, in ognuna di queste categorie documentarie, è l’“apertura” dell’immagine, per riprendere una nozione cara a Umberto Eco.18 Se vi è infatti un denominatore comune alla maggior parte dei documenti raccolti dai surrealisti è appunto il loro carattere di irresolutezza, la loro capacità di suscitare un’interrogazione: «è l’albero ad essere nell’autobus… o l’autobus nell’albero?», «Dove conducono queste scale?», «Che cosa nasconde questa facciata?… La fortuna è dietro l’angolo?» e così via (Fig. 9). Come le copertine di romanzi popolari che piacevano tanto a Robert Desnos,19 così le immagini documentarie che affascinano i surrealisti sono quelle che contengono un interrogativo (Fig. 10). Il loro senso o la loro utilità non si danno come immediatamente leggibili. Sta proprio qui il colmo per un’immagine cosiddetta documentaria. Ciò che i surrealisti sembrano invocare nell’immensa produzione della fotografia documentaria è insomma la sua capacità di produrre degli enigmi visivi, o delle “immagini indovinello”, come le chiamava Breton.20 I surrealisti non si sono accontentati di raccogliere queste immagini documentarie, di andarne a caccia nella stampa illustrata, di acquistarle dai fotografi o nelle agenzie. Al di là dell’uso privato, le hanno anche largamente diffuse attraverso le loro stesse pubblicazioni. La

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