L’emergere negli anni sessanta di una “linea analitica” ha prodotto nel dibattito artistico un cambiamento significativo del ruolo della fotografia, che perdura ancora oggi. In quegli anni decisivi, emancipata da un virtuosismo tecnico fine a se stesso e aperta a nuove pratiche concettuali, la fotografia fu finalmente legittimata come arte diventando oggetto di un’intensa analisi teorica e linguistica. Marinella Paderni parte da questa premessa storica per documentare il lavoro di artisti che, dalla metà degli anni novanta a oggi, hanno raccolto idealmente le eredità di quella stagione concettuale creando una continuità tra le avanguardie di allora e le istanze di oggi nella fotografia. La sua analisi muove dalle posizioni teoriche sulla “reinvenzione del medium” per tracciare uno scenario della fotografia italiana contemporanea delle ultime due generazioni che testimonia l’emergere di pratiche visive originali e di una riflessione corale sul linguaggio fotografico nell’epoca della smaterializzazione del reale. The ‘analytical line’ that emerged in artistic debate in the sixties led to a significant change in the role of photography, the consequences of which are still felt today. In those pivotal years, photography was emancipated from technical virtuosity for its own sake, and opened up to new conceptual practices. Finally legitimised as art, it became the object of intense theoretical and linguistic analysis. Marinella Paderni starts out from this historical premise to document the work of artists who, from the mid nineties to the present, have today’s currents in photography. Her analysis examines theoretical debates on the ‘reinvention of the medium’ and outlines the last two generations of contemporary Italian photography: a scenario that bears witness to the emergence of original visual practices and a multifaceted reflection on photographic language in the era of the dematerialisation of reality.
Marinella Paderni (Milano, 1964) è critico d’arte contemporanea e curatore indipendente. Docente di Fenomenologia delle Arti Contemporanee presso l’Accademia di Belle Arti di Bergamo, è stata corrispondente per molti anni della rivista d’arte contemporanea Tema Celeste e attualmente collabora con le testate internazionali Frieze, Flash Art e Arte e Critica. I suoi studi sono rivolti alle espressioni artistiche contemporanee con un’attenzione particolare alla fotografia, al video, alle relazioni tra arte, paesaggio e condizione urbana. Ha curato diverse mostre sulle tematiche più attuali dell’arte, tenendo conferenze sulle nuove tendenze artistiche e sulla fenomenologia tra i diversi ambiti culturali. Marinella Paderni (Milan, 1964) is a contemporary art critic and independent curator. She lectures in Phenomenology of the Contemporary Arts at the Accademia di Belle Arti in Bergamo and for many years she was a correspondent for the contemporary art magazine Tema Celeste. She currently works with the international publications Frieze, Flash Art and Arte e Critica.Her studies concern contemporary artistic expressions, with particular attention to photography, video and the relationships between art, landscape and the urban condition. She has curated numerous exhibitions on the most topical themes in art, as well as holding conferences on new artistic tendencies and phenomenology in various cultural contexts.
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la fotografia nell’arte contemporanea photography in contemporary art
metaphorically taken up the legacies of that conceptual season, forging continuity between the avant-garde movements of that period and
Laboratorio italia la fotografia nell’arte contemporanea photography in contemporary art a cura di / edited by Marinella Paderni
Laboratorio italia La fotografia nell’arte contemporanea / Photography in Contemporary Art a cura di / edited by Marinella Paderni
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L’orizzonte della fotografia nell’arte italiana Uno dei territori poco esplorati è sicuramente l’apparente discontinuità storica della fotografia degli ultimi decenni, che aleggia come una nebulosa attorno al suo divenire nell’arte italiana. Negli anni ottanta il ritorno trionfale della figurazione e della pittura dopo quasi due decenni di arte concettuale ha oscurato il lavoro di quanti hanno continuato, indefessi, a praticare la fotografia; pertanto, oggi non è sempre immediato individuare compiutamente le eredità, i passaggi diretti o mediati e le commistioni proficue con altri linguaggi artistici che hanno reso possibile lo sviluppo del medium fotografico come lo vediamo attualmente rappresentato nell’arte. Invece una continuità c’è stata, dormiente in alcuni anni, riemersa più chiaramente nell’ultimo decennio. Analizzandole attentamente, si può comprendere come le espressioni odierne non nascano dal genio del momento o dalle ultime tendenze importate dai colleghi stranieri, subito “italianizzate” con l’intento di non essere da meno, senza magari rendersi conto (e questo è il paradosso) che esse erano già state realizzate, “tali e quali”, da artisti italiani di generazioni precedenti. Queste espressioni eterogenee, che non arrivano a configurare una scuola di pensiero e nemmeno una visione corale – come è accaduto nell’ambito della pittura, anche di recente – trovano invece il loro perché proprio in quel retroterra storico e culturale che la fascinazione per il nuovo tende a far scivolare nell’oblio, cancellando dalla nostra memoria il passato e instillando la convinzione che dietro a ogni novità non ci sia una rete di relazioni e di riferimenti stratificati nel tempo, ma solo un presente esteso che rende tutto indistinto e omogeneizzato. Questo libro parla del presente e dei suoi protagonisti lasciando come sottofondo il passato – non nella sua interezza temporale, ma solo in quelle realtà interstiziali tra ieri e oggi in cui permane quella continuità di idee sulla fotografia che rappresenta il nostro orizzonte culturale. Il retroterra storico di riferimento è la fotografia concettuale degli anni sessantasettanta, che rivoluzionò l’uso del medium fotografico nell’arte portandolo a inediti esiti linguistici ed espressivi: nella linea analitica sviluppatasi durante quella fase di fermenti si può infatti individuare la fonte d’ispirazione di molta fotografia odierna. Il precedente sin qui analizzato è uno dei primi criteri da me adottati nella scelta dei quarantasei artisti che figurano in questo libro, i quali presentano con i loro antesignani elementi comuni e ricorrenti, non tanto nelle scelte estetiche, quanto nell’approccio al mezzo e al modo di vedere attraverso la fotografia. Anch’essi riflettono sul piano dell’identità sociale dell’uomo, individuale e collettiva, rivelando come l’immagine fotografica trasformi il nostro sguardo e la percezione di noi stessi. A livello estetico, proseguono l’indagine sul rapporto con il reale in un’epoca in cui la perdita del senso di realtà, o la sua The Horizon of Photography in Italian Art One of the areas seldom explored is undoubtedly the apparent lack of historic continuity in photography over the last few decades, a phenomenon which hovers like a nebula around the evolution of photography in Italian art. In the 1980s the triumphant return of figuration and painting after almost two decades of conceptual art overshadowed the work of all those who indefatigably continued to practise photography. As a consequence, today it is not always easy to fully identify the legacies, the direct and mediated transfers, and the fruitful contaminations with other artistic languages that have enabled the development of the photographic medium as we now see it represented in art. Yet there has been continuity, dormant in some periods but emerging more clearly in the last decade. If we look closely we can see how today’s expressions do not spring from the genius of the moment or from the latest tendencies imported from foreign counterparts, immediately 'Italianised', so as not to lag behind – perhaps without realising (and this is the paradox) that 'identical' works had already been created by Italian artists of previous generations. These heterogeneous expressions, which do not constitute a school of thought or even a collective vision – as has been the case in painting, including in recent times – actually have their raison d’être in that very historic and cultural background that the appeal of the new tends to consign to oblivion, cancelling the past from our memories and instilling the conviction that behind every novelty there is not a network of relationships and references, stratified over time, but just an extended present that makes everything indistinct and homogenised. This book talks about the present and its protagonists, set against the background of the past; not in its temporal entirety, but just in terms of the interstitial situations that lie between the past and the present, where we find that continuity of ideas on photography that represents our cultural horizon. The historical background in question is the conceptual photography of the sixties and seventies that revolutionised the use of the photographic medium in art, giving rise to novel linguistic and expressive results. Indeed the source of inspiration for much of today’s photography can be identified in the analytical line that developed during that phase of ferment. This precedent was one of the first criteria I adopted when selecting the forty-six artists who appear in this book, artists who present recurrent elements in common with their predecessors, not so much with regard to aesthetic choices, as in their approach to the medium and their way of seeing through photography. They too reflect on the human social identity, in individual and collective terms, revealing how the photographic image transforms our gaze and our perception of ourselves. On the aesthetic level, they continue to investigate the relationship with reality, in an age in which the loss of a sense of reality, or
L’arte di vedere.* Fotografia e pratica artistica contemporanea in Italia The Art of Seeing.* Photography and Contemporary Art Practice in Italy di / by Marinella Paderni
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smaterializzazione, si fanno sempre più pressanti. La fotografia decreta il nostro quotidiano al punto che un evento sembra per noi esistere solo se ne vediamo la trasposizione fotografica. Poco importa se quest’ultima sia vera o se si tratti di finzione, di manipolazione: la sua immagine ce la rende comunque vera. Sulla scia di questa continuità, altri criteri alla base della mia selezione sono lo statuto dell’immagine fotografica e la sua sostituzione con la realtà, i processi personali e i fenomeni collettivi generati dall’atto del fotografare, con l’affinarsi dell’autoriflessione, e la fotografia quale “traccia” correlata al ricordo e alla memoria. Sul piano sociale, l’attenzione è rivolta al mutare dei concetti di tempo e di spazio, soprattutto in relazione ai cambiamenti che i mass media hanno determinato nella società; e poi il tema dell’identità, il rapporto con le immagini (la produzione, l’utilizzo, l’archiviazione) nell’epoca della “telepresenza” dell’uomo e della sua osannata “ubiquità in tempo reale”. Alla luce di uno scenario sempre meno umano e più tecnologico, sorge spontaneo interrogarsi sul ruolo dell’artista e sulla differenza che può fare il suo lavoro, tenendo conto del fatto che la fotografia è da tempo una pratica espressiva “di massa”. Se si considerano le opere realizzate dai quarantasei artisti citati in questo volume, la differenza sta nella loro capacità di “reinventare il medium”1, ossia di lavorare sul linguaggio e di rinnovare la pratica artistica inventando di nuovo l’uso e la forma dei caratteri, degli automatismi e delle regole che sono propri della fotografia. Non è sufficiente rispecchiare le modalità del fotografico, operando solo sui virtuosismi tecnici o sul soggetto: occorre cercare modalità inedite nell’utilizzo di questo mezzo e nella presentazione delle immagini, che azionino altri sistemi di percezione e di contemplazione. In questi artisti l’invenzione di una fotografia “diversa” scaturisce dall’ibridazione con altre pratiche dell’arte – per esempio si fa ricorso alla postproduzione, al fotomontaggio, al collage con altri elementi visivi, al recupero di materiale d’archivio, a pratiche di utilizzo e di esposizione obsolete come la Polaroid, i ferrotipi, l’impressione a contatto, la proiezione di diapositive. Sul piano teorico, la definizione di “reinvenzione del medium” è presa in prestito dalla sua coniatrice, la storica dell’arte statunitense Rosalind Krauss, nota tra l’altro per le sue illuminanti analisi sul ruolo e sull’identità della fotografia nell’arte – per esempio, per il concetto di “indice”. Accanto ai criteri di ordine storico, estetico e linguistico, l’altra premessa per la selezione degli artisti è stata il fattore generazionale. La collana Laboratorio italia è principalmente incentrata sulle espressioni delle nuove generazioni, ma per quanto concerne la fotografia si è scelto di considerare anche la generazione nata negli anni sessanta ed emersa sulla scena its dematerialisation, is an increasingly pressing phenomenon. Photography decrees our daily lives to the point where an event only appears to exist for us if we can see its photographic transposition. It matters little if the latter is real, pretence or manipulation: its image is what makes it 'real' to us. In the wake of this continuity, the other basic criteria I adopted concerned the status of the photographic image and its substitution of reality, the personal processes and collective phenomena generated by the act of taking a photograph, the development of the faculty of self-reflection, and the concept of photography as a 'trace' connected to memory and the past. On the social front, the focus is on the changing concepts of time and space, above all in relation to the changes that the mass media have given rise to in society; and the issue of identity, the relationship with images (production, usage, archiving) in the age of the 'telepresence' of man and his much lauded 'ubiquitousness in real time'. In the light of a scenario which is increasingly less human and more technological, it is natural to question the role of the artist and the difference that his or her work can make, taking account of the fact that for some time photography has been a 'mass' practice of expression. Analysing the works created by the forty-six artists presented in this book, the difference lies in their ability to 'reinvent the medium' 1, namely to work on the language and renew artistic practice, newly inventing the use and form of the character, automatisms and rules of photography. It is not enough to reflect the modalities of the photographic field, working only with technical virtuosities or the subject: it is necessary to look for new ways to use the medium and present images, new approaches that activate alternative systems of perception and contemplation. These artists formulate 'different' kinds of photography by hybridising it with other art practices, for example using postproduction, photomontage, collages with other visual elements, retrieving archive material and employing obsolete techniques and methods of presentation such as Polaroid, ferrotypes, contact photography and slide projections. In terms of theory, the concept of 'reinventing the medium' is borrowed from its author, the North American art historian Rosalind Krauss, well known among other things for her illuminating theoretic analyses of the role and identity of photography in art, such as the concept of 'index'. Alongside criteria of a historical, aesthetic and linguistic nature, the other selection parameter employed was the generational factor. The Laboratorio italia series focuses mainly on the expressions of the new generations, but with regards to photography, however, I also decided to include the generation born in the 1960s which emerged on the art scene in the 1990s, with longer-standing practices which have developed over time. The decision to go back a few years was necessary in order not to omit those key figures in the scenario of this collection, whose work often shows an affinity with that of the younger
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artistica negli anni novanta, con una ricerca più longeva, articolatasi nel tempo. La scelta di retrocedere di alcuni anni è stata necessaria per non omettere quelle figure, centrali nell’orizzonte di questa raccolta, il cui lavoro è spesso in sintonia con quello delle generazioni più giovani, figure che peraltro compongono quella continuità di visione tra le avanguardie concettuali di ieri e la ricerca di oggi. Inoltre, ai tempi dei loro esordi nella prima metà degli anni novanta, gli artisti in questione hanno contribuito a riportare l’interesse generale sulla fotografia. Lo scarto cronologico tra i primi e i secondi è in diversi casi di pochi anni. Leggendo le loro biografie, emergono vicissitudini comuni, come la frequentazione delle medesime accademie in tempi ravvicinati (in certi casi hanno persino avuto i medesimi docenti) e la partecipazione a progetti, mostre e manifestazioni di rilevanza critica, indice di un sentire e di un fare ascrivibili a linee di ricerca simili. Non sono stati considerati invece gli aspetti formali e i virtuosismi tecnici. Come già sottolineato, la macchina fotografica è utilizzata indistintamente da professionisti e non, quindi gli elementi stilistici di un lavoro non possono costituire lo scarto che differenzia l’immagine foto-amatoriale dall’opera d’arte. La fotografia si pone infatti in una posizione di “medianità”2 tra il pratico e l’estetico, il sociale e l’artistico, muovendosi continuamente fra le diverse categorie. Una medianità che le è propria e che altri linguaggi artistici non presentano, decretando la sua identità molteplice. Lo stesso si può dire per l’antagonismo tra analogico e digitale, reale e virtuale, manipolato e non, che sono solo variazioni del medesimo discorso; alla fine, a contare è l’artisticità del lavoro. Il ruolo della fotografia nella cultura visiva Come si è visto, la fotografia forgia da tempo il nostro sguardo sul mondo e la percezione visiva della realtà. Noi pensiamo fotograficamente, strutturiamo il reale e la sua immagine secondo codici e modelli appartenenti all’“inconscio tecnologico” del medium fotografico. Una volta interiorizzati, questi codici si comportano come fossero degli a priori kantiani e intervengono a modellare la nostra esperienza del sensibile in forme attinenti al linguaggio della fotografia. L’immagine va sempre considerata quale emanazione dell’atto fotografico. Come scrive Philippe Dubois, la fotografia è «[...] un vero e proprio atto iconico, un’immagine se si vuole, ma attiva, qualcosa che non può essere concepita al di fuori delle sue circostanze [...] un atto-immagine, essendo inteso che questo atto non si limita trivialmente al solo gesto della produzione generations, and who are actually part of the aforementioned continuity of vision between the conceptual avant-garde movements of the past and the work of today. Moreover, when these particular artists made their debut, in the mid nineties, they contributed to reviving general interest in photography. In many cases there is only a difference of a few years between the first and second groups. Reading their biographies common experiences emerge, such as attending the same art schools in similar periods (some artists even studied under the same lecturers), and their involvement in projects, shows and events of critical importance, an indicator of sentiments and approaches that can be attributed to similar lines of work. On the other hand, formal aspects and technical virtuosities have not been taken into account. As previously underlined, the camera is used by professionals and amateurs alike, therefore the stylistic values of a work cannot be taken as the differentiating factor between an amateur photographer’s image and a work of art. Photography indeed lies in a position of 'medianity' 2 between the practical and the aesthetic, the social and the artistic, constantly shifting between the different categories. This medianity that characterises photography is something that other artistic languages do not possess, and is what determines its multifarious identity. The same can be said of the opposition between analogue and digital, real and virtual, manipulated and not, which are simply variations on the same theme; in the end what counts is the artistic quality of the work. The Role of Photography in Visual Culture As we have seen, for some time now photography has shaped our vision of the world and our visual perception of reality. We think photographically, and we structure reality and its image according to codes and models belonging to the 'technological unconscious' of the photographic medium. Once interiorised, these codes behave as if they were Kantian a priori judgements and contribute to shaping our experience of the perceptible world in forms that belong to the language of photography. The image should always be viewed as an emanation of the photographic act. As Philippe Dubois writes, photography is, «[...] a genuine iconic act, an image if you wish, but active, something that cannot be conceived outside of its circumstances […] an act/image, it being understood that this act is not trivially limited only to the gesture of production of the image (the gesture of 'shooting') but also includes the act of assimilating and contemplating it». 3
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propriamente detta dell’immagine (il gesto della “ripresa”) ma include anche l’atto della sua ricezione e contemplazione».3 “Fotografo, quindi sono”: si potrebbe parafrasare così l’attitudine antropologica odierna a esistere in qualità di immagine. Come ieri insegnava Marshall McLuhan e oggi conferma Derrick de Kerckhove con il suo concetto di “psicotecnologia”, i media sono protesi extra-organiche che integrano la nostra identità plasmandoci e ricreandoci costantemente. La tecnologia emula la nostra mente, estendendo e amplificando il suo potere nello spazio e nel tempo, nella rappresentazione del mondo e nella presa di coscienza del reale. Le varie tecnologie fungono da simboli delle forme inconsce della società. A differenza delle altre arti, la fotografia riguarda tanto la cultura alta delle idealità (l’arte) quanto la cultura bassa della produzione popolare, che vede in questo medium la possibilità di eternizzare nell’immagine il tempo, la vita, sottraendoli all’oblio. Le immagini fotografiche sono tracce di questa presenza eternizzata che resiste alla perdita delle cose e delle persone, ai cambiamenti della vita, persino al mutare dell’identità. Proprio perché la fotografia è imprescindibile dal nostro modo di essere, di esprimerci e di comunicare, essa gioca un ruolo altrettanto incisivo nella pratica dell’arte, sia come linguaggio di sperimentazione che di riflessione analitica. Il suo successo fin dalle origini, e soprattutto in un’epoca di elevata esteticità dello sguardo come quella attuale, ha portato la fotografia a uscire ben presto dalla sua specificità di medium per divenire un universo di pratiche molteplici, dalle funzionalità eterogenee, che spesso hanno poco in comune – si pensi per esempio al fotogiornalismo, alla fotografia pubblicitaria, a quella investigativa e agli innumerevoli ambiti dove essa trova quotidianamente applicazione. Da questa sua non-specificità sono scaturite sia una compresenza di generi impensabile nelle altre arti, sia la mancanza di un’identità unitaria, classificabile, nonostante la conformità metodologica. Tale limite ha rappresentato in molti casi una risorsa, pur causando in passato alcune interpretazioni ambigue relative al suo pittoricismo, all’imitazione/illusorietà del mondo nella sua rappresentazione, ai rapporti di valore tra unicità dell’opera e serialità delle immagini, all’autorialità e alla soggettività del fotografo rispetto all’oggettività del mezzo. Queste e altre ragioni hanno fatto sì che il dibattito teorico sul linguaggio fotografico fosse pressoché minimo, oscurato dalle posizioni moderniste e dai puristi della tradizione che non consideravano la fotografia alla stregua delle altri arti. In controtendenza, il filosofo e critico letterario tedesco Walter Benjamin fu tra i primi intellettuali a ragionare negli anni trenta sul valore della fotografia, teorizzando nel suo celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica la perdita dell’aura e del carattere di unicità dell’opera con l’avvento di 'I photograph, therefore I am' might describe today’s anthropological tendency to exist in image form. As Marshall McLuhan taught in the past, and Derrick de Kerckhove confirms today with his concept of 'psychotechnology', the media are extra-organic prostheses that integrate our identity, constantly shaping and recreating us. Technology emulates the human mind, extending and amplifying its power in space and time, in the representation of the world and the way we gain awareness of reality. The various forms of technology are symbols of the unconscious forms of society. Unlike the other arts, photography concerns both the high culture of idealities (art) and the low-brow culture of popular production, which sees this medium as an opportunity to eternalise time and life in images, thus plucking them from oblivion. Photographic images are traces of this eternalised presence, which withstands the loss of things and people, the changes of life and even the altering of identity. Precisely because photography is an inescapable part of our way of existing, expressing ourselves and communicating, it plays an equally incisive role in the practice of art, as a language of both experimentation and analytical reflection. Its popularity right from the start, and above all in this era of aesthetic over-stimulation of the gaze, meant that photography soon left its specificity behind and became a universe of multiple practices with various different functions which often have little in common, such as photojournalism, advertising photography, investigative photography and the countless fields where it is used on a daily basis. This non-specific character has given rise to both a coexistence of genres which would be unthinkable in the other arts, and to the lack of a unitary, classifiable identity, despite the methodological conformity. In many cases this limit has represented a resource, albeit in the past giving rise to ambiguous interpretations of photography’s pictoricism, the imitation/illusory nature of the world in its representation, value-based relationships between the uniqueness of the work and the serial character of images, and the authoriality and subjectivity of the photographer with respect to the objectivity of the medium. In the past, these and other factors led to there being a minimal amount of theoretical debate on photographic language, obscured as it was by modernist stances and traditional purists who did not see photography on the same level as the other arts. Running counter to this tendency, in the 1930s the German philosopher and literary critic Walter Benjamin was one of the first intellectuals to address the value of photography, positing, in his famous essay The Work of Art in the Era of its Technical Reproducibility, the loss of the aura and the character of uniqueness of the work of art with the advent of this medium, capable of faithfully reproducing reality in a serial manner. The significance of this perspicacious reflection was only fully understood with
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La ricerca di Linda Fregni Nagler approfondisce la natura dell’immagine fotografica e il suo rapporto con la realtà. Analizzando la fotografia ai suoi albori e l’iconografia dei generi in voga a quei tempi, l’artista appronta una riflessione sull’ambiguità di questo medium, che del soggetto non restituisce mai la totalità, ma solo una visione parziale, determinata da uno specifico punto di vista e condizionata dai codici culturali di una determinata epoca. Le sue fotografie fanno riferimento agli archivi antichi di immagini vernacolari, di cui lei colleziona lanterne magiche, ferrotipi, stampe all’albumina. Fregni Nagler ristampa queste immagini remote riappropriandosi delle metodiche tradizionali, che nelle sue mani acquisiscono una seconda vita. Tale pratica le consente di intervenire sulla temporalità dell’immagine, sospesa tra il passato e il presente, e di creare una ripetizione differente, più contemporanea, dell’originale, per certi aspetti una fotografia “impossibile”. Le differenze tra le due visioni acuiscono il senso d’ambiguità, mettendo in scacco quella posizione di cieca fiducia che ai tempi si nutriva nei confronti della presunta verità della rappresentazione fotografica. In altri lavori, l’artista ripropone l’iconografia ottocentesca ricostruendo i set e i costumi del tempo, “appropriandosi” soprattutto della fotografia mortuaria americana – nella serie “Unidentified Mourners” (Persone in lutto non identificate) – o giapponese del periodo Meiji, e spostando l’attenzione sul debito iniziale della fotografia verso la pittura e verso tecniche d’incisione come la xilografia. Linda Fregni Nagler’s works explore the nature of the photographic image and its relationship with reality. By analysing the origins of photography and the iconography which was popular in that era, the artist reflects on the ambiguity of this medium, which never yields up a complete vision of the subject, but merely a partial view, determined by a specific point of view and conditioned by the cultural codes of the era in question. Her photographs reference historic archives of vernacular images, of which she collects magic lanterns, ferrotypes and albumen prints. Fregni Nagler reprints these remote images, by reappropriating traditional techniques which come to life once more in her hands. This practice enables her to intervene on the time frame of the image, suspended between past and present, and create a different, more contemporary repetition of the original, under certain aspects an impossible’ photograph. The differences between the two visions accentuate the sense of ambiguity, challenging the blind faith people had in the presumed fidelity of photographic representation in that period. In other works the artist reintroduces nineteenth century iconography, reconstructing the sets and costumes of the day, in particular appropriating’ funerary photography, both from America (in the series Unidentified Mourners’), and Japan in the Meiji period, and devoting attention to early photography’s debt to painting and etching techniques such as wood-cuts. Nata a Stoccolma nel 1976. Vive e lavora a Milano. / Born in Stockholm in 1976. Lives and works in Milan. Mostre personali / Solo Exhibitions 2009 “Un giro di campo”, cur. C. Pietroiusti, Franco Soffiantino Arte Contemporanea, Torino 2008 “Immemore”, Galleria Alessandro De March, Milano 2007 “Playgrounds” (con / with Ettore Favini), The Italian Academy, New York, ny 2006 “Taken Over”, cur. I. Gianni, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2003 “Bambini”, cur. G. Scardi, Viafarini, Milano. Principali mostre collettive / Selected Group Exhibitions 2009 “Nothing But a Show”, cur. A. Ascari, Gemine Muse, Museo del Castello Sforzesco, Milano 2007 “Just in Time”, cur. G. Scardi, Galleria Riccardo Crespi, Milano 2006 “Arcipelago”, 14. Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini, Roma; “Metaphysics of youth”, cur. L. Fassi - I. Zucca Alessandrelli, Ex Mercato Ortofrutticolo, Pescara 2005 “Uscita Pistoia”, Spazio A Contemporanearte, Pistoia; “Il racconto di un luogo”, Premio Nazionale Di Fotografia Riccardo Pezza, La Triennale di Milano, Milano 2004 “Surely we will be confused” (visiting professor Jimmie Durham), Corso Superiore di Arti Visive far, Spazio ex-Ticosa, Como; “No Parachute iv”, Artandgallery, Milano; “Alta Attenzione”, miart, Milano 2003 “In Movimento”, cur. G. Scardi, Viafarini, Milano. 1.1 On Hokkaido (Joo-Hee), 2009, stampa ai sali d'argento / silver gelatin print, 60 × 50 cm 1.2 La Tregua (Ragazzo in barca) (The Truce - Boy in a Boat), 2008, stampa ai sali d'argento / silver gelatin print, 50 × 60 cm 2. Unidentified Mourners (Persone in lutto non identificate), 2008, 12 stampe ai sali d'argento / 12 silver gelatin prints, 21 × 29 cm cad. / each 3. Caribe, 2007, poster, 200 × 250 cm
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Antonio Rovaldi riflette sulla pratica dello sguardo come filosofia dell’essere. Il vedere diventa nel suo lavoro una presa di coscienza sul mondo, sul caso e sulla necessità delle cose di esistere, di divenire. Tempo esteriore e interiore trovano una sintesi concettuale nella ricerca sul paesaggio, dove il soggetto della visione (la realtà esterna) è plasmato dall’azione del tempo e dalla contemplazione dell’artista. La fotografia è dunque lo spazio mentale di tale sguardo. Il viaggio, l’attraversamento e la sosta sono le pratiche con cui usualmente Rovaldi si avvicina a paesaggi e situazioni che determinano un’esperienza totale dei luoghi. Nella serie “Paesaggi strappati”, una visione panottica di realtà esistenti è data invece dalle fotografie di paesaggi sparsi nel mondo trovate su vari libri di geografia e di turismo, che Rovaldi strappa a piena pagina per poi ricomporle, ri-fotografarle in bianco e nero ed esporle a una nuova identità. Azione e documentazione fotografica creano un potenziale inedito dell’immagine e della percezione del reale. La visione del tempo e del suo depositarsi (nella fotografia e non solo) sono rappresentati dal residuo secco di foglie e petali caduto ai piedi di un vaso di margherite recise nella serie “Yellow daisies on monday (My Revolution)” (Margherite gialle di lunedì - La mia rivoluzione), traccia della loro lenta trasposizione dal piano della realtà a quello dell’immagine. Antonio Rovaldi explores the practice of the gaze as a philosophy of existence. In his work seeing becomes awareness of the world, of chance and of the need things have to exist and develop. Exterior and interior time come together conceptually in his work on landscape, where the subject of the vision (the external situation) is moulded by the action of time and the artist’s contemplation. Photography is therefore the mental space of the eye. Rovaldi usually goes about approaching landscapes and situations by travelling through them, traversing places and stopping off: practices which enable him to fully experience places. In the series Paesaggi strappati’ (Torn Landscapes), we are given a panoptical vision of existing situations in the shape of photographs of landscapes around the world taken from various geography and travel books. Rovaldi tore these images out of the books, then recomposed and re-photographed them in black and white to expose them to a new identity. Action and photographic documentation thus generate new potential for the image and the perception of reality. The vision of time and how it sediments (in photography and elsewhere) is represented by the dry residue of leaves and petals that have fallen around a vase of cut daisies in the series Yellow daisies on monday (My Revolution)’, tracing their gradual transformation from the plane of reality to that of image. Nato a Parma nel 1975. Vive e lavora tra Milano e New York, ny. / Born in Parma in 1975. Lives and works between Milan and New York, ny. Mostre personali / Solo Exhibitions 2008 “Job Is My Danger”, Galleria Monitor, Roma 2006 “Premio New York”, Italian Academy at Columbia University, New York, ny 2005 “I Was Fine Before You Came,” cur. A. Lissoni, Spazio Lima, Milano; “marcamenti”, cur. D Ferri, Museo dell’Arredo Contemporaneo, Ravenna; “Cari Signori”, Galleria Monitor, Roma 2004 “Sopra il luogo”, Galleria Alessandro De March, Milano 2003 “Care Signore”, Galleria Alessandro De March, Milano; “E questo in sostanza è tutto”, a+m bookstore, Milano 2002 “Non ricordo esattamente quando”, Galleria Monitor, Roma 2001 “Un attimo prima”, cur. M. Scotini, O’artoteca, Milano. Principali mostre collettive / Selected Group Exhibitions 2009 “Battiti”, cur. C.L. Pisano, Complesso Monumentale di San Michele a Ripa Grande, Roma; “Il cielo in una stanza”, cur. A. Bruciati, gc.ac Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, Monfalcone (go); “Financial District”, cur. M. Amado, iscp International Artists Studio and Curatorial Program, New York, ny; “Usine de rêves”, cur. S. Vedovotto - C. Casorati, 26cc, Roma; “L’angelo sigillato”, cur. R. Selvaggio, Museo di Icone Russe F. Bigazzi, Peccioli (fi); “Optica”, Festival di videoarte, Gijón, Madrid, Paris 2008 “Financial District”, cur. M. Amado, iscp International Artists Studio and Curatorial Program, New York, ny; “Abre tus ojos” (videoinstallazioni nella città / video installations through the city), cur. A. Martines Quijano - A. Forconi, Buenos Aires; “Italiani in vacanza”, cur. P.L. Tazzi, Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno (fi) 2007 “Storytellers”, cur. P. Galianò, Castello e Parco dell'Acciaiolo, Scandicci (fi) 2006 “Hopes and dragonflies”, Galleria Monitor, Roma 2005 “Open Air”, cur. M. Paderni - I. Saccani, Orto Botanico, Parma; “Untitled”, cur. A. Ascari - E. Bonaspetti, Spazio Ventura xv, Milano. 1. Paesaggi strappati (Torn Landscapes), dalla serie / from the series “America”, 2009 -ongoing, stampe in bianco e nero su carta baritata / black and white prints on baryta paper, 30 × 45 cm cad. / each. Courtesy Galleria Monitor, Roma 2. Yellow daisies on monday (My Revolution) (Margherite gialle di lunedì - La mia rivoluzione), 2009, C-print, 60 × 40 cm cad. / each 3. Un attimo prima (Just a Little While Before), 2001, C-print su alluminio / C-prints on aluminium, 110 × 160 cm cad. / each. Courtesy Galleria Monitor, Roma
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Con un atteggiamento concettuale per certi aspetti simile alla deriva situazionista e alla flânerie urbana di Walter Benjamin – fare esperienza di situazioni, anche mentali, che sfuggono a visioni e codici prestabiliti – Alessandra Spranzi ricerca nel campo del reale ciò che sfugge al controllo, al razionale, al definito, per cogliere le contraddizioni nella loro pienezza e svelare la natura meno visibile e spettacolarizzata delle cose. Il suo sguardo “sovversivo” esplora la casualità, la transitorietà, lo spontaneismo, il rimosso. La fotografia funge da “inconscio tecnologico” che registra nell’istante il divenire mutevole e molteplice di un gesto, di un processo, attivando una diversa consapevolezza dell’essere. L’immagine fotografica è l’indice di tale coscienza. Interni domestici, strade cittadine, paesaggi naturali: i luoghi su cui si sofferma Spranzi sono territori ai margini, spesso anonimi e interstiziali, che fluttuano tra il visibile e l’invisibile, dove riscoprire l’alterità nelle sue diverse tracce (per esempio nel progetto Selvatico). Le sue storie (si pensi al lavoro La donna barbuta) la vedono protagonista quasi irriconoscibile di una narrazione tra la rêverie e la nuda realtà della condizione umana. Le sue fotografie sono esperienze dello sguardo che scardinano gli automatismi consentendo di esperire l’altrove, di vivere la molteplicità delle impressioni nell’unicità dello scatto, di velare la realtà con la sua immagine per svelarne l’anima. With a conceptual attitude which to a certain extent resembles the Situationist drift and the urban flânerie of Walter Benjamin – namely that experience of situations, including mental ones, that defy predetermined visions and codes – Alessandra Spranzi explores reality in search of elements which evade control, rationality, and definition in order to capture contradictions in all their fullness and reveal the less visible, spectacularised nature of things. Her subversive’ gaze explores chance, transience, spontaneity and repressed elements. Photography functions as a technological unconscious’ which captures in an instant the mutable, multiple potential futures of a gesture or a process, activating a different awareness of existence. The photographic image is the index of that awareness. Domestic interiors, city streets, natural landscapes: the places that Spranzi examines are on the margins, often anonymous and interstitial, fluctuating between visibility and invisibility, where the various traces of otherness can be discovered – for example in her project Selvatico (Wild). Her stories, such as La donna barbuta (The Bearded Lady), see her as the almost unrecognisable protagonist of a narration which lies midway between rêverie and the stark reality of the human condition. Her photographs are experiences of the gaze that break down automatic mechanisms, enabling us to encounter otherness and to experience the multiplicity of impressions contained in a single shot, masking reality with its image in order to unmask its essence. Nata a Milano nel 1962. Vive e lavora a Milano. / Born in Milan in 1962. Lives and works in Milan. Mostre personali / Solo Exhibitions 2008 “Selvatico (colui che si salva)”, cur. S. Menegoi, Fotografia Italiana, Milano 2005 “Cose che accadono”, cur. F. Pasini, Fotografia Italiana, Milano 2000 “La donna barbuta”, Galleria Emi Fontana, Milano - Gallerie Drantmann, Brussels 1999 “Quando la terra si disfa”, Metronom, Barcelona; “Dove sei?”, Galleria Emi Fontana, Milano 1998 “Alessandra Spranzi”, cur. G. Bertolino, Luigi Franco Arte Contemporanea, Torino 1997 “L’angelo del focolare”, c/o Careof, Cusano Milanino (mi). Principali mostre collettive / Selected Group Exhibitions 2009 “via Padova 2009”, La Triennale di Milano, Milano; “Terzo Paesaggio. Fotografia Italiana Oggi”, cur. R. Valtorta - W. Guadagnini - E. De Pascale, xxiii Edizione Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate, gam Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate (va) 2008 “Spazio Bianco”, cur. G. Verzotti, Four Emotions, St. Moritz (Switzerland); “Nessuna onda può pettinare il mare”, cur. L. Fassi, Fotografia Italiana, Milano 2007 “Storie immaginate in luoghi reali”, cur. R. Valtorta, Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo (mi) 2005 “Italian Camera”, cur. R. Gavarro, Isola di San Servolo, Venezia 2004 “Lo sguardo ostinato”, cur. E. Grazioli, man, Nuoro; “On air. Video in onda dall’Italia”, cur. A. Bruciati - A. Crippa, gc.ac Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, Monfalcone (go) 2003 “In natura”, cur. A. Detheridge, x Biennale di fotografia, Palazzo Bricherasio, Torino; “Imperfect marriages”, Galleria Emi Fontana, Milano 2002 “Nel bosco”, Galleria Monica De Cardenas, Milano; “Con Art: Magic / Object / Action”, cur. H. Varola, Site Gallery, Sheffield 2001 “A Sense of Wellbeing. Loss, History and Desires”, cur. M. Scotini, Karlovy Vary (Czech Republic) 2000 “Futurama, Arte in Italia 2000”, cur. B. Corà - R. Gavarro - M. Meneguzzo, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato; “Museo Entr’acte”, cur. M. Scotini, Museo Marino Marini, Firenze 1999 “Animals animaux tiere animali”, cur. M. Dantini, Galleria Continua, San Gimignano (si); “Biennale di Melbourne”, Padiglione Italia, cur. R. Pinto, Melbourne; “Alessandra Spranzi, Marti Llorens”, Murray Guy Gallery, New York, ny; “Da Guarene all’Etna, via mare, via terra”, cur. F. Maggia, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 1998 “Subway”, cur. R. Pinto, Linee Metropolitane / Underground Stations, Milano 1997 “Vertigo”, Galleria Emi Fontana, Milano; “Des Histoires en Formes”, cur. G. Scardi, Le Magasin, Grenoble. 1. La donna barbuta #17, #20, #6 (The Bearded Lady), 2000, fotografie in bianco e nero, dimensioni variabili / black and white photographs, variable dimensions 2. Cose che accadono #38, #1, #37, #11 (Things that Happen), 2002-2008, fotografie a colori, dimensioni variabili / colour photographs, variable dimensions. Courtesy Galleria Nicoletta Rusconi, Milano 3. Vendesi gatto con occhi gialli (Yellow-eyed cat on sale), Fogli bianchi accartocciati (Crumpled white sheets), Albergo una stella (One-star Hotel), Il taglio dei capelli (Hair cut), 2008, dal progetto “Selvatico (colui che si salva)”, fotografie a colori, dimensioni variabili / from the project ‘Wild (he who saves himself)’, colour photographs, variable dimensions. Courtesy Galleria Nicoletta Rusconi, Milano
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«Non c’è tristezza nella donna barbuta, c’è anzi una serenità selvaggia, pervasiva, una serenità inquieta, a volte una malinconia mista a pace. La donna barbuta percorre i suoi prati, i suoi sentieri, è sola, nel silenzio, lontano dal brusio, dai sorrisi sprecati. Riconosce il lontano e il vicino, le stagioni che arrivano e che vanno, le ombre della sera. Sa che stare al mondo è sfidarlo, pungerlo, provocarlo. È scegliere di starci.» A.S. «There is no sadness in the bearded lady, more a pervasive feral poise, an unsettling serenity, at times a wistfulness mixed with peace. The bearded lady travels across her fields and paths, she is alone, in silence, far from the hustle and bustle, from wasted smiles. She recognises the far and near, the seasons that come and go, the evening shadows. She knows that living in this world means challenging it, piqueing it, provoking it. It means choosing to be there.» A.S.
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190 «La nostra ricognizione del mondo si ferma spesso a un riconoscimento, a un ritrovare il mondo come e dove lo si era lasciato. Vedere e riconoscere come automatismo dell’occhio e del pensiero, fra pigrizia e desiderio: ma qualche volta, accadono cose che sospendono quell’automatismo. Riconosciamo qualcosa, ma solo in parte, l’altra occupa gli spazi della somiglianza a qualcosa che non si conosce, che non si vede. Il mondo visibile è sempre frequentato dall’invisibile, da ciò che è stato e non è più, da ciò che mai potrà essere e di cui solo si può immaginare. Intorno a noi, dentro di noi, accadono cose di cui non sappiamo, impossibili, insensate, inutili: sono degli incidenti, noi siamo dei complici o delle vittime, il Caso precipita dentro la realtà e la modifica.» A.S. «Our awareness of the world often stops at a recognition, which consists in finding the world how and where we left it. Seeing and recognising as automatisms of the eye and the mind, a mixture of indolence and desire: but sometimes things happen that suspend that automatism. We recognise something, but only in part, the other part occupies the space of a resemblance to something we do not know, and that we cannot see. The visible world is also frequented by the invisible, by what has gone before and is no longer, by what can never be and that we can only imagine. Around us, inside us, there are things happening that we do not know about, impossible, meaningless, useless: accidents we are accomplices or victims to, Chance plunges into reality and changes it.» A.S.
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«Questo non è un progetto che riguarda la precarietà delle piccole cose né la malinconia dell’animale in cattività, ma la violenza di ogni addomesticamento ed educazione, e nello stesso tempo la speranza di una resistenza e di una possibilità di salvezza. La salvezza nel selvatico. Le cose sono finalmente libere dalla schiavitù di essere utili. Gli animali da quella di essere amici. L’uomo da quella di sorridere, può finalmente voltarsi e dare le spalle, andare indietro, dentro la selva, errare, salvarsi. Ritrovare il bambino che è stato, che era perso, abbandonato. Noi non sappiamo più nulla della nostra infanzia. Il primo sorriso, il primo passo, la prima parola, la prima ciocca, crescendo si impara, si abbandona la selva, si dimentica, ci si perde. Continuo a girare intorno a queste due parole, selvatico e salvezza, che si incontrano nel salvatico. Forse solo dentro la selva, dove il sole non riesce ad entrare, c’è salvezza.» A.S. «This is not a project about the precariousness of small things, or the sadness of animals in captivity, but the violence involved in taming and education, and at the same time hope for resistance and a possibility of salvation. Salvation in the savage. Things are at last freed from the slavery of being useful. Animals from that of being friends. Man from that of smiling, meaning he can finally turn his back on things, go back into the forest, roam free, save himself. Rediscover the child he once was, the child that got lost and abandoned. We no longer know anything about our childhood. Our first smile, first step, first word, first lock of hair. As we grow we learn, we abandon the forest, forget the past and lose out. I keep going over these two words, savage and salvation, coming together. Perhaps in the forest, where the sun does not penetrate, there is salvation.» A.S.