Foto di copertina: Mario Schifano, 1974
«Di Schifano nessuno poteva dire “è mio e me lo gestisco io”… nemmeno io. […] Non ha mai identificato l’arte con la vita e non ha mai fatto l’errore di pensare che tutta la vita fosse artistica.» Achille Bonito Oliva
Foto Nancy Ruspoli © Archivio Mario Schifano
Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli 7. Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi 8. James Westcott Quando Marina Abramović morirà 9. Ambroise Vollard Memorie di un mercante di quadri
Mario Schifano. Una biografia
Luca Ronchi, nato a Milano nel 1956, vive a Roma dal 1973, anno in cui ha anche conosciuto Mario Schifano. Dal 1979 è autore e regista televisivo per diversi programmi di arte e cinema. Nel 2001 ha realizzato e presentato alla 58a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il documentario Mario Schifano Tutto, di cui questo libro è la continuazione e la rivisitazione.
«La casa è dove si trova il cuore, dicono. E il cuore di Mario – e la sua arte, che gli veniva dal cuore – era decisamente in casa. E nello starsene lì. Ho sempre visto i vari habitat di Mario come un’Astronave Schifano in partenza verso il mondo esterno, con un oscuro comandante che navigava i bassifondi stellati della sua immaginazione spinto da un incessante appetito carnivoro che ne chiedeva sempre di più.» Anthony Foutz
Luca Ronchi
delle cronache mondane c’è un pittore ancora tutto da scoprire che negli ultimi tempi amava citare una frase di Lucian Freud: the man is nothing, the work is everything.
Luca Ronchi
Mario Schifano Una biografia
ISBN 978-88-6010-078-8
IS BN 97 888
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«Mi conoscono anche quelli che non mi conoscono, quindi inventate quello che volete»: così Mario Schifano era solito allontanare gli aspiranti biografi che lo assediavano. Tanto che al giorno d’oggi uno degli artisti italiani più prolifici e amati – nonché falsificati e chiacchierati – del xx secolo paradossalmente è anche uno dei meno conosciuti. Attraverso una narrazione a più voci delle persone che lo hanno “vissuto”, seguito e sopportato, Luca Ronchi ci offre una possibile biografia di Mario Schifano, con tutti i lati oscuri, le sorprese, le debolezze e l’intimità di un personaggio ormai entrato nella leggenda. Lo scenario del viaggio nel tempo propostoci da Ronchi non può che essere Roma, il «paesone cosmopolita» che durante la guerra accoglie Schifano ancora bambino di ritorno dalle bianche spiagge della Libia. Sotto gli indimenticabili cieli della Città Eterna, sulla terrazza di piazza Scanderbeg che fungeva da studio en plein air, nei primi anni sessanta Mario inizia a dipingere quei monocromi che lo renderanno uno dei protagonisti dell’arte italiana del Novecento. Ed è sempre a Roma che decide di continuare la sua avventura pittorica e di costruire, in un vortice di «lucida follia», il suo universo underground all’insegna della trasversalità e del “meticciamento”. Fonda un gruppo pop-rock; si cimenta in filmati all’avanguardia; frequenta intellettuali e aristocratici; cambia macchine, abiti e televisori con una rapidità sconvolgente; viene arrestato e “messo alla gogna” per il consumo di sostanze stupefacenti: simile a «un piccolo puma di cui non si sospetterebbe mai la muscolatura e lo scatto, molto elegante nei movimenti e nei comportamenti», Schifano era da tutte le parti, non stava mai fermo. Dotato di un fascino innato e di una «bellezza alla Rodolfo Valentino», è anche un grande seduttore: da dive come Marianne Faithfull o Maria Schneider alle sue tre donne più importanti Anita Pallenberg, Nancy Ruspoli e Monica De Bei, la madre di suo figlio. Forse nell’immaginario popolare Schifano resterà sempre l’incarnazione perfetta della concezione romantica che vede nell’artista genio e sregolatezza. Oltre la fama, però, spenti i flash
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Luca Ronchi
Mario Schifano Una biograďŹ a
Apparati iconograďŹ ci a cura di Monica De Bei Schifano
1958-1963
Non si può pensare alla biografia di Mario Schifano senza pensare a Roma, senza cercare di capire Roma. Per quanto incommensurabili siano i due elementi posti a confronto – il pittore e la città –, essi sono imprescindibili l’uno dall’altro: cosa forse comprensibile se riferita all’uomo, al singolo, all’artista, ma vera anche considerando il secondo fattore, quella città per un verso così indifferente e così “puttana”, ma per l’altro così contraddittoriamente accogliente e materna, come avevano ben capito il Pier Paolo Pasolini di Mamma Roma o il Federico Fellini di Roma, due registi non romani, diversissimi tra di loro, che avevano eletto quel luogo a “luogo” per eccellenza. Chi, non essendo romano, eleggesse a propria città Roma – fosse un papa, un imperatore o un artista – non lo farebbe per obbligo o per consuetudine, ma per una vera e propria scelta, per un’adesione convinta ai modi sonnacchiosi, cinici, esagerati e apatici al tempo stesso che le hanno valso l’attributo di Eterna: un’eternità fatta di una grandiosità quotidiana, dove anche ordinare un cappuccino al bar assume i connotati di una dichiarazione “urbi et orbi”. Appunto. Quando Mario Schifano arriva a Roma la città, che pure conta più di due milioni di abitanti ed è la capitale d’Italia e la sede del Vaticano, è ancora un grande paesone, fatto di quartieri dove la vita è scandita da rapporti interpersonali consolidati, da conoscenze e da abitudini tipiche di piccole comunità, piuttosto che da necessità confacenti a una metropoli: solo che la “piccola comunità” può comprendere il papa, o almeno chi gli sta molto vicino, o la cura di un patrimonio universalmente riconosciuto come culla e deposito della civiltà occidentale. Chi vive a Roma non sente la necessità di spostarsi o di viaggiare: prima o poi quel che avviene di importante nel pianeta gli passerà davanti, o entrerà nella propria bottega, con l’aspetto di un avventore abituale, e come tale verrà trattato. Queste caratteristiche, che durano ancora oggi, e che non sembrano mostrare segni di cedimento, negli anni cinquanta avevano affascinato molti intellettuali americani. Anche sulla scia della passione e dell’interesse mostrato dal mondo cinematografico statunitense, che aveva scoperto Cinecittà e un modo di produrre film sostanzialmente diverso (e più economico), Roma diventa una
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delle capitali privilegiate dello scambio culturale tra Europa e America: negli anni cinquanta in pratica tutti gli artisti attivi negli Stati Uniti visitano Roma soggiornandovi anche per lunghi periodi (Cy Twombly vi si fermerà definitivamente). Non sono artisti che Schifano sentirà come compagni di strada o maestri – né loro, né la generazione romana appena precedente la sua con Turcato e Scialoja, neppure Guttuso –, ma contribuiranno a rendere l’atmosfera di Roma diversa, più internazionale e nello stesso tempo più fiera e consapevole delle proprie peculiarità. È in questo periodo che nascono le gallerie d’arte più importanti, che guideranno il gusto romano per tutti gli anni sessanta: La Salita di Gian Tomaso Liverani, L’Appia Antica di Topazia Alliata, La Tartaruga di Plinio De Martiis, L’Attico di Fabio Sargentini sono tra i pochissimi poli di un sistema dell’arte nascente, che si innesta in quel particolarissimo tessuto sociale che è la città di Roma. Dopo esordi lavorativi vicini alla fabrilità artigianale del padre, restauratore al Museo etrusco di Valle Giulia, Schifano si avvicina agli artisti che stavano già mettendo in discussione la stagione e i modi dell’Informale (la sua prima mostra importante alla Salita, con Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio e Giuseppe Uncini, nel ’58), ma il suo percorso è sostanzialmente quello di un solitario, che talora si avvicina a qualche tendenza in auge, come quella pop “romana” di cui diventa, già dal ’63, il leader. In quei brevi cruciali anni l’artista matura ed 20
esaurisce la stagione dei Monocromi (1960-1962) e si lancia verso una figurazione carica di evocazioni antiche e di velocità contemporanee. Nel ’63 ha già bruciato anche il contatto – e il contratto – con Ileana Sonnabend, che esigeva una continuità produttiva con l’astrazione monocroma. Sempre nel ’63 raggiunge New York su un transatlantico. Vi resterà pochi mesi. Marco Meneguzzo
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fabio mauri — Nera e oscura, Roma era irriconoscibile. Di notte poteva essere quasi ottocentesca anche se eravamo nel periodo della cosiddetta “dolce vita”. La modernità stava verso nord, verso il villaggio olimpico o vicino a via Veneto dove c’erano gli alberghi, gli uffici, le compagnie aeree e gli stranieri. Quello che oggi viene chiamato il Tridente, la zona tra piazza del Popolo e piazza di Spagna, era il quartiere artistico della città che aveva una sua armonia con gli artigiani, i corniciai e risentiva della vicinanza con via Margutta. Piazza del Popolo era il centro del nostro mondo. Eravamo pochi, un piccolo gruppo, poche decine, tutto il resto della città era uniforme e molto romano, molto normale, la borghesia non esisteva, ci ignorava. La borghesia romana era la più volgare d’Italia, poi c’erano i principi fascisti e gli aristocratici eccentrici e curiosi, gli unici che avevano viaggiato, ma erano rari, la maggior parte era rimasta ferma ai tempi del fascismo, pensava solo ai cavalli e alle cacciarelle nei suoi latifondi. Il cinema aveva portato in città molti stranieri, ma dal punto di vista intellettuale non erano granché. Comandava la Democrazia cristiana. Gli unici che ci guardavano con un minimo di rispetto erano i comunisti, non tutti certamente. Renato Guttuso era epico, greater than life. Nel dopoguerra italiano è stato lui ad aiutarci insieme ad altri intellettuali. Non posso dimenticare Emilio Villa, un personaggio eclettico e raffinato, colto e poverissimo, Liverani e Palma Bucarelli. Ripensandoci eravamo veramente solo un piccolo gruppo, quattro gatti. Roma ci sopportava come ha sempre sopportato tutti, immobile e mai turbata nei secoli. Le donne non erano belle come lo sono adesso. La povertà e la cattiva alimentazione non aiutavano l’estetica. plinio de martiis — Non ho troppa voglia di raccontare, quello è un periodo ormai sparito. Adesso possiamo ricordarlo come prima si faceva con gli anni trenta. Però bisogna riconoscere che allora Roma c’era.
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Sandro Franchina a piazza del Popolo nei primi anni sessanta.
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C’era per la quantità di cose che si facevano e che accadevano, pensa a Rossellini, a Fellini che cominciava, a De Sica che aveva fatto quei tre capolavori. C’era Burri, un artista eccezionale, c’era la Galleria d’arte moderna con la Bucarelli che è stata una grandissima direttrice e che ha saputo fare delle mostre uniche, con Pollock e Rothko. E poi c’erano gli americani che venivano a Roma ed erano quasi di casa. De Kooning ci rimase sei mesi e se ne andò a malincuore. giuseppe uncini — Roma in quel momento, alla fine degli anni cinquanta, era una provincia ma anche internazionale. Non so esattamente la ragione ma attirava molta gente, soprattutto molti americani. Mi ricordo che l’Accademia americana al Gianicolo era piena di studenti con le borse di studio, che di solito duravano tre mesi, e loro con i dollari riuscivano a starci due anni. In via Margutta, dove abitavo, arrivarono con i dollari e affittarono, occuparono tutto, e noi fummo costretti ad andarcene. E poi il cinema… Hollywood sul Tevere. Erano anni bruttissimi, la vita era nera, era dura, fare una mostra era una cosa straordinaria, un’avventura. Gli inviti si facevano con cartoncini poveri e poi quando si riusciva a organizzare qualcosa non succedeva nulla, non vendevamo nulla. Se succedeva qualcosa era grazie all’America, quando qualcuno vedeva delle opere e le portava in America, come per Burri e Afro. Le persone che facevano da ponte erano Scialoja, Cy Twombly e William Demby. La Pop Art arrivò a Roma quando un giorno finì dentro al bar Rosati una rivista con le prime immagini di Rauschenberg, di Jasper Johns, un giornale mai visto, con le fotografie a tutta pagina, colorate. Era un incanto, uno sbalordimento. Ce la passavamo tra di noi come un tesoro. plinio de martiis — A Roma era un periodo curioso. È cominciato nel ’57 con l’arrivo di questo pittore che si chiamava Conrad Marca-Relli, uno della troupe espressionista astratta; non era un protagonista ma uno che contava in quel giro, amico di Pollock, di de Kooning, di Kline eccetera. Questo Marca-Relli arrivò a Roma perché aveva conosciuto in America Afro e anche Toti Scialoja, e venne a finire nella mia galleria. Noi dell’America sapevamo già tutto perché arrivavano riviste con immagini, riproduzioni dove si poteva vedere la pittura che si stava facendo in quel momento, ed era una cosa che ci aveva affascinato tutti perché quello che veniva allora da Parigi era insopportabile, era la coda di una cosa lagnosa, l’Informale, che aveva creato cose fantastiche ma aveva un po’ stufato perché era molto inflazionata. Insomma dall’America arrivavano queste immagini che erano parallele alle cose che noi sentivamo qui a Roma, giuro, parallele… Era lo spettacolo delle città, delle prime autostrade, le nuove immagini della segnaletica stradale e delle cattedrali del petrolio: le stazioni di benzina.
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fabio mauri — Io, impoverito da un matrimonio sbagliato, avevo accettato da Valentino Bompiani l’incarico di dirigere la sede romana della casa editrice. Un giorno venne da me in ufficio Leo Castelli con il menabò di un libro che costava troppo fare in America, un libretto su un nuovo pittore, un giovane sconosciuto: Andy Warhol. Aveva con sé anche un progetto di Rauschenberg sull’Inferno di Dante. Alla casa editrice non ne vollero sapere, erano troppo sospettosi su quello che proponevo in materia di avanguardia. Così mi limitai a ospitare sull’Almanacco, di cui fui incaricato di allestire il primo e il secondo numero, le nuove correnti italiane. Poi pubblicai le foto che Castelli mi aveva inviato da New York. Cercai di rendere storico un fatto che già lo era: Roma e New York stavano maturando le stesse idee, spesso la prima in netto anticipo sulla seconda. L’America sembrava spuntare con i suoi grattacieli subito dietro Ostia. L’ho anche scritto in un articolo per Flash Art. plinio de martiis — Io di Mario potrei raccontare tante di quelle cose, ma non mi va… Una volta l’ho visto fermo in bicicletta dietro piazzale Flaminio, parliamo della fine degli anni cinquanta, mentre guardava gli operai che coprivano di fogliacci bianchi i cartelloni con la pubblicità già scaduta. Capisci, il suo la24
voro partì da queste cose… Una tela su cui incollava carta, a pezzi, come un manufatto temporaneo. Sopra poi passava con una pennellessa uno smalto giallo, o un rosso meraviglioso, o un verde. fabio mauri — Mi pare abitasse in via Brunetti, nella stessa casa dove sopra stavano Moravia ed Elsa Morante e di fianco abitava Mimmo Rotella. Mimmo, anche lui… Mi ricorderò sempre quando di sera vedevo in fondo a via dell’Oca, all’angolo con via di Ripetta, un uomo con un cappelletto e un grande coltello piatto da pasticcere davanti a un cartellone pubblicitario con manifesti cinematografici. Li staccava a pezzi con il coltello… Mimmo Rotella. Era una di quelle combinazioni storiche, nessuno ci ha riunito con l’ago e il filo. Il tramite tra noi erano Plinio De Martiis e Cesare Vivaldi insieme a quel genio assoluto di Emilio Villa, un grande letterato, uno che traduceva la Bibbia dall’antico ebraico, che conosceva il sanscrito e l’aramaico. Ci incontravamo tutti i giorni all’una al caffè Rosati dove c’era tutta la pittura italiana del momento. Tutti. Nessuno che non venisse mai. Afro, Novelli, Perilli, Dorazio, Turcato, Mafai con la moglie. Poi c’erano i pittori americani che venivano a Roma. Rauschenberg esponeva alla galleria l’Obelisco in via Belsiana. E Cy, che portò una pittura che ci colpì perché era diversa da tutto. Per noi fu un’esca terribile. La mostra che
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fece da Plinio con questi quadri bianchi di pittura a olio e dentro tutti questi segni fatti con le matitone, i segni dell’inconscio, sconvolse tutti. Erano troppo semplici, elementari come tutte le grandi idee. Avevamo visto qualcosa di simile solo istoriato sui cessi. Twombly era lirico e rituale. Me lo ricordo autonomo e solitario, stava per ore seduto in un bar a guardare la gente e a ridere. giuseppe uncini — Io avevo lo studio in vicolo Scavolino a Fontana di Trevi, Mario Schifano a piazza Scanderbeg, eravamo molto vicini, ci interessavano le stesse cose, avevamo gli stessi entusiasmi, le stesse speranze. La nostra frequentazione era quotidiana, si parlava a lungo, si pensava alle cose da fare, come e perché. Era questa la nostra ricchezza in serate che diventavano albe. Lui faceva quadri con le terre e io quasi lo stesso, era il ’58, i suoi lavori erano un po’ informali, i miei più geometrici, però lo spirito era quello. Sentivamo entrambi l’impellente esigenza di non ricadere nell’accademia dell’Informale, eravamo stufi di quella sovrabbondanza di pittura, di colori, di gesti, cercavamo qualcosa d’altro. E parlavamo solo di questo: «Io penso, io ho fatto, io farei…». Quando venne in piazza Scanderbeg io stavo trafficando con i miei primi cementi e anche lui faceva cementi graffiati con gesti, cementi distesi su tela di iuta, con questi segni, una specie di graffiti, cose un po’ arcaiche. Allora lavorava ancora al Museo etrusco come disegnatore di rilievi antichi. Un giorno avemmo un sussulto, quasi un colpo di rabbia e ci dicemmo: «Bisogna azzerare tutto, basta con la pittura e i colori, ricominciamo da capo». Scattò l’idea
Sandro Franchina, Sandro Brunori e Guido Cosulich durante le riprese di Collage di Piazza del Popolo.
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del monocromo, non importava più il disegno, non importava più niente. Io in un certo senso ci ero già arrivato, già lavoravo con il cemento. Lui, più pittore di me, faticò parecchio ad abbandonare l’idea del colore, del disegno, del quadro, però lasciò tutto e ricominciò con una piccola tela. Sì, iniziò con un piccolo quadretto, stese dello smalto nero e nella stesura lasciò alcune parti leggermente scoperte. Era una pittura un po’ tirata via, molto disinvolta, quasi una strafottenza, un “me ne frego”. Questo quadro, insieme a un mio cemento, diventò per qualche giorno oggetto di discussione. Cominciammo a giudicare quello che ci era accaduto. Li lasciammo lì, insieme e vicini, poi decidemmo di lavorare ognuno per conto proprio e per un po’ di tempo non ci vedemmo. Dopo una settimana ci rincontrammo e decidemmo di andare avanti con quest’idea.
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2 Monocromi
francesco schifano — Mario andava a lavorare al Museo etrusco in bicicletta da Cinecittà. Tutto contento, veniva da laggiù. Era nato in Libia nel ’34, a Homs, dove nostro padre faceva l’archeologo, ma questo si sa. Durante la guerra siamo stati costretti a scappare e a venire in Italia, stavamo a Cinecittà, dentro gli studi cinematografici trasformati in campi profughi. Poi ci hanno mandato a Trastevere, alla caserma Lamarmora, un altro campo profughi. Non ha mai studiato, non gli andava, ha ripetuto due volte la prima media, due volte la seconda e poi si è stufato. Nel ’52 siamo tornati nei pressi di Cinecittà perché a mio padre avevano assegnato una casa e Mario ha cominciato a lavorare al museo. Aveva diciotto anni. Il lavoro non è che lo entusiasmasse tanto, però era bravo. La sua indole era diversa, andava in giro, faceva quello che voleva, e basta. Al Museo etrusco era bello, io a volte lo andavo a trovare, aveva una certa autonomia, faceva un po’ quello che gli pareva. Certi giorni non rimaneva nemmeno e se ne andava in giro in bicicletta per la città. Lì ha lavorato fino al ’62, prima non di ruolo, poi come dipendente fisso del ministero. Quando ha lasciato il lavoro, per i miei è stato un po’ un trauma perché per mio padre farlo entrare non era stata una cosa facile, non riuscivano a capire come si potesse lasciare un posto fisso. Mario, però, aveva già cominciato a pitturare come fosse una professione e non poteva seguitare a fare questo e quello, ormai lavorava solo come pittore. E mio padre alla fine non ha potuto fare altro che accondiscendere. Nel periodo in cui veniva a lavorare in bicicletta faceva anche le corse, era in una squadra ciclistica del dopolavoro ospedaliero, non so come ci fosse arrivato, e ha fatto pure parecchie gare. Non è che fosse un campione, correva per passione, tutto qui. E poi aveva questa passione per la pittura, lui a casa pitturava sempre, faceva quadri figurativi, mi ha fatto molti ritratti, si è fatto il suo, era sempre lì a trafficare con matite e fogli di carta. Faceva esperimenti, gli ho visto fare cose stranissime con i fogli… Ecco, per lui avere una matita in mano era il massimo.
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Mario Schifano, Numero 3, 1960.
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E poi aveva un’altra passione: le donne. Era molto simpatico, estroverso, aveva successo, beato lui. Ma non gli piaceva studiare e odiava la scuola. Mi ricordo benissimo quando andammo a vedere le pagelle della fine dell’anno scolastico. Lui era ragazzino, quindicenne, le pagelle erano quelle della seconda media, quando fu bocciato per la seconda volta e decise di non continuare più. Stavamo passando su ponte Garibaldi, non c’era nessuno, lui si affacciò al parapetto, guardò giù l’acqua del Tevere e disse: «Francé, quasi quasi io me butto». E poi un’altra cosa, sempre per far capire che tipo potesse essere Mario a quei tempi… Qualche anno dopo, noi abitavamo a Trastevere vicino al cinema Esperia, una sera ci vennero a chiamare perché Mario era al commissariato. Durante la proiezione di un film lui aveva aperto l’ombrello perché da sopra sputavano, successe un po’ di casino, arrivarono gli agenti di polizia e lo portarono via. Venne a casa e si prese un po’ di botte da mia madre. Mi ricordo l’amicizia con Tano Festa, che veniva sempre a mangiare da noi. Mamma gli faceva il cous cous e lui e Mario prendevano in giro mio padre che era democristiano, si alzavano in piedi e cantavano l’inno Bandiera rossa davanti a lui. fabio mauri — Tano e Mario erano molto amici, stavano sempre insieme, erano giovani, appena ventenni. Tano all’inizio scriveva poesie che distribuiva ai passanti in via del Babuino o in piazza di Spagna. Ogni tanto veniva fermato dalla polizia perché era considerato un elemento pericoloso. Faceva anche piccoli disegni molto concettuali, che si richiamavano a Malević, ai suprematisti russi. Però me lo ricordo sempre in giro, anche con Franco Angeli, molto interessati alle ragazze. Loro tre avevano sempre problemi con le donne. La madre di Tano Festa, che aveva un albergo vicino alla stazione Termini, li rimproverava di continuo e si lamentava dicendo: «Ma che gli fate voi alle donne, non se ne può più…». giuseppe uncini — In quel tempo Mario me lo ricordo molto riflessivo e preoccupato non solo per la pittura, ma anche per la sua vita. Desiderava migliorare la sua esistenza e si lamentava della sua condizione di impiegato al Museo etrusco. Diceva: «Io sono ancora uno dei tanti che alla sera deve tornare a casa con il tranvetto». Mi fece conoscere i suoi amici: Franco Angeli, Tano Festa e Francesco Lo Savio. Lo Savio era quello che sentivo più vicino, anche lui stava abbandonando l’idea della pittura per un lavoro molto pensato con i concetti di luce e spazio. Il suo problema era come ottenerlo. Prima lo dipingeva, perché i suoi filtri erano dipinti, non erano fatti a spruzzo come molti pensano. Erano opere con velature sopra velature, tutto molto lavorato, con una tecnica superraffinata, l’alone impregnato dentro la tela. Lui
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Mario Schifano a piazza del Popolo, 1962.
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non rischiava il gesto, l’Informale, la pittura colorata. Era già oltre tutto questo. Io con i miei cementi e Lo Savio con i suoi filtri eravamo molto vicini, erano opere che venivano dalle stesse riflessioni. Qualche anno dopo, qualche giorno prima del suo suicidio, andammo insieme al cinema, al Rialto, a vedere quel famoso film con Picasso che dipinge dietro a un vetro. Durante la proiezione Lo Savio parlò senza mai fermarsi di quanto era scontento. Si lamentava di non essere stato inserito nella guida Monaci dei professionisti, non so sotto quale voce, forse quella degli artisti. Era molto inquieto e tormentato da problemi pratici, di sopravvivenza; turbato dalle difficoltà della vita quotidiana, dalla mancanza di soldi. Provava un gran desiderio di lavorare, di fare mostre, di produrre e non aveva i soldi neanche per acquistare i materiali.
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Io però credo che questa povertà abbia prodotto grandi idee, grandi spinte ideali. La povertà ci rese più forti e più coraggiosi. plinio de martiis — Mario frequentava soprattutto Tano Festa. Franco Angeli un po’ meno. Tano aveva studiato qualcosa, era un po’ l’intellettuale del gruppo. Conosceva a modo suo la storia dell’arte e scriveva poesie, molto belle. Le hai mai lette? Era amico di Sandro Penna, un altro che stava sempre lì da me. Capisci… Allora non c’era quella divisione che c’è adesso, gli scrittori stavano con i pittori, i poeti con i cineasti, gli attori con i musicisti… Mario e Tano avevano due cose in comune: una gran voglia di fare, che non era un’ambizione piccolo borghese ma un desiderio di creatività e di cambiamento, e poi l’assoluta mancanza di denaro. giuseppe uncini — Lo strumento che veicolò questa idea del monocromo, del non quadro, fu una macchina fotografica che Mario allora, nel ’58, non aveva. Si può immaginare Schifano senza macchina fotografica? No! La prima che ebbe tra le mani fu la mia Rolleiflex. Aveva il visore reflex e le immagini che si vedevano là dentro erano magiche, diventavano tutte bellissime. Appena Mario vide la macchina rimase incantato. Disse: «Me la devi prestare, dammela». Io non ero troppo convinto, per me era una cosa preziosissima, ma alla fine gliela prestai. Lui, però, non sapeva fotografare e dopo qualche giorno tornò e mi chiese: «Dimmi come si fa…». Così cominciò a fare le prime fotografie. Fu quella visione, la forma dello schermo, che venne fuori sul monocromo. Infatti quel contorno a schermo dove poi lui dipingeva dentro con il colore nero, il bianco e nero – e dopo con il verde, il giallo e il rosso – aveva la forma del visore di una macchina fotografica. L’idea era questa: vedere la realtà filtrata da uno schermo, da un mezzo tecnologico. Il primo a vedere i lavori fu Emilio Villa, il “grande galeotto”, che ci incoraggiò. Era una persona inafferrabile, stupefacente, al di fuori di ogni accademia, un grande poeta. Rimase molto colpito. Improvvisamente smettemmo di essere “quelli più o meno bravi” e diventammo quelli che ponevano dei problemi e pensavano in grande. Mario gli fece vedere due monocromi che aveva preparato giorni prima, uno era convesso come uno schermo tv, con una tela metallizzata. Emilio Villa lo guardò attentamente e disse: «Sì, questo mi piace, si richiama al concretismo tedesco… È come se tu avessi voluto fare un’ala di aeroplano…». E se ne andò perché doveva vedere Ungaretti. Subito dopo Mario prese una piccola tela, ci attaccò sopra un foglio di carta da pacchi e lo pitturò di giallo. Ecco com’è nata la storia dei monocromi.
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Mario Schifano, Botticelli, 1962.