«Questo libro è un modo fantastico per riuscire a capire il lavoro di Marina. Non solo i suoi lati iconico-monumentali più noti, ma anche quelli spirituali ed emotivi. Un testo dal valore inestimabile sul mondo della Performance Art, così difficile da documentare.» Björk «Un viaggio incredibile. Mi sono innamorata di Marina all’istante, fin dal nostro primo incontro a Parigi, quando la vidi girare su un furgone per giorni. La biografia di Westcott ce la fa scoprire in tutte le sue meravigliose contraddizioni.» Laurie Anderson «Marina Abramović rappresenta il sogno che il mondo possa muoversi verso un paradigma più femminile, circolare e aperto, lontano dalla visione patriarcale dell’espressione creativa.» Financial Times
Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli 7. Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi
Quando Marina Abramović morirà
Foto di copertina: Marco Anelli, Portrait with the Flowers 2009 © Marina Abramović
«Mi sembrava che Marina potesse tirar fuori più cose da se stessa che dalla superficie di un dipinto. […] Era nata per stare davanti al pubblico: dipingere non le bastava.»
James Westcott
James Westcott, critico d’arte e giornalista, ha scritto per Guardian e Village Voice ed è autore di numerose pubblicazioni di arte, architettura e politica. Attualmente vive a Rotterdam, dove lavora all’Office for Metropolitan Architecture. È stato a lungo l’assistente di Marina Abramović, per la quale, come primo incarico, ha trascritto minuto per minuto le azioni da lei compiute nella storica performance The House with the Ocean View alla Sean Kelly Gallery. Westcott ha anche partecipato, nel maggio 2010, al workshop di Abramović “Cleaning the House”, tenutosi in Andalusia, per «vivere in tutto e per tutto in base al suo esempio».
James Westcott
Quando Marina Abramović morirà
Belgrado 1974. Marina Abramović dà fuoco a una monumentale stella a cinque punte, simbolo del regime di Tito, ci si distende dentro fino a svenire per asfissia. Un anno dopo a Napoli, uno spettatore le punta al collo una pistola carica: l’artista ha sfidato il pubblico a usare su di lei, risolutamente passiva, uno qualsiasi degli oggetti predisposti su un tavolo. New York 2002. Marina vive per dodici giorni in un’abitazione pensile allestita alla Sean Kelly Gallery. Digiuna. Il solo nutrimento è l’avido sguardo degli astanti che la osservano bere, dormire, lavarsi e urinare. Tra la schiera di spettatori c’è James Westcott: è il suo primo incontro con “la nonna della Performance Art”, come lei ama definirsi, e l’incipit di Quando Marina Abramović morirà, biografia intima di un’artista che da quarant’anni gioca con la morte mettendo il proprio corpo al centro di performance leggendarie. Agli esordi, lanciarsi nell’arte performativa significa per Marina ribellarsi a un’educazione “militarizzata”, tiranneggiata da una madre che le impone diktat culturali comunisti e non la bacia mai. Il taglio netto con Belgrado e il decollo della carriera avvengono dopo l’incontro con l’artista tedesco Ulay, con il quale, a bordo di un furgone Citroën trasformato in casa mobile, gira l’Europa e si esibisce in pezzi che mettono a nudo una simbiosi estrema culminata nell’esibizione di Nightsea Crossing. Ripetuta novanta volte in cinque anni, i due si fissano negli occhi per sette ore consecutive, seduti immobili a un tavolo. Nell’ultima performance di coppia, Marina e Ulay s’incamminano dalle estremità opposte della Grande Muraglia cinese per incontrarsi a metà strada, tre mesi dopo, e dirsi addio. Di nuovo solista e presto consacrata dal Leone d’oro del 1997, Abramović approda infine sotto i riflettori di New York, da dove domina tuttora la scena artistica internazionale. Piu volte le è stato chiesto se durante le sue audaci azioni abbia mai avuto paura di morire. «Okay, muoio. E allora?» risponde. «La vita è un sogno e la morte è un risveglio. Piuttosto, dovremmo pensare a quanto è preziosa la nostra esistenza e al modo insensato in cui la sprechiamo.»
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James Westcott
Quando Marina Abramović morirà Traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini
Prefazione
Quando Marina Abramović morirà dovrà essere rispettata la seguente procedura, come è stabilito nel suo testamento: In caso di mia morte, desidero che si svolga la seguente cerimonia commemorativa: Tre bare. La prima con il mio vero corpo. La seconda con un’imitazione del mio corpo. La terza con un’imitazione del mio corpo.
15 Tre persone si occuperanno di portare le tre bare in tre diversi luoghi del mondo (America, Europa e Asia). I loro nomi e le istruzioni da seguire saranno conservati in una busta sigillata. La cerimonia commemorativa si terrà a New York, alla presenza di tutte e tre le bare chiuse. Dopo la cerimonia le persone indicate seguiranno le mie istruzioni per la collocazione delle bare. È mio desiderio che tutte e tre vengano sepolte nella terra. Tutti coloro che parteciperanno alla cerimonia finale dovranno essere informati che non devono vestirsi di nero e che s’incoraggia l’uso di qualsiasi altro colore. Desidero che i miei ex studenti… creino un progetto per questa occasione. Per l’inizio della cerimonia voglio che Antony di Antony and the Johnsons canti My Way di Frank Sinatra. La cerimonia sarà insieme una celebrazione della vita e della morte. Al termine seguirà una festa con una grande torta di marzapane che avrà la forma e le sembianze del mio corpo. Voglio che la torta sia distribuita tra tutti i presenti.
Prima parte Jugoslavia 1946-1975
1 Il male di nascere
Danica e Vojin Abramović avevano l’abitudine di festeggiare il compleanno di Marina il giorno della Repubblica, che cadeva il 29 novembre. In quello stesso giorno del 1943 il Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia si era proclamato autorità suprema del paese, sfidando sia le forze di occupazione naziste sia la monarchia jugoslava in esilio a Londra. Sempre in quella data, ma due anni dopo, i comunisti erano saliti al potere dopo aver sconfitto i nazisti e i loro sostenitori croati, gli ustascia. Proclamata la Repubblica socialista federale di Jugoslavia, Josip Broz Tito vi si era insediato come primo ministro. Non avendo motivo di dubitare dei suoi genitori, Marina era convinta che il 29 novembre fosse davvero il suo compleanno. Tutti gli anni, quindi, restava puntualmente delusa quando non la invitavano a partecipare alla parata della festa nazionale, non riceveva adulazione pubblica né regali in più e non le era permesso di incontrare Tito come tutti gli altri bambini nati in quel fausto giorno. In realtà la fortunata convergenza che i genitori di Marina – o forse solo sua madre – avevano cercato di stabilire tra la figlia e il loro nuovo paese non esisteva. Marina era nata con un giorno di ritardo sul calendario della Repubblica. Solo verso i dieci anni scoprì che il suo compleanno era il 30 novembre. Danica Abramović nata Rosić, sposata da poco, viveva a Belgrado, dove era impegnata a costruire la nuova Repubblica dopo aver militato con i partigiani della Resistenza jugoslava durante la guerra, e stava partecipando a una riunione del Comitato comunista di salute pubblica di cui era segretaria quando, il 30 novembre del 1946, le si ruppero le acque. Si era messa in testa di lavorare per tutta la gravidanza, ed era fiera di aver mantenuto il proposito. Quando partorì Marina, i dottori non si accorsero che la placenta non era stata espulsa del tutto e questo le causò una setticemia. Fu malata per quasi tutto il primo anno di vita della figlia, ma poté garantirsi una piacevole convalescenza in Svizzera grazie alla sua posizione nel partito e al suo status di eroina di guerra. A quel tempo la Jugoslavia ne era piena. Dall’ospedale Marina fu portata nell’enorme casa dei genitori in un edificio riccamente decorato e dotato di ascensore in via Makedonska 32, nel centro di
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Belgrado, di fronte agli uffici del giornale Politika, il fedele portavoce di Tito, e vicino alla stazione radiofonica cittadina. La neonata, di salute cagionevole, fu affidata a una balia – gli Abramović avevano sempre personale di servizio – che aveva anche un figlio proprio. La nonna di Marina, Milica Rosić, notava con preoccupazione che il figlio della balia diventava sempre più grasso e la nipote sempre più gracile. Quando la piccola aveva più o meno otto mesi, i medici pensarono a torto che avesse la tubercolosi, allora Milica la prese con sé. Nella Jugoslavia dell’epoca non era insolito che i nonni si facessero quasi interamente carico dei nipoti nel loro primo anno di vita, soprattutto se i genitori svolgevano lavori impegnativi, come nel caso di Danica e Vojin Abramović. Anche Vojo – il diminutivo con cui era conosciuto – era un eroe di guerra, poiché aveva combattuto con la Prima brigata proletaria. Subito dopo il conflitto diventò comandante in capo del corpo d’élite di Tito, accompagnando il primo ministro nei suoi viaggi in giro per la Jugoslavia. Quanto a Danica, alla fine della guerra studiò storia dell’arte e nel giro di poco tempo fu incaricata di gestire un ente che si occupava di monumenti e opere d’arte per edifici pubblici e governativi. Rispetto alla casa di Milica, il suo ufficio si trovava all’altro capo della città. Stando ai racconti di Ksenija, la sorella di Danica, Milica portava la neonata alla madre ogni giorno perché potesse allattarla. Marina, tuttavia, sostie26
ne di non essere stata mai allattata. Questa discordanza è emblematica delle tese dinamiche familiari che visse nell’infanzia, e che sarebbero state una costante della sua vita. Le più anziane della famiglia tenevano alle apparenze in maniera ossessiva – come prova l’idea di attraversare stoicamente la città ogni giorno per la salute di una bambina – e Marina avrebbe vissuto nella privazione e nella fame emotiva, che considerava il prezzo della rigidità della madre. Fino a sei anni Marina visse con la nonna, o baka, nel modesto appartamento di lei. Milica Rosić era stata ricca finché Danica, una dei suoi quattro figli (tre femmine e un maschio), non era diventata partigiana nel 1941 e poi militante del Partito comunista. Milica chiamava i comunisti “diavoli rossi”, e le bruciava particolarmente che dopo la guerra, quando i suoi beni furono confiscati dallo stato come accadde ad altre famiglie benestanti, fosse proprio la figlia a farla
“La famiglia del patriarca deceduto al funerale di ieri”, 29 luglio 1937. Danica Rosić è la seconda da sinistra. Courtesy Ksenija Rosić Martinović.
· Il male di nascere · Varnava Rosić, patriarca della Chiesa serba ortodossa dal 1930 fino alla sua morte, nel 1937, insieme ai fratelli Aleksa (a sinistra) e Uroš (a destra), nonno di Marina, nel 1927. Courtesy Archivio Abramović.
cadere in miseria. Non era la prima oscillazione nelle fortune del ramo materno di Marina. Milica parlava spesso della sua infanzia povera, e raccontava di come sua madre ponesse sulla stufa tutte le pentole piene d’acqua solo per dare l’impressione di una cucina ricca. Fu il matrimonio a salvare Milica dalla povertà. Quando aveva sedici anni Uroš Rosić, un agiato commerciante, la notò al mercato della città di Užice, in Montenegro. Si sposarono nel 1919. I Rosić erano una famiglia importante non solo per i loro beni. Nel 1930 il fratello di Uroš, Petar, fu eletto patriarca della Chiesa ortodossa serba. Dopo aver assunto il nome di Varnava, guidò una violenta protesta popolare contro il concordato tra il suo paese e la Chiesa cattolica, oggetto di negoziati da anni. Varnava sosteneva che il concordato avrebbe garantito alla Chiesa cattolica, dominante in Croazia, diritti e privilegi che alla Chiesa ortodossa serba erano negati in casa propria. La crisi, giunta al culmine nel 1937, era in realtà una lotta per la supremazia tra serbi e croati nella nazione jugoslava nata diciannove anni prima. Nel luglio di quell’anno, proprio mentre il primo ministro Milan Stojadinović portava il concordato in Parlamento, Varnava si ammalò in maniera improvvisa e misteriosa. Una marcia in suo sostegno a Belgrado venne repressa con violenza dalla polizia.1 Da quel momento cominciò a delinearsi un evidente complotto ai danni della famiglia Rosić. Il fratello di Varnava, Aleksa, andò a trovarlo in ospedale a Belgrado, e al suo ritorno a Pljevlja, in Montenegro, dove viveva con la famiglia, si ammalò. Di lì a poco Uroš fece visita a Varnava, e anche lui si sentì male appena rientrato. Varnava spirò il 23 luglio, il giorno in cui il concordato fu fi-
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nalmente approvato dal Parlamento. Subito dopo morirono anche Uroš e Aleksa. Danica, all’epoca sedicenne, seppe della scomparsa del padre al funerale di Varnava. La versione ufficiale riguardo a quest’ultimo fu di morte per avvelenamento.2 I Rosić sostennero che sul suo cibo era stata cosparsa della polvere di diamante – una leggendaria tecnica di omicidio che procura la morte per emorragia interna – ma la causa precisa non fu mai individuata poiché Stojadinović chiuse le indagini.3 Anche se non fu mai confermato, i probabili responsabili erano agenti del primo ministro. L’ostinata opposizione di Varnava al concordato si stava rivelando troppo scomoda, e in effetti conobbe un successo postumo: sebbene la legge fosse stata approvata il giorno della sua morte, di lì a poco la camera alta del parlamento jugoslavo fu costretta ad accantonarla, tale era la resistenza che Varnava aveva alimentato.4 Uroš e Aleksa furono a quanto pare vittime collaterali, uccisi – come ritenevano i Rosić superstiti – perché per legge solo un membro maschile della famiglia avrebbe potuto ordinare un’autopsia su Varnava: perciò, se si voleva tenere segreto l’assassinio, andavano eliminati anche i fratelli. Benché Varnava fosse il prozio di Marina, nel corso degli anni lei semplificò la storia confondendolo con Uroš, cosicché il patriarca martirizzato della Chiesa ortodossa serba risultava essere suo nonno. A poco a poco questa fusione è stata 28
inclusa nella storia familiare, che Marina non ha avuto alcuna premura di correggere. Una parte della vicenda che non è mai stata raccontata, non da ultimo
Marina nel 1948. A destra, Vojo Abramović con la figlia nel 1950. Courtesy Archivio Abramović.
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perché Marina ne era all’oscuro, riguardava il crescente sostegno che Varnava assicurò verso la fine degli anni trenta alla Germania nazista, essenzialmente perché si opponeva al “veleno” comunista.5 Il primo ricordo di Marina è la folla di persone che dalla finestra di casa di sua nonna vide marciare lungo la strada in un silenzio inquieto, tutte vestite di scuro. «Era qualcosa di veramente spaventoso» dice. Probabilmente si trattava del corteo di protesta contro la “scomunica” che Stalin impose a Tito nel 1948, quando Marina aveva due anni. L’Unione Sovietica espulse la Jugoslavia dal cominform – l’organismo internazionale che riuniva i partiti comunisti europei – per punire la politica autonoma del comunismo di Tito. In particolare, Stalin disapprovava le sue aperture verso la Bulgaria in favore dell’unità slava. L’urss tagliò tutti i rapporti con la Jugoslavia, cosa particolarmente penosa vista l’atavica unione degli slavi del Sud con i russi, rafforzata dalla recente alleanza nella Seconda guerra mondiale. Il governo di Tito reagì alla scomunica alimentando una forte intolleranza verso ogni minima ingerenza sovietica e perseguitando chiunque, soprattutto se iscritto al Partito comunista, fosse sospettato di simpatie staliniste. Le vittime delle purghe durante il periodo dell’Informbiro, come fu chiamato in Jugoslavia, venivano spedite in un campo di prigionia su un’arida isola dell’Adriatico chiamata Goli Otok (isola Calva). La pericolosa sfida che Tito lanciò a Stalin – in seguito Chruščëv scrisse che «Stalin in pratica era pronto a invadere la Jugoslavia» – galvanizzò immediatamente il suo giovane paese.6 Questo era uscito vincitore dal confronto con i nazisti, e ora stava dimostrando di essere in grado di assumere una posizione indipendente non solo da Stalin ma anche dall’Occidente. All’inizio, però, molta era la paura di un altro conflitto a soli tre anni dalla fine della guerra. Marina lo percepì attraverso il vetro della finestra. Come il defunto marito e il cognato, Milica Rosić era profondamente religiosa. I rituali – religiosi e culinari – che accompagnavano la vita nell’appartamento in cui Marina trascorse i suoi primi anni costituirono una solida base di stabilità per quella bambina così vulnerabile. Era una casa dagli odori forti e confortanti. Ogni mattina Milica tostava grani di caffè verde, macinandoli finemente a mano per fare il caffè turco, poi accendeva una candela accanto a un’icona e pregava. Non faceva mai pregare Marina, per quanto la portasse con sé in chiesa quasi tutti i giorni. La religione era tollerata a stento dalle spie del partito – che compilavano le loro liste seduti nelle chiese – e solo se praticata dagli anziani. Per chiunque altro costituiva un grave impedimento allo sviluppo di una carriera, ed era del tutto inammissibile per i membri del partito. Milica, tuttavia, aveva segretamente battezzato Marina e il 6 gennaio, la vigilia di Natale nel calendario ortodosso, invitava sempre a cena la famiglia. Milica spesso era in cucina a preparare montagne di barattoli di conserve e recipienti di zuppa. Marina la aiutava a disporre i crauti in fusti di legno pieni di
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acqua salata: con un sasso pestava la testa del cavolo in questa soluzione e dopo tre giorni cambiava l’acqua. Puzzava come un paio di calzini sporchi, ma Marina adorava berla. Tutti i pomeriggi alle cinque Milica accendeva un bastoncino di incenso (che continuava a bruciare durante la notte) e per alcune ore si dedicava tranquillamente al ricamo. Ogni mattina di buon’ora andava con Marina al mercato a controllare i prezzi dei prodotti, per poi fare le sue compere in un secondo giro a metà mattinata. Una volta Milica dovette fare un tragitto più lungo e per qualche ragione non poté portare la piccola con sé. Poiché non c’era nessuno che badasse a lei, Milica mise Marina seduta al tavolo con un bicchiere d’acqua e le raccomandò di non muoversi assicurandole che sarebbe tornata presto. Al suo rientro, due ore dopo, trovò la nipote seduta nella stessa identica posizione e il bicchiere intatto. Marina cominciava già a dimostrare una straordinaria forza di volontà, tratto che la famiglia Rosić considerava un’eredità di Varnava. Più che in questa docile obbedienza, tuttavia, la sua forza di volontà si manifestava più spesso in moti di ribellione: fu restia a camminare – sebbene ne fosse perfettamente capace – fino all’età di quattro anni. Nell’agosto del 1952, quando aveva cinque anni e Danica era di nuovo incinta, la famiglia andò in vacanza in montagna nel Sudovest del Montenegro. Un giorno si svegliarono tutti prima dell’alba per salire sul monte Lovćen a veder sorgere il sole dal mau30
soleo di Petar Petrović Njegoš, pittore e principe vescovo montenegrino vissuto nell’Ottocento. Mentre raggiungevano la cima della montagna e il sole spuntava illuminando una veduta spettacolare della scoscesa costa adriatica, Marina smise di camminare e iniziò a urlare. «Che bello, che bello!» esclamò. «Voglio disegnarlo.» Quando la famiglia ritornò a Belgrado, fu la prima cosa che fece. Nel periodo in cui visse con la nonna, la bambina passava solo la domenica con il padre e la madre, impegnati con il lavoro per tutto il resto della settimana. Il tempo che trascorrevano insieme non ebbe un grosso impatto sulla piccola Marina, che ha pochi ricordi infantili dei genitori. Era convinta che la madre fosse contenta di non doversi occupare di lei, soprattutto perché Danica era ossessionata dall’igiene e considerava la figlia una potenziale portatrice di germi in casa. La fobia andava anche a suo vantaggio: all’epoca in cui Marina era una neonata malaticcia, Danica chiedeva alla gente di coprirsi la bocca nell’avvicinarsi alla sua culla. Più o meno in questo periodo, la bisnonna Krsmana Pejatović-Rosić, madre di Uroš, convocò l’intera famiglia, inclusa Marina che aveva cinque anni, per assistere alla sua morte. Aveva superato i cent’anni e si era decisa a porre fine alla sua vita (sua madre aveva vissuto fino a centosedici anni, si diceva in famiglia, anche se non ce n’era la prova). Krsmana preparò un pasto per i suoi e poi si mise a letto, pronta ad accogliere la morte. Si aspettava che la cosa sarebbe avvenuta rapidamente e alla presenza di tutti, invece accadde due settimane dopo, quando era ormai sola. All’epoca la piccola Marina si rendeva a malapena conto
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Vojo, Ksenija, sorella di Danica, con il marito Luka e Marina al centro, 1° maggio 1950. Courtesy Ksenija Rosić.
di che cosa stesse succedendo, eppure l’evento ebbe su di lei un impatto durevole. A posteriori, la morte di Krsmana sembrava perfetta: qualcosa di simile ma decisamente diverso da un suicidio, un’accettazione della fine affrontata e controllata a testa alta, non un’interruzione innaturale della vita ma un suo coronamento. Aveva voluto l’inevitabile e se l’era conquistato. Il suggello alla perfezione della sua morte era dato dal fatto che, proprio quando il suo piano stava per volgere alla conclusione, qualcosa era sfuggito al suo controllo: nonostante le buone intenzioni aveva continuato a vivere per un po’. All’età di sei anni, seguita da Milica, Marina ritornò a casa dei genitori in via Makedonska. Di spazio ce n’era in abbondanza, e l’aiuto della nonna sarebbe stato necessario con la nascita del nuovo bebè, che avvenne un paio d’ore dopo il loro trasloco. Impaziente di ricevere finalmente un po’ di attenzione da parte dei genitori, Marina si trovò invece di fronte un enorme fagotto appena arrivato dall’ospedale. Mentre tutti si radunavano per ammirare Velimir, l’ultimo Abramović, Marina rimase imbronciata in un angolo, in preda alla gelosia. Velimir era un lattante grande e grosso dal volto rosso coperto di macchie, che ben presto cominciò a soffrire di crisi epilettiche. Quando iniziava a uscirgli la bava dalla bocca seguita da convulsioni, tutti accorrevano. Ogni volta che piangeva davano la colpa alla figlia, e Danica la picchiava. Fu così che Marina,
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consciamente o meno, mise in atto un tentativo di fratricidio, facendo cadere Velimir – che riusciva a malapena a sollevare tanto era pesante – nella vasca da bagno e immergendolo nell’acqua. Milica arrivò sulla scena in tempo per salvarlo, e Marina le prese di nuovo. Quando Ksenija si trasferì nell’appartamento con il marito Luka, ci fu un terzo cerbero a rimproverare la bambina per qualsiasi mancanza. Sul corpo di Marina apparvero dei brutti lividi dovuti alle continue percosse, e dopo la caduta di un dente da latte posteriore la bocca prese a sanguinarle incessantemente, tanto che il dottore consigliò di farla dormire seduta per evitare che il sangue la soffocasse. Dopo diversi giorni l’emorragia non si era ancora fermata e la bambina fu portata all’ospedale. I medici temevano che potesse essere emofiliaca. Nonostante l’estrema gravità della diagnosi – potenzialmente qualsiasi ferita poteva provocarle un’emorragia mortale – Marina era felicissima: finalmente avrebbero smesso di picchiarla e si sarebbero occupati di lei anziché di Velimir. Marina passò i mesi successivi in ospedale mentre i medici si arrovellavano sulle sue emorragie, che potevano fermarsi e ricominciare senza una causa apparente. L’emofilia era altamente improbabile, dato che nessuno dei due genitori – che durante la guerra avevano perso molto sangue – ne era affetto. Esa32
mi approfonditi rivelarono infine una mancanza di ferro o di globuli bianchi, ma la ragione esatta dei suoi sporadici sanguinamenti restò un mistero, come l’individuazione di una cura efficace. Quello che a nessuno venne in mente era che le perdite potessero essere una reazione psicosomatica alla comparsa sulla scena di Velimir, una manovra isterica per conquistarsi l’amore e l’attenzione dei genitori che avrebbe trovato conferma in un analogo caso clinico verificatosi tempo dopo.7 Marina, a ogni modo, non riuscì del tutto nel suo intento. I genitori andavano a trovarla in ospedale solo una volta alla settimana e continuavano a comportarsi da estranei. La zia e la nonna, in compenso, le facevano visita regolarmente e le portavano regali: una piccola vittoria. Ksenija leggeva per lei e Marina si appassionò ai libri. Disegnava, inventava ombre cinesi sotto le lenzuola, e quando il marito della donna nel letto accanto tornò dai suoi viaggi in mare con una banana marrone ammuffita – un frutto che non aveva mai visto prima – Marina cominciò a fantasticare per la prima volta di viaggi in paesi lontani.
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Proprio quando il legame con Ulay stava iniziando a diventare più stretto, Marina dovette allontanarsi da Amsterdam per partecipare al Festival delle arti di Charlottenborg, a Copenhagen. Nonostante esista un unico video ufficiale a riguardo, i ricordi di quello che accadde durante e dopo la performance Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful sono confusi. Di certo, in quel periodo Marina era distratta dal recente incontro con Ulay e dalla nuova fase in cui stava entrando la sua carriera. Nel video ufficiale della performance, l’artista siede nuda con una spazzola in ciascuna mano. Per poco meno di un’ora si spazzola con impeto, a strattoni, tirandosi e persino strappandosi i capelli, continuando a ripetere il mantra «Art must be beautiful, artist must be beautiful». Ogni tanto si interrompe per alcuni minuti, rimane zitta e immobile con lo sguardo perso nel vuoto e poi ricomincia la routine punitiva della bellezza. La macchina da presa è ferma e inquadra la testa, il collo e il seno nudo di Abramović, registrando un videoritratto incisivo e tagliente. Eppure questo documento, entrato nella storia della Performance Art, racconta solo una parte della vicenda. Il video fu girato in privato, subito dopo la performance eseguita davanti al pubblico, anch’essa filmata. Ansiosa di vedere il risultato, Abramović volle guardare subito le riprese, delle quali non fu soddisfatta. Malgrado avesse dato istruzioni all’operatore di tenere ferma la macchina, inquadrandole soltanto la testa e il busto, lui si era mosso e aveva fatto intensi primi piani delle sue espressioni tormentate, per poi allargare l’inquadratura mostrando il banale sfondo della stanzetta in cui avveniva il tutto. L’artista fu così contrariata dalla mancanza di precisione del video che decise di ripetere subito la performance senza spettatori, a eccezione dell’operatore che, rimproverato aspramente, stavolta non si mosse. Questa seconda versione è l’unica che Abramović usò in seguito per presentare il lavoro. Tuttavia, il confuso video originale esiste ancora. Qui si vede non soltanto il piccolo ambiente in cui l’artista si esibiva – che, a differenza di Rhythm 10 o Rhythm 4, non era riuscita ad allestire, per questo aveva voluto un’immagine più curata sotto il profilo estetico – ma anche il pubblico perplesso che entra ed esce
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· Marina Abramović · Marina Abramović, Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful, Festival delle arti di Charlottenborg, Copenhagen, 1975. Courtesy Sean Kelly Gallery, New York.
dalla sala. Uno spettatore le fa il verso in tono sarcastico: «Ahh, l’artista è veramente bella». Abramović non reagisce alla battuta e la cosa finisce lì. E non è tutto: la prima performance pubblica di Art Must Be Beautiful venne interrotta bruscamente perché durante il suo svolgimento saltò una valvola e nella stanza andò via la luce. L’artista fu quindi invitata a ripeterla (per la terza 112
volta) un paio di giorni dopo nel salone dell’Accademia di belle arti di Copenhagen. Eseguita su un palcoscenico davanti a un migliaio di persone, l’azione acquisì una dimensione teatrale che Marina non aveva programmato. Stavolta inserì nell’opera anche le frustate di Thomas Lips. Dopo essersi fustigata, si sedette su una sedia e si accanì sulla sua chioma con una spazzola d’acciaio, in modo così violento da ferirsi a sangue. La performance era iniziata da poco quando una donna, all’apparenza ubriaca, saltò sul palco urlando: «Lo so cosa sta succedendo qui» e si avventò sull’artista afferrandola per i capelli. Non fu chiaro se la donna volesse interrompere la performance per proteggere Abramović da se stessa – anche se strapparle i capelli era un modo un po’ strano per farlo – oppure si fosse lasciata andare a un’aggressione contro l’artista vulnerabile nello stile di Rhythm 0. Impassibile, Abramović «si liberò furiosamente» dell’assalitrice e proseguì la sua esibizione. Dopo la performance, dichiarò al quotidiano Ekstra Bladet: «Ero così arrabbiata con la donna che mi aveva tirato i capelli che avrei potuto ucciderla. Nessuno l’aveva invitata a partecipare al mio gioco sui simboli. Non ha capito niente. Io non sono una masochista, il dolore e il sangue sono soltanto mezzi d’espressione artistica. Il mio urlare che l’arte deve essere bella era ironico. Né l’arte né la realtà sono necessariamente belle».10 Interpretando Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful nell’ottica del femminismo ortodosso, si potrebbe dire che Abramović stesse mettendo in scena, in maniera ironica e aggressiva al tempo stesso, il dolore necessario per soddisfa-
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re l’obbligo della bellezza imposto dalla società e dalla storia dell’arte. Tuttavia, è interessante soffermarsi sul senso letterale delle parole di Marina, anche se lei stessa le pronunciava con ironia. Nella performance l’artista lottava violentemente con la sua bellezza, eppure mentre la eseguiva era bella, ancor più perché faceva di se stessa una donna martire. E di certo era consapevole dell’effetto. Per lei la bellezza rappresentava un problema serio, al limite del patologico, sin da quando era una bambina e detestava il suo naso «grosso» al punto da architettare un piano per distruggerlo: aveva pensato di mettersi a girare su se stessa nella stanza della madre, sperando di stordirsi fino a cadere a faccia in giù contro la colonna del letto; dopodiché avrebbe dato al chirurgo una foto di Brigitte Bardot come modello per la ricostruzione del naso. Benché le sue performance trattassero temi quali il dolore e il trauma, per certi versi Abramović era convinta che lei, come artista e nella vita di tutti i giorni, doveva essere bella. Ulay non accompagnò Marina a Copenhagen: in primo luogo perché non era stato invitato, e poi perché non era pienamente d’accordo con i presupposti femministi del Festival di Charlottenborg. I due avevano un’idea diversa del femminismo. Entrambi si identificavano fortemente con l’immagine classica – persino archetipica – della femminilità che il movimento voleva distruggere. Abramović non si era mai sentita vittima dei ruoli prestabiliti che si cercava di combattere. Come dichiarò anni dopo: «Credo che tutta l’energia e il potere siano nelle mani delle donne e geneticamente è sempre stato così. Io la penso in maniera opposta [rispetto alle femministe]. Sento il bisogno di aiutare gli uomini».11 Il fatto di essere donna non aveva mai ostacolato la carriera di sua madre; nella Jugoslavia di Tito l’emancipazione femminile di stampo occidentale non era mai sembrata necessaria perché, almeno in teoria, il paese era impegnato ad attuare una forma di eguaglianza più radicale. In termini strettamente artistici, poi, Abramović considerava il femminismo più un limite che un’opportunità. Era molto più interessata al potere del sesso che non al genere o al problema dei ruoli di genere. Marina non approvava l’autolesionismo di Gina Pane – nel 1975 l’artista francese si era tagliata le labbra durante la performance Discours mou et mat presentata alla de Appel –, che in parte poteva essere letta come una risposta femminista allo sguardo maschile. «Se pensi che il tuo sesso sia sbagliato, allora tutto è sbagliato» dichiarò Marina in quel periodo «e, per esempio, fai cose simili a quelle di Gina Pane. Ma quando, come lei, ti ripeti, il lavoro è malato. Il messaggio dell’arte dovrebbe essere più ampio.»12 Malgrado ciò, Marina era ben contenta di cogliere le opportunità offerte da curatrici e galleriste femministe come Ursula Krinzinger e da festival come quello di Copenhagen. Dopo aver trascorso qualche altro prezioso giorno insieme a Ulay ad Amsterdam, Marina tornò a Belgrado. La città le parve più che mai una prigione. «L’amore mi impediva persino di respirare» racconta. Evitò Neša e non gli rac-
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contò nulla di quello che era accaduto in Olanda. Trascorreva quasi tutto il suo tempo al telefono con Ulay sdraiata sul letto, sorbendosi poi le sfuriate della madre per le bollette telefoniche. In quelle tristi settimane d’inverno nei Balcani trovò però la forza di alzarsi per partecipare a un film, Kino beleške (Appunti cinematografici), sull’skc e gli artisti che ne facevano parte. Il regista, Lutz Becker, era assistito da Zoran Popović, appena tornato da New York. Il documentario iniziava con Dunja Blažević che leggeva una dichiarazione: «Fino a quando continueremo a trasportare le opere d’arte dagli atelier agli scantinati e agli armadi, trattandole come bambini nati morti, fino a quando continueremo a creare, attraverso il mercato privato, la nostra versione della piccola borghesia, l’arte continuerà ad assomigliare a un’appendice sociale, a qualcosa che non serve a niente e a nessuno». L’obiettivo della generazione di Blažević era un’«arte nuova per una nuova società a livello mentale». Ješa Denegri parlò del suo desiderio di creare un’arte che, anziché proporre «metafore di libertà», raggiungesse «gli strati più profondi di comprensione e consapevolezza dei cambiamenti fondamentali che si devono ottenere a livello sociale». In questo senso essa doveva «rifiutare tutti gli attributi mistici, trascendentali e formali che hanno indebolito in maniera permanente le sue fragili possibilità di azione sociale». Misticismo, trascendentalismo e formalismo erano caratteristiche fondamentali delle per114
formance e delle installazioni di Abramović, anche se l’artista non lavorava nel tradizionale campo della pittura e dell’oggetto a cui si riferiva Denegri.13 Nel primo dei suoi contributi al film, Abramović eseguì di nuovo Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful – come all’inizio del mese aveva riproposto Thomas Lips per la televisione olandese – recitando il suo mantra in serbocroato. Fu di gran lunga il pezzo più aggressivo e drammatico di Kino beleške. Tuttavia fu il secondo contributo a rivelare un senso di frustrazione nei confronti della Jugoslavia, molto più profondo ed esistenziale delle divagazioni teoriche dei suoi amici. Abramović si limitò a leggere ad alta voce la scaletta dei programmi televisivi andati in onda in occasione della recente festa della Repubblica jugoslava, il 29 novembre – il suo finto compleanno –, poco prima di innamorarsi e di cominciare a pensare di andare a vivere in un altro paese. Naturalmente il palinsesto della giornata era pieno di trasmissioni ufficiali celebrative e ossequiose; Abramović lesse l’elenco lentamente e con tono monocorde, quasi assaporando la noia, mentre sullo schermo scorrevano immagini delle strade grigie e gelate di Belgrado in inverno riprese da un’automobile. Il senso di soffocamento che avvertiva da quando era tornata da Amsterdam, era evidente, non era dovuto soltanto al mal d’amore. Marina era sempre più impaziente e intollerante nei confronti del ristretto mondo dell’arte che gravitava intorno all’associazione. «La gente che stava intorno all’skc, noi e i giovani critici, era l’unico pubblico che avevamo» racconta. «Erano sempre le stesse persone che andavano da un posto all’altro. In realtà
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non eravamo inseriti in nessuna situazione culturale di Belgrado.» C’erano solo una piccola galleria e un museo e non esisteva un mercato dell’arte di cui parlare, di certo non uno in cui fosse coinvolto l’skc. La stragrande maggioranza delle acquisizioni era effettuata dal Comitato acquisti del governo, e di solito quelle opere finivano a decorare gli uffici dei burocrati. Il Comitato aveva l’obbligo di comprare qualcosa a ogni mostra importante, fatta eccezione per le collettive di «arte nuova» come quelle dell’skc. La mancanza di interesse pubblico, di pressioni commerciali o persino politiche – Blažević ci provava gusto ad allontanare queste influenze non gradite – faceva sentire gli artisti dell’skc isolati e incapaci di conquistare uno spazio nel mondo dell’arte. Implacabile nel giudicare i suoi colleghi, Marina pensava che avrebbero potuto avere tutto quello che volevano se solo avessero smesso di lamentarsi e iniziato ad ampliare i loro orizzonti oltre Belgrado. Era convinta che a frenarli non fossero problemi sociali irrisolvibili o la difficoltà di accedere a «livelli più profondi di comprensione e consapevolezza», ma una semplice mancanza di ambizione. Le sembrava assurdo che dopo aver vissuto un anno a New York – nel 1974 – nello studio di Joseph Kosuth, realizzando film e fotografie, Popović avesse scelto di tornare a Belgrado. In questo modo aveva sprecato la sua opportunità di essere libero. Aveva deciso di tornare in patria perché sentiva il bisogno di vivere in un luogo di cui conosceva la lingua. Marina, invece, traeva vantaggio dal suo terribile inglese: riusciva a essere più diretta, franca, creativa e affascinante della maggior parte dei madrelingua. Il serbocroato era il solito vecchio serbocroato. Di lì a breve Marina avrebbe passato interi anni senza parlarlo quasi mai. In questo periodo, sulla copertina della rivista d’arte italiana Europa comparve una fotografia di Rhythm 4 con Abramović nuda e china sul ventilatore industriale. I docenti dell’Accademia d’arte di Novi Sad ne ricevettero una copia e rimasero scandalizzati. Quando Marina seppe che il consiglio di facoltà era in procinto di riunirsi per decidere il suo licenziamento, decise di dimettersi per non dare loro alcuna soddisfazione. In Jugoslavia riusciva a trovare limitazioni ovunque si girasse e fu felice di potersi liberare dell’ennesima restrizione. Durante una delle loro lunghe telefonate, Marina e Ulay decisero di incontrarsi di nuovo, stavolta in territorio neutro. Ulay suggerì un luogo a metà strada tra Amsterdam e Belgrado: Praga, la città che aveva tentato di raggiungere nel 1968. Sin dall’inizio Ulay/Abramović vissero il loro rapporto in termini concettuali. Il loro primo appuntamento programmato, come molte delle successive performance, fu l’incontro coreografato di due corpi in uno spazio geopolitico e intimamente fisico. Prima del viaggio Abramović comprò un quaderno con la copertina rigida di un bel rosso comunista, su cui fece stampare in rilievo i nomi Marina Abramović e Uwe Laysiepen: evidentemente sentiva che insieme avrebbero realizzato qualcosa di importante. La coppia soggiornò all’Hotel
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Paris, una lussuosa reliquia presocialista in cui, sin dall’occupazione sovietica del 1968, ogni stanza era dotata di una radio che non poteva essere spenta perché era anche un microfono spia. Quando lui e Marina facevano l’amore, Ulay schiacciava i cuscini contro gli altoparlanti. I due ancora non parlavano di collaborazione artistica, ma fu a Praga che lavorarono insieme per la prima volta. Nel cimitero di Vyšehra, Abramović stava in piedi all’inizio di un lungo viale coperto di foglie e fiancheggiato da tombe, dando le spalle all’obiettivo di Ulay. Indossava un enorme e pesante cappotto di pelliccia, e da sopra la spalla lo guardava con un broncio seduttivo. Nella fotografia successiva l’inquadratura è la stessa, ma lei è andata avanti di qualche passo e guarda indietro con la stessa espressione. Nella terza appare un po’ più lontana e così via, fino alla dodicesima immagine, in cui è sparita alla fine del viale. Si trattava di un’opera freddamente concettuale in termini di struttura, ma il contesto e l’atteggiamento di Abramović la caricavano di romanticismo e sensualità. Forse in quell’occasione i due intuirono di avere ancora molto da sperimentare insieme, tant’è vero che, quando il soggiorno a Praga stava per concludersi, Marina decise di trasferirsi ad Amsterdam e di andare a vivere con Ulay. Tornata a Belgrado, Marina rimandò il compimento del suo destino. «Ogni giorno pensavo di partire ma non ci riuscivo» ricorda. Iniziò una nuova trilogia 116
di performance che rappresentavano un rito di commiato dalla città e dai suoi primi ventinove anni di vita. La prima, intitolata Freeing the Voice, fu presentata nella sede dell’skc durante l’April Meeting del 1976.14 Vestita di nero, Abramović si sdraiò su un piccolo materasso con la testa che sporgeva dal bordo e urlò fino a perdere la voce. La performance durò tre ore. Abramović stava interiorizzando il lavoro sul suono svolto negli ultimi anni: adesso il suo corpo era strumento e veicolo del suono. «In vita mia ho visto migliaia di performance» spiega Popović, che quel giorno era tra gli spettatori, «e dopo un po’ ci si annoia sempre. Marina è l’unica che riesca a calcolare i tempi giusti di un’azione. Quella volta c’era solo lei che urlava, ma nessuno abbandonò la sala.» A mano a mano che la performance andava avanti e la voce si spezzava, l’urlo primordiale di Abramović diventava più profondo e il suono si faceva più astratto, meno riconoscibilmente umano. Abramović sfogava una frustrazione sessuale, oltre che familiare e culturale: bloccata a Belgrado, non trovava nessuno con cui condividere l’eros e la passione che poi trasferiva nella sua immensa ambizione artistica. Freeing the Memory, presentata qualche mese dopo alla Galerie Dacić – gestita da una coppia jugoslava – di Tubinga, in Germania, era un’altra forma di energica terapia autosomministrata, realizzata però soltanto per un video. Sapientemente inquadrata con un primo piano sulla testa piegata all’indietro, Abramović pronunciò tutte le parole che riuscì a richiamare alla memoria in una sequenza quasi casuale di centinaia di termini sconnessi. Di tanto in tanto si formavano catene di associazioni piuttosto eloquenti: «proleter, partisan,
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ustaša, četnik»; «zen-budizam, El Greko»; «mestruacija, masturbacija, med [miele], Mikloš Jančo [cineasta ungherese]». Dopo un’ora e mezza l’artista rimase senza parole e la performance si concluse in maniera spontanea. Si trattava della sua prima azione interamente basata sull’attività mentale. Benché non mettesse a rischio la vita, come accadeva spesso nelle performance fisiche, Freeing the Memory era comunque straziante, tanto più perché era una situazione che non poteva essere affrontata soltanto con una brutale forza di volontà. Per estrarre le parole della memoria bisognava concentrarsi e scavare anche in maniera dolorosa, con l’angoscia che si rinnovava a ogni termine fino a raggiungere uno stato di vuoto, o almeno di spossatezza mentale. L’ultimo capitolo della trilogia, quello in cui sarebbe arrivata allo sfinimento del corpo, sarebbe arrivato alcuni mesi dopo. Marina si tratteneva a Belgrado, ma ancora non si decideva a parlare di Ulay a suo marito. Gli disse che doveva andare ad Amsterdam per un po’ perché le era stata offerta una residenza d’artista in quella città, cosa non del tutto falsa – la de Appel aveva in programma di fare una mostra su di lei –, ma anche molto lontana dalla verità. Dopo alcune settimane d’esitazione, finalmente comprò un biglietto ferroviario di seconda classe per Amsterdam. Soltanto Velimir sapeva che non sarebbe più tornata. Di certo non disse nulla dei suoi progetti a Danica. La sera prima di partire, Marina consultò un chiaroveggente, un uomo di mezz’età noto a tutti come “il discepolo di Aca”, che proprio quel giorno era andato a trovare la famiglia che abitava al piano di sopra. Seguendo una tradizione balcanica, l’uomo lesse i fondi del caffè turco che lei aveva bevuto, e benché non gli avesse detto niente di quello che avrebbe fatto l’indomani, lui lo predisse comunque. Le consigliò di non partire: la relazione con quell’uomo sarebbe stata un disastro. Congedatosi il chiaroveggente, Marina lavò la tazza a lungo, ossessivamente, continuando a piangere; ma adesso che al suo progetto si aggiungeva una nuova dimensione di sfida, era pronta a lasciare Belgrado per Ulay. Marina arrivò a casa di Ulay, nella zona nord di Amsterdam, poco dopo aver ricevuto l’invito a partecipare alla Biennale di Venezia l’estate successiva. Le sembrò naturale estenderlo a Ulay. In un’intervista rilasciata un paio d’anni più tardi, Marina osservò: «Nei nostri primi lavori da soli, si vedeva chiaramente che eravamo infelici».15 Quali che fossero gli obiettivi e le ambizioni concettuali trascendenti, in sostanza le loro opere individuali erano state autodistruttive, tormentate e inesorabilmente cupe. La violenta energia di Abramović era perlopiù rivolta in maniera narcisistica a se stessa nel momento in cui si tagliava, ingeriva farmaci o arrivava quasi a soffocarsi. Allo stesso modo Ulay si concentrava su una dimensione privata, interiore e deprimente, scattandosi foto in cui appariva per metà uomo e metà donna o perforandosi il torace nudo con una spilla. Adesso che si confrontavano con una sorta di immagine speculare di se stessi, Ulay/Abramović si resero conto di poter dirigere verso l’esterno la lo-
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ro energia fino a quel momento distruttiva, incanalandola in esperimenti relazionali costruttivi. I due attaccarono un lungo rotolo di carta su una parete dell’appartamento e trascorsero ore a riempirlo di schizzi e appunti per capire in che modo configurare la loro collaborazione. A un certo punto qualcuno regalò a Ulay un pendolo di Newton, simile a quelli che Marina fabbricava tre anni prima a Londra. Fissati con la collisione e il trasferimento di forze tra due masse, con l’entropia che subentrava a moto oscillatorio concluso, cominciarono a sperimentare l’idea dello scontro tra due corpi fuori dal nuovo complesso di case in cui vivevano. Correvano l’uno contro l’altra, verificando velocità diverse, per trovare ognuno il proprio ritmo e vedere cosa accadeva. In seguito, per amor di chiarezza, Ulay precisò che non si trattava di prove, bensì dell’esplorazione di un concetto. L’idea stessa della prova era contraria al regime che i due intendevano seguire e che implicava un’imprevedibilità dei risultati delle performance. Alla fine il pezzo che prepararono per Venezia non fu tanto una dimostrazione newtoniana di un netto ed efficace passaggio di energia tra due corpi, quanto piuttosto una collisione violenta ed esitante in cui l’energia combinata di entrambi non si disperdeva da nessuna parte. Abramović e Ulay presentarono Relation in Space – un titolo volutamente provocatorio nella sua semplicità neutra e 118
indefinita – sulla Giudecca all’inizio della Biennale, il 16 luglio 1976. Un centinaio di persone si riunirono in un grande deposito abbandonato per assistervi. I due artisti erano nudi, non per una velleità hippy ma per ottenere effetti sonori più efficaci al momento dello scontro: il rumore della carne che sbatteva era amplificato nello spazio da microfoni collocati nei punti in cui i due collideva-
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no. In ogni caso, il fatto che entrambi avessero un bel fisico non guastava: Ulay altissimo, tirato e muscoloso, senza un briciolo di energia sprecata o sospesa; Abramović, snella e attraente, con i folti capelli scuri che le ondeggiavano con eleganza sulle spalle mentre correva. Posizionatisi a una distanza di circa venti metri, all’inizio i due camminavano velocemente l’uno verso l’altra, e quando si incontravano si sfioravano soltanto. Tornando ogni volta alla posizione di partenza, aumentavano via via la velocità provocando collisioni sempre più forti, finché, dopo circa mezz’ora, correvano l’uno contro l’altra e si urtavano con tanta forza che, almeno una volta, Abramović cadde per terra. «Fu terribile» ricorda Pat Steir, un’artista americana che quel giorno era tra il pubblico e poi sarebbe diventata una cara amica di Marina e Ulay. «Chris Burden faceva male a se stesso, ma lì c’erano due persone che si facevano male a vicenda.» Ulay non usò tutta la sua forza, altrimenti sarebbe stato troppo facile far cadere Marina. La performance non doveva essere una gara di potenza o di determinazione, ma una verifica della possibilità di mantenere un equilibrio instabile attraverso la ripetizione di una violenza moderata. La principale ragione per cui Ulay si trattenne e non spinse più spesso per terra Abramović era la paura e l’odio di entrambi nei confronti della debolezza: attraverso l’unione dei loro corpi e delle loro volontà volevano ottenere una forza composita. Dopo la performance Ulay soffrì molto, non per i lividi o il dolore provocato dagli scontri, ma per le schegge di vetro che gli si erano conficcate nei piedi correndo scalzo sul pavimento del deposito. I piedi si gonfiarono e per diversi giorni fu costretto a tenerli fasciati. Da allora in poi si sarebbe preoccupato di pulire bene il pavimento di tutti gli spazi in cui si esibiva o lavorava. Nella pagina a fianco, Abramović e Ulay provano Relation in Space ad Amsterdam, 1976. Courtesy Archivio Abramović. A sinistra, Ulay/ Abramović, Relation in Space, 1976. Foto Jaap de Graaf. Courtesy Sean Kelly Gallery, New York.
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Dopo la partecipazione alla Biennale, la coppia si rifugiò nella casa di Marina a Grožnjan, sulla riva opposta dell’Adriatico. Una mattina, inatteso, arrivò Neša. Ovviamente aveva le chiavi perché era ancora sposato con la proprietaria, ma ignorava che lei fosse lì; non sapeva nulla degli spostamenti di sua moglie in quel periodo. Quando sentì il rumore delle chiavi nella porta, Marina si alzò dal letto e corse al piano di sotto per dirgli che non poteva entrare. Andarono insieme in un caffè lì vicino e Paripović bevve un bel bicchiere di grappa mentre lei gli diceva, otto mesi dopo l’accaduto, di essersi innamorata di un altro uomo. Nel corso di quell’estate Ulay costruì una panca e un tavolo di cemento per la cucina (entrambi amavano i mobili sobri). Rubavano la legna dalle cataste dei vicini e facevano lunghe passeggiate insieme. Durante una di quelle camminate scoprirono un tranquillo cimitero, dove Marina dichiarò di voler essere sepolta. I due si divertirono anche a ideare altre fotografie. Riprendendo il tema di Praga, Marina posò in una strada polverosa con il viso rivolto all’obiettivo; stavolta indossava un lungo impermeabile di Ulay con il colletto di pelliccia e un cappello. Scatto dopo scatto, indietreggiò di alcuni passi finché non scomparve sulla cima di un collina. Ulay portò il rullino ad Amsterdam e organizzò una mostra intitolata “Fo120
totot” alla de Appel. Subito prima dell’inaugurazione, stampò nove grandi immagini di Marina che scompariva gradualmente sulla collina, senza usare alcuna soluzione di fissaggio. Le appese alle pareti della sala buia e al momento prestabilito invitò il pubblico a entrare, guidato solo da un paio di lampade giallo-verdi, di quelle che si usano nella camera oscura. Quando furono tutti dentro, Ulay accese le luci del soffitto e i visitatori ebbero una fugace visione della figura nelle foto prima che le immagini prive di fissaggio diventassero completamente nere e sparissero nella luce. La morte della fotografia. Dalla galleria che dava sulla sala, Ulay fotografò la gente che si sforzava di guardare le figure in dissolvimento. Nell’esporre la vulnerabile immagine ai danni del tempo e della luce, “Fototot” svelava i segreti chimici della fotografia e finalmente consentiva a Ulay di raggiungere un obiettivo inseguito da anni: trasferire nell’ambito della realtà e dell’etica quello che considerava un medium formale, sentimentale, che induceva alla passività e al compiacimento. “Fototot” fu l’ultimo evento della de Appel prima della chiusura estiva. La galleria riaprì a settembre con “Fototot ii”, in cui Ulay mise su un tavolo una cartella con le foto scattate al pubblico alcune settimane prima. Anche queste immagini documentarie non erano state sottoposte a fissaggio e così, non appena la gente iniziò a sfogliare l’album esponendo le foto alla luce della lampada da tavolo, svanirono. Marina fu estremamente colpita da questa seconda cancellazione, enfatica e quasi violenta, che interpretò come una brillante dimostrazione del principio buddhista della transitorietà. La lettura era esatta, ma
· Artist Must Be Beautiful · Marina e Ulay a Venezia, 1976. Courtesy Archivio Abramović.
l’operazione era anche tipica di Ulay: la sua vena autodistruttiva e il desiderio di cancellarsi si sublimavano solo in parte in questo lavoro. Come Marina aveva gradualmente abbandonato i primi mezzi espressivi – la pittura, gli oggetti e il suono immateriale –, dopo essersi spinto in un campo molto più fertile, ovvero la performance, Ulay capì di non avere più bisogno di insistere con la fotografia. Una volta esaurite tutte le possibilità espressive del medium utilizzato fino ad allora, Abramović e Ulay si concentrarono entrambi sul corpo. Era l’unica cosa rimasta, l’unica che non poteva essere né negata né cancellata. Anche Abramović volle togliersi la soddisfazione di presentare un paio di pezzi da sola prima di abbandonarsi del tutto alla collaborazione. A luglio la de Appel allestì una mostra con le fotografie della serie Rhythm e un video di Freeing the Voice. Abramović non si presentò all’inaugurazione e sfruttò l’occasione per una nuova performance intitolata Role Exchange, mandando al suo posto una prostituta di nome Suze.16 Marina l’aveva scelta perché si prostituiva da dieci anni, così come da dieci anni lei lavorava a tempo pieno come artista (da quando era entrata in Accademia nel 1965). In un primo momento aveva pensato di sostituire la donna al suo posto di lavoro dalle 5 del pomeriggio alle 5 del mattino, ma alla fine poté permettersi di pagare alla prostituta soltanto tre ore dei guadagni perduti andando a chiacchierare in galleria. Nel frattempo Abramović rimase seduta alla finestra di Suze nel quartiere a luci rosse della città. La donna le ordinò di non accettare cifre inferiori alle sue normali tariffe e le consigliò di controllare gli specchi ai lati della finestra per vedere in anticipo chi si avvicinava. Se l’uomo in questione aveva un aspetto mite, doveva mostrare «una faccia materna» per farlo sentire sicuro di sé. Se si trattava di un tipo sexy, doveva far finta di «essere occupata», e così via. Dall’altra parte della strada, Ulay fotografò Abramović seduta alla finestra mentre fumava nervosamente e di tanto in tanto rispondeva alle domande dei passanti. In quelle tre ore ebbe tre potenziali clienti con cui non riuscì a combinare nulla: uno cercava Suze, un altro si rifiutò
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di pagare la somma proposta e il terzo era ubriaco. In seguito Suze disse a Marina che se avesse fatto davvero la prostituta sarebbe morta di fame. Benché Role Exchange sembri far parte, insieme a Rhythm 0 e Art Must Be Beautiful, di una sorta di trilogia di lavori femministi, Abramović non intendeva realizzare un’opera esplicita sulla condizione delle artiste donne. In realtà voleva sapere come ci si sente a fare la puttana, un epiteto e un avvertimento che sua madre ripeteva spesso. «Mio padre stava con una puttana. Facevo queste performance perché volevo essere una puttana. Mia madre mi ha dato della puttana un sacco di volte» ricorda Marina. Tutta la sua educazione era stata incentrata sull’importanza di diventare una persona rispettabile. «Per questo volevo capire come ci si sente quando sei davvero una puttana e non conti niente.» Era alla mercé del pubblico, e in modo molto più intimo rispetto a Rhythm 0. «È stato mentalmente pesante, molto più pesante delle performance violente» spiega. A ottobre di quell’anno, Marina e Ulay andarono a Berlino, forse per preparare due performance individuali che avrebbero presentato in quella città un paio di mesi dopo. In quel periodo Marina fece un test di gravidanza, il cui esito Ulay avrebbe conservato gelosamente per i successivi trent’anni: era incinta. Com’era accaduto prima con Neša, era convinta che un figlio sarebbe stato un ostacolo insormontabile per la sua carriera artistica. Ulay ricorda che era solita 122
dire: «Sono un’artista in tutto e per tutto e non posso condividere le mie emozioni d’artista con un figlio». Lui fu d’accordo con la decisione di interrompere la gravidanza e Marina si sottopose all’intervento ad Amsterdam. Non si trattava soltanto di una scelta professionale: lei aveva la sensazione – non del tutto conscia in quel periodo in cui il loro amore era ancora in una prolungata fase idilliaca – che Ulay non l’avrebbe aiutata a crescere un bambino (sapeva che lui aveva già abbandonato suo figlio Marc Alexander). Ma, soprattutto, non credeva di avere la forza emotiva necessaria per occuparsi di un figlio, nel caso Ulay l’avesse lasciata. Il 30 novembre 1976, giorno del compleanno di entrambi (Marina compiva trent’anni, Ulay trentatré) e primo anniversario del loro incontro, Abramović e Ulay eseguirono una performance riservata agli amici, inaugurando una tradizione che sarebbe proseguita per alcuni anni. Talking about Similarity venne presentata nello studio dell’amico fotografo Jaap de Graaf. Ulay e Abramović sistemarono le sedie come in un’aula scolastica. Lui si sedette di fronte agli spettatori e spalancò la bocca accompagnato dal suono di un aspiratore dentale che continuò per qualche minuto. Poi prese un ago e lo infilò nella pelle sotto il labbro inferiore; dovette spingere con più forza per penetrare la pelle meno morbida sopra il labbro superiore, ma eseguì l’operazione senza trasalire e, cosa sorprendente, facendo uscire soltanto una macchiolina di sangue. Legò il filo con un nodo per assicurarsi che la bocca rimanesse cucita e andò a sedersi tra il pubblico. Abramović, vagamente sconvolta, prese il suo posto davanti agli ospiti.
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Al pubblico era stato detto di porre domande, alle quali lei avrebbe risposto dando voce ai pensieri di Ulay. Si trattava di un test di abbandono ed empatia – Marina poteva davvero parlare a nome di Ulay, e poteva farlo in modo preciso? – e nello stesso tempo di una verifica sulla comprensione telepatica che sentivano di avere. La prima domanda fu ovvia e inevitabile: «Prova dolore?». Abramović se la fece ripetere tre volte, in parte perché non capiva ancora bene l’inglese, ma soprattutto per dimostrare che lei e Ulay la ritenevano una domanda assurda e irrilevante, a cui non si poteva rispondere. Nelle performance di Abramović, da sola e adesso con Ulay, il tema del dolore era complesso e in definitiva circolare: era uno strumento per arrivare a un diverso stato di coscienza in cui non si avvertiva più. L’obiettivo era raggiungere l’intenso grado di consapevolezza e controllo che veniva dopo il dolore e che poteva essere indotto soltanto dalla minaccia di una possibile sofferenza. Ulay aveva dimostrato il risultato di questa condizione mentale non sanguinando, pur avendo perforato una parte molto sensibile e carnosa del corpo con un ago da cuoio. Le loro esibizioni non erano masochiste: se c’era una morbosità psicologica si trattava piuttosto di una forma di sadismo perfezionato da infliggere a un ego maniacalmente disciplinato, di una sorta di eccitazione dovuta alla capacità di dominare la sensibilità del corpo alla debolezza. Alla fine, nel suo inglese stentato allo spettatore Abramović rispose: «Non è una questione se ti piace o no, del perché o del dolore. È una decisione». Durante tutto questo tempo una videocamera era puntata direttamente su di lei, che appariva inespressiva e vulnerabile come un cervo abbagliato dai fari di un’auto. Qualcuno chiese perché era Ulay a stare zitto e Abramović a tentare di dar voce ai suoi pensieri. «Anche lei può chiudersi la bocca. È il concetto che
Marina Abramović, Role Exchange, de Appel, Amsterdam, 1976. Foto Ulay. Courtesy Sean Kelly Gallery, New York.
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Marina nel 1974. Sullo sfondo si vede una fotografia della performance Rhythm 2 del 1974. Foto attribuita a Milan Jozić. Courtesy Archivio Abramović.
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conta. Non è importante chi interpreta cosa, se è lui o lei.» Considerato che aveva appena visto Ulay trafiggersi la bocca, mentre faceva le domande il pubblico sembrava piuttosto sereno e rilassato (Marina si lamentava spesso del fatto che gli olandesi non si impressionassero mai per nulla). Dopo alcuni minuti di dialogo esitante, forse per un lapsus, per l’inglese zoppicante o per la crescente esasperazione nei confronti delle domande, Abramović rispose dimenticando di parlare per bocca di Ulay: «Il concetto è che io sono al suo posto e parlo per lui perché lui ha deciso di chiudersi la bocca. Molto semplice». Il pubblico pensò che il momento in cui la voce di Marina non era più quella di Ulay segnasse la fine della performance, ma lei continuò a rispondere alle domande apparendo molto più rilassata. «Quindi quello che lei sta facendo per te è un atto d’amore?» «Non ha niente a che fare con il sentimento. Esistono solo i fatti: il cucire, il rispondere, la bocca aperta, la bocca chiusa e il suono.» «E la fiducia?» «La fiducia è per l’affinità… Nessuno sta ponendo la domanda giusta.» «Secondo te qual è la domanda giusta?» «Dico solo quali non lo sono. Tutte le domande formali sulla forma, sul cucire, sul dolore, sul sentimento, sulle donne, sull’emancipazione, sugli uomini. Ulay è la domanda giusta.» Quando l’atteggiamento serio, come in trance, di Abramović cominciò a incrinarsi, gli amici iniziarono a fare domande più allegre e interessanti. Qualcuno ipotizzò che stesse continuando la performance solo per riempire la videocassetta di un’ora su cui la stavano registrando. Rispondendogli, Abramović arrivò quasi a confessare l’inconfessabile, vale a dire che la performance poteva essere influenzata o in qualche modo limitata dalla sua stessa documentazione, dalla consapevolezza di consegnare l’opera ai posteri. Ma anche questa ammissione fu fatta con una teatralità che la rese piacevolmente equilibrata: «Questo significa che se il nastro dura un’ora, l’azione dura un’ora [ride]. No, scherzavo. Mi stai chiedendo del tempo del nastro e il nostro tempo.» «Puoi farla durare un’ora? È questo che stai dicendo?» «Perché no? Non è mica un colore [sorride].» «Così vi immedesimate per la durata del nastro?» «Puoi ripetere la domanda?» «Allora l’immedesimazione dura quanto il nastro? Finisce nel momento in cui finisce il nastro?» «Puoi ripetere la domanda? [ride] Stop.» Detto questo, Ulay spense la videocamera. Dopo la performance c’era da bere e da mangiare per gli ospiti. Lui rimase con la bocca cucita e succhiò un drink con una cannuccia: non voleva mostrare al pubblico come tornava a essere una per-
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Il furgone Citroën HY di Marina e Ulay, attrezzato per viverci dentro. Courtesy Archivio Abramović.
sona normale dopo la performance, un’abitudine che lui e Abramović avrebbero sempre mantenuto. 126
In questo stesso periodo Ulay e Abramović decisero di lasciare l’appartamento di Amsterdam e comprarono un furgone Citroën HY per andarci a vivere. A forma di scatola con i lati di metallo scanalato, era così alto che Ulay riusciva quasi a starci dritto in piedi. Lo dipinse con una vernice nera opaca, trasformando un veicolo già vistoso in un mezzo estremamente ambiguo: poteva sembrare un furgone dell’esercito o della polizia, o il mezzo di un commerciante in fuga. Misero nel retro un materasso, uno schedario per le loro scartoffie, una stufa e una scatola per i vestiti e lo usarono come casa mobile per i successivi tre anni – Marina non sapeva guidare, al volante c’era sempre Ulay – girando per l’Europa e realizzando perfomance insieme. Una volta personalizzato il veicolo, la coppia stilò un manifesto per viverci dentro che intitolò Art Vital: Nessun posto fisso in cui vivere. Movimento perenne. Contatto diretto. Rapporti locali. Autoselezione. Superare i limiti. Rischiare. Energia mobile. Niente prove.
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Nessuna fine prevedibile. Niente ripetizioni. Vulnerabilità estesa. Apertura al caso. Reazioni primarie.17
Abramović e Ulay decisero di dedicare tutta la loro vita, incluse le situazioni quotidiane più elementari, all’idea della collaborazione artistica e, visto che non avevano alcuna sicurezza materiale, niente a cui appoggiarsi, non si diedero altra possibilità che riuscirci. Vivere per strada significava essere liberi da distrazioni quotidiane come l’affitto e le bollette, liberi di integrare le loro vite in un concetto ascetico ed estremo di Performance Art che non consentiva né momenti di pausa né stabilità. Insieme, Abramović e Ulay trovarono un modo di dare forma alle fantasie di nomadismo che entrambi nutrivano sin da giovani. Figli della Seconda guerra mondiale, già in esilio volontario dalle rispettive culture soffocanti, si misero in viaggio considerando l’Europa un qualcosa che i loro genitori non avevano mai immaginato: un territorio libero, pieno di promesse.
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