6 minute read

L’uomo che vendette la sua pelle

Europa, a tal punto da eludere in determinati momenti la presenza umana e l’evoluzione dell’impianto diegetico a vantaggio del vuoto, di una contemplazione paesaggistica capace di chiamare a sé un tempo disteso, svuotato dell’azione, mera continuità di un esistere che scorre indisturbato, ignaro e disinteressato nei confronti del soggetto. Al contempo, l’eccessiva lentezza narrativa del film non sembra emanciparsi da una mera autoreferenzialità, dal bisogno di sospendere la dimensione narrativa a vantaggio di una forzata etichetta autoriale, ben lungi dallo scorrere quotidiano, iterativo e straordinario nella sua estrema banalità, di un Hirobumi Watanabe o dai celebri tempi morti che accompagnano i personaggi alienati del cinema di Antonioni, le cui immagini, anche quando sospese dalle logiche diegetiche, non smettono mai di interrogarsi sul loro mistero intrinseco e sulla rete di sguardi invisibili che secondo Deleuze le attraversa. Il film di Pálmason, sebbene mirato a depurare il racconto del lutto dai tanti eccessi diegetici e visivi tipici dell’impianto melodrammatico, sembra rimanere aleatorio tanto quanto la nebbia che invade gli scorci islandesi, attraversando sofferenze, tradimenti, inquietudini, dolori repressi per arrivare semplicemente a ribadire la natura selvaggia intrinseca a ogni essere umano, insita anche in un individuo mite come Ingimundur, la cui evoluzione è accompagnata da scelte estetiche alquanto sovrabbondanti, a partire dall’improvvisa messa in posa di tutti i personaggi nell’atto di guardare lo spettatore al pedinamento della macchina da presa di un masso che, lanciato fuori strada dal protagonista, precipita nella vallata prima di sprofondare negli abissi dell’oceano.

L’impressione finale è quella di un film che, nel tentativo di cogliere l’ineffabilità del mistero dell’amore nella sua interrelazione con le inquietudini successive alla perdita, rimanga in superficie dei suoi dilemmi, troppo flebile rispetto alla materia che intende trattare.

Advertisement

lEonardo MagnantE

SSiria, 2011. Sam è costretto a fuggire in Libia dopo aver dichiarato pubblicamente il desiderio di sposare la sua fidanzata Abeer, urlando frasi considerate come antigovernative.

Beirut, 2012. Abeer si è sposata con Ziad, funzionario dell’ambasciata siriana in Belgio presentatole dalla famiglia, affinché potesse fuggire dalla Siria e stabilirsi in Europa, dove lavora come traduttrice. Sam continua a sentirla tramite Skype e spera di poter guadagnare abbastanza denaro per raggiungerla e salvarla dal suo matrimonio infelice. Il giovane si infiltra in facoltose esposizioni d’arte per rubare il cibo dai buffet ma viene scoperto dalla gallerista Soraya e dal controverso artista Jeffrey, che gli propone di collaborare con lui: dovrà offrirgli la sua schiena, su cui tatuerà una Visa per renderlo una sua opera d’arte vivente e permettergli di circolare liberamente nell’area Schengen per le esposizioni museali, a partire da Bruxelles. Potendo entrare legalmente in Belgio e venendo pagato per il suo servizio, Sam accetta la sua reificazione pur di raggiungere Abeer.

La mostra in cui Sam è esposto è criticata dall’Organizzazione per la Difesa dei Rifugiati Siriani, sebbene Sam giustifichi tali risentimenti come gelosia per la sua vita agiata. Al museo si presentano Abeer e Ziad, che considera Sam la vergogna della Siria, per cui scatta una rissa in cui Ziad distrugge un quadro; su richiesta di Abeer, Sam chiede al direttore del museo di non

di Kaouther Ben Hania

Origine: Tunisia, Francia, Germania, Belgio, Svezia, 2020 Produzione: Tanit Films, Cinetelefilms, Twenty Twenty Vision Filmproduktion, Kwassa Films, Laika Film & Television, in coproduzione con Metafora Media Produktion, Sunnyland Film As A Member of A.R.T. Group, Film I Väst, Voo & Be TV, Istiqial Films Regia: Kaouther Ben Hania Soggetto e Sceneggiatura: Kaouther Ben Hania Interpreti: Yahya Mahayni (Sam Ali), Dea Liane (Abeer), Koen de Bouw (Jeffrey Godefroi), Monica Bellucci (Soraya Waldy), Saad Lostan (Ziad), Darina Al Joundi (Madre di Sam), Jan Dahdouh (Hazem), Christian Vadim (William), Marc De Panda (Marc Sheen), Najoua Zouhair (Sorella di Sam), Husam Chadat (Adel Saadi), Nadim Cheikhrouha (Guardia del museo), Rémi Sarmini (Poliziotto), Mouldi Kriden (Poliziotto), Rupert Wynne-James (Curatore), Wim Delvoye (Assicuratore) Durata: 104’ Distribuzione: Wanted Cinema Uscita: 7 ottobre 2021

perseguire Ziad, minacciando di unirsi alle proteste che stanno rendendo l’esposizione travagliata. Il rapporto tra Sam e Abeer è sempre più teso, tanto da smettere di sentirsi quando il giovane finge di avere una relazione con Soraya. Il protagonista si rende sempre più conto della trappola in cui si è imprigionato, risentendo del peso della sua disumanizzazione, soprattutto quando viene comprato da un ricco collezionista svizzero ed esposto pubblicamente.

Nove mesi dopo, Sam è venduto a un’asta, durante la quale finge un attentato per essere arrestato e fuggire paradossalmente dalla sua prigionia. In carcere, incontra un avvocato in compagnia di Abeer come traduttrice, che gli confessa di aver lasciato Ziad e di essere pronta a ricominciare con lui. Sam viene rilasciato ma, essendo scaduta la sua Visa, è considerato un immigrato illegale, per cui torna felicemente a Raqqa con Abeer.

Sul web diventa virale il video dell’esecuzione di Sam da parte dell’Isis. Data la circolazione illegale di un lembo della sua pelle tatuata, si ritiene che l’opera sia stata venduta ai trafficanti d’arte americani dall’Isis stesso e, in quanto oggetto rubato, è stato donato ai musei nazionali. In realtà, il lembo è un falso realizzato da Jeffrey grazie a un campione di saliva prelevato a Sam prima di partire, in modo da continuare ad aumentare il valore della sua opera dopo la morte fasulla del protagonista e consentire a quest’ultimo una nuova vita accanto ad Abeer.

LLiberamente ispirato all’artista Wim Delvoye che tatuò la sua opera sulla schiena di un uomo, venduto a una collezione privata nel 2008, il film della regista tunisina Kaouther Ben Hania osserva l’avida tirannia del mercato artistico occidentale e i suoi effetti oggettivanti prendendo come baricentro narrativo il contesto migratorio contemporaneo e la caduta di qualsiasi confine permessa grazie a quel simbolo spersonalizzante tatuato sul corpo di Sam. Da un punto di vista visivo, l’attenzione estetica dell’autrice riguarda l’oscillazione del corpo del protagonista tra la sua oggettivazione negli spazi reificanti della galleria d’arte e il recupero di una componente materica emblematicamente restituita dai brufoli sulla schiena come tentativo del corpo di riacquisire dominio su se stesso. Il corpo diventa quindi il fulcro dell’immagine sin dalla prima inquadratura del protagonista che, ripreso di spalle in una stanza buia, è investito da un piccolo fascio di luce che sembra tagliare un lembo della sua schiena, ferita simbolica preannunciante quel processo di violazione corporea a cui Sam si sottometterà.

Sebbene invettiva su una tirannia ben più subdola di quella da cui Sam proviene, la sceneggiatura fatica a mettere da parte banali retoriche sull’immigrazione e sulle meschinità del mondo dell’arte contemporanea occidentale. Viene meno quel cinismo disturbante, nonché politico, che un film del genere necessiterebbe, lasciando invece il posto a un fin troppo improbabile e rassicurante plot twist finale che debilita definitivamente un impianto diegetico già di per sé piuttosto fragile, a partire proprio dalle caratterizzazione dei rappresentanti dell’avidità del mondo preso d’assalto, incarnate da Koen De Bouw e Monica Bellucci, che non si emancipano dai cliché dell’artista anticonformista e bizzarro e della gelida donna d’affari. Il primato della diegesi quindi sembra puntato sul monotono e convenzionale triangolo amoroso che, intriso di luoghi comuni (il matrimonio obbligato, la gelosia del marito possessivo, la moglie che prende le parti dell’odiato coniuge amplificando le tensioni con l’amato, le ripicche amorose...), indebolisce la ben più interessante denuncia politica ed economica che rimane relegata a pochi momenti notevoli, come l’esposizione artistica nella villa del ricco collezionista svizzero con tanto di dettagli sulla compravendita e sull’assicurazione sulla vita stipulata.

A mancare è uno sguardo tagliente che miri prima di tutto a scardinare l’esperienza stessa dello spettatore, come dimostrato dall’approccio tanto estetico quanto graffiante del Tom Ford di Animali notturni, a partire dalla carrellata di corpi boteriani in sovrappeso denudati di fronte alla macchina da presa, emblemi di un gesto artistico stanco e (auto)degradante. Se Ford riesce a sostenere più linee narrative e generi, facendo del gesto creativo il trait d’union tra un certo cinismo intellettuale decadente e il declino privato della coppia protagonista, non trovando nient’altro che quel risentimento e quel vuoto asettico da cui è partito, Hania rimane in superficie tanto della sua invettiva quanto della scansione del sentimento amoroso. L’impressione è che la vicenda da cui il film è basato perda progressivamente il suo portato fuori dall’ordinario per un fin troppo ordinario ribadimento tautologico del già detto e del già tratta-

This article is from: