7 minute read

Ai confini del male

sante dell’eccesso e della lacrima facile che purtroppo attanagliano molte narrazioni sul morire e sull’accettazione della perdita. Nowhere Special decide di collocarsi nel mezzo, su un confine che non è tanto tra al di qua e aldilà ma tra ciò che è giusto raccontare di un graduale processo di avvicinamento all’ora ultima, tentando di mettere da parte trovate forzatamente pietose, sebbene non avulso completamente da alcuni simbolismi alquanto retorici. Prendendo spunto da una vicenda realmente accaduta, Pasolini appare piuttosto attento a non ricadere nello stesso errore di 18 regali di Amato, mirato a trasformare la tragicità di una storia personale in uno spettacolo retorico del lacrimevole e dello stucchevole, tra viaggi nel tempo e incontri impossibili, preferendo rimanere fedele a una vicinanza emotiva con i protagonisti di quella vicenda, senza ambire al tentativo di ri-figurare l’unicità di un momento extra ordinem come direbbe Jankélévitch, né adagiarsi su un materiale emotivo di facile appiglio. Di conseguenza, il film sembra lavorare quasi per sottrazione, iniziando in medias res senza mostrare per esempio la diagnosi della malattia, lasciando l’ospedale come una presenza relegata a pochi secondi e scegliendo di non mettere in scena la morte del protagonista.

Pasolini si limita all’osservazione di un legame destinato a finire, che passa attraverso il simbolismo della strada costantemente percorsa dai due personaggi nei loro tragitti esistenziali, in una città che non fa altro che ricordare a John il suo triste destino, notevolmente restituito dai cromatismi bluastri che esternano la freddezza emotiva di un soggetto che lotta contro se stesso per non manifestare un dolore insostenibile. Di nuovo, la scelta cromatica è esemplificativa di un progetto autoriale costantemente centrato sull’umano e sulla sua sfera emotiva, mai su una possibile riconfigurazione del Dopo, facendo sì che il colore non miri a restituire quella dimensione tanatologica tipica, per esempio, dell’esposizione cromatica di Sto pensando di finirla qui di Kaufman, abilmente correlato all’annullamento stesso del visibile e dell’incapacità di poter rendere la morte un’immagine. Il Dopo è problematizzato solo a parole e mai visivamente, imbrigliato nel Prima, sapendo che, oltre quello, non si può procedere senza ricadere nella banalizzazione e, probabilmente, non è un caso che il film si concluda emblematicamente su un freeze-frame che, come sottolineato anche da Laura Mulvey, sottrae il movimento all’immagine cinematografica restituendo il percorso della vita organica destinata all’inorganico, all’inanimato, sebbene l’autore non cerchi di elevarlo a figura concettuale mirata a riconfigurare l’istante ultimo, come accadeva nel Ring di Nakata o nel finale di Female Trouble di Waters.

Advertisement

Pasolini dirige un film fatto di gesti ordinari, devastanti nella loro semplicità, che James Norton e il piccolo Daniel Lamont riescono a restituire perfettamente senza sovrabbondanti orpelli recitativi, dove ogni azione risuona straordinaria nella sua semplicità, come i tanti oggetti modesti che John inserisce nella scatola dei ricordi in quello che, probabilmente, è il momento più struggente del film.

lEonardo MagnantE

di Vincenzo Alfieri

Origine: Italia, 2021 Produzione: Un Film Sky Original, Prodotto da Fulvio e Federica Lucisano per Italian International Film - Gruppo Lucisano e Vision Distribution Regia: Vincenzo Alfieri Soggetto: liberamente ispirato al romanzo “Il confine” di Giorgio Glaviano Sceneggiatura: Vincenzo Alfieri, Fabrizio Bettelli, Giorgio Glaviano Interpreti: Edoardo Pesce (Fabio Meda), Massimo Popolizio (Giorgio Rio), Chiara Bassermann (Nevema), Roberta Caronia (Antonella Rio), Luka Zunic (Luca Rio), Nicola Rignanese (Ludovico Treanni) Durata: 87’ Distribuzione: Vision Distribution Uscita: 1 novembre 2021

IIn una imprecisata località dell’Italia centrale, due ragazzi, di nome Luca e Adele, spariscono improvvisamente nel nulla dopo aver partecipato a un rave party in mezzo ai boschi. Ad occuparsi del caso sono l’integerrimo capitano Giorgio Rio, padre di Luca, e dall’irascibile tenente Fabio Meda, detto “cane pazzo”, per via dei suoi comportamenti eccessivi e spesso violenti. In realtà, l’uomo è divorato dai sensi di colpa e tormentato dai propri fantasmi da quando ha perso moglie e figlioletto in un incidente d’auto.

Dopo un’incontro sessuale, la prostituta bulgara Nevena cerca di “ricattare” Meda con l’intento di costringerlo a ritrovare sua figlia Irina, scomparsa come gli altri due ragazzi. Con la collaborazione del giornalista Ludovico Treanni, Meda segue la pista del “mostro” di Velianova che dieci anni prima rapì alcuni adolescenti torturandoli e uccidendoli: scopre così che Irina spacciava insieme a

Luca, con cui aveva una relazione, e riforniva di cocaina e pasticche il conte Bazzini per i suoi festini esclusivi.

Il mistero si infittisce ulteriormente quando una sera, Luca viene inaspettatamente liberato e ritrovato in un campo. Ma di Irina e Adele non c’è alcuna traccia. Il ragazzo, sotto shock, viene ricoverato in ospedale; lì, in seguito, minaccia improvvisamente il padre con una pistola sottratta a un carabiniere, salvo poi farsi dissuadere da Meda.

Qualche sera dopo, Meda cerca di introdursi nella villa del conte Bazzini e si impossessa delle registrazioni delle telecamere che dimostrano che Irina è stata lì prima di sparire; si imbatte quindi nel padrone di casa proprio mentre si sta svolgendo una delle sue feste e riesce a fuggire nonostante venga ferito da un colpo di fucile.

La mattina seguente, Meda e Rio interrogano Bazzini, il quale nega di essere coinvolto. Le indagini proseguono e la scia da seguire è sempre quella del mostro: da ormai dieci anni, Rio è certo che l’autore dei delitti sia Gianluca Pozzi, un ex poliziotto che ha perso la sorella Sara per un’overdose. Si presume che l’agente si sia trasformato in un angelo vendicatore, pronto a sterminare spacciatori e tossici in un vortice di giustizia privata e misticismo delirante. Ma c’è davvero lui dietro quanto sta succedendo ora?

Dopo aver ritrovato il cadavere di Adele nel bosco, Meda e Rio fanno visita all’ex collega Pozzi nel cui appartamento vengono ritrovate delle fiale di Tritium, un farmaco illegale che sarebbe servito per narcotizzare le vittime durante le sevizie. È una prova schiacciante, come il giubbotto di Irina, ancora scomparsa, ritrovato nell’abitazione. Mentre il conte Bazzini viene arrestato, Pozzi non regge la pressione e si getta improvvisamente dalla finestra, morendo sul colpo.

Tuttavia, c’è qualcosa che non torna: il killer non violentava le sue vittime. Su suggerimento di Treanni, Meda capisce che dietro a tutto c’è il capitano Rio, e lo costringe a confessare: dopo il rave party Luca voleva avere un rapporto con Adele (ancora vergine), e al suo rifiuto l’ha uccisa sbattendole violentemente la testa sul pavimento; il carabiniere ha poi aiutato il figlio a ripulire la scena del crimine e nascondere il cadavere, inscenato il rapimento e, con l’aiuto della moglie Antonella, anche quello di Irina, che li aveva visti mentre stavano occultando il corpo di Adele; infine, ha cercato incastrato Pozzi e Bazzini. Soddisfatto, Meda porta Rio in macchina per portarlo dal PM, ma il capitano accelera e l’auto finisce fuori strada lungo il lago: dopo una lunga colluttazione tra i due il tenente ha la meglio e poco dopo arresta anche Luca e la madre, oltre a liberare la povera Irina e riconsegnarla finalmente alla madre Nevena.

Malconcio e accompagnato dalla sua fedele pitbull Luna, Meda fa visita alla tomba di Adele dove incontra Treanni mentre lascia dei fiori alla fidanzata scomparsa anni prima. Ma c’è qualcosa di strano. Si scopre che sulla lapide della fidanzata di Treanni riporta il nome di Sara Pozzi, la sorella di Gianluca mentre sulla croce in marmo, c’è una catenina con un ciondolo: la Madonna del Tridente, la stessa icona associata ai delitti del mostro. Qui Meda ricorda le parole di Rio: “Sono sicuro che Pozzi avesse anche un “complice”. Tutto lascia pensare che il vero “orco” di Velianova sia proprio Treanni, che aveva definito la cava dove venivano ritrovati i cadaveri del mostro “il mio bancomat personale”. Uscito dal cimitero, Treanni lascia quel luogo di desolazione a bordo della sua auto. A Ai confini del male è un film bifronte. Non solo per il concetto del “doppio” che vi aleggia, sin dal doppio senso del titolo (“confine” sia inteso come l’ambigua località lacustre che fa da sfondo al film che come il limite estremo tra il bene e il male) destinato incessantemente a “triplicarsi” (se pensiamo che alla base di tutto ci sia il romanzo Il confine di Giorgio Glaviano); e nemmeno per l’escamotage del doppio finale che spiazza lo spettatore dopo la risoluzione apparente dell’enigma; Quello che colpisce è l’attenzione dedicata all’approfondimento psicologico dei personaggi, con la scelta di focalizzarsi su una coppia di investigatori anti-eroi dai character design totalmente opposti: l’uno, Meda detto “Cane Pazzo” (un animalesco Edoardo Pesce), divorato dalle proprie psicosi e tormentato dai sensi di colpa dopo la morte della moglie e del figlio in un incidente d’auto; l’altro, l’integerrimo capitano Rio (Massimo Popolizio), ligio alle regole militari ma corpo estraneo in una famiglia che lo rifiuta, lo respinge, lo disprezza.

La bivalenza de Ai confini del male però si spinge oltre a questi elementi per immergerci invece in una vicenda oscura dove a parlare sono le immagini e le atmosfere che il regista trentacinquenne Vincenzo Alfieri è riuscito a realizzare con buona mano, recuperando e aggiornando la lezione del giallo all’italiana ma con un occhio rivolto al cinema d’oltreoceano (sono

This article is from: