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C’è un soffio di vita soltanto

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Esterno notte

Esterno notte

IIl cinema horror degli ultimi anni, anche grazie all’affermazione di nuove personalità autoriali - basti pensare ai vari Eggers, Peele e Aster per citarne qualcuno - è riuscito non solo a discostarsi a mera opera di “paura” (adatta ad un pubblico giovanile e meno impegnato) ma ad ergersi verso dinamiche più profonde e “cervellotiche” che ne hanno riscritto le regole del genere fintanto da essere definito dalla stessa critica come “Elevated Horror”. Non a caso, ciò che colpisce, è il modo di affrontare in maniera intelligente storie all’apparenza terrificanti al cui interno nascondono suggestioni e tematiche universali che affliggono la società odierna.

Questa new wave horror è riuscita ad attecchire anche nella fredda Islanda, luogo magico e onirico per antonomasia, che con Lamb (titolo originale “Dýrið” che significa letteralmente “l’animale”) diviene teatro di un insolito punto d’incontro tra surreale e dramma familiare con le connotazioni di una favola mitologica norrena. E in effetti, il film di Valdimar Johannsson, qui al suo esordio alla regia, è un’esperienza visiva sconvolgente, con una forza d’impatto scenico dirompente e uno stile bifronte capace di essere diafano e inquietante anche grazie all’utilizzo del perturbante freudiano in maniera arguta ed efficace. Ma Lamb non è il classico horror, e nemmeno vuole esserlo. La sua struttura, più simile ad una tragedia greca in tre atti, si dipana attraverso un ritmo volutamente lento e dilatato, dove a farne da padrone sono gli elementi naturali e paesaggistici che - mescolati da un accorto utilizzo degli elementi sonori e una colonna sonora ansiogena - creano un effetto straniante e fuori tempo. Era inevitabile che un racconto weird e atipico come quello di Lamb contenesse diverse e più stratificate chiavi di lettura: dalla protagonista di nome Maria al richiamo dell’Agnello di Dio, per poi passare al tema della maternità, all’elaborazione del lutto fino allo scontro tra Uomo e Natura che, messe tutte insieme sono riconducibili ad un unico nucleo centrale: il diverso, o meglio l’ibrido. Il film è sia formalmente che spiritualmente diviso da due estremità diverse, come Ada (nome a sua volta palindromo), metà bebè, metà agnello. Di umano ha il corpo, le gambe e un braccio, mentre la testa e l’altro arto sono come quelle dei bovidi. Questo essere diviene, paradossalmente, un personaggio salvifico ma anche malefico di una situazione familiare gravata da un trauma latente, un peso emotivo che incombe al di là dalla scena e finisce gradualmente per minare la stessa umanità di María e Ingvar. Mentre la natura, accortasi dell’accaduto, cercherà di riprendersi quello che gli è stato strappato per ricondurlo verso altri luoghi, forse più clementi e lontani dalla malvagità terrena. Quello che resta dopo l’assurdo finale è un mistero sospeso e irrisoluto di una paura ancestrale senza ritorno…

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Presentato in anteprima mondiale il 13 luglio 2021 alla 74ª edizione del Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard e insignito del premio speciale come migliore opera originale, Lamb è stato accolto positivamente dalla critica ottenendo inoltre un passaggio al BFI London Film Festival e al Trieste Science+Fiction Festival. Il film è una co-produzione islandese, svedese e polacca e distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Wanted il 31 marzo 2022.

alessio D’angelo

di Matteo Botrugno, Daniele Coluccini

LLucy, 96 anni, ha appena ricevuto una lettera da Dachau. Nonostante l’età, è ancora autonoma: esce, guida, va dal medico e poi torna a casa. Una casa che avrebbe di certo bisogno di una ristrutturazione.

Durante le sue giornate, la donna ha sempre qualcuno intorno. Quando un suo amico omosessuale va a trovarla, scopriamo il suo passato: Luciano Salani è il suo vero nome, è una transessuale ed è stata deportata a Dachau.

A pranzo insieme ad Ambra e Simone si parla del più e del meno. Poi, insieme, leggono la lettera da Dachau. Si tratta di un invito alle celebrazioni per il 75º anniversario della liberazione del campo. Alla domanda: “te la senti?”, Lucy dimostra tutta la sua determinazione. Trasmettere la memoria è il suo scopo. Appena può inizia a raccontarsi e si commuove: il suo ruolo al campo era quello di raccogliere i cadaveri e portarli nei forni. Alla fine si scusa, sa che non è bello ascoltare certe storie.

È mattino, Luciana va in bagno, si lava, si aggiusta come se dovesse uscire, ma è una giornata come le altre. A trovarla, oggi, è la badante che vorrebbe farle il bagno

Origine: Italia,2021 Produzione:Blue Mirror, Bielle Re, Kimerafilm, Tama Film Produktion Regia: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini Soggetto e Sceneggiatura: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini Durata: 95’ Distribuzione: Kimerafilm Uscita: 10 gennaio 2022

ma non se ne parla, fa da sola. Come sempre, si ritorna alla vita nel campo e ogni volta si scoprono nuovi dettagli: nonostante la sua sessualità, Lucy era internata con gli uomini.

A 19 anni, Luciano riceve la chiamata alle armi. Dopo l’armistizio la situazione è confusa, tutti scappano ma molti vengono bloccati dai tedeschi e costretti a operare per il loro esercito. L’uomo riesce a fuggire e torna a Bologna a prostituirsi con gli amici. Qui viene riconosciuto e processato come disertore. Ecco come Lucy è arrivata a Dachau.

Dopo il lavoro, Said, il nipote acquisito della donna, torna a casa. I due si vogliono bene e si completano a vicenda: lei prepara da mangiare e l’uomo fa le commissioni. Ridono, scherzano e litigano come una famiglia. A farle compagnia durante il giorno c’è anche l’amica Maria, 88 anni, in cerca di un fidanzato e capace di spogliarsi di fronte a un uomo sposato molto più giovane di lei. Entrambe, nonostante gli anni, non temono la loro sessualità e ne parlano senza problemi.

Lucy è un po’ tesa. Si aggiusta i capelli e va al parco a passeggiare. Da piccola è stata più volte abusata da un prete, da qui la sua difficoltà nel credere nell’esistenza di Dio. Quando ripensa a quelle scene i brividi l’assalgono: è da allora che ha iniziato a prostituirsi. Piccoli regalini in cambio di piccoli servizi al parroco.

Le celebrazioni a Dachau vengono cancellate a causa della pandemia, ma Ambra, dopo l’estate, vuole comunque organizzare un viaggio a Monaco. Periodicamente, Luciana legge i tarocchi a sé stessa. Non lo fa mai per gli altri e ad Ambra spiega il motivo: a ogni lettura che faceva alla figlia adottiva, la carta della morte era sempre presente. Anche prima dell’intervento a cui doveva sottoporsi, la morte c’era. Il giorno seguente è deceduta: aveva solo 58 anni.

Ciò che Lucy ha visto a Dachau non riuscirà mai a dimenticarlo. Proprio per questo, però, desidera tornarci. A Monaco, con uno scooter elettrico visita tutti i luoghi della sua memoria: le baracche, la chiesa, ma non i forni, non ci riesce. Se esistesse un Dio, pensa, tutto ciò non sarebbe successo. Ora non le resta che andare via da questo pianeta in direzione di mondi migliori.

SSu quella pagina di storia se ne sono dette tante; il cinema ha riprodotto, esplorato e analizzato il Novecento e i campi di concentramento in ogni sua forma. Qualcuno potrebbe pensare: “Basta non ne possiamo più, sappiamo già tutto”. Eppure, come dice la badante a Lucy in un giorno qualsiasi, a ogni racconto viene fuori qualcosa di nuovo. Un dettaglio che sfugge ma che, come il resto, è importante da ricordare e che, quando emerge, ravviva la memoria. Una memoria che via via scompare insieme ai testimoni oculari, che ormai sfiorano il secolo d’età. Ma quella di C’è un soffio di vita soltanto non è la storia di una deportazione (per quanto, questo, sia un tema); è la storia di una serie di vite racchiuse in un corpo, quello di Luciano (Lucy) Salani.

I due registi, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, entrano per circa un anno in quella casa che cade a pezzi e cercano di rendersi quanto più invisibili possibile, per quanto sappiamo che, nel cinema, la sola presenza di una macchina da presa modifica irrimediabilmente la realtà. In montaggio, ogni intrusione viene quindi nascosta, restituendoci un testo che vuol dare l’impressione di essere uno stralcio oggettivo di vita quotidiana. Quest’impressione è confermata anche dal tipo di immagini prodotte: non c’è ricerca visiva/visuale (solo nelle riprese, ormai standardizzate, del campo di concentramento, simmetriche e pulite a richiamare quella macabra estetica), la cinepresa è al completo servizio della sua protagonista ed è proprio questo il punto forte del film. È Lucy il punto forte del film, le sue parole.

In realtà, qualche intrusione da parte dei registi c’è e viene inserita in post-produzione quasi a scandire il ritmo e il racconto: a mo’ di cartelli, appaiono immagini d’archivio scientifiche per via della passione per il cosmo di Lucy. Il documentario si apre con un’eclissi di sole che è anche un’eclissi della storia, un momento buio; seguono immagini dallo spazio, nebuolose, pianeti e satelliti intorno, poi eruzioni vulcaniche, una specie di ritorno a un ordine indefinito che, per quanto ne sappiamo, può essere compromesso da un momento all’altro; in chiusura, riproduzione cellulare e la formazione di un feto. È la rinascita, una nuova vita, quella che la stessa Lucy auspica: questo pianeta è ormai corrotto, non resta che trovare felicità altrove. Mondi diversi, come quelli fantascientifici che ama guardare in televisione.

Un soffio di vita il suo, condizionato dagli abusi di un prete, dal suo essere un “intruglio” (così si definisce per via della sua identità di genere), dalla deportazione, dalla prostituzione, dalla morte precoce di una figlia illegale. Sempre dalle parole della badante: una vita così sembra proprio esser stata prescelta.

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